Opinioni

Crisi e contagi

Crisi e contagi

Venti sempre più forti di nuove grande tensioni sui mercati finanziarie. La grande incertezza non viene, come dicono alcuni, dal piccolo referendum italiano il cui esito influirà sui mercati rionali più che su quelli internazionali ma dall’altra sponda dell’Atlantico dove l’Amministrazione Trump ha in animo tagli al gettito fiscale pari al 4% del Pil e un programma di aumento della spesa pubblica per le infrastrutture americane di ben 550 miliardi di dollari. Anche se il Congresso modererà questi programmi e se lo stimolo di bilancio agevolerà la crescita USA, unitamente all’imminente svolta della Federal Reserve, è facile prevedere un forte aumento dei tassi interesse che attirerà lo scompiglio sui mercati mondiale ed europei anche in quanto i capitali (il flusso è già in atto) voleranno verso la sponda americana dell’Atlantico.

Come potrà contagiare i mercati mondiali ed europei? Krystina Ters e Jörg Urban (Banca dei Regolamenti Internazionali) se lo chiedono nel lavoro”The Transmission of Euro Area Sovereign Risk Contagion: Evidence from Intraday CDS and Bond Markets” (“La trasmissione del contagio del rischio sovrano nell’area dell’euro”), pubblicato nell’ultimo fascicolo del Financial Crisi E-Journal. La loro analisi riguarda i mercati obbligazionari e dei certificati di deposito come canale di trasmissione del contagio del rischio di credito nell’arco di tempo della crisi finanziaria.

L’analisi raffronta le transazioni quotidiane per Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna (Paesi considerati più fragili) con quelle di Francia e Germania. I risultati suggeriscono che, prima della crisi, nei mercati delle obbligazioni e dei certificati di deposito gli effetti erano simili nei due gruppi di Paesi. Durante la crisi, il ruolo dei mercati obbligazionari ha gradualmente perso importanza come canale di trasmissione. Durante la crisi c’è stata una fuga ‘verso la salvezza’, ossia flussi di dismissioni di obbligazioni dai Paesi ritenuti fragili, verso i titoli a reddito fisso tedeschi. Utilizzando nell’analisi uno shock esogeno prodotto da news giornalistiche (ossia informazioni di stampa sulla crisi nei singoli Paesi), il paper dimostra che, nell’arco di tempo della crisi, il rischio di credito sovrano non era correlato all’andamento di fondo dell’economia reale quanto dagli annunci in materia in materia di programmi di aggiustamento. Il rischio percepito diminuiva dopo tali annunci. Dopo la creazione nel 2011 dell’European Financial Stability Facility c’è stato una forte riduzione del contagio e un effetto stabilizzante anche nei mercati dei Paesi fragili.

Trent’anni di mercato unico

Trent’anni di mercato unico

Stefano Micossi, attualmente direttore generale dell’Assonime, ha scritto un’ottima sintesi dei successi e degli insuccessi dei trent’anni di mercato unico. Il Center for European Policy Studies lo ha pubblicato come special report e merita un’ampia divulgazione (chi vuole può chiederne copia a stefano.micossi@assonime.it). Il paper sottolinea come negli ultimi tre decenni il mercato unico sia stato il core business, l’attività principale, dell’Unione Europea. E’ stato fatto un progresso enorme, e superiore alle aspettative, in termini di ampliamento dell’attività economica soggetta tanto a normativa europea quanto a legislazioni nazionali così come nell’approfondire gli acquis communautaires (i risultati già raggiunti in termini d’integrazione dei mercati) per superare punti incerti in aree già regolate a livello europeo.

Tuttavia l’evidenza empirica prova che l’integrazione dei mercati si è arenata su diversi fronti e soprattutto che i benefici economici attesi – in materia di maggiore crescita della produzione, dell’occupazione e dei redditi – è stata inferiore alle aspettative, specialmente nel gruppo dei 15 Stati più a lungo componenti dell’Unione. La situazione non è migliorata dalla introduzione delle moneta unica. Il paper passa in rassegna l’evoluzione delle attività legislative e regolatorie del mercato unico negli ultimi tre decenni e sottolinea le aree in cui i gap dove appaiono più evidenti nonché i problemi recenti prodotti dall’insorgere di crescenti pulsioni anti-europeiste.

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

La concorrenza ‘temperata’ fa bene al gioco del calcio

Questo sito e il Centro studi di cui è parte integrante hanno il liberalismo nel proprio Dna. Vi ricordate quando negli Anni Ottanta e Novanta la sfrenata concorrenza per accaparrarsi i calciatori più famosi portarono le loro quotazioni a cifre stratosferiche? Allora il libro di Rocco Francesco Scandizzo “L’economia del calcio come sport spettacolo e il mercato internazionale delle star” (che ha vinto un paio di premi e avuto una buona circolazione nel settore), indicò chiaramente che di questo passo le aziende calcistiche si sarebbero rotte il collo.

Più o meno nello stesso periodo (prima parte degli Anni Novanta), uno studio di due Università britanniche – quella di Exeter e quella di Manchester – analizzò sotto il profilo e giuridico e economico-finanziario le normative e i codici di corporate governance emessi in 20 dei 25 Stati dell’Unione Europea. Questo lavoro documentava come nonostante le differenze di partenza in Paesi con tradizioni giuridiche molto differenti (da quelle romano-germaniche al common law britannico), si stesse convergendo verso un grado di corporate governance (e regole ad esso attinenti) di stampo anglosassone imperniato su verifiche contabili indipendenti. Un processo che era in atto nonostante le normative sulle funzioni, sul ruolo, sul carattere vincolante o meno dei pareri dei revisori dei conti variasse in linea con i contesti dei singoli Paesi.

Il dato veniva ribadito in un lavoro di Stefan Szymanski della Business School dell’Imperial College di Londra, apparso “Journal of Economic Literature”, che passava in rassegna oltre 250 studi recenti sull’allestimento economico delle gare sportive. Partiva dall’assunto che «l’economia delle gare sportive ha molto in comune con la teoria economica delle aste» e differenziava marcatamente tra sport “individualistici” (in cui la tifoseria è collegata al campione) e sport “di squadra” (in cui il tifo ha invece un rapporto forte con la squadra del cuore). Per il calcio sviscerava le differenze di regolazione (e di prassi) tra gli Usa ed i maggiori Paesi europei, analizzava gli eccessi conseguenti la sentenza Bosman e i rimedi tentati (quali i tetti agli ingaggi e l’ottimizzazione del numero delle squadre nei vari campionati) e non entrava nei “fattacci” contabili e penali. Lo studio chiudeva con una nota ottimistica: «La relazione tra gli sport di squadra e la teoria dei contesti è ben sviluppata, nonostante ci sia ancora molto da fare per una comprensione economica degli aspetti istituzionali; il lavoro di analisi economica è, però, ben avviato per riformare il gioco del calcio a livello dei 25 Stati».

Queste analisi e gli interventi anche della magistratura hanno portato alla convenzione UEFA del 2009 in cui si regolamentavano gli ingaggi ponendo un tetto ai compensi. A un lustro dalle convenzione un gruppo di economisti, prevalentemente della Università Bocconi (Ariela Caglio, Angelo D’Andrea, Donato Masciandaro e Gianmarco Ottaviano) ne compiono una valutazione ex post nel lavoro “Does Fair Play Matter? UEFA regulation and Financial Sustainability in the European Football industry” nei BAFFI CAREFIN Centre Research Paper No. 2016-38. La conclusione è che i Financial Fair Play Regulations (FFPR) dell’UEFA sono stati criticati principalmente sotto il profilo teorico di limite alla concorrenza. Lo studio analizza l’evidenza empirica sulla base di dati che coprono 156 club calcistici nelle serie A di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Spagna nei campionati 2006-2015 e analizza il comportamento dei club prima e dopo il 2009. I dati mostrano che prima della convenzione c’era una forte tendenza all’indebitamento ad alto rischio, mentre successivamente tale tendenza è fortemente diminuita e la governance migliorata. L’indicazione che ci arriva da questa analisi è chiara: mentre la mano “impicciona e pasticciona” (definizione di Giuliano Amato) è nociva, l’autoregolamentazione può fare bene.

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

di Pietro Masci

Lo scorso 1 novembre due giornalisti, Aaron Williams e Tim Meko, hanno pubblicato un articolo sul Washington Post nel quale spiegano che gli americani preferiscono quasi ogni cosa ai due candidati Presidenziali Hillary Clinton e Donald Trump. Putin, la Corea del Nord e l’Iran sono tra i pochi a situarsi saldamente dietro Clinton e Trump. Il giorno dopo il Club Economico di Washington ha organizzato un dibattito sulle elezioni durante il quale il moderatore ha chiesto: «Se Hillary Clinton sarà eletta presidente, qual è l’evento che l’ha maggiorente favorita?» La risposta è stata unanime: «La scelta dei Repubblicani di candidare Donald Trump». Il moderatore ha fatto la stessa domanda riferita a Donald Trump. Anche in questo caso la risposta è stata unanime: «La scelta del Democratici di candidare Hillary Clinton». Questa situazione di due candidati alla Presidenza americana che raccolgono la disapprovazione del pubblico non è emersa ora. Un paio di mesi fa, una mia cara amica italiana che ha vissuto negli Stati Uniti mi ha inviato una foto che sollecita gli americani a cambiare la residenza in Canada, dato il livello dei due candidati presidenziali. E’ l’equivalente di uno sfottò tra vicini, ma dimostra uno stato d’insoddisfazione.

L’insoddisfacente livello della campagna presidenziale

Come avevo sottolineato alcuni mesi fa su questo sito, il malcontento nei confronti di Clinton e Trump è parte di una più generale frustrazione per i principali candidati alla Presidenza. Quelli repubblicani (Jeb Bush, Carson, Christie, Cruz, Kasich, Rubio) non erano al’altezza e non avevano una proposta convincente. Il Presidente della Camera Paul Ryan – che considero un politico di livello – non ha avuto il coraggio di candidarsi e non è stato in grado di comprendere l’avanzata di un candidato come Trump, per molti versi antitetico ai valori del Partito repubblicano. Trump ha condotto una campagna elettorale fatta di battute (anche pesanti), minacce, offese, mancanza di contenuti e di serie proposte. La rete televisiva NBC ha dimostrato che dall’annuncio della sua candidatura (16 giugno 2015) a oggi ha cambiato 138 posizioni su 23 temi di estrema rilevanza. Quando Trump parla dei cambi che intende introdurre – tra questi una profonda revisione dei trattati commerciali e del concetto stesso di globalizzazione – trasmette l’impressione che si materializzeranno come miracoli in grado di migliorare immediatamente la vita degli americani. Il Partito repubblicano non è stato in grado di comprendere e gestire una situazione nella quale pressoché qualsiasi candidato avrebbe vinto contro una Clinton mal vista da una gran parte degli americani e ha confidato nella circostanza che Trump sarebbe stato sconfitto alle primarie.

Un’analisi analoga vale per il Partito democratico, che non poteva non conoscere gli aspetti negativi della Clinton, che tuttavia ha l’appoggio del Presidente Obama. Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts e nota per le posizioni contro gli interessi precostituiti, si è defilata. Bernie Sanders, un candidato indipendente non iscritto al partito democratico, è andato allo sbaraglio (e peraltro ha dimostrato con una piattaforma di “sinistra” le difficoltà della Clinton).

Occorreva dare una risposta efficace alla gran parte degli americani insoddisfatti con la situazione economica, l’immigrazione, il terrorismo. In effetti, Trump dà voce alla profonda rabbia di tanti milioni di elettori che vogliono un miglioramento concreto nelle loro vite. Trump interpreta la convinzione di molti americani che il sistema è “truccato”; che i politici non si preoccupano dei cittadini, ma dei loro guadagni. Trump sta ridefinendo il Partito repubblicano, facendo appello agli elettori repubblicani e democratici pronti per una seconda rivoluzione americana. Guarda caso molti degli stessi elettori ai quali si rivolgeva l’indipendente Bernie Sanders, il candidato democratico che parlava di “rivoluzione” ed è battuto da Clinton nelle primarie. In tale contesto, il divario tra l’élite politica e i cittadini è in crescita. La gente si domanda quale motivo spinga entrare in politica invece che in studio legale o in altra attività imprenditoriale. Forse perché la politica permette di guadagnare bene, considerato che i politici decidono le sorti dei ricchi con i quali i politici sono continuamente in contatto e dai quali ricevono contributi finanziari. L’ultimo decennio ha visto l’1 per cento più ricco crescere, il divario tra ricchi e poveri allargarsi, la classe media impoverirsi. In tal senso, la battaglia tra Donald Trump e Hillary Clinton offre un contrasto paradossale. L’outsider Trump si è arricchito nel settore privato e – come lui stesso ammette – “acquistando” favori dai politici ai quali ha offerto vari contributi finanziari. Il politico Hillary Clinton ha ricevuto ingenti contributi finanziari e sembra dimostrare che il percorso attraverso il settore pubblico può ugualmente produrre milioni di dollari. Trump declama che l’America è attraversata da disastri e problemi (spesso non evidenti o non definibili come disastrosi e non corroborati dai dati macro-economici su occupazione, inflazione e livelli salariali). Clinton pensa invece che le cose vadano sostanzialmente bene e che per ridurre le disuguaglianze ci sia solo bisogno di alcuni aggiustamenti.

Molte persone ritengono che le leggi non siano applicate in modo uniforme. L’esempio è che nessuno ha sostanzialmente pagato per le crisi finanziaria degli ultimi anni originata negli Stati Uniti; nessuno è responsabile per le guerre degli ultimi 10-15 anni e per la gestione della politica estera. Trump ha beneficiato di procedure che gli hanno permesso di non pagare le imposte e offende e maltratta chi non è d’accordo; Clinton nei suoi anni nel Congresso e come segretario di Stato ha commesso errori enormi (per i quali si è puntualmente scusata) che hanno favorito l’emergere di seri problemi in Iraq, Libia, Siria, Ucraina nonché il continuo confronto con la Russia. ISIS è cresciuto dopo l’invasione dell’Iraq e il ritiro delle truppe americane (deciso dall’amministrazione Obama) che ha lasciato un vuoto di potere. Inoltre, la Clinton non viene mai incriminata, particolarmente per la gestione secreta della posta elettronica con un server nello scantinato di casa egli anni in cui era Segretario di Stato.

Le negatività di Trump e Clinton

La negatività che i due candidati raccolgono è senza precedenti, come dimostra un articolo di Mike Czuchnicki. Alcuni accusano Clinton di essere una bugiarda congenita e di aver dimostrato di non avere quella capacità di giudizio fondamentale per un Presidente degli Stati Uniti. La difesa di Hillary Clinton è che il suo avversario è peggio. Nel frattempo, Trump sembra essere in lotta contro tutti, compreso sé stesso. L’elenco di coloro che offende è lungo e comprende molti della struttura del Partito repubblicano, alcuni dei quali – ad esempio il senatore e già candidato presidenziale McCain – evitano pubblicamente di sostenerlo. Un recentissimo sondaggio conferma che gli americani sono disgustati dall’attuale funzionamento del sistema attuale e ritengono che il vincitore non sarà in grado di unificare il Paese. E’ probabile che il prossimo Presidente avrà una fortissima opposizione e ostruzionismo da parte del partito avverso, senza considerare la possibilità che il perdente non accetti il risultato delle elezioni. A questo proposito è sufficiente ricordare come, per molto meno, tanto Gary Hart (favorito alle elezioni nel 1984 e scoperto a mentire su una sua relazione extra-coniugale) quanto l’attuale Vice Presidente Joe Biden (candidato democratico alle primarie del 1988 e accusato di aver plagiato un discorso di Neil Kinnock del Partito Laburista inglese) furono costretti ad abbandonare la corsa alla Presidenza.

I media – soprattutto la televisione – hanno responsabilità per come la campagna presidenziale è presentata. Dopo aver facilitato la vittoria di Trump alle primarie perché gli veniva dedicato un eccesso di tempo in video, le televisioni si sono interessate in modo sproporzionato degli scandali di Trump e non si sono preoccupati di dedicare un’attenzione analoga alle rilevanti mancanze di Hillary Clinton. Una ricerca indipendente dell’Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy sottolinea che soprattutto le televisioni hanno dato rilievo agli scandali di Trump e particolarmente al video della conversazione offensiva contro le donne, ma hanno trascurato i problemi di Hillary Clinton come ad esempio quello della gestione della posta elettronica. L’ultima “perla” è costituita dalla circostanza che Donna Brazile – già Presidente ad interim del Comitato nazionale del Partito Democratico e collaboratore della rete CNN – ha passato alla Clinton le domande che sarebbero state fatte ai candidati durante i dibattiti televisivi delle primarie.

La corsa finale

I colpi di scena si susseguono. Ho l’impressione di assistere alla nota trasmissione radiofonica “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con continue interruzioni dai campi con notizie che ribaltano i risultati. L’ultima riguarda la notizia sulle indagini del FBI nei confronti della Clinton e della sua Fondazione. Lo scorso 5 luglio il suo direttore James Comey annuncia che Hillary Clinton non sarebbe stata incriminata per la gestione della posta elettronica. Dieci giorni prima del voto, in una lettera a senatori e membri del Congresso, comunica la riapertura del caso a seguito dell’individuazione di nuove mail rilevanti per l’inchiesta. Infine, a meno di 48 ore dal voto, ha riconfermato la decisione di non incriminare Clinton.  Inoltre, il FBI sta indagando se i donatori alla Fondazione Clinton (che nel giro di pochi anni ha accumulato miliardi di dollari) abbiano ricevuto considerazioni particolari dal Dipartimento di Stato quando era in carica Hillary Clinton. Non solo. Il FBI ha pubblicato gli atti della grazia che il Presidente Bill Clinton (a fine mandato il Presidente degli Stati Uniti può graziare cittadini che sono stati condannati o accusati di crimini) ha concesso nel 2001 a favore di Marc Rich, un gestore di fondi d’investimento e altre attività finanziarie – fuggito in Svizzera e morto nel 2013 – accusato di evasione fiscale, frode, collusione con il crimine organizzato. A questo si aggiunga che un numero significativo di persone che ha già votato vuole cambiare il proprio voto (in alcuni Stati e in determinate circostanze coloro che hanno votato in anticipo possono infatti chiedere di rivotare). Un’ulteriore sorpresa è poi scoprire che, dopo una campagna di slogan, Donald Trump si sta in questi ultimi giorni presentando al pubblico con uno stile completamente diverso, con più sostanza, presidenziale e con la moglie Melania che anticipa come il suo ruolo di first lady sarà quello di combattere il bullismo, soprattutto quello online.

In questo contesto non poteva mancare il ruolo del mercato. Da quando è venuta fuori la notizia della riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton e sono quindi aumentate le probabilità di un’elezione di Trump, l’indicatore di borsa Dow Jones è sceso di oltre l’1,6 per cento. A proposito, uno studio di Justin Wolfers e Eric Zitzewitz (University of Michigan and NBER Dartmouth College and NBER) sembra sostenere che il mercato abbia più timore che Trump diventi Presidente che non che la Federal Reserve alzi i tassi d’interesse. Normalmente Wall Street è a favore dei repubblicani, ma non questa volta. La circostanza che Clinton ha sempre sostenuto Wall Street non appare insignificante.

Insomma, gli americani devono scegliere (come si dice con un’espressione caratteristica) tra il diavolo che conoscono e l’altro sconosciuto. Oltretutto l’8 novembre l’elettorato americano voterà anche per l’elezione di 469 suoi rappresentanti (34 per il Senato e 435 per la Camera) e l’esito di questa consultazione avrà un impatto fondamentale sulle prospettive di governo nazionale almeno per i prossimi due anni.

Del resto gli altri due candidati per la Presidenza degli Stati Uniti non appaiono essere in grado di costituire un’alternativa a Trump e Clinton. Il candidato del Partito Libertario Gary Johnson presumibilmente sottrarrà consensi ai repubblicani ma non sembra avere la statura e la sostanza necessaria. Stesso discorso vale per il candidato del Partito Verde Jill Stein, che presumibilmente penalizzerà i democratici. In aggiunta, il sistema americano non permette a questi due candidati – anche per la loro bassa rappresentatività – di avere accesso alla televisione e portare il loro messaggio al vasto pubblico. Sono entrambi condannati all’insuccesso.

L’esito finale

L’esito della contesa presidenziale è molto incerto, anche se i sondaggi a livello nazionale attribuiscono ancora un piccolo margine di vantaggio a Clinton (46,6% contro il 44,8% di Trump) per quanto riguarda il voto popolare. Tuttavia l’elezione dipende dai risultati ottenuti nei singoli Stati che conferiscono i c.d. voti elettorali. Per diventare Presidente occorre infatti raggiungerne 270 e Clinton resta ancora il candidato favorito (216 contro i 164 di Trump) anche se il suo margine va riducendosi negli Stati in bilico (che ne attribuiscono altri 158). Per vincere, il candidato repubblicano dovrebbe infatti aggiudicarseli tutti e strappare alla Clinton almeno uno Stato tradizionalmente a maggioranza democratica. I sondaggi non riescono comunque a identificare facilmente ex ante tre categorie di elettori che risulteranno comunque decisive: coloro che voteranno Trump senza dirlo, coloro che voteranno controvoglia Clinton perché temono il salto nel vuoto determinato da una vittoria di Trump, coloro infine che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti.

Conclusione

Come mai in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti, dove un certo numero di controlli ed equilibri esistono per promuovere i migliori ed evitare risultati non democratici e dove le persone hanno l’ultima parola, due personaggi così negativi riescono a diventare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti? Ci sono due possibili risposte: o questo è un evento casuale che non potrà ripetersi oppure è un segnale che qualcosa è sbagliato nel sistema statunitense e deve essere riparato. Sono orientato verso la seconda risposta. Ma, allora, chi potrà riparare il sistema? Forse la generazione dei c.d. Millenials oppure quella ancora successiva troverà una soluzione.

Nell’anno in cui i Cubs di Chicago hanno vinto per la prima volta, dopo 108 anni, le World Series di Baseball, è pressoché certo che per la prima volta sarà Presidente degli Stati Uniti o una donna oppure uno sconosciuto totale. Però è solo la vittoria dei Chicago Cubs che appare degna di essere celebrata. Chi diventerà Presidente degli Stati Uniti non sembra essere in grado di ricompattare il Paese e far fronte ai problemi giganteschi dell’America e dell’intero pianeta.

Dopo le elezioni sarà così cruciale verificare se, e in che misura, le tre categorie di elettori sopra menzionati – insoddisfatti e critici dell’attuale situazione, quelli che voteranno uno o l’altro dei candidati senza una grande convinzione o gli astenuti – costituiranno una forza compatta in grado di riportare il sistema americano ai valori, ai principi e alle regole originarie che il lento accumularsi nel tempo di posizioni di rendita e privilegi sta rendendo vuoti e retorici.

Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Le conseguenze della deflazione sulla finanza pubblica

Pochi intimi prestano attenzione alla letteratura economica portoghese mentre l’IESEG, centro di ricerca ed analisi economica dell’Università di Lisbona, produce lavori di tutto rispetto e di grande spessore. L’ultimo è un paper di Antonio Afonso e Joāo Trovar Jalles sulle “Conseguenze Fiscali della deflazione: evidenza dall’età d’oro della globalizzazione” (The Fiscal Consequences of Deflation: Evidence from the Golden Age of Globalization – ISEG Economics Department Working Paper No. WP 23/2016/DE/UECE).

L’analisi riguarda un gruppo di 17 economie nella prima ondata di globalizzazione tra il 1870 e il 1914 e mostra come in un contesto di marcata integrazione economica internazionale (l’attuale è ancora più forte) una caduta nell’1% nel livello dei prezzi comporti un aumento del rapporto tra stock di debito e Pil di circa 0,23-0,32 punti percentuali. L’apertura agli scambi, la politica monetaria e l’andamento dei cambi aumenta il valore assoluto della deflazione. In aggiunta, il rapporto debito/Pil cresce se e quando la deflazione è associata con recessioni economiche significative e ripetute. Per quanto riguarda in particolare il gettito fiscale, la deflazione ne comporta una contrazione dopo un lasso di tempo, mentre non ha effetti apprezzabili sulla spesa pubblica, soprattutto quella di parte corrente. Sono analisi di cui si dovrebbe tenere conto nell’esame parlamentare di una legge di bilancio che aumenta la spesa in un contesto in cui non si è ancora usciti dalla deflazione e – per le entrate – fa leva su una seria di operazioni una tantum di condono tributario.

La deflazione ha anche effetti sulla ricchezza relativa delle Nazioni. Il tema è esplorato in un lavoro di due economisti del Fondo Monetario Internazionale (Rabah Arezki e Frederik Giancarlo Toscani) e uno dell’Università di Oxford (Ricj van der Ploeg): “Lo spostamento delle frontiere nella ricchezza delle risorse mondiali: il ruolo delle politiche e delle istituzioni (Shifting Frontiers in Global Resource Wealth: The Role of Policies and Institutions – CEPR Discussion Paper No. DP11553). Il parametro di base sono scoperte di idrocarburi e minerali. In breve, se l’America Latina e l’Africa a Sud del Sahara avessero la qualità delle istituzioni degli Stati Uniti, le scoperte aumenterebbero nel mondo intero del 25%.

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito dell’Eurozona si può ristrutturare

Il debito pubblico sembra uscito dai temi di grande attenzione anche in questi giorni in cui Roma e Bruxelles discutono di legge di bilancio. Eppure, un aumento anche piccolo dell’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni o un tasso di crescita dell’economia reale inferiore a quanto previsto dal Governo italiano oppure ancora un incremento dei tassi d’interesse renderebbe estremamente critica la situazione dell’Italia. Il nostro debito supera il 130% del PIL ed è per la metà detenuto da fondi stranieri, pronti a sbarazzarsene al minimo fruscio dei mercati. In effetti, le autorità europee non sono ‘arcigne megere’ ma temono che, passato il referendum, alla prima trimestrale di cassa, il marchingegno su cui è costruita la legge di bilancio salti con implicazioni per il debito e contagi a go-go nel resto dell’Eurozona.

Il Public Economic: National Budget, Deficit and Debt E-Journal ha pubblicato un saggio stimolante di Ernesto Longobardi (Università di Bari) e Antonio Pedone (Università di Roma La Sapienza). È il working paper 06/2016 intitolato On Some Recent Proposals of Public Debt Restructuring in the Eurozone che avrebbe meritato grande attenzione dalla stampa nazionale, dal Governo e dal Parlamento, anche perché redatto in un inglese chiaro e in una forma non tecnica.

Augurandoci che qualcuno se ne accorga e legga il lavoro, meditandolo con attenzione, ne riproduciamo in italiano la sintesi. Il paper prende l’avvio dalla considerazione che, nelle circostanze attuali, di bassa crescita ci sono forte ragioni per ridurre il debito pubblico ed esamina in particolare la situazione dell’Eurozona. Esamina quindi le varie possibili strategie per ridurre il rapporto debito/Pil evitando al tempo una ristrutturazione. Il metodo, spesso adottato in passato, di ridurre il rapporto debito/Pil con una forte ondata di inflazione non è praticabile nell’Eurozona. D’altro canto, le opzioni alternative tramite strumenti di finanza straordinaria (patrimoniali di scopo, privatizzazioni, vendita di beni di proprietà dello Stato) possono dare risultati limitati. Quindi, la strategia attualmente applicata nell’Unione Europea – accumulazione progressiva di avanzi primari (la soluzione ‘dell’austerità’) – pare la sola fattibile.

Le possibilità di ristrutturazione sono state esaminate con crescente attenzione negli ultimi anni. Sono state seguite due prospettive distinte. Da un lato, alcune proposte trattano del debito ereditato dal passato. Altre riguardano la messa in atto di un sistema permanente di riduzione/risoluzione del debito sovrano. Il primo gruppo di proposte vuole evitare il coinvolgimento del settore privato e si basano su meccanismi complessi di cartolarizzazione di gettiti futuri degli Stati (tramite signoraggio e tassazione). Ci sono ragioni per ritenere che non sono sufficientemente differenti dalle strategie in atto e possono portare a maggiori crescita. Le altre intendono rendere efficace il principio di evitare i bail out ma sino ad ora si sono rivelate molto difficili da applicare, in assenza di una vera unione fiscale.

 

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia

Un gruppo di economisti della Banca d’Italia (Giacomo Oddo, Maurizio Magnani, Riccardo Settimo e Simonetta Zappa) ha elaborato un paper interessante sulle rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: una stima dei flussi invisibili del canale informale. Viene pubblicato nella serie di economia e finanza No. 332

Il lavoro analizza le determinanti delle rimesse in uscita dall’Italia e presenta una metodologia per quantificare la parte di esse che non transita via intermediari ufficiali (operatori money transfer, banche, poste) ma defluisce tramite canali informali, non rilevabili e quindi non inclusi nelle statistiche ufficiali. La presenza di deflussi di denaro invisibili è desumibile dalla relazione positiva e statisticamente significativa fra distanza del Paese beneficiario e importo medio pro capite della rimessa inviata, dopo aver controllato per tutte le altre variabili esplicative. Tale correlazione dovrebbe essere nulla o non significativa se il flusso fosse rilevato per intero. Sfruttando tale relazione empirica e avvalendosi dell’elevato dettaglio geografico dei dati raccolti dalla Banca d’Italia, la metodologia perviene a una stima del canale informale collocabile tra il 10 e il 30 per cento del flusso totale e attribuibile al gruppo di Paesi più vicini all’Italia. L’analisi indicherebbe inoltre una riduzione dell’incidenza del canale informale sul totale dei flussi osservati: nell’arco del decennio considerato essa si sarebbe ridotta di circa il 20 per cento.

Nelle conclusioni si sottolinea che le rimesse degli emigrati sono una fonte di finanziamento importante per un grande numero di paesi in via di sviluppo. Allo stesso tempo una corretta rilevazione dei flussi di rimesse in uscita è una priorità anche per i Paesi avanzati, sia per una valutazione non distorta di interventi di policy sia per una corretta compilazione della bilancia dei pagamenti nazionale. I lavori che affrontano il tema della quantificazione dei flussi che transitano attraverso i canali informali che non sono rilevati dalle statistiche ufficiali sono relativamente pochi e sono sempre incentrati sulla dimensione della popolazione straniera residente. Partendo dalla constatazione dell’esistenza di una relazione empirica positiva tra rimessa media pro capite inviata dall’Italia e distanza geografica del Paese A questo proposito occorre ricordare che i dati pre 2011di fonte Istat utilizzati in questo studio non sono ricostruiti sulla base del censimento del 2011. Il salto di serie potrebbe influire sulla dinamica delle stime.

II lavoro sviluppa una metodologia nuova per pervenire a una stima dei flussi informali non osservati e analizza i fattori che determinano le rimesse pro capite inviate dal nostro Paese. Queste ultime risultano negativamente correlate con la ripartizione per genere all’interno della comunità del migrante (maggiore il bilanciamento tra i sessi e minori sono le rimesse, verosimilmente per la maggiore incidenza di famiglie complete all’interno della comunità) e con la quota di minori nella popolazione (anche questa grandezza è correlata alla presenza di nuclei familiari completi), mentre appaiono positivamente influenzate dal differenziale di reddito tra l’Italia e il Paese ricevente e dall’indice di imprenditorialità della comunità straniera. La parte di varianza non spiegata da questi fattori ma spiegata invece dalla distanza geografica viene utilizzata, in base alla metodologia proposta, per pervenire a una stima dei flussi di rimesse che transitano attraverso il canale informale; a seconda della specificazione del modello, tali flussi sono tra il 15 e il 45 per cento delle rimesse “visibili”, ovvero tra il 10 e il 30 per cento di quelle complessive.

Secondo il modello più conservativo, circa 700 milioni di euro all’anno sarebbero inviati all’estero dagli stranieri residenti in Italia attraverso canali informali. Secondo lo stesso modello, il peso dei flussi invisibili risulterebbe diminuito di circa il 20 per cento nell’arco dell’ultimo decennio. Ciò è probabilmente dovuto da un lato alle politiche di abbattimento del costo dell’invio di denaro tramite intermediari ufficiali e, dall’altro, al naturale processo di integrazione dei migranti all’interno della comunità economica del Paese ospitante, di cui l’inclusione finanziaria è uno degli aspetti principali.

 

Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Tutele del lavoro, produttività e accesso al credito in Italia

Una delle più antiche e autorevoli riviste internazionali di economia, The Economic Journal, ha pubblicato in uno dei suoi ultimi fascicoli (Vol. 126,No: 595, pp. 1798-1822) un saggio che dovrebbe essere letto e meditato da politici e sindacalisti. Riguarda in che modo la normativa generale sul lavoro ha effetti sulla produttività, sugli investimenti e sull’accesso al credito. Ne sono autori economisti al di sopra di ogni sospetto di essere di parte: Federico Gingano della Banca d’Italia, Marco Leonardi dell’Università di Milano. Julian Messina della Banca Mondiale e Giovanni Pica dell’Università di Milano. Il titolo è “Employment Protection Legislation, Capital Investment and Access to Credit: Evidence from Italy”.

Il saggio – che ha aspetti molto tecnici e utilizza una metodologia rigorosamente quantitative – stima l’impatto casuale (ossia la deteminante) dei costi di licenziamento sulla preferenza nei confronti di investimenti a forte contenuto di capitale (capital deepening). Si sofferma anche sulle riforme recenti (quali il Jobs Act) che hanno in effetti tenuto sostanzialmente inalterato il dualismo tra imprese con meno di 15 dipendenti e le altre in termini di costo di licenziamento. L’analisi mostra che l’aumento dei costi di licenziamento (presentissimo anche nei contratti ‘a tutele crescenti’) ha indotto a un aumento nel rapporto capitale-lavoro ed è una delle determinanti di un declino della produttività multifattoriale nelle piccole imprese rispetto alle medie e grandi imprese poiché le seconde hanno miglior accesso al credito delle prime e il credito è essenziale per il capital deepening. A sua volta il capital deepening è più pronunciato ai livelli meno elevati della distribuzione del capitale, dove la riforma ha inciso in modo più pesante, e tra le imprese dotate di una forte liquidità. Inoltre la normativa a protezione dei lavoratori aumenta la percentuale di dipendenti di lungo corso e mediamente più anziani. Il che dimostra la complementarità tra capitale fisico e capitale umano in un contesto dove la normativa lavoristica è moderata.

Il saggio solleva interrogativi inquietanti che meriterebbero di essere discussi dalle parti sociali e portati all’attenzione della politica.

 

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

di Pietro Masci

Esperto di politiche pubbliche e docente dell’Istituto Studi Europei.


Introduzione e Sommario

Il 22 settembre scorso sono state definite le domande per il referendum costituzionale di modifica della Costituzione italiana che si terrà il 4 dicembre. Gli elettori italiani sono chiamati ad approvare o respingere la riforma costituzionale, che prevede un significativo cambiamento nella struttura del Senato ed altre modifiche relative al funzionamento dello Stato ed i rapporti con le Regioni.
Il referendum non prevede un quorum, vale a dire che non ci sarà bisogno di un numero minimo di votanti per considerarne valido l’esito. Il voto referendario prevede “si” per l’approvazione della riforma e “no” per il rifiuto della riforma.
Il referendum riguarda numerosi temi abbastanza complessi e tecnici e con molte implicazioni e appare difficile definire un testo dei quesiti chiaro, esplicativo, esauriente ed allo stesso tempo neutrale. Al di là delle varie giustificazioni e interpretazioni che le parti sostengono in merito ai quesiti, è sufficiente leggere il testo che sarà sottoposto agli elettori – riportato qui di seguito – per concludere che i quesiti soddisfano il requisito della chiarezza, ma non quello della neutralità. Il Movimento 5 Stelle ha presentato ricorso.

Quesiti referendari:

o “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario”
o “Riduzione nel numero del parlamentari”
o “Il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni”
o “Soppressione del CNEL”
o “Revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.

Il presente articolo intende rispondere alle seguenti domande:

• quale sono le conseguenze della proposta di riforma costituzionale sul sistema giuridico-politico?;
e
• quale è l’impatto della proposta riforma costituzionale sulla crescita economica del Paese?

Per verificare le due domande, l’articolo segue un percorso noto in letteratura che involve qualità delle istituzioni, governance, corruzione, decadimento istituzionale e riduzione delle opportunità e della crescita economica (Dixit, A. 2009. Governance Institutions and Economic Activity. The American Economic Review, 99(1), 3-24). Il metodo d’analisi utilizza la letteratura in materia e l’esperienza nel funzionamento dei sistemi politici di vari paesi e sopratutto Italia e Stati Uniti che conosco meglio.

L’analisi delle conseguenze che la riforma della Costituzione italiana soggetta a referendum potrà avere sul sistema giuridico-politico e la c.d. governance- vale a dire le tradizioni e le istituzioni attraverso i quali è esercitato il potere – fa riferimento a come la riforma proposta influenza alcuni principi fondamentali: il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico e particolarmente il tema della superiorità dei principi, valori e regole inseriti nella Carta Costituzionale; il ruolo della maggioranza in un regime democratico; la stabilità; il collegamento tra eletti nelle istituzioni ed elettori; la riduzione dei costi dell’apparato statale. In tale contesto, l’analisi considera come la riforma intacchi principi fondamentali per il funzionamento democratico: l’esigenza di c.d. pesi e contrappesi – checks and balances – che servono a tutelare la minoranza ed evitare la dittatura della maggioranza, e la c.d. rule of law (nota 1) , cruciale per il corretto funzionamento di una democrazia e per la sua sostenibilità (Gosalbo-Bono Ricardo. 2010. The Significance of the Rule of Law and its Implications for the European Union and the United States. University of Pittsburgh Law Review, ISSN: 0041-9915, Vol: 72, Issue: 2).

L’articolo considera poi le misure della governance utilizzate dalla Banca Mondiale e applicate ai vari paesi -inclusa la corruzione – e come la carenza di regole efficaci che disciplinano gli aspetti fondamentali della vita politica riduca la qualità delle istituzioni ed il livello della governance e faciliti la corruzione e il ruolo del denaro in politica determinando una spirale di decadimento istituzionale, politico e sociale ed economico. In tale contesto, l’articolo si sofferma sulle possibili conseguenze economiche della riforma costituzionale proposta.

Le conclusioni s’incentrano sulla necessità che un sistema giuridico-politico mantenga la qualità dell’assetto istituzionale e riesca ad identificare gli incentivi che facciano emergere e premino comportamenti virtuosi e permettano un corretto funzionamento delle istituzioni. In tal senso, l’elezione diretta dei rappresentanti costituisce un elemento essenziale al funzionamento democratico e concorrenziale, permette il controllo degli eletti e fornisce legittimità a tutto il sistema.

La Proposta di Riforma Costituzionale e alcuni Principi Fondamentali

a. Il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico.

La Costituzione – sotto qualsiasi latitudine- rappresenta il testo fondamentale del sistema giuridico-politico di un paese, dove emergono i valori, i principi e le regole ai quali l’ordinamento giuridico s’ispira. Per tale ragione, la Costituzione e le sue modifiche non possono che essere un testo largamente condiviso, raggiunto con compromessi che coinvolgono le varie forze politiche.

La Costituzione italiana – nata dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza- costituisce la legge fondamentale, influenzata principalmente dalle culture cattolica e socialista e dall’esperienza fascista. La Costituzione rappresenta il risultato di un lavoro lungo e di un largo

consenso nonchè di compromessi, proprio perchè stabilisce valori, principi e regole condivisi per alcuni dei quali esiste anche una diversa impostazione (e pertanto è spesso necessario un compromesso).

L’argomento che talvolta viene utilizzato per giustificare la modifica della Costituzione s’incentra sulla circostanza che sono trascorsi circa 70 anni dalla sua approvazione, i tempi sono cambiati e pertanto la Carta Costituzionale deve adattarsi. In proposito, si trascura la circostanza che valori, principi e regole non sono temporanei, ma di lungo periodo. In ogni caso, l’età della Costituzione non fa venir meno, anzi rafforza, il requisito fondamentale per le modifiche: un vasto consenso. La Costituzione degli Stati Uniti risale al 1789 – ed è stata modificata solo 27 volte – e i principi e valori ispiratori rimangono intatti e in essi gli americani si riconoscono.

La letteratura della scuola di public choice, che spiega il processo politico secondo le regole dell’economia, è unanime sul punto dell’esigenza di un vasto accordo per l’adozione di regole costituzionali (Buchanan, James M., and Gordon Tullock. 1962. The Calculus of Consent. Ann Arbor: University of Michigan Press).

b. Il ruolo della maggioranza in un regime democratico.

Le proposte modifiche della Costituzione italiana – sottoposte a referendum- sono intese a garantire la stabilità governativa, nel senso di durata e capacità di prendere decisioni da parte dell’Esecutivo e della maggioranza, sopratutto eliminando l’equivalenza di Camera e Senato – il c.d. bicameralismo perfetto- che, secondo l’attuale Costituzione, hanno identici compiti e poteri (ad esempio, entrambe le Camere votano la fiducia all’Esecutivo e approvano tutte le leggi). Il Senato delineato nella riforma non voterà la fiducia all’Esecutivo; avrà un numero limitato di competenze sulle quali legifererà insieme alla Camera (ad esempio riforme costituzionali, tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee).

In tal senso, la riforma costituzionale proposta modifica un principio fondamentale iscritto nella Carta Costituzionale, vale a dire l’equivalenza tra Camera e Senato che costituisce uno dei capisaldi di pesi e contrappesi del sistema giuridico-politico italiano. L’equivalenza tra le due Camere – peraltro analoga a quella che esiste negli Stati Uniti dove Camera e Senato entrambe approvano le stessi leggi – fu adottata dai costituenti a garanzia di un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo. Il bicameralismo perfetto può allungare i tempi delle decisioni e favorire il mantenimento di posizioni di rendita. Tuttavia, il bicameralismo perfetto riduce il potere dell’Esecutivo e costituisce una garanzia per la minoranza nella definizione di leggi e regolamenti contro lo strapotere della maggioranza. Tale meccanismo costituisce un principio fondamentale che può essere modificato solo con un ampio consenso delle forze politiche (nota 2) (D. Argondizzo. 2013. 1945-1947 Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso USA e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino).

Ulteriore importante implicazione della riforma è il ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza nell’approvazione di leggi e regolamenti. Infatti, l’Esecutivo in carica e la maggioranza potranno predisporre disegni di legge – attuativi del “programma di Governo” – da approvare dalla Camera che è allineata all’Esecutivo. Tale circostanza riduce le iniziative legislative parlamentari (che dovrebbero scaturire dalle esigenze che i cittadini rappresentano ai propri rappresentanti) che già sono pari solo al 20% delle iniziative complessive ed evidenziano il distacco tra istituzioni ed elettori, anche perchè i rappresentanti che siedono al Parlamento hanno principalmente rapporti con le segreterie dei partiti piuttosto che con gli elettori del territorio che dovrebbero rappresentare (Associazione OpenPolis. 2015. Premierato all’Italiana. Osservatorio sulle leggi nella XVII Legislatura. Edizioni OpenPolis, Roma).

Altra implicazione – non secondaria – è che gli incarichi nella Pubblica Amministrazione e nelle c. d. Agenzie indipendenti siano attribuiti ad individui che raccolgono la fiducia della maggioranza al potere, senza aver riguardo alla conoscenza ed esperienza nel settore specifico e alla capacità di svolgere con efficacia ed integrità la funzione ricoperta. La prima implicazione di tali nomine è che i “nominati” avranno l’inclinazione ad emettere normative secondo gli interessi e le direttive del potere politico (Cochrane, John, 2015. The Rule of Law in the Regulatory State, prepared for The Foundation of Liberty: Magna Carta After 800 Years, Hoover Institution Conference, June). La seconda implicazione è che, naturalmente, le nomine dipendono dall’Esecutivo in carica e possono essere modificate dal successivo Esecutivo con un’impostazione diversa. Queste due circostanze accentuano l’instabilità istituzionale e la certezza e durata delle regole.

Pertanto, le modifiche costituzionali – associate al premio di maggioranza alle elezioni per la Camera in vigore a partire dal luglio 2016 (il c.d. Italicum, vedi in seguito e nota 7) – eliminano il bicameralismo perfetto ritenuto da molti causa di inefficienze e lentezze, attribuendo all’Esecutivo ed alla maggioranza un ruolo preponderante nelle decisioni. L’Esecutivo deciderebbe i tempi e la sostanza dei lavori dell’unica assemblea legislativa rilevante, la Camera, peraltro con maggioranza allineata all’Esecutivo. Il ruolo egemonico dell’ Esecutivo nell’approvazione delle leggi va contro le regole che risalgono alla teoria della divisione dei poteri secondo la quale l’Esecutivo ha il compito di eseguire le leggi approvate dal Parlamento.
Inoltre, l’Esecutivo svolge attività “legislativa”, attraverso la Pubblica Amministrazione e le Agenzie indipendenti che emettono provvedimenti con sostanza di legge senza un effettivo controllo del potere legislativo (il Parlamento). Tale circostanza viola il principio della rule of law(nota 3) e rischia di instaurare la rule by law con il ruolo dominante dell’Esecutivo e della maggioranza, che produce la c.d. ”tirannia della maggioranza” che potrebbe sfociare nell’autoritarismo autocratico e plebiscitario. Tali situazioni di potere esclusivamente basato sull’espressione popolare si manifestano in vari paesi (ad esempio, Turchia di Erdogan; Russia di Putin; e Venezuela di Chavez che ora sta attraversando con Maduro una crisi di gigantesche proporzioni), dove vige il concetto della rule by law e non della rule of law . In tale proposito, Diamond Larry and Marc F. Plattner Editors. 2015. Democracy in Decline, John Hopkins University Press.

c. La stabilità

La riforma costituzionale sottoposta al referendum parte da un concetto di stabilità peraltro ampiamente diffuso –la governabilità – che come sopra accennato si riferisce alla stabilità dell’Esecutivo ed alla sua capacità di durare e prendere decisioni. Il concetto di stabilità di un ordinamento giuridico non può essere esclusivamente fondato sulla circostanza che l’Esecutivo sia in carica e produca norme. Elemento di maggior rilevanza è che un sistema giuridico-politico funzioni attraverso i c.d. pesi e contrappesi e secondo regole e procedure certe e prevedibili. In altre parole, è la qualità della governabilità, non la governabilità che ha rilievo.

Negli Stati Uniti, le modifiche costituzionali, come pure le leggi ordinarie, sono difficili da realizzare proprio perché, malgrado gli Stati Uniti siano una Repubblica Presidenziale, il potere è diffuso e il sistema è permeato da checks and balances – tra i quali come indicato sopra la parità di Camera e Senato e la circostanza che solo un membro del Congresso può proporre un disegno di legge accentuando il rapporto tra eletti ed elettori (nota 4) – che riducono il potere del Presidente e della maggioranza e tutelano la minoranza (si pensi, ad esempio, alla difficoltà ad approvare leggi sull’immigrazione). In proposito, spesso si ricorda un aneddoto significativo. Le deliberazioni che portarono alla definizione della Costituzione degli Stati Uniti furono tenute in gran segreto e molti cittadini – curiosi e ansiosi di cosa si stesse decidendo- si riunirono fuori della Independence Hall, in Filadelfia, dove si svolgevano le riunioni per scrivere la Costituzione. Si racconta che una donna, la signora Elizabeth Powell (che sembra fosse un’amica di George Washington), preoccupata, chiese a Benjamin Franklin, “Dottore, che cosa abbiamo, una repubblica o una monarchia?” Senza esitazioni, Franklin rispose: “Una Repubblica, signora, se sarete capaci di conservarla”. Questo aneddoto attesta l’importanza centrale che rivestono pesi e contrappesi nella Costituzione statunitense.

Uno dei temi centrali e ricorrenti del dibattito politico negli Stati Uniti è quello del c.d. divided Government – il Governo diviso (nota 5) . Tale situazione dipende principalmente dalla circostanza che non solo non è infrequente che il partito del Presidente non è quello che ha la maggioranza nel Congresso (Camera e Senato), ma anche quando Presidente e maggioranza nel Congresso sono dello stesso partito, i parlamentari debbono rispondere agli elettori nel territorio che li ha eletti e non agli ordini del partito. In tale contesto, il raggiungimento di un accordo per approvare le leggi è complicato, spesso richiede compromessi, altre volte le proposte non riescono a diventare leggi proprio per i pesi e contrappesi che esistono nel sistema e che sono soprattutto a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento democratico.

A tale proposito, le attuali elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono un esempio molto interessante da esaminare. Uno dei candidati – Donald Trump – sostiene, che una volta eletto Presidente, introdurrà cambi radicali (ad esempio, denuncierà gli accordi commerciali, costruirà il muro tra Stati Uniti e Messico; e così via). Tuttavia, questi cambi proposti sembrano non tener conto delle regole del gioco che prevedono l’accordo del Congresso che approva le leggi e che è tutt’altro che scontato.
Il sistema statunitense ha costruito gli anti-corpi – i pesi e contrappesi – che evitano situazioni autocratiche, o come viene chiamata la Presidenza Imperiale, e la tirannia della  maggioranza (nota 6). Il sistema si muove secondo cadenze e procedure prevedibili, regolate dalla legge alla quale tutti sono sottoposti e dove la maggioranza deve confrontarsi con la minoranza. La chiarezza istituzionale, vale a dire la trasparenza delle regole del gioco, costituisce il meccanismo che garantisce la stabilità, e la prevedibilità dell’evoluzione del sistema e sostanzialmente la sua legittimità, credibilità e sostenibilità.

Tra decisionismo e bilanciamento dei poteri, il sistema statunitense favorisce il secondo meccanismo. Questo non significa che il sistema sia perfetto, efficiente, funzioni sempre e in ogni circostanza, e non presenti difetti (le attuali elezioni presidenziali sono un buon esempio in proposito). Esistono vari elementi distortivi come quello del ruolo del denaro nella politica, ed il mantenimento di posizioni di rendita, ma alla lunga i checks and balances a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento della democrazia, riducono i pericoli di dittature e tirannie mascherate dal consenso popolare (De Tocqueville Alexis. 2016. De la Démocratie en Amérique: Édition Intégrale Tome I + II, Create Space Independent Publishing Platform) e hanno dato risultati molto positivi per oltre 200 anni in termini di sviluppo economico e sociale.

L’accentramento di forti poteri all’Esecutivo, anche derivanti da un “mandato popolare”, o da elezioni che producono una certa maggioranza, non solo costituisce un pericolo per la democraticità del sistema, ma non è efficiente e può essere dannoso alla stessa stabilità. Un Esecutivo forte, ancorchè legittimato dal voto popolare, può prendere decisioni che però possono essere sconfessate dal successivo Esecutivo forte che ha anch’esso la legittimazione popolare, ma un’impostazione diversa dal precedente Esecutivo.
In proposito, al di là del merito della decisione, si può esaminare il caso della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024 presa dall’Esecutivo a livello centrale con il sostegno della Giunta e del Consiglio di Roma, all’epoca allineati con l’Esecutivo a livello centrale. La decisione, però, era controversa e con varie opposizioni. La vittoria del Movimento 5 Stelle nelle recenti elezioni per Giunta e Consiglio della città di Roma ha portato al rifiuto di partecipare alle Olimpiadi determinando incertezza, spese effettuate e non recuperabili, perdita d’impegni, investimenti e credibilità.

Inoltre, non è da escludere lo scenario di una minoranza, nell’ambito della maggioranza, capace di esercitare un potere di veto con effetti nocivi sulle decisioni con situazioni di richiesta di contropartite di qualsiasi genere.

In altre parole, il decisionismo può essere sconfessato dal successivo decisionismo di segno opposto e determinare instabilità, vale a dire quella situazione che si sarebbe voluto eliminare. In aggiunta, il decisionismo basato su vittorie elettorali contingenti può essere solo apparente, non esclude lotte interne alla maggioranza con effetti paralizzanti e non assicura la durata e la tenuta dell’Esecutivo.
Un ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza non elimina l’incertezza e può generare cicli d’impegni e succesivi rifiuti che sono la caratteristica dell’instabilità.

d.  Il collegamento tra elettori ed eletti

Il popolo è sovrano, come recitano molte costituzioni. Le istituzioni elettorali costituiscono una condizione necessaria e sufficiente per la pratica e il consolidamento della democrazia. Senza regole elettorali per l’elezione del potere esecutivo e di quello legislativo, la democrazia rappresentativa non è praticabile. Le regole determinano la natura del Governo che emerge dal voto, le modalità in cui il pubblico può verificare la responsabilità degli eletti nella gestione del potere e favoriscono il senso d’inclusione del cittadino (Mala Htun and G. Bingham Powell, Jr. Editors. 2013. Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance. American Political Science Association (APSA)).

In Italia, l’evoluzione del sistema elettorale, dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel 1946, ha portato ad un progressivo indebolimento del rapporto tra elettori ed eletti (nota 7) e la circostanza – sopra riportata- del basso livello d’iniziative legislative parlamentari rappresenta un significativo indicatore dello scollamento che esiste tra elettori ed eletti.
La riforma costituzionale soggetta al referendum parte da una corretta, ma non nuova, intuizione che una delle due Camere (il Senato) debba avere una rappresentatività su base regionale (Mangiameli Stelio Editore. 2012. Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di stato in Italia, Giuffre). Tuttavia, l’attuazione nega l’intuizione ed accentua la prevalenza eccessiva della maggioranza, come discusso sopra, e la carenza di rappresentatività delle realtà regionali in quanto il futuro Senato sarebbe composto da membri prescelti indirettamente e senza un rapporto diretto con il territorio. In effetti, i rappresentanti destinati a ricoprire il ruolo di senatore sono selezionati dalle Assemblee regionali; svolgono le proprie funzioni a titolo individuale; e possono ricoprire nello stesso tempo la carica di consigliere regionale o di sindaco- senza vincolo di mandato. Tali rappresentanti, pertanto, tenderanno ad esprimere le posizioni del partito che li ha nominati e non gli interessi territoriali che dovrebbero tutelare. Riprendendo il parallelo con gli Stati Uniti, il 17° emendamento – adottato nel 1911 dalla Camera dei Rappresentanti e ratificato da tre- quarti degli Stati nel 1913- ha stabilito l’elezione diretta dei senatori che prima erano scelti dalle Assemblee legislative dei vari stati. Negli Stati Uniti a nessuno verrebbe in mente di tornare al sistema che le Assemblee legislative dei vari stati dell’Unione designino i senatori federali. Gli estensori della riforma costituzionale italiana soggetta a referendum non hanno considerato rilevante questa fondamentale esperienza storica (Friedman, Joseph S. 2009. The Rapid Sequence of Events Forcing the Senate’s Hand: A Reappraisal of the Seventeenth Amendment, 1890-1913. March. CUREJ: College Undergraduate Research Electronic Journal, University of Pennsylvania).

In aggiunta, la riforma – con la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione – prevede una riduzione dell’autonomia delle regioni, soprattutto in campo finanziario e organizzativo e in una serie di “competenze concorrenti”, cioè materie delle quali potevano occuparsi, nello stesso tempo, stato e regioni. Con la riforma, molte competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato. In tal senso, la riforma comporta una centralizzazione del potere e un de-potenziamento significativo dell’autonomia legislativa delle Regioni costituzionalmente riconosciuta. Senza considerare che la riforma determina un vuoto normativo in quanto le Regioni a statuto speciale sono escluse, fino a una futura revisione degli statuti attraverso nuove leggi costituzionali d’intesa con le Regioni interessate.
La riforma rinforza l’idea di una concorrenza politica che s’incentra sui partiti e non sui candidati, e non garantisce il funzionamento di un regime genuinamente democratico che coinvolga l’elettore.

Sulla base dell’esperienza del Senato degli Stati Uniti – composto di 100 parlamentari- 2 per ogni Stato, in l’Italia si sarebbe potuto pensare ad un Senato composto da 60 a 80 parlamentari, 3 o 4 per ciascuna regione, direttamente eletti. Si sarebbe così compiutamente realizzata l’idea di accrescere la rilevanza di ciascuna regione, indipendentemente dalla sua popolazione che è invece la caratteristica della Camera dei Deputati.

Anche se può non essere immediatamente comprensibile, la diversità delle regioni italiane è un patrimonio da preservare ed arricchire e non da ridurre (Putman Robert D. 1994. Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton University Press; Phillips Katherine W. 2014. How Diversity Makes Us Smarter. Scientific American October).

e. Il contenimento dei costi

L’attività politica e il funzionamento di un sistema democratico costituiscono un costo che il cittadino sostiene. Il finanziamento privato dell’attività politica – e in generale il ruolo del denaro in politica – deve essere limitato e trasparente e non ostacolare la concorrenza democratica. Il finanziamento pubblico della politica– a carico del cittadino che paga le tasse – per il mantenimento del sistema democratico non deve creare spechi, inefficienze e rendite (Zamora Kevin Casas and Daniel Zovatto. 2015. The Cost of Democracy: Campaign Finance Regulation in Latin America. Latin American Initiative, Brookings Institution).

L’eliminazione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) – un organismo riconosciuto dalla Costituzione – costituisce una soluzione indubbiamente positiva per ridurre i costi dell’apparato statale ed eliminare Enti che esercitano funzioni scarsamente rilevanti. Il CNEL è generalmente considerato un “ente inutile”, che non e mai stato messo in condizione di svolgere efficacemente la sua funzione di organo indipendente di consulenza tecnica per il Parlamento.

La diminuzione del numero dei parlamentari (i senatori passano da 315 a 100) può essere altresì considerata positiva nell’ottica di un risparmio per il funzionamento dell’ordinamento. Tuttavia, il minor costo – peraltro opinabile e che comunque appare non significativo – comporta lo scadimento della rappresentatività territoriale, accentua il decisionismo della maggioranza, e presenta il rischio d’instabilità determinata da decisionismi nel tempo che si annullano tra di loro.
Peraltro i costi derivanti dall’attuazione dell’eventuale modifica della Costituzione e dai possibili ricorsi giurisdizionali –principalmente tra Stato e Regioni- rimangono un’incognita.

La riduzione dei costi della gestione dello Stato è da valutare positivamente. Tuttavia, il risparmio finanzario non compensa il “costo” ingente di ridurre o eliminare importanti principi fondamentali, come abbiamo visto sopra. Peraltro il contenimento dei costi si sarebbe potuto conseguire in vari altri modi, ad esempio riducendo ulteriormente il numero dei senatori (a 60 o 80), diminuendo il numero dei rappresentanti alla Camera (ad esempio dagli attuali 630 a 435 come nel caso degli Stati Uniti che ha una popolazione 6 volte quella dell’Italia) ed eliminando 2/5 dei giudici della Corte Costituzionale (i giudici costituzionali passerebbero da 15 a 9 come nel caso della Corte Suprema degli Stati Uniti).

Qualità delle Istituzioni, Governance, Corruzione e Crescita Economica

La governance – come detto, le modalità di esercizio del potere – presenta vari aspetti operativi come la scelta e il rimpiazzo del Governo; l’utilizzo del potere; la capacità del Governo di adottare e realizzare politiche pubbliche; il rispetto dei cittadini e delle istituzioni che regolano le interazioni tra i cittadini. La Tavola 1, qui di seguito, sottolinea alcuni indicatori di Governance – elaborati dalla Banca Mondiale per il periodo 2008-2015 – per vari paesi avanzati (nota 8).

Tavola 1- Indicatori di Governance

tavola1

Sources: EIU, 2015; World Bank, 2015; The World Economic Forum, 2015; Transparency International, 2015; The Heritage Foundation, 2015.

 

La Tavola 1 mostra in modo molto evidente che l’Italia, in molti indicatori (ad esempio quello dell’accountability, quello dell’effettività del Governo), occupa posizioni lontane da quelle dei paesi avanzati .

Per quanto riguarda la corruzione – definita dalla Banca Mondiale “l’abuso dell’ufficio pubblico per gudagni privati” – la ricerca con verifiche empiriche ha sostanzialmente confermato che quando la governance e le istituzioni non funzionano, lobbies, denaro e corruzione hanno buon gioco ad impossessarsi dei meccansmi decisionali e dirigerli nel proprio interesse e la governance è ulteriormente indebolita (Kaufmann, Daniel. 2005. Myths and Realities of Governance and Corruption. Global Competitiveness Report 2005-06 (October 2005): pp. 81-98). Un elevato livello di corruzione significa che il potere pubblico è esercitato per guadagni privati (ad esempio attraverso opere pubbliche, politiche, regolamentazione) di modo che lo Stato è ”catturato” da intesssi privati che esercitano un ruolo “estrattivo” delle risorse pubbliche (Acemoglu, Daron and James Robinson. 2012. Why Nations Fail, Crown Business).

Grafico 1 – Indicatori di Corruzione nelle Principali Economie

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) - World Bank Governance Indicators 2015

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) – World Bank Governance Indicators 2015

Il Grafico 1 mostra, per il periodo 1996-2015, gli indicatori delle prestazioni dei vari paesi in materia di corruzione – che variano tra -2.5 (debole) e +2.5 (forte) – e si può facilmente visualizzare la modesta posizione dell’Italia affiancata alla Grecia.
La Tavola 1 ed il Grafico 1 mostrano che la situazione della governance e corruzione in Italia è pericolosa non solo per un corretto funzionamento democratico, ma anche per per lo sviluppo economico. In realtà, lobbies, denaro e corruzione s’intrecciano e determinano comportamenti diretti a premiare interessi particolari non sempre allineati con l’interesse generale e con la crescita economica (Kuhner Timothy K. 2014. Capitalism v. Democracy Money in Politics and the Free Market Constitution, Standford University Press). La situazione per l’Italia non è migliore in materia d’indicatori della rule of law, vedi nota 1 e Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2016. Washington, D.C. The World Justice Project.

I dati italiani su governance e corruzione (uno degli indicatori della governance) testimoniano altresì lo slegamento tra eletti ed elettori e l’alienazione dei cittadini elettori che si sentono estranei e non partecipi al sistema giuridico-politico. Ogni Governo dovrebbe seriamente preoccuparsi di migliorare i parametri della governance.

La riforma costituzionale sottoposta al referendum comporterà – se approvata – il ruolo dominante della maggioranza e dell’Esecutivo, una riduzione di pesi e contrappesi e un affievolimento della rule of law e presumibilmente produrrà un ulteriore distacco di molti elettori dalla politica. Pertanto, non è improbabile che lobbies, denaro e corruzione avranno un peso maggiore e che si formi un gruppo di potere e di sostegno finanziario che determinerà le sorti di molte iniziative. Di conseguenza, gli indicatori della governance non solo rischiano di non migliorare, ma addirittura di peggiorare.

Sotto il profilo delle implicazioni economiche, la ricerca, attraverso verifica empirica, sostanzialmente concorda che una democrazia partecipativa e istituzioni autorevoli e legittime- piuttosto che governi autocratici – particolarmente in società che presentano diversità e divisioni (etniche, linguistiche, geografiche, e altre divisioni) – hanno un impatto positivo sullo sviluppo economico (Rodrik Dani. 2000. Participatory Politics, Social Cooperation, and Economic Stability. The American Economic Review Vol. 90, No. 2, Papers and Proceedings of the One Hundred Twelfth Annual Meeting of the American Economic Association (May), pp. 140-144). Istituzioni democratiche riducono l’impatto negativo che corruzione e denaro nel processo politico esercitano sulla crescita evonomica (Drury, A.C., Krieckhaus, J. and Lusztig, M., 2006. Corruption, democracy, and economic growth. International Political Science Review, 27(2), pp.121-136).
L’impatto della riforma costituzionale sopposta a referendum sulla crescita economica dipenderà dalla “qualità” delle istituzioni che usciranno se la riforma costituzionale sarà confermata dal referendum (Venard Bertrand. 2013. Institutions, Corruption and Sustainable Development. Economics Bulletin, 33 (4), pp.2545-2562).

Naturalmente previsioni economiche in generale e nello specifico debbono essere caute. Tuttavia, dalle considerazioni sviluppate più sopra, appare probabile che la riforma costituzionale sottoposta al referendum avrà un impatto negativo sulla “qualità” delle istituzioni e sul loro funzionamento e di conseguenza implicazioni non favorevoli per la crescita economica italiana.

Ulteriori Considerazioni

Nessun ordinamento giuridico e sistema politico è perfetto e ogni decisione comporta uno scambio – trade-off – tra principi, valori ed obiettivi.

In un sistema sostanzialmente funzionante come si può considerare quello degli Stati Uniti, il sistema dei checks and balances è una garanzia per la minoranza, anche se costituisce un meccanismo che rallenta i cambi e tende a proteggere rendite di posizione.
Recentemente – con un’ interpretazione estensiva della Corte Suprema – negli Stati Uniti è stata introdotta la possibiltà di contributi finanziari illimitati ed anonimi a partiti e candidati. Tale possibilità accentua il ruolo che il denaro e le lobbies già esercitano sul processo politico e sta corrompendo il sistema e minando la concorrenza e il funzionamento democratico e il rapporto tra eletti ed elettori (come le attuali elezioni presidenziali stanno evidenziando).
Tuttavia, il mantenimento di checks and balances a tutela della minoranza, il rispetto del principio della rule of law, nonchè l’elezione diretta dei rappresentanti rimangono capisaldi per assicurare il corretto funzionamento del sistema democratico e in qualche modo limitare il ruolo di lobbies e denaro nella politica e la corruzione.

Inerente al meccanismo di pesi e contrappesi, è che la neccessità di ampio consenso – auspicato particolarmente per modifiche a principi, valori e regole – può comportare compromessi non salutari per l’ordinamento democratico – i c.d. “inciuci”- che determinano o perpetuano privilegi e rendite di posizione.
Altro pericolo è che i rappresentanti possono non rispondere alle esigenze degli elettori che rappresentano.
Lo stretto collegamento tra elettori ed eletti consente in principio agli elettori di sanzionare i comportamenti degli eletti.

Peraltro, il continuo corretto funzionamento democratico dipende molto dalla libertà di giudizio ed integrità dei parlamentari nel rappresentare gli interessi nazionali (Deputati) e territoriali (Senato) a cui corrisponde un senso diffuso di onestà nella società e di controlli sull’attività governativa. In tale ottica, è importante che nel disegnare un sistema politico e le istituzioni rappresentative si stabiliscano gli incentivi che permettano che i pregi sopra menzionati emergano e vengano valorizzati; che si svolga una concorrenza delle idee; e che il meccanismo sia capace di generare controlli e sanzioni.

In definitiva, appare fondamentale che gli eletti siano espressione diretta degli elettori e dipendano dagli elettori per il mantenimento della loro posizione. Ciò consente un migliore controllo democratico dell’elettore nei confronti dei suoi rappresentanti che può svolgere un ruolo significativo anche in presenza di interventi finanziari nella politica.

Conclusioni

Per quanto riguarda la prima domanda – quale sono le conseguenze politico-giuridiche della proposta riforma costituzionale? – la riforma costituzionale sottoposta al referendum – se approvata- ridurrà pesi e contrappesi e rinforzerà il ruolo predominante della maggioranza e dell’Esecutivo. Presumibilmente, ciò produrrà una concentrazione del potere, ed ulteriore distacco di molti cittadini dalla politica.

Per quanto riguarda la seconda domanda – quale è l’impatto per la crescita economica del Paese? – l’impatto economico della proposta di riforma costituzionale dipenderà principalmente dalla “qualità” delle istituzioni che risulterebbero in caso la riforma fosse approvata. La proposta riforma costituzionale – se approvata – consentirà l’accentramento di un potere rilevante nell’Esecutivo e può determinare conseguenti cicli d’instabilità e peggioramento della qualità istituzionale e della governance. In tale contesto lobbies, denaro e corruzione influenzeranno molti iniziative con negative ripercussioni sulla crescita economica del Paese.

In conclusione, le argomentazioni di quest’articolo permettono di giungere alla conclusione che esiste un collegamento tra i vari aspetti esaminati e sopratutto tra l’esigenza di un largo consenso per modifiche costituzionali ed il controllo dell’elettore sugli eletti. In tale prospettiva, sembra ragionevole pensare che una riforma costituzionale “migliorata” potrebbe aumentare la probabiltà di un effetto positivo sulla crescita economica.
Appaiono ragionevoli modifiche nel senso dell’elezione diretta dei senatori su base regionale (3 o 4 senatori per ogni regione) – che sostanzialmente equivale ad un sistema uninominale che bilancerebbe il sistema di più di un candidato eletto nei singoli collegi elettorali per la Camera; opportuni correttivi per un più efficiente funzionamento dell’approvazione delle leggi, senza però intaccare in maniera significativa l’uguaglianza di funzioni delle due Camere.
Tale impostazione consentirebbe quel largo consenso necessario quando si modificano principi e regole alla base dell’ordinamento; e permetterebbe di compattare il paese e fornire nuovo slancio, invece di dividerlo. Purtroppo, l’impressione è che la campagna referendaria non è basata sulla sostanza dei cambi e le implicazioni, sopratutto a medio e lungo termine. Insomma, il Paese sta perdendo un’ennesima occasione per ammodernarsi seriamente.


Note
(1) La definizione del concetto rule of law è ampia e complessa. Il World Justice Project (WJP) computa annualmente il punteggio e la graduatoria dei vari paesi, vedi Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2015. Washington, D.C. The World Justice Project. In prima approssimazione, per rule of law s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti.
(2) Il referendum sulla legge di modifica della Costituzione si rende necessario perchè la legge è stata approvata con una maggioranza semplice e non con quella dei 2/3 che costituisce la misura dell’ampio consenso.
(3) Per rule of law – vedi nota 1- s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti. Per rule by law s’intende ogni atto del Governo che impone certi comportamenti in modo arbitrario e discriminatorio.
(4)Ad eccezione della legge di Bilancio che è proposta dal Presidente
(5) Nell’accezione anglo-sassone per Government – Governo- s’intende tutto l’apparato che gestisce lo Stato e comprende l’Esecutivo (la Presidenza), il Congresso, e il Sistema giudiziario.
(6) Esistono molte conferme dell’operatività di pesi e contrappesi nel sistema americano, sicchè non è necessaria l’elezione di Donald Trump alla Presidenza per un’ulteriore verifica.
(7) Dopo la nascita della Repubblica Italiana, nel 1946 fu approvata la legge proporzionale che, salvo piccole modifiche, ha regolato lo svolgimento delle elezioni politiche italiane fino al 1993.Per l’elezione della Camera dei deputati, il territorio nazionale era suddiviso in 32 circoscrizioni plurinominali assegnatarie di un numero di seggi variabile a seconda della popolazione; ogni elettore aveva a disposizione un massimo di quattro voti di preferenza. Il sistema elettorale per il Senato della Repubblica prevedeva correttivi in senso maggioritario, mantenendo un carattere ampiamente proporzionale. La legge Mattarella, in vigore fra il 1993 e il 2005, introdusse un sistema elettorale ibrido: a.maggioritario uninominale a turno unico per i tre quarti dei seggi del Senato e i tre quarti dei seggi della Camera; b.ripescaggio proporzionale dei più votati fra i candidati non eletti per l’assegnazione del rimanente 25% dei seggi del Senato; c. proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 4% per il rimanente 25% dei seggi della Camera. Nel 2015, per l’elezione della Camera dei Deputati, è stato approvato un nuovo sistema elettorale attualmente vigente – l’«Italicum» – operativo a partire dal 1º luglio 2016, che prevede un meccanismo proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza, (o di governabilità). La lista vincitrice può ottenere fino a 340 deputati, corrispondenti al 54% dei seggi della Camera, qualora abbia ottenuto almeno il 40% dei consensi a livello nazionale; ove tale circostanza non si verifichi, il premio di governabilità è attribuito dopo un ballottaggio fra le due liste più votate. Il numero dei seggi assegnati a ciascun partito è determinato sulla base dei suffragi ottenuti sul territorio nazionale. Le candidature sono presentate all’interno di venti circoscrizioni regionali, suddivise complessivamente in 100 collegi plurinominali, a ciascuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi compreso fra tre e nove. Fanno eccezione i nove collegi uninominali delle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Ogni elettore, nell’ambito della lista prescelta, ha due voti di preferenza per candidati che non siano i capilista. In ogni collegio, nel limite dei seggi spettanti in proporzione a ciascun partito, sono eletti i capilista e i candidati che hanno conseguito il maggior numero di preferenze.
(8) Per una critica degli indicatori di governance, vedi Thomas, M.2010. What do the Worldwide Governance Indicators Measure? European Journal of Development Research 22, 31-54.


Bibliografia essenziale

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La fine del diritto pesante del lavoro: due ipotesi

La fine del diritto pesante del lavoro: due ipotesi

di Maurizio Sacconi

I due disegni di legge allegati per un Testo Unico denominato “Statuto dei Lavori” e per una regolazione più semplice e più efficace in materia di salute e sicurezza nel lavoro, sono parti di un unico disegno riformatore. Cambiano i modelli organizzativi della produzione, cambiano i lavori nella quarta rivoluzione industriale.

Ma nessuno può prevedere la velocità e la dimensione dei cambiamenti. Sappiamo solo che viene meno il vecchio mondo, fatto di gerarchie verticali e di mera esecuzione seriale degli ordini impartiti. Il vecchio mondo su cui è stato costruito tutto il pesantissimo diritto del lavoro, fatto di regole protettive del “contraente debole” che ora diventano spesso un freno alla occupabilità e alla migliore tutela dello stato di salute.

Lo stesso Jobs Act contiene apprezzabili modifiche ma le compensa con definizioni ancor più rigide circa la separazione tra lavoro autonomo e subordinato proprio nel momento in cui la realtà li avvicina. I due testi vogliono quindi rappresentare altrettante ipotesi di fuoriuscita dalla vecchia regolazione del dopoguerra. Alla base di esse si pone una sorta di “salto” metodologico, quello per cui la fonte legislativa, per definizione rigida e perciò incapace di rincorrere i cambiamenti, si deve limitare alle norme fondamentali e inderogabili che sono espressione dei principi costituzionali e comunitari. Per tutto il resto si deve fare rinvio alla duttile contrattazione, soprattutto di prossimità, compresa quella individuale sviluppando la certificazione dei contratti; e per la sicurezza a quelle linee guida, norme tecniche, buone prassi la cui evoluzione e applicazione devono essere validate scientificamente.

All’origine di queste proposte sono le visioni di Marco Biagi, la sua diffidenza verso il formalismo giuridico, la sua intuizione sui cambiamenti dei lavori e sulla tutela sostanziale dell’apprendimento continuo. Esse provocheranno discussioni e forse anche le usuali invettive riservate a chi suggerisce riforme nel presupposto dell’antropologia positiva perché l’impresa non è fisiologicamente ritenuta il luogo dello “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. Farà discutere in particolare il radicale cambiamento ipotizzato per la prevenzione dei rischi nel lavoro.

Con i due colleghi che hanno condiviso firma e progettazione replicheremo pazientemente ai giudizi sommari e saremo aperti a recepire ogni critica costruttiva. Serenella Fucksia è medico del lavoro con esperienza. Hans Berger è albergatore in Alto Adige, già amministratore di quella Provincia autonoma ove si realizzano le migliori pratiche per quanto riguarda l’integrazione tra apprendimento teorico ed esperienza pratica. Non ci illudiamo che nell’attuale contesto politico e parlamentare sia possibile condurre ad approvazione questi DDL. Abbiamo però la volontà di concorrere con essi ad innovare la cultura regolatoria degli ultimi settanta anni con lo scopo di liberare la vitalità economica e di promuovere il lavoro di qualità.

Scarica il disegno di legge “Delega al governo per la definizione di un Testo Unico denominato Statuto dei Lavori”

Scarica il disegno di legge “Disposizioni per il miglioramento sostanziale della salute e sicurezza dei lavoratori”