Edicola – Opinioni

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Deficit, tasse e spending review: Padoan risponda a 10 domande

Renato Brunetta – Il Giornale

Le riforme costituzionali – Senato, Legge elettorale, Titolo V della Costituzione – sono indubbiamente un momento centrale della legislatura. Ma non è su questo terreno che si misureranno i successi o gli insuccessi governativi. Sarà l’economia il vero banco di prova. Nella risposta ad una crisi profonda, come mai lo è stata, si gioca sia il futuro di Matteo Renzi sia quello del suo ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan. Ma soprattutto quello dell’Italia. La nostra opposizione alle misure finora annunciate e, per la verità scarsamente attuate, si basa su queste considerazioni. Forza Italia non può essere travolta in un eventuale fallimento, per la semplice ragione di non avervi contribuito. Abbiamo cercato in tutti i modi di lanciare responsabili appelli ai naviganti. Conoscendo le difficoltà oggettive che frenano ogni slancio lungo il sentiero della ripresa, avevamo invitato alla prudenza. E suggerito vie alternative. A partire da un maggiore impegno programmatico per il decreto Poletti del mercato del lavoro e sul cosiddetto Jobs Act.

C’era una logica nel nostro modo di operare. All’appuntamento europeo, dopo le tante critiche subite e l’onta di essere considerati «vigilati speciali» al pari della Croazia e della Slovenia, dovevamo presentarci con risultati concreti. Nessun compito a casa, per carità. Ma riforme imprescindibili se si vuol ritrovare il senso di una possibile prospettiva. Che poi coincidano in parte con le raccomandazioni della Commissione europea è solo un dato di realtà. Operando nel senso indicato, saremmo stati più liberi di poter esprimere tutte le nostre critiche alla politica economica tedesca. E reclamare il rispetto dei Trattati, che non possono valere solo per taluni, ma devono essere impegnativi per tutti. Compresi quei Paesi il cui eccesso di surplus nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti equivale a violazione. Si poteva reclamare una politica reflazionistica, basata sull’aumento della domanda interna di quel Paese, per ridurre il surplus commerciale e quindi contenere la rivalutazione dell’euro. Oppure creare nuove strutture finanziarie – si pensi agli eurobond – per il rilancio degli investimenti o la messa in comune almeno di una parte del debito sovrano.
Dicevamo: c’era una logica in questo nostro modo d’operare. Nasceva dall’osservazione attenta dei dati drammatici della situazione italiana: una produzione industriale che continua a regredire, un tasso di crescita complessivo ben al di sotto delle rosee e comunque minimaliste previsioni governative, una disoccupazione che ricorda la grande crisi del 1929; un debito pubblico che continua a crescere a ritmi forsennati; una finanza pubblica fuori linea; una povertà sempre maggiore. E potremmo continuare. Oggi il governo si trova di fronte la drammatica prospettiva di un’indispensabile manovra correttiva. E che rischia di complicare una situazione già estremamente difficile. Se questo avverrà, sarà l’intero castello di carte a venir giù. Rimarrà solo la testimonianza di un’opposizione – la nostra – che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani indicando vie alternative, proposte concrete per evitare ritardi ed errori, dimostrando la più totale e completa disponibilità al confronto. Un’occasione che il governo ha clamorosamente mancato, ma che consentirà ad una forza politica come la nostra di ripartire. Nell’interesse profondo dell’Italia.
Per questo ancora oggi poniamo al ministro dell’Economia e delle finanze, Pier Carlo Padoan, 10 domande alle quali dovrà rispondere in Parlamento.

1. Quanto peserà in termini di deficit la crescita italiana più vicina allo zero che non allo 0,8% delle previsioni?

2. Con ogni probabilità l’Ue non accetterà la proposta dell’Italia di posporre al 2016 il pareggio di bilancio. Come verranno corretti i conti pubblici?

3. Come e quando il governo intende far fronte alle raccomandazioni della Commissione europea?

4. Il governo intende render strutturale il bonus di 80 euro ed estenderlo ai pensionati, ai lavoratori autonomi e ai cosiddetti “incapienti”. Costo: almeno 15 miliardi. Con quali coperture?

5. Nel tendenziale di finanza pubblica sono incorporati tagli da realizzare attraverso la spending review. Come si recupereranno le risorse che mancano all’appello?

6. Debiti della Pa. Per Banca d’Italia ci sono ancora 75 miliardi da pagare. Come farà il governo a saldare tutto?

7. Il debito pubblico italiano già a maggio è superiore di 25 miliardi rispetto alle previsioni del Def. Come si intende rimediare?

8. Nei primi quattro mesi del 2014 le entrate fiscali sono aumentate dell’1,4% contro un’ipotesi di crescita del 3,1%. Il buco virtuale è d circa 8 miliardi. Come colmarlo?

9. Nel tendenziale di finanza pubblica sono previste privatizzazioni per 10 miliardi l’anno per il prossimo triennio. I tentativi finora portati avanti si sono dimostrati un flop. Come recuperare il tempo perduto?

10. Il presidente del Consiglio ha più volte escluso l’ipotesi di una manovra correttiva. Alla luce dei dati forniti, ci può indicare come avverrà il miracolo?

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

L’ultimo bluff europeo del governo Renzi

Daniele Capezzone – Panorama

Purtroppo, a dispetto delle parole di autoincoraggiamento e autoconsolazione di Matteo Renzi, in Europa le cosa non cambiano affatto per l’Italia. Dopo la sequenza di incontri e vertici, conclusi dall’Ecofin dell’8 luglio, il quadro delle regole di austerità (parole e cortine fumogene a parte) è assolutamente invariato, così come permane la richiesta per l’Italia di «sforzi aggiuntivi» già per l’anno in corso: il che, tradotto in prosa, vuol dire rischio concreto di una manovra correttiva da 9-10 miliardi. Ma, perfino al di là del rischio-manovra, quel che conta in negativo è il permanere di tutto ciò che ha fatto male a noi e all’Europa: resta il Patto si stabilità, resta il 3 per cento, resta il Fiscal compact, restano tutti i vincoli esistenti che hanno prodotto la drammatica gabbia di austerità che ha contribuito ad affossare l’economia del Continente. Poi ci si può aggrappare a qualche parolina, a qualche espediente verbale nei documenti finali dei vertici, come il riferimento al cosiddetto «miglior uso della flessibilità esistente»: ma una parola buona in un documento non si nega a nessuno, da che mondo è mondo. Al massimo, alla fine della fiera, l’Italia potrà per esempio ottenere lo scorporo dai calcoli di qualche «zero virgola» di investimenti, ma stiamo parlando di aspetti marginali che non cambiano il quadro di fondo. Se infatti si resta nel quadro delle regole esistenti, il rischio di asfissia e di mancanza di ossigeno è assolutamente concreto, e non sarà una miniconcessione (ammesso che arrivi) a scongiurarlo. Quel che conta, politicamente, è che anche il governo Renzi accetta di sottomettersi politicamente alla volontà di Berlino e Bruxelles. E infatti Renzi e Pier Carlo Padoan devono ammettere che tutto sarà affidato a come la nuova commissione Ue (e in particolare il successore di Olli Rehn) interpreterà le cose.

Servirebbe, invece, una strategia del tutto alternativa. Se non saremo capaci, come nel mio piccolo suggerisco da tempo (si veda il mio saggio “Per la rivincita: software liberale per tornare in partita), di sfondare autonomamente il limite del 3 per cento per un piano di consistenti tagli fiscali, per un vero e proprio choc fiscale positivo, ovviamente accompagnato da riforme e corrispondenti tagli di spesa, allora vorrà dire che l’Italia avrà deciso di autoconsegnarsi a un destino di non-crescita e di subalternità. E questo è a maggior ragione vero se vogliamo tornare alla crescita, tema su cui il governo Renzi andrà incontro a cocenti delusioni. Al suo arrivo, il governo Renzi previde per il 2014 una crescita dello 0,8 per cento. L’Istat ha fatto scendere la previsione allo 0,6, l’Ocse allo 0,5, la Confindustria addirittura allo 0,2. Nel frattempo sono arrivati i dati reali, relativi al primo trimestre 2013, che ci hanno portato addirittura sottozero, cioè a meno 0,1 per cento. Se questa è l’aria che tira, se poi Renzi conferma le sue scelte fiscali (sulla casa, sul risparmio…), e se poi restano anche i vincoli europei, come pensiamo di poter tornare a una crescita decente?

Settembre sarà subito da brivido

Settembre sarà subito da brivido

Gustavo Piga – Panorama

Godiamoci questo agosto non pensiamo al rientro, perché a settembre saremo immersi in un dibattito dagli esiti imprevedibili sul come consolidare i conti pubblici di circa 30 miliardi nel 2015, via aumento di tasse e tagli di spesa, chiesto dall’Europa. In attesa che Renzi riesca a ottenere una moratoria sull’ottuso Fiscal compact, appoggiato anche dal referendum contro l’austerità per il quale stiamo raccogliendo le firme in tutta Italia, è d’obbligo chiedersi cosa si sta facendo per ridurre il tremendo impatto che potrebbe avere la manovra di cui sopra. Saprà il governo identificare in pochi mesi gli sprechi dentro la spesa ed evitare tagli di appalti a casaccio che uccidono imprese e occupazione? Filtrano poche informazioni. Alcune inducono a sperare, altre preoccupano. Tra le prime è la crescente collaborazione tra le istituzioni rilevanti per la spending review. Ne è prova la fusione tra Autorità Anticorruzione e Autorità per la vigilanza su contratti pubblici per migliorare le sinergie ispettive su una materia, gli appalti pubblici, che genera il 15 per cento del pil. Ma anche la lettera congiunta di Cantone e Cottarelli a 200 stazioni appaltanti che parrebbero non aver osservato l’obbligo di acquistare presso la Consip. Tra le seconde, spicca la decisione di dare rilievo decisionale al massimo a 35 stazioni appaltanti. Se è un bene ridurne il numero (sono decine di migliaia), preoccupa una scelta che rischia di far crescere la dimensione media delle gare escludendo il tessuto delle piccole imprese. Significherebbe non solo perdere i risparmi derivanti dal minor numero di stazioni appaltanti a causa della minore concorrenza, ma aggiungervi una minore competitività come Sistema Paese.

Il vero costo degli 80 euro

Il vero costo degli 80 euro

Giancarlo Mazzuca – Il Giorno

La priorità del neopresidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker? L’economia, quindi crescita e lavoro grazie a 300 miliardi da spalmare in 3 anni. Sembrano molti, in realtà sono cento miliardi all’anno, pari a poco meno dello 0,6% del prodotto lordo che è di 16.700 miliardi. Le priorità del “piè veloce” Renzi? Riforme del Senato e della legge elettorale che sicuramente non creano Pil. Anzi, emerge ora che, grazie al decreto degli 80 euro nelle buste paga, nei prossimi tre anni saranno tagliati trasferimenti dallo Stato alle amministrazioni comunali per oltre due miliardi, in aggiunta quindi ai 15 degli ultimi sette anni. Questo significa per il Comune di Milano 15-20 milioni in meno di trasferimenti statali. Per i milanesi invece o più tasse o meno servizi. Il lenzuolo, insomma, da noi è sempre più corto. Il ministro Padoan sostiene che «non ci sono scorciatoie per la crescita» ma questo non vuol dire che si debba continuare a bastonare i tartassati contribuenti italiani. Già uno su tre non va più a votare, un italiano su dieci è considerato dall’Istat indigente, uno su tre ha avuto nel 2013 sofferenze sul lavoro, in sei anni la disoccupazione è quintuplicata mentre quella giovanile è raddoppiata. Ma il debito pubblico continua a stabilire record, produzione industriale ed export sono altalenanti, dismissioni e privatizzazioni sono di fatto ferme, i tagli della spesa pubblica sono irrisori per timore di scatenare rivolte, paghiamo interessi per 80 miliardi pur avendo un debito simile a quello della Germania che paga invece solo 50 miliardi di interessi. Questi sono temi che a Renzi non piace affrontare, possiamo solo consolarci con il “servizio civile” per 40mila giovani promesso dal ministro Poletti.

L’impressione è che ci si muova a vuoto. Junker dà qualche pacca sulle spalle, Draghi dice che di flessibilità non se ne parla, il Fmi avverte che e medio termine «ci sono grossi rischi per l’eurozona di finire in stagnazione». Ma non eravamo fuori dal tunnel? Evidentemente non è così: il Pil americano è in forte calo; la produzione industriale nell’eurozona è ancora giù del 12% rispetto a sei anni fa; lo scivolone del portoghese Banco Esperito Santo ha colpito non solo il settore bancario ma anche gli spread sovrani di Italia, Spagna e Grecia. Ora i Brics – ossia Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – hanno dato vita a una banca di sviluppo alternativa al Fmi e alla Banca mondiale con riserve valutarie di cento miliardi di dollari. Noi invece assistiamo, contenti del nostro passo. Cioè fermi.

Parole Vs fatti

Parole Vs fatti

Davide Giacalone – Libero

La sola crescita cui si assiste è quella della distanza fra le parole e i fatti. Ed è impetuosa. Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, ha confermato, per l’ennesima volta, quel che qui avevamo visto e ripetuto: nessuno si faccia illusioni sulla “flessibilità”, perché gli impegni di bilancio presi devono essere rispettati. Sono mesi, quindi, che si parla di cose che non esistono o che, per quel che esistono, sono già comprese nei trattati, senza potere essere invocate per scorporare o non contabilizzare alcuna spesa pubblica. Di più: l’Eurogruppo ha sollecitato il taglio del cuneo fiscale, specificando che il mancato gettito deve essere compensato con minori spese o maggiori entrate. Le chiacchiere non solo valgono zero, ma costano e fanno perdere tempo.
Sono fra quanti non si sono mai stancati di ricordare che a fianco delle criticità pubbliche, con il debito fuori controllo e crescente e la spesa corrente che stronca le gambe all’Italia che corre, ci sono anche fattori di forza: dalla lunga serie di avanzi primari, per i quali siamo primatisti mondiali, alle esportazioni. Resta vero, ma ogni giorno di meno. Gli avanzi primari li dobbiamo anche alla crescente pressione fiscale, il cui sangue è riversato nel secchio sfondato del costo del debito pubblico. Le esportazioni le dobbiamo alla pervicace vitalità di un tessuto produttivo che non si arrende e che, al contrario dello Stato, ha capito e s’è adeguato alle regole della globalizzazione. Questa preziosa realtà è a rischio. In tredici anni abbiamo perso 120 mila aziende, sono sopravvissuti i più bravi e competitivi, ma il loro fiato s’è fatto corto, hanno progressivamente ridotto i margini di profitto, hanno tirato la carretta con rabbia e coraggio, ora si trovano davanti a tre possibilità: a. approfittare dei contatti e delle capacità, cambiando nazionalità e regime fiscale; b. resistere rinunciando al profitto e mangiandosi il patrimonio, puntando su un futuro in cui il fisco non continui a dissanguarli; c. chiudere.
Abbandonato a sé stesso, con governi che hanno pasticciato anche nel ristrutturare costosi e progressivamente inutili istituti per il commercio estero, divenuto corpo da cui estrarre gettito, il nostro settore delle esportazioni è stato condotto fino al punto in cui l’acqua lambisce la respirazione. Ancora poco e annega. Quello che era un punto di forza, e un motivo d’orgoglio, si trova in una situazione critica. Il tempo impiegato per il depauperamento e l’impoverimento è assai più lungo di quello necessario all’annegamento di massa. Dopo di che sarà la tragedia. E il governo che fa? Negozia l’impossibile flessibilità per quel debito, quel deficit e quella spesa che, invece, andrebbero prese a fucilate. Fa di più, il governo: si sdoppia, pretende di recitare tutte le parti in commedia. Ho letto con indignazione quel che il viceministro allo sviluppo economico, Carlo Calenda, ha scritto al Sole 24 Ore. Egli sostiene che il peso delle esportazioni è oggi pari al 30% del pil e andrebbe portato al 50. Bravo, concordo. Dice che la ripresa non può venire dal sostegno interno dei consumi, ma dal successo esterno delle esportazioni, che portano ricchezza reale e veri posti di lavoro: «per cogliere queste opportunità dobbiamo concentrare le iniziative sulla competitività dell’offerta piuttosto che sullo stimolo della domanda interna». Sottoscrivo. Aggiunge che si deve partire dalla riforma del lavoro «compreso il superamento dell’articolo 18» (statuto dei lavoratori). Che ci vuole «un taglio drastico dell’Irap, a partire dalle aziende esportatrici». Scusi, dott. Calenda, ma lei di quale governo crede di fare parte? Non si è accorto che è stato fatto l’esatto contrario? I mitici 80 euro sono sostegno (fin qui fallito) alla domanda interna senza un capello di produttività in più. In compenso l’Irap resta e le altre tasse sugli esportatori aumentano. Di che sta parlando, Calenda?a di abbozzare i conti e andare a votare. Ci fosse ancora un Parlamento si potrebbe anche supporre l’opportunità di un dibattito sul tema, ma in quelle Aule sono occupati a discutere di sé medesimi. Chi parla in pubblico s’intrattiene su minchionerie rottamatorie. Tutto si regge sull’atto di fede che i “nuovi” qualche cosa faranno. La Francia, assai mal messa, ma ancora non priva di classe dirigente, ha intanto in atto una manovra di tagli alla spesa pubblica per 50 miliardi. Occhio, perché il tempo corre e il tassametro gira.
Parole e fatti hanno divorziato. Ma mentre le parole scorrono a ruota libera i fatti vengono giù a rotta di collo. Sul debito pubblico Padoan dice una cosa e Delrio il contrario. Sulle politiche di sviluppo Calenda dice una cosa, ma il governo Renzi fa il contrario. Sulla flessibilità i giornali italiani parlando di cose che non esistono, mentre la sola preoccupazione del governo sembra essere quell

Che fare se la Sanità non regge più

Che fare se la Sanità non regge più

Luigi La Spina – La Stampa

In teoria, il nostro è il miglior sistema sanitario del mondo, perché assicura l’assistenza gratuita a tutti. Lo sarebbe senz’altro, se fosse vero. È questa una delle tante illusioni di cui l’Italia si è fatta vanto in questi anni, compatendo non solo i poveri americani che hanno dovuto aspettare Obama per contare su una sanità un po’ più accessibile, ma anche i vicini di casa europei che possono godere, forse, di strutture ospedaliere più moderne ed efficienti, ma che pagano di più per essere curati. Ora, sembra che non sia più possibile continuare a mascherare la reale situazione di disagio e, in alcuni casi, di vera ingiustizia a cui sono sottoposti tanti italiani che si ammalano, perché in molte regioni italiane la spesa pubblica per la sanità continua a crescere in maniera incontrollata, con il rischio che il nostro sistema di welfare faccia crac. Al di là dei solenni impegni di risanamento delle nuove giunte regionali, dopo la consueta denuncia degli sprechi attribuiti alla precedente amministrazione, i costi della sanità pubblica continuano a crescere per motivi del tutto comprensibili.

La prima causa è quella demografica: il continuo allungamento delle speranze di vita, confortante soprattutto per noi italiani rispetto alle popolazioni di altri paesi del mondo, lo è meno per chi dovrà fornire le cure indispensabili ad anziani sempre più numerosi. Anche perché sono arrivati e stanno per arrivare alla soglia della vecchiaia, generazioni nate dopo il secondo dopoguerra, nel periodo del cosiddetto «baby boom». Per tutti costoro dovranno provvedere i contributi allo Stato di figli e nipoti, poveri nel numero e ancor più poveri nella capacità finanziaria di stipendi a rischio di precarietà e di tagli imposti dalla crisi.

Pure il secondo motivo della futura insostenibilità del nostro sistema di welfare deriva dal progresso, quello della moderna medicina. Ormai i costi per procurare ai nostri ospedali le più avanzate attrezzature diagnostiche e chirurgiche, ma anche per assicurare ai malati i farmaci più recenti, sono aumentati in maniera impressionante. Né sarebbe augurabile che si facessero risparmi in questi necessari investimenti, pena una assistenza di serie B rispetto alle altre nazioni dell’Occidente. È vero, inoltre, che sprechi e inefficienze sono assai diffusi, ma sull’esito delle rituali battaglie propagandistiche dei nostri amministratori regionali è bene far poco conto: l’assistenza sanitaria è un enorme bacino di clientelismo politico, di potere baronale e sindacale, anche quando non si registrano casi di corruzione penalmente perseguibile. Queste fortissime macchine di resistenza corporativa innalzano muri di gomma di fronte ai quali anche i migliori propositi di riforma e di razionalizzazione delle spese sono destinati a infrangersi.

Ecco perché lo slogan del welfare all’italiana, «sanità gratuita per tutti», è una illusione che tradisce la realtà. Quella di chi, di fronte alle lunghissime liste d’attesa per un intervento chirurgico, per una visita specialistica, ma anche per un semplice controllo di prevenzione, è costretto a rivolgersi alle cure di una struttura privata, con costi salatissimi. Quella di numeri che dimostrano le evidenti contraddizioni del sistema, basti osservare che quel cinquanta per cento della popolazione esente da ticket costituisce l’ottanta per cento degli assistiti da parte del servizio pubblico nazionale. Quella di coloro che non possono usufruire dei cosiddetti «livelli essenziali d’assistenza», perché i deficit delle sanità regionali sono tali da costringere i dirigenti a ridurre personale e strutture anche in quei settori. È ora di colmare il divario insopportabile tra illusione e realtà del nostro welfare sanitario, prendendo atto di un sistema che non regge più e che, soprattutto, non reggerà più nel prossimo futuro. Assicurare l’assistenza gratuita a coloro che non si possono permettere le cure è non solo un diritto del cittadino, ma un dovere di uno Stato civile. Garantirlo a tutti non è più possibile e prometterlo vuol dire perpetrare una truffa.

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Rottamatore o tassatore? Il fisco di Renzi tra piani e realtà. Un’indagine

Claudio Cerasa – Il Foglio

Tasse e governo Renzi: dov’è la verità? Due giorni fa il presidente del Consiglio, quasi a voler confermare la teoria che i dossier economici costituiscono la prima vera e drammatica preoccupazione del governo, ha lasciato intendere che la prossima, delicata e rischiosissima legge di stabilità verrà presentata circa un mese prima rispetto alla scadenza prevista per il prossimo venti di settembre. Oltre al non scontato tema delle coperture (ci sono 24 miliardi da trovare, e nessuno ha ancora capito dove si troveranno) non c’è dubbio che il cuore anche culturale della politica economica del governo riguarda un tema sul quale Renzi, con la sua squadra di economisti, è stato stuzzicato domenica scorsa dal Corriere della Sera con un duro editoriale del professor Angelo Panebianco. La tesi del Corriere è che il governo non ha la forza e la volontà di mettere in campo una buona politica fiscale capace di rompere i vecchi tabù della sinistra conservatrice. Palazzo Chigi, lo ha scritto domenica su Twitter il consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, sostiene che le cose siano diverse e che andrebbe spiegato «al grande politologo che gli ottanta euro sono la più grande riduzione di tasse nella storia della Repubblica». Chi ha ragione? Cosa ha fatto il governo Renzi sul fronte fiscale? Cosa c’è da aspettarsi nei prossimi mesi?

I fronti da analizzare sono principalmente due e sono due punti che si trovano entrambi tra i dossier presenti sul tavolo del governo: da un lato le tasse ridotte e dall’altro quelle aumentate. Il presidente del Consiglio sa bene che la rivoluzione degli ottanta euro potrà considerarsi tale, ovvero una rivoluzione, solo a condizione che nella prossima legge di stabilità i dieci miliardi necessari per coprire il bonus previsto per il 2015 non verranno trovati spizzicando qua e là tra una mezza privatizzazione e qualche soldo guadagnato grazie al miglior rendimento ottenuto sui titoli di Stato. Ciò che occorre è, come si dice, una misura strutturale che possa dare continuità al bonus. E l’unica misura possibile e non transitoria è quella che si nasconde all’interno del pacchetto sulla spending review.

Nelle prossime settimane, entro metà agosto, il piano Cottarelli dovrebbe essere presentato nella sua interezza e a quanto risulta al Foglio sono tre i capitoli sui quali il governo ha intenzione di intervenire: le Ferrovie (per le quali solo nel 2014 lo Stato ha stanziato 4 miliardi), le municipalizzate (nel 2012 il Mef ha stimato che le perdite delle partecipate dei Comuni, soprattutto nel settore del trasporto pubblico locale, siano arrivate a raggiungere un miliardo e 200 milioni di euro) e la revisione dei dossier relativi all’acquisto di beni e servizi della pubblica amministrazione (7 miliardi stimati dal Mef). Il governo ha promesso che entro il 2014 metterà mano ai settori (entro dicembre il trasporto ferroviario e l’acquisto di beni e servizi, entro ottobre il trasporto pubblico locale), il sottosegretario alla Pubblica amministrazione Angelo Rughetti ha anticipato che entro luglio (manca poco però) verrà presentato un piano severo per ridisegnare le partecipate locali e non c’è dubbio che non esiste una credibile politica fiscale se questa non viene affiancata da una credibile politica di riduzione delle spese. «Se Renzi – dice una fonte governativa – avrà il coraggio di finanziare gli ottanta euro andando a toccare settori storicamente intoccabili come quelli legati alle municipalizzate la riduzione delle tasse potrà avere una sua consistenza. Viceversa, se così non dovesse andare, gli ottanta euro rischiano di diventare per Renzi quello che l’Imu è stato per Enrico Letta: un pasticcio». E il resto?

Alcune tasse sono state introdotte dal governo Renzi ma dal punto di vista formale (a parte la Tasi, che sostituisce l’Imu, ma che Renzi ha ereditato dal governo Letta, modificandone e peggiorandone alcuni aspetti) quasi tutte le nuove tasse previste sono state ideate per creare un gettito utile a ridurre altre tasse. Il provvedimento più corposo (scattato il primo luglio) è quello relativo all’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (l’aliquota è passata dal 20 al 26 per cento). Per quanto però sia una tassa discutibile da molti punti di vista (tassare le rendite finanziarie, come si sa, rischia di costringere gli investitori a puntare i propri risparmi solo sui titoli di Stato, togliendo quindi molta liquidità dai mercati) la tassazione delle rendite finanziaria è stata messa in campo per ridurre (di quattro miliardi) un’altra tassa, ovvero l’Irap.

Qualcuno, per esempio il professor Pietro Ichino, sostiene che sarà difficile che siano davvero quattro i miliardi che il governo riuscirà a ottenere dal gettito ricavato da questa tassa (Ichino sostiene che arriveranno a malapena 200 milioni di euro). Ma il principio portato avanti da Palazzo Chigi è sempre quello: non introdurre altre tasse se non per ridurre altre tasse. Andrà davvero così? La promessa è ambiziosa ma il Rottamatore, per non diventare un Tassatore, dovrà essere abile a fare i conti con la dura realtà. E se i dati sulla disoccupazione continueranno a essere preoccupanti (siamo al 12,6 per cento, due punti in più della media europea), il pil non la smetterà di scendere (ad agosto arriveranno i dati del secondo trimestre e a Palazzo Chigi sono convinti che il segno più ancora non ci sarà), la flessibilità non sarà così incisiva come Renzi si aspetta (da seguire il lavoro di Roberto Gualtieri, capo della Commissione economica del Parlamento europeo) il pericolo di dover introdurre qualche ulteriore tassa per tappare i buchi è più di un semplice rischio. Riuscirà Renzi a resistere alla grande tentazione? E soprattutto, in vista della delega fiscale che il Mef intende presentare entro la fine dell’estate, Renzi sarà in grado di dare forma in modo compiuto alla sua idea di rivoluzione del fisco?

Sulla delega fiscale il governo non è ottimista perché le rivoluzioni non si possono fare in cento giorni e forse i mille giorni sono un’ipotesi più realistica. Ma nell’attesa di capire quale direzione prederà il governo (che oltre alla tassazione sulle rendite finanziarie qualche altra tassa l’ha messa, vedi l’aumento del costo per il rilascio del passaporto, anche se il governo ha eliminato il bollo, vedi l’aumento di un euro a partire dal primo ottobre sui pacchetti di sigarette, vedi l’aumento delle tasse, su spinta della Siae, fino al 500 per cento, sull’acquisto di dispositivi dotati di memoria digitale) nelle ultime ore al Mef è maturata un’idea ambiziosa che merita di essere esplicitata. E la nuova sfida del governo riguarda una promessa da 32 miliardi fatta da Renzi al mondo degli industriali. Promessa che suona così: se mi consentiranno di andare avanti, di governare e fare i tagli alla spesa pubblica che intendo fare, tagli che dovrebbero essere equivalenti a 17 miliardi nel 2015 e 32 miliardi nel 2016, mi impegno a investire due punti di pil per portare il cuneo fiscale al livello dei grandi paesi europei.

Al momento, dunque, è esagerato dire che il governo non ha agito sul fisco (tecnicamente gli 80 euro sono configurati come un credito di imposta, e dunque sono formalmente una spesa, ma di fatto, per le persone che ne hanno beneficiato, rappresenta una riduzione dell’Irpef). Così come è esagerato dire che il governo sta facendo quello che nessuno ha fatto mai nella storia del paese (occorre vedere se le coperture diventeranno strutturali, se il governo riuscirà a mettere in piedi un sistema fiscale capace di attrarre nuovi investitori, e Renzi riuscirà a mettere in campo un sistema di norme fatto non per allontanare ma per attrarre persone fisiche ad alto reddito). Tutto può succedere ma solo una osa Renzi non potrà permettersi: dire che sul fisco non ha potuto fare quello che desiderava perché qualcuno gliel’ha impedito. La maggioranza c’è. La volontà pure. E in fondo, mai come in questo caso, l’unico nemico di Renzi si chiama proprio Matteo.

I documenti svaniti sui costi della politica

I documenti svaniti sui costi della politica

Riccardo Puglisi – Corriere della Sera

Dove sono finiti i 25 documenti Pdf che contengono le relazioni finali dei gruppi di lavoro della spending review di Cottarelli? Questi file sono stati consegnati all’inizio di marzo, ma sembra che siano rimasti chiusi in qualche (virtuale) cassetto. Esperienza personale: io stesso ho fatto parte di uno dei gruppi di lavoro – quello dedicato all’analisi dei costi della politica – e ricordo la data d consegna. Eppure posso leggere il documento solo andando a ripescarlo dal mio computer. Né io, né nessun altro, può leggerlo nel sito internet dedicato alla revisione della spesa.

Facciamo un passo indietro. Ho il sospetto che la famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico dal ’79 al ’90 – «Non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti» – trovi sempre più consensi in Italia, a motivo dell’asfissiante livello di pressione fiscale raggiunto. Il denaro dei contribuenti finanzia nel nostro Paese una spesa pubblica che sembra difficile da domare, specialmente nella sua parte corrente, cioè al netto degli investimenti. Con un anglicismo forse superfluo, il processo di revisione della spesa pubblica è noto dalle nostre parti come spending review. Esso viene delegato a commissioni tecniche, le quali devono identificare i capitoli di spesa meno giustificabili dal punto di vista sociale, e le sacche di inefficienza che non hanno alcuna giustificazione. Lo scopo finale è naturalmente quello di creare gli spazi per una riduzione consistente della pressione fiscale di cui sopra.

L’ultima esperienza di revisione della spesa è quella guidata da Carlo Cottarelli, su incarico del governo Letta. Sul sito revisionedellaspesa.gov.it esiste una sezione apposita chiamata Revisione aperta, all’interno della quale «[…] verranno inseriti progressivamente tutti i dati e le informazioni disponibili sulla spesa e sui dati raggiunti dall’attività di Revisione della spesa». Il dato di fatto è che i 25 gruppi di lavoro costituiti da Cottarelli hanno consegnato le proprie relazioni finali nel mese di marzo, ma la sezione è e resta desolatamente vuota. Il governo Renzi ha dichiarato di avere recepito molti dei suggerimenti forniti dai gruppi di Cottarelli, ma al momento non è possibile sapere con esattezza che cosa non è stato recepito.

Su questo tema, come accennavo, posso aggiungere qualche dettaglio proveniente dalla mia esperienza personale. Insieme ad altri economisti ho fatto parte del gruppo di lavoro – presieduto da Massimo Bordignon dell’Università Cattolica – a cui Cottarelli aveva affidato il compito di analizzare i cosiddetti costi della politica, sia a livello statale che a livello locale. I numeri sono importanti: ai primi di marzo abbiamo consegnato un file Pdf di 106 pagine, il quale riassume i risultati della nostra analisi. Con uno spericolato esercizio di estrapolazione posso immaginare che gli altri 24 gruppi di lavoro abbiano prodotto documenti simili al nostro. La domanda sorge spontanea: come mai questi documenti non sono liberamente consultabili all’interno della suddetta sezione del sito apposito?

Intendiamoci: sono ben lungi dal pensare che il governo debba passivamente recepire tutti i suggerimenti provenienti dai gruppi di lavoro della spending review. Evidentemente governo e parlamento hanno l’ultima parola sui tagli da farsi. La questione è un’altra, ed è di carattere procedurale: ritengo che i cittadini-contribuenti abbiano il diritto di sapere quali suggerimenti siano contenuti nei documenti della spending review, in modo tale da poter verificare che cosa è stato recepito dal governo, e che cosa non lo è stato. Il governo potrebbe anche spiegare le ragioni politiche o tecniche per cui ha deciso di non recepire questo suggerimento o quell’altro.

Nel novembre 2012 – durante la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico – Matteo Renzi aveva rimarcato la necessità di un Freedom of Information Act (Foia), cioè di un’assoluta trasparenza su documenti e informazioni della Pubblica amministrazione, per «combattere corruzione e inefficienze». Per quali strane ragioni il Renzi premier del 2014 deve «cambiare verso» rispetto al Renzi del 2012, lasciando chiusi nel cassetto i 25 documenti Pdf della spending review?

Se uno su dieci diventa povero

Se uno su dieci diventa povero

Tito Boeri – La Repubblica

Con la pubblicazione ieri da parte dell’Istat dei dati sulla povertà nel 2013, cominciamo ad avere un quadro abbastanza completo di cosa è successo alla distribuzione dei redditi in Italia in questa interminabile crisi. Bene chiarire subito che è stato uno shock senza precedenti nella storia repubblicana. Il reddito medio è calato in sei anni del 13 per cento, riportandosi ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo risalire al 1988, per capirci l’anno del disgelo fra Stati Uniti e Unione Sovietica, con la visita di Ronald Reagan a Gorbaciov nel freddo inverno moscovita. Bene che i politici e coloro che fanno informazione si ricordino di questo meno 13% nel commentare le prese di posizione delle rappresentanze di interessi che lamentano il calo dei redditi delle categorie da loro rappresentate. Nelle ultime settimane, ad esempio, abbiamo assistito ad un florilegio di comunicati che lamentavano il crollo dei redditi dei pensionati proprio mentre partiva la campagna di Cgil-Cisl-Uil per estendere ai pensionati il bonus di 80 euro del governo Renzi. Ma anche i dati più allarmanti (quelli rilasciati da Confesercenti) segnalavano un calo dei redditi dei pensionati inferiore al 10 per cento, quindi ben al di sotto di quello vissuto dall’italiano medio in questo periodo. Se poi si guardano i dati dell’Istat, ci si rende conto che quello dei pensionati è l’unico gruppo sociale i cui redditi siano addirittura aumentati almeno durante la prima parte della crisi, nella Grande Recessione del 2007-9, e come la fascia di età al di sopra dei 65 anni sia l’unica in cui la povertà non è aumentata in questi lunghi anni di crisi.

La cosa forse più sorprendente che si impara leggendo le statistiche (lo fa in dettaglio Andrea Brandolini su lavoce.info) è il fatto che in Italia, a differenza che in molti altri paesi, le disuguaglianze non sono aumentate, se non marginalmente, durante la crisi. C’è stato come uno spostamento verso il basso dell’intera distribuzione dei redditi, senza che le forti disuguaglianze che la caratterizzavano in partenza siano sensibilmente aumentate. Non ci sono oggi ragioni in più di quelle che c’erano prima della crisi per preoccuparsi di queste disuguaglianze. Ce ne sono invece molte di più per preoccuparsi della povertà assoluta, delle persone che vivono al di sotto di standard di vita decorosi, raddoppiate in sei anni, passando da meno di 3 milioni a più di 6 milioni. Lo ha certificato ieri l’Istat sulla base di dati sulla spesa delle famiglie, peraltro in coerenza con i dati sui redditi del rapporto Caritas.

Un altro luogo comune che viene fortemente messo in discussione da queste statistiche è quello sul ridimensionamento della cosiddetta classe media. Non c’è stata una polarizzazione dei redditi, con uno schiacciamento di chi sta in mezzo. Nel calo generalizzato dei redditi, la quota di reddito nazionale del 60 per cento di persone che hanno redditi superiori a quelli del 20 per cento più povero e inferiori a quelli del 20 per cento più ricco della popolazione è rimasta praticamente invariata dal 1985 ad oggi. C’è stato addirittura un incremento della percentuale di persone che appartengono alla classe media, definita come persone che guadagnano meno del doppio e più di tre quarti di chi si posiziona esattamente a metà nella distribuzione dei redditi. Questo perché non pochi far quanti erano inizialmente nelle parti alte della distribuzione sono scesi al di sotto del 200 per cento del reddito mediano, finendo così per approdare nella cosiddetta middle class. Questa al contempo ha perso famiglie che dalla classe media sono scivolate in condizioni di povertà.

Questi dati sono molto importanti per capire i problemi distributivi che stanno di fronte alla politica economica in Italia. Nel declino economico generalizzato del nostro paese e nelle due pesanti recessioni che abbiamo attraversato sembra esserci stato un arretramento complessivo, in cui tutti i decili della distribuzione del reddito hanno subìto un peggioramento assoluto. L’Italia è un paese in cui i problemi distributivi sono al contempo sempre più marcati e sempre più difficili da risolvere perché anche chi potrebbe “dare di più” ha già assistito a una erosione del proprio reddito e, dunque, in qualche misura si sente di avere già dato. È davvero il momento di preoccuparsi per la prima volta in Italia dei più poveri, degli ultimi degli ultimi, ignorati anche dai bonus di Renzi, che ha escluso i cosiddetti incapienti e i disoccupati. Bisogna offrire protezione di base anche a chi ha meno di 65 anni. Bene che chi ci governa sia consapevole del fatto che è illusorio pensare di costruirsi le proprie fortune elettorali con trasferimenti alla classe media. Oggi la classe media è troppo numerosa (si tratta di più di 34 milioni di persone) per i nostri vincoli di bilancio: nessun governo potrà mai attuare trasferimenti (o riduzioni di tasse) sufficientemente grandi per essere percepiti da chi appartiene alla middle class. Mentre la costruzione di un efficace paracadute contro la povertà per tutti costerebbe molto meno e verrebbe apprezzata anche dall’elettore medio. La lezione della crisi è infatti che anche chi ha redditi a metà tra i più ricchi e i più poveri rischia di precipitare nell’indigenza. È una lezione che capiscono molto bene le famiglie con figli minori: ne bastano due per avere un rischio di povertà doppio rispetto a quello dell’italiano medio. Ne sono perfettamente consapevoli anche gli elettori mediani, coloro che appena al di sopra dei 50 anni sono al contempo troppo giovani per la pensione e troppo vecchi per essere riassunti in caso di perdita del lavoro, per colpa di istituzioni, di regole contrattuali e regimi di contrattazione salariale che ci ostiniamo a non voler riformare.

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Non basta il lavoro per garantisti un futuro

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Non solo disoccupazione. Anche nel nostro Paese si stanno aggravando i fenomeni dei working poor e della in-work poverty. Il primo riguarda coloro le cui retribuzioni sono così basse che essi e le loro famiglie restano al di sotto della soglia di povertà. Il secondo coloro che, pur lavorando, rimangono ai margini e hanno alta probabilità di scivolare nella povertà o perché hanno compensi erosi da un’inflazione relativa, composta principalmente dai generi di prima necessità come abitazione e cibo, o perché sono a rischio di perdere l’impiego.
Secondo i dati della Commissione Europea, già nel 2012 il 29,9% della popolazione italiana era a rischio povertà ed esclusione sociale; tra i 28 dell’Ue ci superavano solo Romania e Grecia. Oggi, la proporzione supera il 30%. Sempre nel 2012, nell’Unione oltre il 12% degli occupati era da considerarsi working poor (con un aumento significativo rispetto al 9,3% segnato nel 2000): la crisi ha colpito particolarmente queste fasce sociali. In Italia la quota dei working poor (sul 10% degli occupati, prevalentemente i giovani) è inferiore alla media europea grazie in particolare alla bassa dispersione salariale prevista nei contratti nazionali di lavoro e a livelli salariali “mediani” contenuti e in linea con la media continentale. Sta crescendo pericolosamente, e velocemente, invece, la in-work poverty a ragione della riduzione delle ore lavorate (soprattutto per la cassa integrazione), della modesta intensità di lavoro all’interno delle famiglie (molto elevata la proporzione dei nuclei monoreddito), della scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale nel ridurre il rischio di povertà. Questi temi, che dovrebbero essere centrali nell’azione di Governo, sono analizzati in dettaglio in uno studio commissionato dal Cnel al Centro di ricerche per i problemi del lavoro e dell’impresa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A differenza di altri lavori in materia, l’analisi contiene un ventaglio di proposte puntuali per contrastare il fenomeno tanto degli individui (riduzione del cuneo fiscale, introduzione di un salario minimo legale) quanto delle famiglie (come disegnare gli incentivi per fare entrare nella forza lavoro coloro che, delusi, la hanno abbandonata). Se ne mostrano vantaggi e limiti proprio per facilitare scelte da chi ha responsabilità politica.