Edicola – Opinioni

Ristrutturare il debito senza scorciatoie

Ristrutturare il debito senza scorciatoie

Danilo Taino – Sette

Fino a qualche settimana fa il solo parlare di ristrutturazione del debito era tabù, un’azione per la quale essere accusati di disfattismo o di farneticazione. La questione non va nemmeno accennata – si diceva – per non mettere in agitazione i mercati. E comunque un Paese che vuole ristrutturare il proprio debito – cioè non rispettare gli impegni presi con gli investitori che hanno comprato i suoi titoli di Stato – non ne discute: lo fa. Ora, invece, persino nei salotti buoni si è cominciato a parlarne come se si trattasse di un gioco di società. Nel discutono gli economisti. La questione rimbalza su Twitter. Ne fa cenno – in una dimensione di accordo europeo e solidale – nientemeno che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio (che è poi la voce di Matteo Renzi ) Graziano Delrio.

Corre voce che il ministero dell’Economia attorno all’eventualità disegni scenari. La realtà da cui parte l’ondata inattesa del dibattito è che al 135% del prodotto interno lordo sarà difficile rispettare i vincoli di riduzione del debito pubblico previsti dal Fiscal Compact europeo. Sarebbe opportuno partire da un livello più basso rispetto ai 2.100 miliardi di oggi. Secondo uno studio molto approfondito del professor Paolo Manasse, due o trecento miliardi di debito in meno metterebbero l’Italia su un sentiero sostenibile di riduzione in linea con i vincoli dell’Eurozona. In più – dice l’economista – sul paino legale qualche forma di ristrutturazione è fattibile e le banche italiane, che hanno in cassa grandi quantità di titoli dello Stato, ne soffrirebbero non in misura drammatica.

Qui i casi sono due. O si pensa che la situazione sia disperata e che l’Italia non sia in grado di onorare gli impegni da sola, oppure si cerca una scorciatoia. Che il Paese ce la possa fare, in realtà, è stato dimostrato da una serie di altri studi: l’unica strada per farlo, però, è la riduzione seria e progressiva del perimetro dello Stato, la dismissione di proprietà (imprese pubbliche anche locali e patrimonio immobiliare) e passi indietro dell’ingerenza della politica nell’economia. Così, con un ampio di privatizzazioni, si può ridurre in buona misura il debito. E rispettando il Fiscal Compact si può evitare che i proventi di queste privatizzazioni vengano bruciati in poco tempo. Il resto sembra una scorciatoia che, quando i mercati si accorgessero che è una possibilità concreta, si trasformerebbe, allora sì, in una crisi del debito.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

Partita bancaria

Partita bancaria

Davide Giacalone – Libero

È dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.

Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.

Arriva di rincalzo Antonio Patuelli, ieri all’assemblea dell’Abi, ricordando una frase di Helmut Kohl, cancelliere tedesco: «L’unione politica è la contropartita indispensabile per l’unione economica e monetaria (…). È fallace si possa sostenere l’unione economica e monetaria senza unione politica». Bingo: ai tedeschi si deve imporre quel che i tedeschi dissero. Pacta sunt servanda, lo diciamo anche noi, mica solo loro. Il continuo richiamo di Patuelli alla necessità di regole e condizioni comuni, per il mercato bancario europeo, è il tasto su cui qui battiamo e ribattiamo. Ed è la musica che ci rende forti, mentre la giaculatoria della flessibilità ci rende deboli.

Tali regole non sono affatto comuni, oggi, è si traducono in svantaggi. “Sussistono penalizzazioni delle attività bancarie in Italia – ha detto Patuelli – rispetto alle concorrenti nella Ue: dal trattamento delle svalutazioni e perdite sui crediti a quello del costo del lavoro ai fini Irap, dagli interessi passivi nella tassazione societaria Ires e Irap, all’Iva di gruppo, dall’ampio ruolo di sostituto d’imposta a vari calmieri dei prezzi, fino alle addizionali sorprendenti e talvolta anche tardive”. Il tutto in capo a un sistema bancario, quello italiano, che al contrario di quello tedesco, francese o inglese (e di altri), non ha avuto salvataggi di banche a spese del contribuente, semmai l’opposto: il crescere della pressione fiscale.

Certo le difficoltà ci sono, pure grosse. In Italia, oltre una impresa su quattro è divenuta “deteriorata”. Le sofferenze lorde, nel periodo 2008-2014, passate da 43 a 166 miliardi di euro. Il complesso dei crediti deteriorati ha superato i 290 miliardi di euro (da 86,5 miliardi di fine 2008). Il deterioramento dei crediti è stato fronteggiato con giganteschi accantonamenti e con quasi cinquanta miliardi di aumenti di capitale, tutti privati e senza alcun intervento pubblico (capitolo a parte, e non concluso, quello del modo increscioso con cui s’è fatta la doverosa rivalutazione del capitare della Banca d’Italia). Gli altri sono lesti, e a ragione, nel far pesare i nostri ritardi e le nostre mancanze, che ci sono, ma noi siamo tardi e balbettanti nel far valere i nostri punti di forza, che ci sono pure quelli.

Anziché continuare a ripetere che l’Europa deve essere dei cittadini e non delle banche, concetto da cui si spreme lo stesso sangue che può essere donato da una rapa, sarà bene tendere l’orecchio verso quel tipo d’impresa, le banche, appunto, che senza una reale integrazione di mercato vedono prevalere gli egoismi e le miopie nazionali, che dell’Europa sono l’esatto opposto. Subendone un danno. Se proprio non si può resistere alla retorica, mettiamola così: ci vuole l’Europa dei correntisti, che siamo noi tutti cittadini, ove di mestiere non si faccia lo spacciatore e per vocazione l’evasore fiscale.

L’ottimismo del premier e la dura realtà

L’ottimismo del premier e la dura realtà

Gaetano Pedullà – La Notizia

Il premier si lamenta dei giornali che vedono nero, che evidenziano i dati negativi e ignorano quelli buoni, che raccontano di un’Italia in ginocchio. Ora, poiché di Giacomo Leopardi non se ne vedono in giro, il pessimismo è ovunque perché una cosa è la realtà e un’altra è il sogno di ciò che vorremmo. Se poi abbiamo a che fare tutti i giorni con dati come la produzione industriale in calo, i consumi ai minimi storici, il credito alle imprese da anni col segno meno, la disoccupazione in crescita e i mercati di nuovo lanciati verso la tempesta perfetta, allora è obbligatorio smettere di sognare e svegliarsi per non cadere inesorabilmente in questi incubi.

Perciò Renzi – che ha molti meriti per il lavoro dei primi quattro mesi di governo – convince poco quando ci racconta che il Paese ha ricominciato ad assumere (una goccia nel mare), che non ci sarà a breve nessuna manovra e si farebbe meglio a raccontare un’Italia diversa. La favoletta dei ristoranti sempre pieni l’abbiamo già sentita. Sarebbe meglio invece evitare di professare ottimismi piacevoli ma in questo momento fuori luogo e affrontare a viso aperto i problemi. L’Europa ci permetterà di tagliare le tasse che stanno ammazzando le imprese? Dopo gli 80 euro, il Governo farà altro per sostenere i consumi? Un’azienda che assume avrà gli incentivi che servono (mica il bonus assunzioni di Enrico Letta, servito infatti a poco)? Adesso sono in agenda le riforme costituzionali. Un passaggio necessario. Ma se Renzi vuol vedere un po’ di ottimismo e i numeri – che sono argomenti testardi! – non lo accontentano, allora tiri fuori le idee. Se son buone, i risultati e l’ottimismo verranno.

Del titolo V non parla nessuno

Del titolo V non parla nessuno

Pierluigi Mascagni – Italia Oggi

Il governo Monti aveva introdotto delle sanzioni a carico delle amministrazioni regionali che, per dolo o per colpa grave, portavano al default i loro enti. Fra queste sanzioni c’era lo scioglimento dei consigli regionali e l’incandidabilità per dieci anni dei presidenti delle Regioni. Senza sanzioni sono infatti molto improbabili i comportamenti corretti. Se dando posti di lavoro illeciti agli amici non se ne pagano poi le conseguenze, è evidente che questi amministratori continueranno nel loro andazzo dissipatorio. È vero che, operando in questo modo, essi mandano in fallimento i loro enti. Ma siccome un ente pubblico di fatto non può fallire, questi amministratori disinvolti sanno che arriverà sempre e comunque l’aiuto dello Stato per ripianare i bilanci (ci si può permettere, forse, di chiudere gli ospedali perché non ci sono più soldi nelle casse regionali?). E ciò consentirà loro di andare avanti nell’andazzo preferito che è lo spreco ai fini clientelari.

Purtroppo la Corte costituzionale, con sentenza 219 del 2013, rilevando un eccesso di potere da parte della Corte dei conti, ha cassato quelle misure e ha persino annullato l’obbligo della relazione di fine mandato che avrebbe il merito di mettere, nero su bianco, le responsabilità finanziarie del governo regionale uscente. Riscrivendo il titolo V della Costituzione si dovrebbe porre fine a questa limitazione, a beneficio della correttezza amministrativa. Tutti i politici preferiscono però usare milioni di parole sull’Italicum o sul Porcellum mentre non riservano alcuna attenzione alla dissipazione pubblica che sta alla base dell’insostenibilità dei nostri conti pubblici.

Pertanto il minuzioso rapporto di 247 pagine redatto dall’ispettore della Ragioneria dello Stato Antonio Ricchio, che inchioda alle stesse responsabilità le amministrazioni regionali calabresi Lojero e Scopelliti (quando c’è da sprecare soldi non c’è differenza tra il centrosinistra e il centrodestra) resta solo un’esortazione senza conseguenze. I mille dipendenti assunti illecitamente dalla Regione Calabria fanno marameo. Così capita con gli aumenti a raffica dei dipendenti della Regione Calabria, in deroga al blocco delle retribuzioni che hanno consentito a un funzionario di arrivare, nel 2013, a una retribuzione di 735mila euro l’anno.

L’autogol di Renzi: bloccati gli investimenti dei Comuni

L’autogol di Renzi: bloccati gli investimenti dei Comuni

Marco Palombi – Il Fatto Quotidiano

Quando si parla della fretta di Matteo Renzi, di una sua certa tendenza al superomismo da bar di provincia e a governare a colpi di piccone un grande Paese sembra si parli di critiche astratte, che il giudizio estetico faccia premio sul pragmatismo necessario al difficile compito dell’amministrazione. La storia che andiamo a raccontare dimostra il contrario: quei difetti comportano malgoverno e persino una certa schizofrenia. Mentre, infatti, l’esecutivo si batte in Europa (senza molto successo, per ora) per assicurarsi maggiore flessibilità nella spesa per investimenti, in Italia ha paralizzato di fatto la spesa in conto capitale (cioè gli investimenti) dei Comuni. Nota bene: coi consumi delle famiglie fermi per povertà o incertezza nel futuro, la domanda pubblica è l’unico volano di crescita possibile. Il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan e la Ragioneria generale sanno quanto serva a questo Paese.

Che la situazione sia questa non lo dice Il Fatto Quotidiano ma una lettera inviata dall’Anci (l’associazione dei Comuni) ai ministri dei Trasporti, dell’Economia e degli Affari regionali: c’è una norma, scrivono i sindaci, che «sta provocando il sostanziale blocco delle gare d’appalto, paralizzando anche attività già in parte avviate dai Comuni». Il paradosso è che la legge denunciata dall’Anci è il decreto Irpef, quello con cui Renzi ha dato gli 80 euro ai redditi medio-bassi: in quel testo, infatti, oltre a un folle taglio da 2,1 miliardi agli acquisti di Stato, Regioni e Comuni per il 2014, si prevede anche che le stazioni appaltanti scendano da 35mila a 35 in un paio d’anni (al proposito, il premier usò anche la relativa slide). E come si fa a fare questa rivoluzione? Di fretta. Dal primo luglio infatti – prevede il decreto – i Comuni non capoluogo (cioè quasi tutti) hanno il divieto di acquisire lavori, servizi e forniture in assenza di una Centrale unica di committenza. Le nuove stazioni appaltanti dovrebbero essere certificate da un’apposita anagrafe unica: di diritto vengono iscritte la Consip e le centrali regionali. Risultato: al momento l’unico modo è rivolgersi a Consip, visto che le altre centrali non esistono ancora. Peccato, denuncia l’Anci, che Consip non sia attrezzata per garantire – in tempi rapidi – le piccole gare di cui hanno bisogno i Comuni non capoluogo: tutto bloccato. Tutto cosa? potrebbe chiedersi il lettore. La risposta illustra meravigliosamente l’eterogenesi dei fini del governo degli slogan: sono fermi gli appalti per usare i fondi europei, la manutenzione generale e – dulcis in fundo – l’edilizia scolastica, il piano per mettere in sicurezza le scuole annunciato in pompa magna dal premier e che dovrebbe concludersi entro il 31 ottobre.

Il presidente dell’Anci Piero Fassino ha chiesto che il governo intervenga con un decreto ad hoc ai ministeri interessati di emanare subito una circolare che consenta «ai Comuni di continuare a svolgere le funzioni istituzionali, in considerazione dell’insussistenza di un congruo periodo di tempo per applicare la nuova previsione». Dalle parti di palazzo Chigi, però, non ci sentono e allora toccherà alla maggioranza provvedere con un emendamento nel decreto Competitività o in quello sulla pubblica amministrazione che fa slittare la nuova disciplina al primo gennaio prossimo per l’acquisto di beni e servizi e al primo luglio 2015 per l’acquisto di lavori. A Montecitorio Dario Ginefra, deputato pugliese del Pd, ieri ha lanciato un appello a favore dell’emendamento proposto da Anci: a sera avevano firmato 70 democratici.

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.

Così lo stato nasconde quanto spende

Così lo stato nasconde quanto spende

Franco Bechis – Libero

Il suo nome tecnico è “cruscotto”. L’ha ideato Sogei, la società di secondo livello del ministero dell’Economia che è il braccio informatico dello Stato italiano. Il suo aspetto è molto simile a quello di un cruscotto di automobile: una plancia attraverso cui tenere sotto controllo tutti gli indicatori della spesa pubblica. Compito che non dovrebbe essere più così difficile: da qualche settimana è diventata obbligatoria la fatturazione elettronica per tutti i rapporti delle imprese con la pubblica amministrazione e anche fra impresa e impresa. Una condizione ottimale per tenere sotto controllo la spesa pubblica, ma anche per controllare in tempo reale la qualità di quella spesa. Se ogni fattura finisce in quel cruscotto di Sogei diventa immediato controllare ad esempio i costi standard di ogni categoria di spesa pubblica. Basta puntare quel cruscotto su due diverse Regioni ad esempio per capire quanto pagano per uno stesso acquisto: dalle famose siringhe per gli ospedali alla fornitura di mobili per gli assessorati, di gasolio per il riscaldamento e così via. Il cruscotto di Sogei è pronto. La fatturazione elettronica è in grado di far arrivare dati di spesa in tempo reale anche per il più piccolo ente pubblico. Ma tutto questo al momento è solo un fantasma. Possibile, ma non esistente. Il governo di Matteo Renzi, come al solito straordinario nel recitare giaculatorie e slogan di trasparenza, non ha dato l’ok all’utilizzo dei cruscotti. E analoghe barricate arrivano dagli organi rappresentativi degli enti (Comuni, Città metropolitane, nuove Province, Regioni, enti pubblici economici). La battaglia la sta tentando in solitaria il presidente della commissione bicamerale di vigilanza sull’anagrafe tributaria, Giacomo Portas. Lui è un deputato del Pd, ma atipico: è stato eletto alla Camera per la seconda volta come indipendente e leader del movimento “I moderati” che in Piemonte, Liguria e parte dell’Emilia Romagna sono alleati del Partito democratico ottenendo spesso numeri a doppia cifra. «Il cruscotto di Sogei – spiega Portas – è l’uovo di Colombo: basterebbe metterlo sul sito Internet di ogni amministrazione pubblica, dai Ministeri al più piccolo dei Comuni. E i cittadini potrebbero controllare direttamente se la propria amministrazione di riferimento spende bene o male i suoi soldi grazie alla possibilità di confrontare lo stesso acquisto con il cruscotto di un’altra amministrazione. Così si potrebbe scoprire se è vero o meno che una siringa costa il doppio in alcune Regioni rispetto ad altre». Che sia l’uovo di Colombo è vero, il problema è che proprio chi spingeva tanto per la trasparenza, dal premier in giù, non ha alcuna intenzione di mettere quell’uovo in padella.

Le resistenze sono fortissime ovunque, e prima ancora di sperimentare quei confronti sono in mille a mettere le mani e a fornire giustificazioni alla propria spesa, sostenendo l’impossibilità di confrontarla con quella di altro ente analogo. Il ministero dell’Economia non è d’accordo, ma non tutti al suo interno la pensano allo stesso modo. Lo ha fatto capire il viceministro Luigi Casero, proprio davanti alla commissione bicamerale di vigilanza sulla anagrafe tributaria. Lì ha spiegato che la fatturazione elettronica era strumento necessario innanzitutto per censire quello che oggi lo Stato non sa: il debito che ha nei confronti delle imprese per forniture alle pubbliche amministrazioni: «L’obiettivo – ha spiegato Casero – era partire con l’obbligo della fatturazione elettronica nei rapporti con la pubblica amministrazione, in modo tale da far sì che lo Stato fosse esattamente a conoscenza di quanto fosse il debito nei confronti della pubblica amministrazione e di chi. Questo percorso è appena partito, anche se ci sono una serie di problematiche che devono essere risolte. Ancora adesso alcuni fanno fatica a mandare le fatture, ci sono problemi di codici: ci sono una serie di questioni che devono essere superate. Nel momento in cui ci sono i dati a disposizione , oltre alla certificazione del debito c’è anche l’analisi del debito stesso. Quando gli elementi sono a disposizione, l’analisi diventa un aspetto fondamentale di politica economica dello Stato perché a quel punto si può andare a vedere la spesa, com’è stata fatta, confrontarla con il costo standard e così via». Casero ha poi aggiunto a titolo personale: «Secondo me, anche relativamente alla trasparenza, questa è una cosa che deve essere assolutamente portata avanti».

Buone intenzioni, ma alla fine le cose stanno andando in maniera diametralmente opposta a quella che si dice. Sulla spesa dei vari Ministeri, sulle consulenze varie, c’è con il governo Renzi molta meno trasparenza di quella che esisteva un anno fa, e perfino rispetto a 4 o 5 anni fa. Il nuovo governo ha – al contrario – fatto oscurare ogni dettaglio di spesa e di fatturazione perfino nell’amministrazione di palazzo Chigi, dove Renzi guida il governo e ha pure da febbraio la propria residenza privata. Il cruscotto cui tiene tanto Portas è oscurato e la spesa se ne va in grande libertà. È un fallimento ormai conclamato, così come lo è stato il tentativo di centralizzare gli acquisti della pubblica amministrazione attraverso la creazione della Consip: pur di non comprare lì a minor prezzo si è tirata fuori ogni scusa e alla fine quasi tutte le Regioni si sono fatte le loro Consip, moltiplicando le centrali d’acquisto e ovviamente anche quelle di spesa pubblica.

Il mistero della fede sulla Tasi e la Chiesa

Il mistero della fede sulla Tasi e la Chiesa

Massimo Giannini – La Repubblica

D’accordo, va tutto bene. L’adolescenza nei boy scout e la messa domenicale da chierichetto. La fine delle ideologie e lo “sfondamento” nella mitica area moderata di centro. Ma c’era davvero bisogno che il premier riformatore Matteo Renzi consentisse uno sconto così generoso alle scuole cattoliche e alle cliniche private? L’esenzione dalla Tasi e dall’Imu, della quale beneficeranno questi istituti, è difficile da spiegare. Non è una questione di gettito (che pure non sarebbe trascurabile, visto che l’Erario ci rimetterà svariate centinaia di milioni). Ma quello che conta, ancora una volta, è il segnale che il governo lancia ai contribuenti. Un segnale pessimo, improntato all’ipocrisia e all’iniquità. C’è ipocrisia perché, con il patetico obiettivo di giustificare il misfatto, un sottosegretario all’Istruzione come Toccafondi (non a caso ciellino) sostiene che «le scuole private sono trattate come le pubbliche», e nel goffo tentativo di ridimensionare la portata dell’esenzione un sottosegretario all’Economia come Baretta ci racconta che le cliniche «pagheranno per l’uso delle sale o delle stanze in forma privata». Un’offesa alla sua e alla nostra intelligenza: che e come stabilirà che dentro una clinica qualsiasi quella determinata stanza è “ad uso privato” e quell’altra è “ad uso pubblico”? C’è soprattutto iniquità perché questa vocazione “francescana” dello Stato, che spinge il pubblico ad indossare il giusto saio della spending review ma allo stesso tempo a cedere un pezzo del suo mantello al privato, si verifica proprio nel momento in cui i cittadini “normali” sono sottoposti a una tosatura micidiale, almeno sul fronte immobiliare.

Conviene ricordare un po’ di numeri. Mentre scuole e cliniche private non pagano, le famiglie già quest’anno tornano a pagare una Tasi che costerà in media 240 euro, contro i 267 euro medi della vecchia Imu in vigore fino al 2012. Tra quelle che hanno deliberato le nuove aliquote, dodici città capoluogo hanno imposto una Tasi più alta dell’Imu. Si va dai 468 euro a Torino ai 439 euro di Genova, dai 430 di Milano ai 410 di Roma. La confusione è totale. La Tasi, Comune per Comune, avrà almeno 8.092 applicazioni diverse e più di 75.000 combinazioni possibili. L’unica certezza è la stangata. Anche perché il gioco delle detrazioni è calcolato in proporzione alle rendite e tra non molto, con l’aggiornamento di un Catasto fermo agli anni Cinquanta, i valori degli immobili si moltiplicheranno in qualche caso fino a 800 volte. A quel punto il bagno di sangue fiscale sarà inevitabile. Il mattone, che un tempo era una sicurezza, torna ad essere una iattura. Ma resta un mistero della fede: perché questa Quaresima, che vale per tutti gli italiani, non debba valere per la solita Chiesa cattolica, apostolica, romana?

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.