Edicola – Opinioni

Vendetta fiscale

Vendetta fiscale

Davide Giacalone – Libero

Da oggi è operativa la maggiorazione fiscale che colpisce il risparmio. Altri prelievi che saranno travasati nel vaso senza fondo del debito pubblico. Il governo s’è accorto che quello è il vero e grande problema, sostenendo, con Graziano Delrio, la creazione di un fondo europeo. Indirizzo corretto, ma impreciso: non siamo ancora agli union-bond per federare il debito, inutile chiederlo, mentre può essere interessante per tutti un fondo che scambi liquidità contro abbattimento del debito pubblico, prendendo in carico patrimonio da vendere. Ne abbia qui scritto. Provino a pensarci e a proporlo. Al contempo stiano attenti, perché anche solo ipotizzare il default è come chiamarlo.

Quel che oggi prende corpo è un incubo: maggiore tassazione del risparmio a cura di uno Stato che non riesce a risparmiare; cittadini che rinunciano ai consumi devono privarsi dei frutti della parsimonia per dare soldi a uno Stato che non rinuncia alla spesa improduttiva e non sa distinguere la spesa essenziale da quella superflua. A questo s’aggiunge l’abominio del canone Rai, chiesto con azioni estorsive verso partite iva e famiglie in cui i coniugi hanno residenze diverse. Qui non si tratta di trovare scappatoie, è il ministro dell’economia che ha il dovere di convocare i dirigenti di una società statale, diffidandoli dal continuare in una condotta oltraggiosa.

Non bastasse tutto ciò, sta anche prendendo piede un nuovo genere, quello della vendetta fiscale. Consiste nel sottrarre per via fiscale quel che si era ingiustamente o esageratamente dato, talora in termini patrimoniali, qualche altra in agevolazioni fiscali o contributi statali. Si può credere (o far credere) che una cosa compensi l’altra, in realtà entrambe scompensano tutto. La vendetta fiscale funziona come le faide fra famiglie mafiose: non si raggiunge mai nessun equilibrio, cresce il numero dei morti, si mietono vittime collaterali e ci si allontana sempre più dalla legalità.

Prendiamo due casi: a. la tassazione della rivalutazione delle quote Banca d’Italia; b. la tassazione del reddito da energie rinnovabili. Nel primo caso si realizzò una grande porcheria, che qui avversammo e che non ha ancora smesso di generare effetti negativi. Matteo Renzi, all’epoca, era “solo” segretario del Partito democratico e non volle in nessun modo intervenire. Lasciò che si facesse. Divenuto capo del governo e alle prese con i problemi di cassa, decise di aumentare la tassazione di quelle rivalutazioni, che erano altrettanti vantaggi per alcune (mica tutte) banche, portandola dal 12 al 26%. Provvedimento con effetto retroattivo, visto che l’operazione era già formalmente conclusa, ma i cui effetti fiscali dovevano ancora prodursi. Già che ci si trovavano hanno aumentato la tassazione sul risparmio, per l’occasione ridenominato “rendita”, facendola passare dal 20 al 26%. Sul primo punto sfruttando la suggestione che si colpissero quegli affamatori dei banchieri, in realtà venendo meno a quanto il governo della Repubblica aveva promesso, stabilito e decretato qualche settimana prima. Sul secondo alimentando la suggestione che le rendite siano una specie di furto alla collettività, quando, in realtà, si tratta anche di risparmi generati da redditi sui quali si erano già pagate le tasse. Il tutto a cura di un governo il cui ministro dell’economia sostiene che si dovrebbe far scendere la pressione fiscale.

Nel secondo caso, invece, si è partiti dal fatto (qui altre volte documentato) che i contributi alle energie rinnovabili (con diversificazioni interne al settore) erano stati ed erano, in Italia, troppo alti rispetto alla media europea. Anzi, per la precisione, erano alti e insicuri, spingendo gli investitori a massimizzare il profitto nei primi anni. Anziché mettere mano a quel sistema, anche aggredendo i “diritti acquisiti”, il governo ha preferito far salire la tassazione, presumendo redditi irreali e facendo finta di non sapere che dei troppo succosi contributi s’erano giovati i venditori e installatori di apparati (in gran parte costruiti in Cina o Germania), mentre i gestori degli impianti, anche quelli di medie e piccole dimensioni, sono imprenditori, specie agricoli, impegnatisi con finanziamenti a dieci anni. Cambiare le carte in tavola, quindi, ha penalizzato l’anello italiano di quella catena produttiva, spingendo taluni a portare i libri in tribunale e convincendo tutti a non fare più investimenti nel settore. Anche in questo caso la suggestione è: chi ha avuto troppo è giusto che si veda togliere qualche cosa.

Invece non è giusto affatto, perché con l’arma della vendetta è fiscale, senza cambiamento delle regole sbagliate, si ottiene il solo risultato di certificare come inaffidabili le regole e le leggi italiane, quindi lo Stato. E se sono inaffidabili, mutevoli nel tempo, sottoposte al vindice sciabordio degli umori popolari e delle speculazioni populiste, e se oltre a essere inaffidabili sono anche (come sono) appoggiate da una giurisprudenza che segnala come per i giudici italiani la retroattività delle norme fiscali è da considerarsi prassi virtuosa, anziché oltraggiosa, è evidente, direi “solare”, che nessuno sano di mente verrà a investire quattrini in un Paese in cui non puoi fidarti delle autorità, né ha senso invocare un giudice. A meno che non venga per portare via qualche cosa. Il che dovrebbe suggerire la stoltezza di una simile dottrina.

Doppio gioco fiscale

Doppio gioco fiscale

Il Foglio

Oggi scatta l’aumento dal 20 al 26 per cento dell’aliquota sui proventi di natura finanziaria (dividendi, cedole e interessi per i conti correnti, depositi bancari e postali) con eccezione di quelli soggetti a regimi agevolati; ossia i titoli di Stato, gli interessi corrisposti a intermediari finanziari non residenti per obbligazioni internazionali e i proventi dei fondi di previdenza complementare italiani e di quelli di previdenza europei. Queste limitazioni generano distorsioni che tendono ad accrescere il costo delle emissioni obbligazionarie e dell’erogazione del credito bancario. Ma soprattutto il loro effetto distributivo è opinabile. Sono misure che spaventano e confondono il piccolo risparmiatore, cioè il contribuente medio: lo sgravio di 80 euro per i percettori di redditi bassi (sotto i 26mila euro) viene finanziato con l’aumento della tassazione sulle rendite; e così il sollievo per uno sgravio viene “compensato” da un aumento della tassazione che riguarda il medesimo ipotetico soggetto. Cosa si vuole ottenere con un messaggio così ambiguo per il risparmiatore/consumatore? Non c’è dunque da meravigliarsi se non si vedono gli effetti benefici sulla domanda interna di uno sgravio di per sé opportuno: la politica di finanziare la riduzione d’imposte ad ampia diffusione con altre imposte – anch’esse operanti su un’ampia massa di contribuenti – genera una contrazione dei consumi che può sterilizzare gli effetti positivi del corrispondente sgravio fiscale. Può anzi dare luogo non a un risultato nullo, ma a uno negativo. Il solo modo di effettuare riduzioni fiscali benefiche perla crescita consiste nel coprirne il costo con il contenimento della spesa.

La bestia affamata delle Spa locali

La bestia affamata delle Spa locali

Massimo Giannini – La Repubblica

Tra i tanti capitoli del romanzo gotico della spending review, dimenticati o stralciati da Palazzo Chigi, ce n’è uno che inquieta più degli altri. È quello che riguarda le società partecipate degli enti locali. Una giungla di clientele, sperperi e corruzione. Il premier aveva tuonato contro quelle “8 mila Spa” che mungono la generosa mammella statale e municipale senza vantaggi per il cittadino contribuente. Ora lo scomodo commissario Carlo Cottarelli, che ogni tanto almeno in qualche convegno riesce ad uscir fuori dalla “clandestinità” alla quale lo obbliga il premier, ci informa che le cose stanno peggio di come le immaginavamo.
«Le società pubbliche – annuncia il responsabile della task force taglia-spese al quale hanno momentaneamente sottratto le forbici – sono almeno 10 mila, e non le 8 mila censite finora, e perdono 1,2 miliardi». A questo falò di denaro pubblico vanno aggiunti «i costi nascosti da contratti di servizio gonfiati e quelli a carico dei cittadini per tariffe eccessive». Uno scandalo nello scandalo. Non si capisce perché il capo del governo non ci metta mano, come per altro aveva annunciato fin dalle prime slide-conference. O meglio, si capisce benissimo. Basta ascoltare ancora Cottarelli: «Quello delle partecipazioni locali è un mondo molto differenziato. Ci sono le “strumentali”, spesso a rischio abuso perché costituite solo per creare occupazione, e ci sono quelle che gestiscono i servizi pubblici locali, che rappresentano il 20% delle partecipate ma raccolgono il 60% del fatturato». Dunque, almeno l’80% delle 10 mila aziende pubbliche partecipate dagli enti locali, oltre a generare ricavi irrisori, non servono a produrre alcunché, ma solo ad occupare gente. Bisognerebbe chiuderle: ma poi dove mandi le madri e i padri di famiglia che ci lavorano, e che magari ti votano pure? Bel problema. Com’è un problema la gestione di quel 20% delle partecipate che gestiscono i servizi pubblici, dall’energia al gas, dall’acqua ai rifiuti. Hanno un fatturato da 40 miliardi, ma staccano un dividendo annuo di appena 604 milioni agli enti locali, e soprattutto sono la bellezza di 1.100. Troppe anche queste, e soprattutto poco efficienti e non redditizie come dovrebbero e potrebbero essere. Ora, in un impeto nietzschiano di “volontà di potenza”, Cottarelli si sbilancia e promette che entro luglio scatterà il piano di “disboscamento” delle Spa locali. Speriamo che non sia l’ennesima fuga in avanti, e che almeno stavolta il presidente del Consiglio – al contrario di quello che è avvenuto con la manovra del bonus Irpef da 80 euro copra politicamente le indicazioni di razionalizzazione della spesa formulate dal suo commissario. Spiace citarlo, perché è stato lo slogan dei conservatori americani di Bush, ma soprattutto in quello zoo mangiasoldi c’è davvero bisogno di “affamare la bestia”.

Al timone sempre gli amici degli amici

Al timone sempre gli amici degli amici

Gaetano Pedullà – La Notizia

Siamo il Paese delle corsie preferenziali, dove i soliti noti fanno strada e tutti gli altri si arrangino. Diciamo la verità: questa sensazione ce l’abbiamo da sempre. Ma vederlo scritto nero su bianco dall’Antitrust fa tutto un altro affetto. L’Autorità che vigila sulla (non) concorrenza ieri ha messo in fila nella sua relazione al Senato tutti i difetti di un’Italia con troppi vizi. L’economia, per cominciare, resta dominata da un intreccio di relazioni, di favori tra amici degli amici, che permette ai gruppi dominanti di restare al comando pur senza innovare, investire, crescere. È il cosiddetto “capitalismo relazionale”, una sorta di estensione di quel “capitalismo familiare” sempre più marginale in un sistema globale. Chi si affaccia sul mercato con un’idea nuova, con voglia e capacità di creare, qui si scordi di trovare quel credito e sostegno che invece è naturale nelle economie aperte. E non finisce qui. La legge sul conflitto di interessi è insufficiente, le società pubbliche vanno completamente riformate, il mercato ingessato delle assicurazioni è scandaloso, con i prezzi della Rc Auto non a caso tra i più alti d’Europa. Società come Telecom godono di vantaggi inconcepibili in altri Paesi, a fronte di investimenti insufficienti sulla banda larga. Siamo il regno dei lobbisti, dove non si erano mai visti i portatori di interessi diventare addirittura consiglieri di amministrazione di grandi società pubbliche. Per questo facciamo poca innovazione. Migliorare, cambiare, comportano sforzi e rischi che uno Stato dominato da inciucioni non vuole correre. Poi non stupiamoci se il mondo corre e noi no.

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Le denunce generiche dovrebbero essere sempre bandite dalle relazioni di chi occupa ruoli istituzionali. Non aiutano a migliorare i problemi e fanno calare una cappa di negatività sull’intero marchio Italia. Se poi il richiamo alla «corruzione che è ovunque» viene addirittura dal procuratore generale della Corte dei conti, allora c’è davvero da rimanere disorientati. Non perché la corruzione nella pubblica amministrazione non esista, peraltro non è certo un fenomeno originale degli ultimi tempi, o non sia il problema, ma perché, nonostante tutto quello che si possa pensare, non è questo il principale problema della Pa italica. Operando da anni nel libero mercato del Belpaese posso confessare che non ho mai ricevuto richieste non legali dai funzionari pubblici delle molte e diverse amministrazioni incrociate sul campo del fare. Perciò, sparare nel mucchio della corruzione generalizzata e sistematica equivale a dare dell’Italia una rappresentazione domestica e soprattutto internazionale ingiusta e non veritiera. Se poi la situazione fosse così sideralmente distante dall’Eurozona, rimane sempre da capire per quale strana ragione la Corte dei conti più costosa dell’Ue non abbia saputo far nulla nel corso degli anni per ridurre un fenomeno tanto abnorme. Poteri di azione e risorse per agire, ripetiamo si tratta della Corte dei conti che costa di più ai contribuenti che la mantengono, non dovrebbero mancare. Il principale problema della Pa italiana, quello che zavorra il nostro Pil e che culturalmente ci condanna a essere europei di serie B, è la sua incapacità di conseguire risultati operativi nei tempi e con gli stessi costi medi che ci sono a Vienna, Berlino o Bruxelles. Se per liquidare un progetto di ricerca il Mise e le imprese di cui si avvale impiegano temporalmente fino a dieci volte di più dell’analoga istituzione di Helsinki, il problema non è la corruzione ma il fatto che la macchina amministrativa agisce su un binario morto. Produce carta fine a se stessa. Dieci anni dopo la nascita dell’euro la Pa italiana rimane anni luce distante dai processi amministrativi tedeschi od olandesi. È una zavorra organizzativa incatenata nel fare da un monopolio giuridico-formale che nulla riesce a produrre nei tempi e nei modi che la globalizzazione richiede. Il burocrate non fa perché ha sempre pronta la scusa per bloccare tutto: «Se agisco in maniera diversa, magari più spedita poi la Corte dei conti potrebbe chiamarmi in giudizio». È lì, nel pericolo potenziale dell’azione della Corte dei conti, che si consuma il declino italiano: fatto di una Pa costosa e per nulla capace di assecondare la modernità del business. Magari fosse tutto riconducibile alla sola corruzione.

Scommessa da 80 euro

Scommessa da 80 euro

Davide Giacalone – Libero

La scommessa degli 80 euro, fin qui, si dimostra vincente dal punto di vista elettorale e perdente sul fronte dei consumi, che non sono aumentati. Lasciamo da parte gli opposti fronti del partito preso, talché per i tifosi del governo sarebbe stata una grande svolta e per gli oppositori una gran presa in giro. I primi potrebbero sostenere che è ancora presto per valutare, i secondi devono prendere atto che il bonus c’è, in determinate buste paga (e che il provvedimento somiglia a quello sulle pensioni minime, alzate d’ufficio dal governo Berlusconi). È più interessante cercare di capire il perché questo modo di procedere non è in grado di risolvere alcun problema.

Due elementi sono evidenti a occhio nudo: 1. gli 80 euro non sono 80, chi ha di meno (quindi una maggiore propensione a consumare ogni centesimo che incassa) prende nettamente meno; 2. il bonus arriva in contemporanea non solo con gli aggravi fiscali relativi alla casa e al risparmio, ma anche in una caos tributario che delude, quando non cancella, ogni speranza di potere avere più reddito disponibile. Già questo tandem è bastevole a far passare ogni voglia di pedalare. Ma, anche qui, si potrebbe ottimisticamente sperare che una volta passate le scadenze fiscali, ove i soldi risparmiati non siano da quelle vaporizzate, passa anche la paura e tornano i consumi. Ed è qui, forse, che si nasconde l’errore più grosso.

L’Italia non è un insieme d’individui, ma di famiglie. Quando il presidente del Consiglio presentò questa iniziativa l’argomentò dicendo: una madre potrà andare una sera in più a mangiar fuori con le amiche. Ha ragionato, insomma, considerando quella madre come un individuo che fa i conti per sé. Nella realtà, però, quella madre (con il padre, i figli e i nonni) vive in un gruppo familiare, che ha visto, in questi anni, notevolmente scendere il reddito disponibile. Sicché il bonus va a compensare parte della perdita, non a creare un di più che sarà gradevole spendere.

Confesercenti ha calcolato che, dal 2008 a oggi, i pensionati hanno perso 1.419 euro di reddito. Circa 118 al mese. I nuclei familiari in cui ci sono dei pensionati sono anche fortunati, nel senso che hanno un cespite sicuro, ma 118 meno 80 fa pur sempre 38: mancano ancora 38 euro. Ci vorranno 17 mesi e mezzo per recuperare quel che si è perso. Sempre ammesso che non si continui a perdere e facendo finta che siano davvero 80. Con questo ritmo ne riparliamo nell’ottobre del 2015.

Confcommercio fa osservare che le nuove imprese che aprono sono la metà di quelle che hanno chiuso e chiudono. Considerando il reddito di quell’attività commerciale come componente di un reddito familiare ecco che cresce la distanza fra quel che si è perso e quel che si riprende. Con quella cresce anche la distanza temporale per recuperare, ammesso che sia mai possibile farlo. Ma se proiettiamo così avanti nel tempo gli sperati effetti del bonus da (meno di) 80 euro ecco che si entra in uno spazio nel quale non solo non è affatto detto che si stabilizzi, dato che le coperture trovate sono relative solo ed esclusivamente al 2014, ma c’è anche il rischio, negato a parole ma concreto nei numeri, che altri aggravi fiscali giungano a correggere i conti pubblici, oggi sbilanciati verso un deficit superiore al previsto (anche perché il prodotto interno lordo cresce di un terzo, quindi due terzi in meno, rispetto alle previsioni governative).

Il tutto assumendo che la crescita dipenda dalla ripresa della domanda interna, laddove sarebbe corretto considerare che la domanda interna dipenda dalla crescita. Che non è un gioco di parole, o il cane che si morde la coda, ma il cuore della scelta politica da farsi: tagliare le spese pubbliche per alleggerire la pressione fiscale sul mondo produttivo, quindi rilanciando la produttività e premiando l’Italia che ha continuato a correre ed esportare; oppure usare quei tagli (che siccome non ci sono diventano maggiore peso fiscale) per premiare i consumatori, senza alcuna contropartita produttiva. Il governo, con il bonus, ha imboccato la seconda strada. Credo sia corretta la prima. E se questo mio ragionamento non è sballato non serve a nulla attendere, se non a perdere tempo.

Matteo Renzi potrebbe rispondere: non sono così sprovveduto, e con me i miei consiglieri e ministri (oddio…), ho usato il bonus per avere maggiore forza e ora che l’ho avuta posso varare quelle riforme destinate a rendere credibile la prima strada. Magari fosse vero. Escluderei di accendergli un cero, ma sarei disposto al monumento equestre. Magari fosse. Gliecché, al momento, le riforme sono annunci, o abbozzi bozzolosi, e le tasse sono realtà. Così procedendo i conti non torneranno mai.

Mangiasoldi di Stato

Mangiasoldi di Stato

Alessandro Sallusti – Il Giornale

Nell’ultimo anno sono stati scritti fiumi di inchiostro per analizzare il fenomeno Grillo e quello dell’astensionismo. Si tratta di diversi milioni di voti in libera uscita da quella che è chiamata la «politica tradizionale». E giù spiegazioni sociologiche, a volte antropologiche. A mio avviso la questione è molto ma molto più semplice, e solo in piccola parte ha a che fare con il disgusto per gli scandali grossi e piccoli che la politica ha offerto alle cronache. L’esempio del doppio canone Rai per artigiani, commercianti e partite Iva è illuminante.

Milioni di italiani si sentono – giustamente – vittime di un’estorsione di Stato ma non un partito alza un dito, nessuno ascolta la loro rabbia, non uno che provi a porre rimedio al problema. Parliamo di almeno cinque milioni di cittadini che sull’argomento sono rimasti senza rappresentanza politica. Tace quel furbetto di Renzi, che a parole promette basta tasse e basta burocrazia ma che nei fatti si guarda bene dal tutelare i contribuenti dagli esattori abusivi della Rai. Tace, dispiace dirlo, Forza Italia, probabilmente timorosa di essere accusata di volere penalizzare la Rai a vantaggio di Mediaset. In generale tacciono tutti, perché la Rai ancora prima che tv di Stato è tv della politica, quindi cosa loro. Che se poi uno ci mette la faccia rischia pure la ritorsione di non essere più invitato a Ballarò o in una delle tante trasmissioni-passerella.

Mi metto nei panni di uno dei cinque milioni di italiani costretti a pagare una nuova e ingiusta tassa occulta. Che faccio alle prossime elezioni? Semplice: punisco chi mi ha gabbato, o almeno non ha provato a difendermi come avrei meritato. Oppure risolvo il problema a modo mio, andando a ingrossare, per legittima difesa, le file degli evasori fiscali. Perché l’evasione non è solo figlia della furbizia o della disonestà. Il più delle volte è un’inevitabile risposta a una tassa eccessiva o ingiusta, come lo è quella che la Rai vuole imporre a possessori di computer teoricamente in grado di connettersi con un canale tv.

Così come è successo sulla casa, la doppia tassa sul canone è la prova che il governo Renzi fa il gioco delle tre tavolette. Taglia gli sprechi ai comuni e alla Rai e poi permette che questi si rifacciano su di noi. Non c’è quindi da stupirsi che il cinquanta per cento degli italiani non vada a votare e un altro venti scelga Grillo. Sicuramente non è la strada per risolvere i problemi, ma a volte vendicarsi può lenire il senso di abbandono e quello di ingiustizia.

Balordi del debito

Balordi del debito

Davide Giacalone – Libero

La sola cosa che sbalordisce è che ci siano degli sbalorditi in circolazione, a cominciare dal ministro dell’Economia. Non c’era una sola possibilità al mondo che la Commissione europea non aprisse una procedura d’infrazione, per gli enormi ritardi con cui lo Stato italiano paga i propri debiti verso i fornitori privati. Non c’era perché la conferma di quei ritardi era certificato dal governo e dalle autorità italiane. Perché nessuno si disse sbalordito quando il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio, sostenne che quei debiti sarebbero stati pagati a partire dal primo trimestre del 2015? Non si accorsero che era cosa del tutto diversa da quanto aveva promesso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi? Noi, qui, lo facemmo subito notare. Chiedendo quel che continuo a chiedere: che fine ha fatto l’idea di utilizzare la Cassa depositi e prestiti quale garanzia bancaria per quei debiti? Lo hanno fatto gli spagnoli, lo ha proposto e ripetuto il presidente della Cdp, Franco Bassanini, lo aveva annunciato il capo del governo. Solo Pier Carlo Padoan non se n’era avveduto, sbalordendo.

Ma non basta: il 30 maggio scorso, in occasione delle considerazioni finali, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha detto, papale-papale, che quei debiti ammontano ancora a 75 miliardi (da 90 che erano stati stimati, e già è increscioso che si proceda a stime, non sapendo nessuno a quanto ammonta il totale, perché non si sa quali e quante voci sommare). Posto che i pagamenti fatti erano stati resi possibili da uno stanziamento del governo Letta, mettete assieme la cifra della Banca d’Italia alle dichiarazioni di Delrio e giungerete alla medesima conclusione cui è arrivata la Commissione. Padoan non aveva sentito, o non sbalordiva per buona creanza? Dato, allora, che lo Stato italiano è il peggiore pagatore d’Europa; che i tempi dei pagamenti dovrebbero essere di 30 giorni (60 solo in casi eccezionali); che quelli reali italiani sono fra sei e sette volte più lunghi; che si riconosceva l’incapacità di accorciarli, semmai solo di ridurne parzialmente l’ammontare; era inimmaginabile che la procedura d’infrazione non fosse innescata.

Veniamo alle colpe di Antonio Tajani, commissario europeo uscente ed esponente di Forza Italia rientrante. Confesso di non avere mai capito in base a quale meccanismo egli abbia più volte sostenuto che il pagamento di quei debiti poteva non essere contabilizzato nel deficit. Sarà mia incapacità, ma non mi convinceva. Sta di fatto, però, che quella tesi è stata sostenuta, da commissario, quando insediati erano governi non diretti dal suo capo politico. Di ieri, di oggi e di domani. A nessuno, in Forza Italia o altrove, fortunatamente, è venuto in mente di accusarlo di tradimento o scarso patriottismo di partito, e se avesse avuto ragione sarebbe stato un gran bene, perché i fornitori dello Stato si sarebbero trovati con soldi veri nelle casse. Ma accusarlo di scarso amor patrio perché prende atto che nulla si è fatto e si piega all’avvio della procedura d’infrazione, è grottesco. Tale accusa, oltre tutto, viene lanciata nello stesso giorno e sulle stesse pagine che annunciano il ribadito accordo sulle riforme costituzionali. Può darsi che Padoan si occupi solo di numeri, ma, a parte che non tornano, ammetterà che il suo sbalordirsi è balordo assai.

Tutto ciò senza dimenticare il punto centrale: lo Stato non riesce a pagare perché ha difficoltà di cassa e si barcamena nel tentativo di non sfondare i parametri (e fa bene, perché di tutto abbiamo bisogno, tranne che di pompare altro debito), ma ciò avviene giacché non riesce a tagliare le spese. Quella è la questione decisiva. Noi, che siamo personcine ragionevoli, non ci permetteremmo di farne una colpa esclusiva del governo in carica, ben consapevoli delle difficoltà. Ma è il governo stesso che s’insediò sostenendo che avrebbe pagato tutto e subito, nonché d’essere determinato a quei salutarissimi tagli. Invece: fumo tanto e arrosto nisba. Chiudano la bocca allocchita e asciughino i bulbi piagnucolosi, quindi, e la riaprano per farci sapere quel che seriamente vedono: tempi, modalità e quantità dei pagamenti da farsi.

La pietra al collo

La pietra al collo

Davide Giacalone – Libero

22 milioni di italiani ne mantengono 60. Fra i 22 ve ne sono che lavorano, ma non producono. Fra i 38 ve ne sono che producono, ma ufficialmente non lavorano. Leggere in questo modo il dato sulla disoccupazione aiuta a capire il problema, che consiste nel far lavorare regolarmente più persone, non nel creare più mantenuti. C’è un altro punto, nella lettura corrente, che appare capovolto: si reclamano soldi per creare lavoro, laddove sarebbe più logico lavorare per creare soldi. La mentalità dei mantenuti s’è così diffusa che il lavoro è interiorizzato non come funzione della produzione di ricchezza, ma come strumento per la sua più equa distribuzione. Da qui parte la catena di errori che si continua ad allungare, supponendo che dalla recessione si esca pompando i consumi, anziché rilanciando la produzione. Accettando che si dia una mano all’Italia che fa da zavorra, i cui costi sono la negazione della produttività, anziché una spinta all’Italia che ancora corre e porta a casa 400 miliardi di esportazioni (siamo uno dei cinque grandi con la bilancia commerciale, relativa a manufatti, attiva).
Quando leggo che nella pubblica amministrazione si suppone di potere ancora usare strumenti come i prepensionamenti e gli scivoli, che hanno precipitato l’Italia nel baratro del debito crescente, mi domando se chi ne parla è solo mancante di fantasia o proprio ignora la realtà. Quando sentiamo dire che si dovrebbe sfondare il parametro del deficit mi chiedo se nella mente di chi lo dice il debito ulteriore possa essere ripagato con balzi produttivi del 4-5% (stupefacente, nel senso della sostanza assunta), o suppongono che si possa tassare qualche altra cosa, così sprecando anche il debito ulteriore. Per portare quei 22 milioni a diventare non 23 ma 30 (chiamando al lavoro moltissime donne e moltissimi giovani che ne sono fuori), occorre togliere dal groppone di chi lavora il peso della spesa improduttiva e delle garanzie di cui i più giovani non godranno mai. Sì, anche rivedendo i “diritti acquisiti”, perché divenuti ingiustizia consolidata. L’elasticità e la permeabilità del mercato del lavoro non sono le porte della negazione delle garanzie, ma l’uscita di sicurezza per non avere garantita la disoccupazione odierna e l’impoverimento perpetuo.
Il decreto sul lavoro a tempo determinato, pur con qualche bozzo, va nella direzione giusta. Ma perché accontentarsi di segnali e direzioni? Perché non varare subito la normalità dei contratti con minori oneri fiscali e previdenziali, in cambio di minore stabilizzazione e immobilità? Il ministro del lavoro, Giuliano Poletti, avrebbe ragione nel rispondere: intanto questo lo abbiamo fatto. È così. Ma perché poi sente il bisogno di aggiungere che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori non si tocca? Cancellarlo può anche darsi che sia una bandiera ideologica, ma lo è anche immolarvisi. Ed è una presa in giro, perché è come dire: lo conserviamo, ma dimenticatevelo. Non è onesto. Ed è uno strizzare l’occhio all’Italia zavorra, sputando nell’occhio all’Italia che corre.
Il nostro mercato interno è stato gettato in mare con una pietra al collo, ma reagisce stringendosela al petto e non volendola mollare, quasi fosse l’ultimo scoglio sicuro. La reazione è comprensibile, perché dettata dalla paura. Ma l’unica cosa di cui avere paura è di restare con un terzo degli italiani che ne mantiene due terzi. O con l’elasticità relegata nel mercato che degrada dal grigio chiaro al nero notte, così affidandosi all’illegalità quale valvola di sfogo contro l’immobilità. Il riflesso politico di questa paura è il voto indirizzato a chi promette aumenti di reddito cui non corrispondono aumenti di produttività. Come se non fosse chiaro che quella è la via della perdizione. Non si può ragionare in due tempi: intanto dono, poi riformo. Questa formula porta a un doppio tempo diverso: ora regalo, poi me lo riprendo (con le tasse).
C’è in giro gente che cita Keynes, supponendo sia stato il teorico dello stampare denaro per finanziare i consumi. Figuriamoci: la Teoria Generale è del 1936, mentre la Repubblica di Weimar, e il suo stampificio di moneta, era crollata nel 1933! In un suo mirabile scritto ancora precedente (The End of Laissez-Faire, 1926) avverte di un pericolo: lo stato di povertà e bisogno convince tutti della necessità di cambiare, ma quando non se ne hanno più gli strumenti; mentre lo stato di ricchezza e soddisfazione toglie l’incentivo a cambiare, proprio quando sarebbe più facile e opportuno. Noi siamo in un punto di mezzo, convivendo con la ricchezza diffusa e il diffondersi della paura. Il tempo che stiamo perdendo non ce lo ridarà nessuno.