Edicola – Opinioni

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Giuseppe Pennisi – Avvenire

C’è ancora una via d’uscita dalla ‘trappola’ del debito greco? Trappola che potenzialmente coinvolge tutti, perché dopo l’eventuale default, Unione europea e Unione monetaria non sarebbero più le stesse. Su un punto cruciale, in ogni caso, i giuristi non sono d’accordo: può uno Stato restare nell’Unione se esce da un’area valutaria comune (l’Eurozona) in cui è entrato liberamente accettandone le regole, tra cui quella dell’irreversibilità? Anni fa un parere dell’ufficio legale Bce concluse che uscita volontaria o meno dall’euro voleva anche dire addio alla Ue (mercato unico, politica agricola, fondi strutturali). Oggi tale interpretazione è messa in dubbio da numerosi giuristi.

Proviamo però a fare due conti. All’ultima rilevazione della Banca per i regolamenti internazionali (Bri), il debito pubblico greco ammontava a circa 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fmi e il 6% dalla Bce. Il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro, è in mano agli altri governi dell’eurozona. Inoltre: 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (ossia il ‘Fondo salva-stati’), 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri Stati UE. Oggi i più esposti sono la Germania (60 miliardi), la Francia (46 miliardi), l’Italia (40 mi-liardi), la Spagna (27 miliardi) e l’Olanda (12 miliardi). Una famiglia di quattro persone deve pertanto ricevere dalla Grecia circa 4700 euro se tedesca, 4500 se francese, 3800 se italiana.

I crediti del Fmi e della Bce, va ricordato, sono ‘iperprivilegiati’, poiché su tale privilegio si regge l’intera impalcatura finanziaria internazionale. Il Fmi , in particolare, deve ricevere da Atene 1,5 miliardi di euro in giugno, in quattro rate (5,12, 16 e 19 giugno). Se Atene non onorerà questo debito, non sarà possibile trovare una via d’uscita e la pratica passerebbe di fatto agli avvocati.

Si potrebbe tentare di evitare il peggio se anzitutto gli Stati creditori aiutassero la Grecia a far fronte alle scadenze nei confronti di Fmi e Bce. I creditori dovrenbbero inoltre accettare una dilazione ulteriore dei pagamenti a loro dovuti, con Atene, però, disposta a un monitoraggio molto stretto sulle riforme (dovrebbe in pratica accettare una nuove missione dei creditori in residenza in Grecia per tutto il tempo necessario).

La “tattica” (e i costi) per  mantenere Atene nell’euro

La “tattica” (e i costi) per mantenere Atene nell’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Alla vigilia del Consiglio europeo di Riga, in particolare degli incontri con Merkel e Hollande, Tsipras ha ostentato ottimismo e un “accordo di reciproco vantaggio” i cui contenuti sono ancora da definire. Varoufakis è stato ancora più dettagliato: “La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte”, ha dichiarato, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. “Ci chiedono casse in pareggio con il 27% di disoccupazione”, si è lamentato il ministro delle Finanze di Atene. Né Tsipras, né Varoufakis hanno dato l’impressione di contare sull’appoggio di Renzi come mediatore o “pontiere”; si sono resi conto che nel consesso europeo il Presidente del Consiglio italiano ha problemi (da ultima gli è giunta la vera e propria “mazzata”, anche se piccola, sul reverse charge relativo all’Iva) e non è in una posizione di chiedere comprensione per altri dato che ne deve chiedere per se stesso.

Continua a leggere su IlSussidiario.net

 

 

Famolo all’irlandese

Famolo all’irlandese

Davide Giacalone – Libero

Come è possibile che un Paese cattolico, come l’Irlanda, voti massicciamente a favore del matrimonio fra omosessuali? Risposta: lo fa proprio perché è un Paese cattolico. Succederebbe la stessa cosa in Italia. Ed è frutto di un cortocircuito logico, propiziato da una profonda confusione culturale e da un’abbondante dose di conformismo falsoprogressista.

Le tre religioni monoteiste coltivano un’idea peccaminosa del sesso. Hanno un’impronta sessista, che si riflette variamente nella preclusione del sacerdozio, nella selezione delle platee nei luoghi di preghiera, nel separare o interdire l’accesso ai luoghi sacri, nel differenziare le coperture corporali. Restiamo a casa nostra, per non allargare troppo il discorso: il sesso cessa d’essere peccaminoso, perde la tinteggiatura lussuriosa e assume la luce procreativa, quando esercitato all’interno del matrimonio. La forza di tale principio, o, se preferite, di tale tabù, è così pervasiva da essersi tradotta in molte leggi civili, che imponevano l’indissolubilità del vincolo e la condanna dell’adulterio. C’è voluto del tempo, per scalfirle. E la leva grazie alla quale s’è divelto quel totem è consistita e consiste nell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, oltre che nella tutela dei diritti individuali. Ma il tabù resta, pur mescolandosi con un malinteso modernismo.

Se, quindi, restiamo convinti che il sesso sia benedetto solo all’interno del matrimonio, e se abbiamo imparato che il matrimonio non deve più essere il contenitore esclusivo, impermeabile e inviolabile, di un tempo, perché mai negarlo agli omosessuali? Non c’è ragione. Ecco perché, proprio in quanto cristiani (i cattolici sono una parte di questa più grande famiglia), si ritiene opportuno non impedire ad altri quel che si considera giusto per sé. L’equivoco deriva dall’opposizione delle gerarchie, specificatamente di quelle cattoliche. Ma, se è per questo, le istituzioni ecclesiastiche sono contrarie anche al matrimonio civile, considerandolo (giustamente, dal loro punto di vista) solo una formalità giuridica, avente valore inferiore al sacramento.

L’allargamento delle forme di matrimonio, per i ministri del culto, equivale alla perdita, erosione e poi quasi vaporizzazione di un monopolio. Tanto da avere abbassato tutti gli ostacoli per l’accesso ai sacramenti, con il risultato di trasformarli in riti e feste. Moltissimi dei ragazzi che accedono, a quelli precedenti il matrimonio, non è che non abbiano idea delle scritture sacre, è che ignorano anche il catechismo. Però si portano dietro il tabù, che generosamente allargano agli omosessuali. Se non fosse per quello sarebbe chiaro che il problema, senza distinzione di sesso e sessualità, non è quello di legiferare aumentando le tipologie dei vincoli di coppia, ma di farlo allargando i diritti individuali. Esempio: devo potere lasciare i miei beni, farmi assistere, delegare decisioni che mi riguardano, anche a persone con cui non necessariamente debba accoppiarmi. Il rapporto sessuale dovrebbe essere affare privato, mentre diventa pubblico ciò che vincola terzi, ma che è saggio regolare sulla base della libertà individuale, non di coppia. Con una granitica eccezione, naturalmente: quando nascono figli, che vanno tutelati con la legge.

L’idea bigotta che il sesso, per non essere peccato, comporti una scelta monogamica e matrimoniale (salvo poi violarla in tutti i modi possibili e immaginabili), frullata con l’idea falso- progressista che a quell’altare debbano potere accedere tutti, ha generato il tabù post moderno delle nozze gay. Dissentire da questo conformismo, che attira superficialità di destra e sinistra, sopra e sotto, espone al rischio d’essere accusati di sessismo e servilità vaticana. Più o meno l’opposto cui conduce il ragionare. Che comporta un impegno, però, sconosciuto al festeggiare.

Illusioni pensionistiche

Illusioni pensionistiche

Davide Giacalone – Libero

Il sistema pensionistico futuro è in equilibrio. Ciò si deve a un lungo processo riformatore, iniziato con la riforma Dini e concluso con la riforma Fornero (15 anni!). Il governo fa bene a proporre la possibilità di pensionamento anticipato, perché in un sistema interamente contributivo ciascuno prenderà in ragione del versato e della speranza di vita. Prima va in pensione e meno versa. Fa male, però, a inoculare illusioni e paure: anticipando la pensione non si perderà «qualcosina», ma molto. Né potrebbe essere diversamente, se non si vuole riscassare un sistema fra i più equilibrati d’Europa. Con un non trascurabile dettaglio: le pensioni saranno basse. Per i giovani la cui carriera lavorativa e discontinua saranno bassissime. Il sistema, pertanto, si regge solo a patto che ciascun lavoratore si rassegni alla miseria o investa nella previdenza integrativa. Cosa resa difficile da una pressione fiscale forsennata.

Il sistema resta squilibrato perché squilibratissimo è il passato. Ogni anno lo Stato spende il 16,5% del Pil per pagare le pensioni. È una quota senza paragoni fra le democrazie sviluppate. Contiene, però, due zavorre: a. si trova sotto la voce «pensioni» quel che dovrebbe stare al capitolo «assistenza» (per cui chi dice che la nostra spesa sociale è bassa, rispetto ad altri europei, non sa far di conto); b. all’incirca la metà delle pensioni attuali non è retta da adeguati contributi versati. La differenza è un trasferimento di ricchezza da chi lavora oggi a chi lavorò ieri. Sono regali fatti in nome di «diritti acquisiti» che, talora, sono solo contributi figurativi (come Renzi, del resto, che diventa dirigente d’azienda prima che la Provincia di Firenze cominci a pagare per lui i contributi previdenziali).

L’informazione sui vitalizi parlamentari (che non sono nel conto delle pensioni, ma restano spesa pubblica) è preziosa perché dimostra che non si regalano soldi ai poveri, ma ai privilegiati. Quei numeri servono la soluzione su un piatto d’argento. Se solo si è in grado di capirli. Il valore assoluto dei regali agli ex parlamentari non è tale da risolvere altri problemi, ma il ricondurli alla ragionevolezza contabile ha un valore altissimo. Si chiama: buon esempio. Al contrario, decurtare l’adeguamento all’inflazione per le pensioni più alte è un’ingiustizia che configura un’incostituzionalità. Se le pensioni si dividessero in rette o meno da contributi versati, avrebbe un senso, per le seconde, un adeguamento deflattivo, mentre sarebbe un furto per le prime. Se prendo in ragione di quel che ho versato la mia pensione non è alta o bassa, è mia, sicché punirmi (dopo avermi costretto a versare) è da assatanati. O da incapaci, che avendo ereditato un sistema in equilibrio futuro non sanno dove mettere le mani per riportare un accettabile equilibrio anche per il presente.

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Conflitto d’interessi per l’autostrada Veneto-Trentino

Davide Giacalone – Libero

Ogni tanto riemerge il tema del conflitto d’interessi, normalmente targato con nome e cognome. Sarà bene rendersi conto che ci sono anche conflitti d’interesse di tipo istituzionale, che guastano non poco la credibilità italiana nell’attirare e promuovere investimenti. Ce ne ha dato dimostrazione, da ultimo, il ministro Graziano Delrio. Da anni si tenta di completare un’avviata opera autostradale, quella della Valdastico, che dovrebbe collegare il Veneto al Trentino, attraverso la Val d’Adige. La cosa era ritenuta necessaria anche dal governo in carica, tanto che la inserì nello «Sblocca Italia» e la portò al Cipe. Poi, però, le cose si sono fermate, lasciando incompiuti i lavori.

Qui m’interessa l’aspetto istituzionale ed economico. Il blocco è stato causato, ha spiegato il ministro Dehio, dall’opposizione della provincia di Trento. Si dà il caso, però, che quella provincia sia socia dell’autostrada potenzialmente concorrente, quella del Brennero. E si dà il caso che fra quei soci ci sia anche la città di Reggio Emilia, di cui era sindaco e rimane parlamentare Delrio stesso. Quegli enti locali partecipano del processo decisionale, fino a disporre addirittura del veto (il che ha assai dubbia legittimità), relativo a lavori che sarebbero conconenti con le società di cui loro stessi fanno parte. Non riesco a immaginare un più monumentale conflitto d’interessi.

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Davide Giacalone – Libero

Stiamo assistendo all’ennesimo spreco. La Camera dei deputati vota la riforma della scuola, consegnandola al Senato in un tripudio di politichese fine a se stesso. Ma per l’istruzione è ancora un’occasione persa. Per anni, ancora, parleremo di riforme scolastiche, con un percorso lineare che, a confronto, l’arabesco sembra un’autostrada nel deserto. Vediamoli, i punti qualificanti della riforma. Ma prima osserviamo il contesto: l’opposizione di destra non è riuscita a trovare una posizione o una tesi che ne rendesse distinguibile la politica; quella di sinistra, interna ed esterna alla maggioranza, insegue fantasmi e slogan che la relegano fra i ferri vecchi di un ideologismo estraneo alla realtà; il ministro dell’Istruzione non ha avuto alcun ruolo significativo, se non quello di essere rimasta al suo posto, cosa che deve all’avere cambiato partito, tradito gli elettori e trasmigrato trasformisticamente nel partito del nuovo capo; il governo esulta per la vittoria, ma, come vedremo, su non pochi punti mente sapendo di mentire. Ora la carovana trasloca al Senato, ove la più risicata maggioranza rende più emozionanti i voti. Il tutto, però, ignorando la sostanza. Cui ora mi dedico, dividendola in 8 punti.

1. ASSUNZIONI

La sostanza più sostanziosa consiste in 160mila assunzioni. Roba da matti, ma è così. Quanti insegnanti servono e a cosa, quindi di cosa devono essere capaci, sarà stabilito dopo averli assunti. Che altro devo dire? Giusto che 100mila sono promessi per quest’anno, dalle graduatorie a esaurimento. Quelle in cui c’è tanta gente che non ha fatto nulla di male, ma non ha mai neanche fatto un concorso. Cittadini truffati, che a loro volta incarnano una truffa. Per assumerli con un pizzico di cervello occorrerebbe fare i piatti entro giugno, quando la legge non sarà stata approvata. Quindi, delle due l’una: o non verranno assunti, o lo saranno a piffero. Propendo per la seconda. Intanto si vota, poi si vede. Achille Lauro sarebbe commosso. Assunta questa massa di persone i precari non saranno esauriti, quindi andranno a prender punti di vantaggio in un ipotetico futuro concorso. Mentre passano in coda quelli che il concorso lo hanno fatto e vinto, nel 2012. Pensare che la scuola sia un diplomificio non è bello, ma questa è un assumificio, che è pure peggio.

2. AUTONOMIA

La legge sventola la bandiera dell’autonomia scolastica. Al punto che nasce il Ptof (Piano triennale di offerta formativa). Il fatto è che quella bandiera garrisce al vento già da tempo, senza che abbia prodotto nulla di men che ridicolo. La libertà culturale non può essere territoriale, semmai individuale. Ha un senso se le famiglie possono scegliere la scuola, portandosi dietro i soldi. L’autonomia è una gran presa per i fondelli, se poi tutto confluisce nell’esame di Stato che presiede al totem baluba del valore legale del titolo di studio. Il Ptof «esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia». Vorrei sapere cosa ha studiato chi compita in tal modo. Ma vorrei anche sapere come può esistere un esame di Stato se ciascuno fa quel che gli pare. Esiste perché la premessa è falsa. Tutto qui.

3. LAVORO

Ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Bene, una buona cosa. Se fosse una cosa, però. Negli ultimi tre anni della secondaria ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Almeno 400 ore nei tecnici e professionali e 200 per gli altri. Occhio al punto rivelatore: si potranno fare anche durante le vacanze. Questi hanno confuso l’attività lavorativa a scopo formativo con i lavoretti per guadagnarsi le vacanze, che da noi non esistono perché il datore di lavoro rischia la galera. Quel sistema funziona dove le aziende mettono bocca nella formazione e le scuole mettono piede nelle aziende. Altrimenti si chiamano «gite». Funzionano, inoltre, se non si limitano a occupare ore, ma se possono poi essere valutate. Chi e come dovrebbe farlo è un mistero che la riforma lascia tale.

4. SUPER PRESIDE

Il super preside non esiste. Egli, infatti «nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali». Come ora, che non riesce a farlo. Possono scegliere chi assumere? No, possono piluccare negli albi territoriali. Possono formare una squadra di docenti che li coadiuvino. Funzionava cosi anche nella mia scuola, e parliamo dello sprofondo del secolo scorso. Possono valutare, confermando o allontanando, i neo assunti con contratto annuale. Ma a parte il fatto che quelli sono i 100mila cui è stata promessa la stabilizzazione a vita, come li giudica? Con che criteri? La verità è che tutto il capitolo dell’autonomia e dei poteri è un gran gargarismo, se a quelli non si legano i soldi, se al risultato formativo, misurato sugli studenti, non si associa la destinazione dei fondi.

5. SOLDI

A proposito di fondi, non è passata l’idea del 5 per 1000, che il contribuente potrebbe assegnare alla scuola frequentata dai figli. È stato stralciato, non cancellato. Avrei due obiezioni: a. Pago già, per la scuola, con le imposte sul reddito e le tasse d’iscrizione, quell’idea può venire solo a gente che non s’è mai guadagnata da vivere o ha sempre evaso le tasse, sicché non sa cosa significa pagare due volte la stessa cosa; b. In quel modo i soldi vanno non dove c’è la migliore qualità, ma genitori più ricchi.

6. DETRAZIONI

Buona la possibilità di detrarre, fino a 400 euro l’anno, le spese sostenute per mandare i figli alla scuola privata. Ma trattasi di occasione persa. Intanto perché 400 euro sono pochi. Poi perché si sarebbe dovuto operare in modo da far diventare ricche le scuole pubbliche buone, introducendo il buono di cui la famiglia dispone liberamente. Quello avrebbe comportato libertà di scelta, ma anche di premio alla qualità. Invece no, solo lo sconticino. Buono per il principio, ma solo per quello.

7. TECNOLOGIA

Nuove materie e nuovi insegnamenti restano lettera morta, perché sommersa dai vecchi insegnanti. 30 milioni sono stanziati per favorire l’aggiornamento tecnologico e la cultura digitale. Errore: bastava usare i soldi che ogni hanno si fanno buttare alle famiglie nei libri di testo, in questo modo disponendo di cifre serie (30 milioni non lo è) e digitalizzazione reale. In quanto al bonus di 50 euro a insegnante, dico solo che con le scarpe di Lauro, almeno, si camminava.

8. VALUTAZIONE

In quanto alla nuova scuola, intesa come nuova formazione culturale, è relegata nelle deleghe al ministro. Mica è di quello che si occupa la riforma. Aggiungete che continua a non esserci una valutazione costante, oggettiva e indipendente degli studenti e della loro crescita, quindi dei loro insegnanti e delle loro scuole. Per premiare i migliori. Tutto questo, quindi, non può che andare nel capitolo degli sprechi e delle occasioni perse.

Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con  cura le pensioni

Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con cura le pensioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Ai tempi del governo Letta (quando Matteo Renzi non era ancora Segretario del PD e le “larghe intese” sembravano destinate a durare per l’intera legislatura), a un conversazione tra amici economisti, l’allora ministro pro-tempore (peraltro breve) Enrico Giovannini affermò che dopo avere messo mano al mercato del lavoro (si era appena in parte risolta la questione degli “esodati”) avrebbe rivolto il proprio il proprio pensiero e le proprie energie ad una nuova “riforma delle pensioni”. Si levò, dagli altri commensali, un ‘coretto a cappella’: Enrico non farlo; nessun Paese regge una riforma della previdenza l’anno, le informazioni su futuro delle pensioni sono la determinante che più incide sui comportamenti dei cittadini-elettori poiché ti diventare prima o poi pensionati.

Continua a leggere su Formiche.

 

 

La mazzata dell’Istat alle politica  economica di Renzi

La mazzata dell’Istat alle politica economica di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Per una mera coincidenza, la mattina del 20 maggio è stato presentato il Rapporto annuale 2015 sull’economia italiana dell’Istat e il pomeriggio il Centro di ricerche e studi Luigi Einaudi, l’Istituto affari internazionali e Ubi Banca hanno organizzato un convegno per presentare il Rapporto Einaudi sull’economia italiana e globale, che ha come titolo “Un disperato bisogno di crescita”. Due documenti molto differenti: il primo è una radiografia statistica dell’economia, e della società italiana, nel 2014 con qualche previsione per i prossimi 24 mesi effettuate con il modello econometrico dell’Istat, in sigla MeMo-It, mentre il secondo intende forgiare un consenso su politiche di crescita a medio e lungo termine per l’intera economia europea, non solamente per l’Italia. Tuttavia, il “bisogno di crescita” è elemento centrale di ambedue. E delle numerose discussioni in atto in queste settimane.

Continua a leggere su IlSussidiario.net.

 

 

Troppi errori sui precompilati: Renzi ritira i 730 come le auto

Troppi errori sui precompilati: Renzi ritira i 730 come le auto

Davide Giacalone – Libero

Il 730 semplificato e scaricato si sta incarnando in un’avventura contorta e scaricante. All’orizzonte della precomplicata sorge l’ipotesi della proroga, confermando che così come tutti i salmi finiscono in gloria, tutte le chiacchiere si schiantano ingloriosamente contro la realtà. Che non è quella virtuale e cinguettante, proiettata sugli schermi degli smartphone governativi.

Si partì dicendo che sarebbe stato l’avvento della semplificazione, talché il contribuente non avrebbe dovuto far altro che, ammirato e commosso, constatare quanto il fisco fosse stato equo e preciso nel tracciarne il profilo reddituale. S’aggiunse che accettando quella silhouette non ci sarebbero stati controlli, dacché tutti i dati erano già stati controllati e verificati. Non è vero, scrivemmo. Disfattisti, ci dissero. Peccato che il profilo somiglia sempre di più a una caricatura e che l’Agenzia delle Entrate non abbia controllato nulla, limitandosi a un copia e incolla lacunoso, nel senso che alcuni pezzi se li è persi per strada. Cosi si sono accorti, ad esempio, che nelle precomplicate non sono indicati i giorni lavorativi, rendendo impossibile il calcolo delle detrazioni. Mancano i contributi per colf e badanti. Sono imprecise le rendite catastali. Spesso mancano i redditi aggiuntivi, sebbene i sostituti d’imposta li abbiano segnalati per tempo, inviandone copia sia al fisco che agli interessati (senza dimenticare che hanno avuto il modulo da utilizzare solo una settimana prima della scadenza, il che ha sovente comportato una doppia duplice spedizione).

Cinguetta Matteo Renzi: dall’anno prossimo ci saranno anche le detrazioni sanitarie. Questo lo sapevamo dall’inizio, sia che quest’anno non ci sono sia che dal prossimo ci dovrebbero essere. Speedy Gonzales, a questo giro, è in ampio ritardo. E aggiunge, sempre mediante l’agenzia ufficiale del governo, ovvero Twitter: «lo ripeto tutti i giorni: semplificare, semplificare, semplificare». Ma chi intende raggirare, raggirare, raggirare? Hanno messo su un casotto che la metà basta. Si arriva alla scadenza della Tasi senza sapere quanto pagare e senza che i bollettini precompilati, questa volta previsti dalla legge, siano mai partiti. Che sta dicendo, anzi, cinguettando?

Ecco cosa sta dicendo, anzi, cinguettando: «quasi 300mila italiani hanno già inviato la dichiarazione dei redditi precompilata (promessa già dalla #Leopolda). Critiche e suggerimenti?». No, non lasciatevi tentare, c’è il rischio sia considerato reato. Perché, gentile Leopoldo Speedy, quelli che hanno abboccato, accettando di non detrarre quel che era loro diritto detrarre, non solo potranno essere sottoposti a controlli, ma riceveranno una mail nella quale si spiegherà loro che hanno firmato un documento che può contenere errori. A quel punto saranno presi dal panico e correranno a chiedere l’aiuto degli esperti, ovvero esattamente quelli cui li si sarebbe dovuti sottrarre. I quali esperti, siano essi Caf (centri di assistenza fiscale) o commercialisti, già dicono che, in queste condizioni, è impossibile assicurare una prestazione seria nei tempi stabiliti.

Ed ecco che si parla di proroghe. Tema che richiede una risposta immediata, perché vede, gentile Twitt Gonzales, lei avrà pure esaurito, come ci ha comunicato ieri, «il quarto d’ora di twitter sul fisco», ma se si comincia a parlare di proroga tutto si sbrodola, quindi sarà bene dirlo immediatamente: c’è o non c’è? Smentisca immediatamente, altrimenti nessuno bloccherà lo sbracamento. E se smentisce sarà anche il caso di suggerire all’Agenzia delle Entrate di smetterla di sostenere che ci sono solo problemi di rodaggio, perché le macchine non si collaudano arrotando i passanti. Esiste la possibilità di dire: scusate, fummo presciolosi e avventati. Se, invece, la straziante proroga sarà confermata, ditelo comunque subito, giusto per evitare che chi ancora crede alla parola dello Stato sia il solo a spaccarsi in quattro per tener fede a chi è infedele.

La distanza che c’è fra l’annuncio di cose giuste ­ «sogno di pagare le tasse con lo smartphone», ha pure detto ­ e la realizzazione di pratiche efficienti è lo spazio che divide le politiche propagandistiche dall’arte di governare seriamente. La parte minore è l’ideazione, quella maggiore la messa in pratica. Non viceversa. Il pubblico da assecondare non è quello che spara e gioisce per i titoli, ma quello che porta sulle spalle il peso di un fisco esagerato nelle pretese e satanico nelle modalità. Il mondo reale non è popolato da followers, ma da cittadini che non è il caso di far diventare folli. Anche perché, per difendersi dall’incipiente follia, adottano una soluzione largamente sperimentata: smettono di credere a quel che si dice. Sarebbe una beffarda nemesi, per chi pensò che la parola fosse sufficiente a cambiare il mondo.

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Davide Giacalone – Libero

Dalle stanze del governo assicurano che non si faranno barricate, in tema di riforma della scuola. Non sarà come per la riforma elettorale, dicono. Già questo solo serve a capire molto, visto che la riforma del sistema elettorale non è materia governativa, ma parlamentare, al contrario del riordino scolastico. Come a dire: sulla vita dei partiti, delle liste e degli eletti, non molliamo, sul resto accordiamoci.

Ma c’è una seconda ragione, per cui le barricate non avrebbero senso, perché a parte il gusto del baccano i due fronti, presunti contrapposti, sono totalmente convergenti nel volere assunzioni di massa nella pubblica amministrazione. L’unica differenza è che al governo promettono 160mila assunzioni, mentre gli oppositori ne vorrebbero di più. Come selezionarli, chi paga e a che servono sono quesiti lasciati a chi non abbia di meglio da fare nella vita. A chi non eccelle nell’arte del propagandista.

Ieri è stato reso pubblico il rapporto BetterLife, elaborato dall’Ocse. Su 36 paesi l’ltalia si colloca al gradino 23. Non un granché. Sull’istruzione, però, tocchiamo il minimo: 30. Ma degli indici percettivi non mi fido mai. Meglio guardare i risultati dei test Pisa: l’Italia è ai primi posti solo in un caso: giorni persi per studente. Siamo prodigi nel marinare la scuola. Matematica, lettura e scienze nessun primeggiare e spesso sotto la media. Desolante. Disaggregando i dati scopri che l’Italia scolastica riproduce quella produttiva: aree d’eccellenza europea e lande abbandonate alla deriva.

Non cambia nulla

Con la riforma in discussione tutto questo si consolida e conferma, perché si assumono quelli che già ci sono, posponendo anche i pochissimi vincitori di concorso vero. Si raccontano bubbole sulle nuove materie, ma le si mette nelle mani dei vecchi insegnanti. Ciò comporta il consolidarsi delle differenze di censo e di posizione geografica. Dicono: noi spenderemo soldi per la scuola. Falso: li spenderete per fare assunzioni. Roba neanche da democristiani governanti, ma da clientelari decadenti. Ecco la conferma: Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, si domanda perché ci si oppone al potenziamento dei presidi, tanto sono quelli che ci sono già. Si stupisce del fatto che tutti non vedano l’evidenza: non cambia nulla. E, comunque, il governo ha già mollato: l’autonomia scolastica resterà in mani collegiali. Non ci saranno misurazioni serie. Gli studenti svantaggiati resteranno fregati. I docenti cresceranno di numero, senza che la qualità s’alzi d’un capello.

Finta zuffa

Si poteva fare diversamente, facendo coincidere l’aumento del potere dei presidi con l’aumento delle loro responsabilità, promuovendo una seria misurabilità dei risultati (non la burletta dell’autovalutazione, che solo somari in carriera possono proporre senza sghignazzare). Sarebbe dovuto valere per ogni singolo docente, per ogni singolo preside, per ciascuna scuola: più qualità, più risultati, più carriera, più soldi. Lo stesso al contrario, con il segno negativo. Le parti che s’azzuffano, invece, sono solo correnti minimaliste o massimaliste del partito unico dell’assunzione pubblica, aderente alla federazione unica della spesa pubblica. Sono tutti convinti che sia un diritto avere soldi dallo Stato e che la spesa pubblica generi ricchezza. Il che è vero se si tratta di buoni investimenti, è falso se si generano mantenuti. I soldi che si danno agli incapaci vengono tolti ai capaci e quelli che si buttano nella spesa corrente improduttiva sono moltiplicatori di deficit, debito e miseria. Certo che non faranno le barricate: la pensano allo stesso modo.