Edicola – Opinioni

Local Tax inesistente? Ci costerà più dell’anno scorso

Local Tax inesistente? Ci costerà più dell’anno scorso

Davide Giacalone – Libero

Giugno, è ora di pagare. Naturalmente, come ogni anno, non si sa come e non si sa quanto. Il satanismo fiscale ha una sua maniacale coerenza, accompagnata da aspetti che potrebbero essere considerati intriganti, se solo si coltiva la passione delle messe nere. Nel 2015, fu detto l’anno prima, non ci saranno più l’Imu e la Tasi, sostituite da una tassa unica, la Local Tax (l’Ici era la stessa cosa, nel senso di “comunale”, e l’Imu era la stesa cosa, nel senso di “unica”: l’innovazione, quindi, stava nell’uso dell’inglesorum). La tassa anglofona, promisero, sarà facile e costerà meno. L’annuncio fu poi corretto: per il 2015 non ci sarà ancora la Local Tax, perché sarebbe sciocco bruciare un’idea cosi innovativa e brillante sulla pira della fretta.

Per andare sul sicuro, quindi, si replicherà la tassazione del 2014, ma con due novità: a. Questa volta i bollettini arriveranno precompilati, sicché il contribuente non dovrà fare altro che scucire; b. Le aliquote saranno fissate entro marzo, assieme all’approvazione dei bilanci comunali. Delusi? No, illusi. Perché nulla di tutto questo è avvenuto, visto che il termine per l’approvazione dei bilanci è slittato al 30 luglio, mentre le patrimoniali sulla casa (perché di questo si tratta: patrimoniali sul bene primario degli italiani, mascherate da esazioni per supposti servizi locali) si pagano entro il 16 giugno. E perché è pur vero che l’obbligo d’inviare i bollettini precompilati era stato fissato, niente popo di meno, che nella legge di Stabilità, ma neanche questi ci saranno, perché i Comuni non saprebbero che aliquota applicare. Già, ma la stessa cosa vale per il contribuente. Esatto: quindi meglio scaricare su di lui la colpa. Non vi pare geniale? Belzebù in persona s’è commosso, benché abbia sollecitato gli accoliti a non esagerare in sadismo.

Allora, come si deve fare? Il fisco stregonesco risponde: niente paura, ci date quello che ci avevate dato l’anno scorso, con le stesse modalità, tanto poi, con la seconda rata, vi facciamo avere l’entità del conguaglio, ovvero il di più che ci avreste dovuto dare fin dalla prima, ma che, con la scusa che nessuno vi ha detto a quanto ammontava, ci avete negato. Già, ma non doveva diminuire, la tassa? Occhio a fare certe domande, che potrebbe esserci una soprattassa peri creduloni. In contemporanea si dovrà anche inviare la dichiarazione dei redditi, che per molti doveva essere anche quella precompilata, esente da errori e senza controlli ulteriori nel caso in cui il contribuente avesse accettato i conti per lui fatti dal fisco.

Raccontammo il perché erano bubbole, che i controlli ci sarebbero stati comunque (sui dati originati da soggetti terzi, anche se accettati dal fisco) e che gli errori si sarebbero pagati: cento euro per ciascuno, salvo maggiore addebito per contestata evasione, nel qual caso sono dolori. Prima ci snobbarono, poi ammisero: è esattamente così. Dunque, alla fine, non sai se è meglio la dichiarazione precompilata esistente, dove se firmi sbagli e se non firmi sbagli, o il bollettino precompilato inesistente, perché il governante non fece i decreti e le circolari applicative, sicché il Comune incassante non sa dirti quanto gli devi, ma tu li devi comunque, anche se sei l’unico a non avere mancato ad alcun dovere.

Come volete che riparta un’economia in cui l’amministrazione pubblica non solo non riesce a far scendere le proprie pretese fiscali (previste in aumento per il 2016), ma neanche a dirti quanto le devi dare e come? E nessuno dica che si tratta di cose impreviste, perché le prevedemmo. Si tratta di un’amministrazione incapace e arrogante, al servizio di un gettito il cui unico obiettivo è inseguire e coprire la spesa. In condizioni di almeno parziale serietà il governo, persa ogni possibilità di mantenere fede alle promesse, dovrebbe, se non altro, licenziare i responsabili. Non lo fanno perché i licenziati farebbero ricorso, dimostrando che irresponsabili sono i governanti.

Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Davide Giacalone – Libero

Chi si contenta gode, ma chi s’illude implode. È stato accolto e rilanciato come positivo un pessimo giudizio di Standard&Poor’s. L’agenzia di rating conferma che l’Italia resta a un solo gradino dalla spazzatura, ci basta scendere un pelo sotto il confermato BBB­, cui siamo stati declassati all’inizio dell’anno, perché i titoli del nostro debito pubblico sprofondino all’inferno della non negoziabilità. Ed è stato festeggiato come promettente l’outlook, ovvero la previsione, “stabile”. Come se la stabilità di quel giudizio fosse l’opposto dell’instabilità, quindi di una condizione precaria. È vero il contrario: prevedono che noi si resti esattamente dove ci troviamo, senza peggiorare (cadendo nel baratro), ma anche senza migliorare. Mi è ignoto cosa ci sia da festeggiare.

Siamo stati collocati sul ciglio del burrone, progressivamente degradando il giudizio sulla nostra affidabilità, quando gli spread crescevano all’inverosimile. Considerai quella valutazione ingiusta e troppo punitiva, perché il divaricarsi dei tassi d’interesse, relativi ai debiti pubblici, non andava attribuito a una nostra colpa, ma ai difetti strutturali dell’euro, all’incompiutezza istituzionale della moneta unica e all’inerzia della Banca centrale europea. Ma da allora a oggi le cose sono cambiate, la Bce ha preso ripetutamente (e con successo) l’iniziativa, tanto che, immutate tutte le altre condizioni, gli spread si sono molto ridotti (anche se il nostro rimane costantemente e negativamente più alto di quello spagnolo). Perché, allora, siamo considerati ancora sul ciglio del burrone?

Perché tutto quel che di buono è accaduto non è dipeso da noi. La spesa pubblica per interessi si riduce, ma solo grazie alla Bce. Il prodotto interno lordo sarà positivo, quest’anno, dopo tre anni di recessione, ma la nostra crescita è inchiodata alla metà della media dell’eurozona (S&P prevede, per noi, un +0,4, quindi meno di quel che immagina il governo, sicché a una distanza ancora più marcata dagli altri europei). La svalutazione dell’euro è una buona cosa, per un Paese esportatore, ma, anche questo, un effetto di scelte fatte altrove. Per non dire del prezzo del petrolio. I tagli alla spesa pubblica restano una litania inconcludente.

La pressione fiscale cresce e crescerà, anche secondo le previsioni del governo, che a chiacchiere dice il contrario, quindi farà ancora da ostacolo alla ripresa. La Corte costituzionale ci ha messo anche la ciliegina, che poi è un cocomero capace di schiacciare la torta che il pasticcere governativo confezionò togliendo ai pensionati quel che la legge garantiva loro. Insomma, tutto quel che dentro al cortile italico fa titolare sul ritorno del segno positivo e sulla svolta economica cambia significato, visto da una prospettiva comparata: continuiamo a perdere competitività. Tutte cose che qui abbiamo avvertito per tempo, sebbene parlando al muro. In quanto alla filastrocca delle riforme, presentate come rivoluzioni, quel che ci viene detto è: fateci vedere come funzionano e quali benefici portano, altrimenti, sulla parola, restano solo parole.

Non cambio opinione con il cambio delle stagioni, né climatiche né politiche: le agenzie di rating restano l’incarnazione di un colossale conflitto d’interessi, e resta pericoloso far dipendere i mercati dal loro giudizio. Così come ribadisco che quello sull’Italia è ingeneroso. Ma osservo che quel che prima veniva letto come una bocciatura senza appello, adesso lo si legge come una promozione con lode e incoraggiamento. Non è chiaro quale sia il confine fra propaganda e illusione. Lo è, invece, il capovolgimento della realtà. Che porta male.

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le pensioni scottano. Specialmente in questi giorni in cui il Consiglio dei Ministri deve decidere che risposta dare alla sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione, a quella sui contributi di solidarietà attesa per giugno ed alla marea di ricorsi che si annunciano. In passato, anche gli avversari, hanno riconosciuto al Presidente del Consiglio una grande capacità di trasformare momenti di crisi in opportunità. Adesso, la “crisi previdenziale” gli offre un’occasione d’oro. I suoi solerti collaboratori hanno certamente portato alla sua attenzione il saggio di Karen Anderson e Michael Kadeing “European Integration and Pension Policy Changes: Variable Patterms of Europeanization in Italy, the Netherlands and Belgium” uscito nelVol 563 N.2 (ppa.231-253) del British Journal of Infustrial Relations.

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Lavoriamo in troppo pochi e non ne usciremo coi “bonus”

Lavoriamo in troppo pochi e non ne usciremo coi “bonus”

Davide Giacalone – Libero

Il lavoro è uno scrigno, ma se ne parla così tanto da trasformarlo in un bidone. È energia (sprecata) per lo sviluppo, ma lo usiamo per sparare dati a casaccio. Quello che conta è uno solo: in Italia lavoriamo in troppo pochi. Meno che da noi solo in Grecia e Croazia. Così s’avviluppa il cane che si morde la coda: una crescita economica che si ferma alla metà della media europea non potrà mai generare nuova occupazione in misura superiore che altrove; una partecipazione al lavoro troppo bassa non potrà favorire la crescita di competitività e ricchezza. Smettiamola di prenderci in giro e guardiamo la fotografia del lavoro. Da lì si capisce cosa si può e si deve fare, per rompere l’incantesimo.

I disoccupati non sono quelli che non hanno lavoro, ma quelli che lo cercano. I non occupati che non cercano lavoro non li trovate in statistica. I nuovi contratti di lavoro non sono necessariamente nuovi posti di lavoro, come ieri ha chiarito Maurizio Belpietro, ma possono essere sostitutivi di altri, sicché non aumentare l’occupazione né diminuire la disoccupazione. I nuovi contratti a tempo indeterminato non sono posti fissi senza scadenza, perché la riforma ha cancellato questo concetto. Semmai sono tempi determinati senza limite temporale. I nuovi contratti sono favoriti dalla decontribuzione, il che comporta la contrazione di un debito futuro. Che giusto ci mancava, quel genere di lungimirante politica. Posti questi paletti, veniamo a quel che c’impala: la partecipazione al lavoro, per i cittadini fra i 20 e i 64 anni, è ferma al 59,9%. Lavora un italiano su tre. Peggio di noi solo Grecia (53,3) e Croazia (59,2). Ma noi siamo la seconda potenza industriale europea!

Combiniamo i dati raccolti dalla Commissione europea con quelli dell’Istat. Ecco l’orrore: nel 2017 la partecipazione al lavoro, in Italia, dovrebbe salire al 62,4%. Evviva? Un corno, perché in Germania sarà al 77,7 e in Francia (Paese malato, non una tigre asiatica) al 69,8. Sembra impossibile, ma c’è di peggio: gli obiettivi comunicati dai singoli governi e discussi con Bruxelles fissano al 67% la partecipazione al lavoro degli italiani entro il 2020. Peggiori del nostro ci sono solo gli obiettivi di Croazia e Malta (62,9). Vuol dire che abbiamo già messo nel conto di perdere ulteriormente competitività, lasciando che gran parte degli italiani non faccia nulla. Dopo avere letto questi dati si capisce meglio il livello di certe discussioni, sugli zero virgola e sulle trasformazioni dei contratti: da imbriachi. Per capire l’inganno basti leggere l’ipocrisia dei giornaloni, a cominciare dal Corriere della Sera, che a pagina uno suona la tromba dei nuovi “contratti” e a pagina tre annuncia che non ci sono nuovi posti di lavoro. Eppure questi dati contengono un valore. C’è un nesso evidente fra il lavorare poco e il crescere poco. Ce n’è fra il non lavorare e il lievitare dell’insicurezza.

In queste condizioni è saggio aprire il mondo del lavoro a tutte le forme di coinvolgimento di nuove forze, senza perdere tempo in inutili chiacchiere sulle garanzie. Un reddito assicura fiducia e autonomia più di nessun reddito. E sebbene sia evidente che l’ottimo e avere un lavoro ricco e garantito a vita, assistito da accumulazioni previdenziali, è altrettanto evidente che inseguendo quel mito abbiamo creato le condizioni per stroncare le gambe alla nostra potenza industriale, dove chi non lavora soffre l’esclusione e chi produce soffre una insensata pressione fiscale, con l’alibi che serva a soccorrere gli esclusi. Il cane, in questo modo, non si morde più la coda, si mangia direttamente il fegato. Pompando la Repubblica dei bonus si potranno anche prendere dei voti, ma solo ove gli elettori credano ancora sia da furbi farsi prendere per allocchi. Il lavoro, in Italia, è un giacimento di ricchezza che c’incaponiamo a non sfruttare, piuttosto blandendolo nel mentre lo si tiene fuori dalla produzione.

Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Anche se un bonifico di 757 milioni di euro è partito dal Tesoro greco (grazie all’apporto di enti locali e di depositi di istituti di credito) per il Fondo monetario internazionale (evitando il temuto default), le cifre fanno accapponare in ogni caso la pelle: entro metà luglio Atene dovrà trasferire al Fondo altri 3 miliardi di euro e farsi rifinanziare 11 miliardi in scadenza, nonché inviare alla Banca centrale europea 6,7 miliardi di euro. Se le casse sono vuote, il pagamento di stipendi e pensioni è a rischio, con la prospettiva di nuovi disordini sociali. Gli altri creditori di Atene – lo si mormorava nei corridoi della riunione dell’Eurogruppo – hanno ingoiato la pillola di accettare una dilazione dei pagamenti (e forse anche una riduzione). Fmi e Bce, invece, non possono ritardare e tanto meno ridurre i pagamenti a loro dovuti a ragione della ‘sa- cralità’ delle istituzioni finanziarie internazionali: si tratta infatti di creditori privilegiatissimi che devono costantemente avere la fiducia dei mercati e collocare, nell’interesse di tutti, le loro obbligazioni. In questo quadro, discettare su un eventuale referendum greco sull’euro è un’inutile distrazione. Il nodo è come fare fronte alla scadenze e inoltre trovare capitali stranieri (molti di quelli greci sono in fuga) per riattivare l’economia. Secondo stime elaborate da diversi centri studi americani, sarebbe necessario entro l’estate un nuovo salvataggio. Di ben 50 miliardi di euro.

Nessun vuole scottarsi ancora una volta le dita. Allo stesso tempo, però, nessuno vuole che la Grecia vada a picco. Non lo vogliono neanche gli USA, in quanto temono sia lo spappolamento dell’eurozona sia una liaisons dangereuses tra Atene e Mosca.

Si sta affacciando una nuova strada: varare per la Grecia un programma analogo a quello che è stato attuato dal 1990 al 2010 con successo per i Paesi più poveri e più indebitati. In breve, parte dei crediti bilaterali (come quelli dell’Italia) verrebbero non solo dilazionati, ma anche ‘rimessi’. Entrerebbe in gioco la Banca mondiale (che non fa prestiti dal 1979 alla Grecia a ragione del reddito pro-capite allora raggiunto) con operazioni a lungo termine (25 anni) per rimborsare Fmi e Bce e riattivare investimenti. Un’operazione basata su un programma di politica economica concordato e monitorato attentamente, nel caso, da una missione Banca mondiale e Fmi residente ad Atene. La Grecia deve complessivamente all’Italia tra i 30 ed i 40 miliardi: ciò equivale a dieci volte circa l’impatto (al netto delle imposte) sui conti pubblici, della sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione delle pensioni.

Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della   Consulta

Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della Consulta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Da quando è iniziato il noir della Consulta e della previdenza mi sono chiesto chi è Il Terzo Uomo di questa puntata della saga pensionistica. Vi ricordate il film di Carol Reed da cui Graham Green, autore della sceneggiatura, trasse un romanzo (uscito un anno dopo il thriller cinematografico? Joseph Cotten ed Alida Valli sanno che c’era certamente un “terzo uomo” accanto al carro funebre in cui sarebbe stata la salma di Orson Wells. L’intero avvincente film riguarda la ricerca del Terzo Uomo, il personaggio interpretato da Orson Wells non solo non è stato ucciso come si pensava dopo le prime inquadrature ma sarà lui ad assassinare il portiere dello stabile in cui abita poiché costui era l’uomo che sapeva troppo.

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Renzi vuole l’Internet di Stato

Renzi vuole l’Internet di Stato

Davide Giacalone – Libero

Sarà pure una corsa verso la larga banda, ma non è il caso di riarruolare la banda del buco. A qualcuno potrà sembrare una novità, ma solo perché ha la memoria corta: già una volta il governo usò l’Enel per ristatalizzare le telecomunicazioni. E fu una tragedia. Non per tutti, però, perché taluni fecero soldi a patate. Seguono nomi e fatti. Tornatici alla mente quando abbiamo letto (Repubblica) che il governo coltiverebbe questo insano progetto. Subito accompagnato dall’immancabile tweet di Renzi: «La Banda Ultra Larga è obiettivo strategico. Non tocca al Governo fare piani industriali. Ma porteremo il futuro presto ovunque». Per aggiornare e allargare la rete di telecomunicazioni il piano industriale ci vuole. Non è compito del governo stenderlo, ma immaginare di farlo fare ad una società controllata dal governo è una scelta politica.

Quella di Telecom Italia fu la peggiore privatizzazione immaginabile e mai realizzata. L’abbiamo dettagliatamente raccontata. Fatto è che, ripetutamente, il governo prova a ficcar le mani dentro quella che è una società privata. Ci provò il governo Prodi, provocando le dimissioni di Marco Tronchetti Provera. Ci hanno provato i governi Letta e Renzi, tentando di vendere a Telecom una società pubblica, Metroweb. Ora ci riproverebbe creando un concorrente diretto, in capo a una società guidata da vertici scelti dalla politica.

Il governo, naturalmente, non dovrebbe avere nessun motivo per difendere Telecom, che di guai ne ha tanti, essendo passata dall’essere una seria multinazionale, capace di creare ricchezza, a una società dialettale, oberata dai debiti. Ma il dovere del governo consiste nel creare le condizioni capaci di far vincere il miglior concorrente, non il fare concorrenza. Senza contare che le continue voci, l’avere appreso che da Palazzo Chigi si voleva dismettere la rete in rame, poi far entrare Cassa Depositi e Prestiti fra i soci, poi che questa avrebbe preso Metroweb e cosi via, sono turbative di mercato. Telecom è quotata in Borsa. E anche Enel lo è. Le chiacchiere, quindi, non sono solo tali.

Veniamo alla novità: usare Enel e i suoi cavi elettrici per diffondere la larga banda, in questo modo polverizzando Telecom e i suoi immobili vertici. L’ho già sentita. Anzi: l’abbiamo già vissuta. Fate attenzione alle cifre e alle date: nel 1997 il governo Prodi vende il controllo di Telecom per 11,82 miliardi di euro; subito dopo una società pubblica, che gestisce un monopolio, l’Enel, riporta lo Stato nelle tlc comperando Infostrada, e impegnandosi a spendere, a beneficio degli inglesi di Vodafone, 11 miliardi di euro. Lo Stato aveva ceduto il monopolista alla stessa cifra alla quale chiedeva di acquistare un concorrente. In realtà, alla fine, fu pagato il 32% in meno, quindi 7,5 miliardi, perché l’antitrust aveva chiesto di conoscere tutte le carte di questa compravendita e analoga istruttoria faceva l’antitrust europeo, così si era già perso del tempo, compreso quello necessario per discutere i ricordi al Tar. Nel mentre questo procedimento andava avanti erano scaduti i termini, fissati al 28 febbraio 2001, previsti dal preliminare di vendita. In quel tempo, oltretutto, i titoli delle società telefoniche erano crollati in tutte le Borse. Grazie a questo Enel chiese di rivedere il prezzo ed ottenne uno sconto. Ma se fosse stato per Enel la mano pubblica avrebbe consegnato agli inglesi i soldi che aveva incassato cedendo il controllo di Telecom Italia.

E ci sono altre due cose, da non dimenticare. La prima: Infostrada teneva nel suo seno la rete telefonica che era appartenuta alle Ferrovie dello Stato. Quella rete era stata comperata, nel 1997, dalla Olivetti, al prezzo di 700 miliardi di lire, pagabili in 14 anni, ed era stata rivenduta dalla stessa Olivetti alla Mannesmann, l’anno successivo, per 14 mila miliardi di lire, senza rateizzazione. Lo Stato ricomperava quella stessa rete che una sua azienda aveva venduto. La seconda cosa da non dimenticare è che la rete Infostrada non venne acquistata da Wind, la società telefonica del gruppo Enel, perché allora vi erano ancora i soci francesi di France Télécom, i quali non avevano alcuna intenzione di svenarsi per una simile operazione. L’acquisto venne fatto da una società di diritto olandese, la Enel Investment Holding Bv. Una società di Stato che usava strumenti da elusione fiscale. Mica male.

Quando, nel 1998, si tiene la gara per il terzo gestore di telefonia mobile, Telecom fa osservare che si troverebbe come concorrente una società partecipata dallo Stato, retta dai soldi degli italiani che pagano le bollette. Il tutto mentre ancora esisteva (ed esiste) la golden share, che assegna al governo il potere di stabilire chi può essere socio di Telecom. Parlarono al vuoto, tanto che Enel, con Wind, vinse la gara. Ma durò poco, perché nel 2006 vendette tutto a Naguib Sawiris, egiziano. Prezzo della vendita: 1,962 miliardi. La sottrazione, rispetto a quanto è costata questa fugace avventura, fatela voi.

Dunque, per tornare al tweet presidenziale: il piano industriale ci vuole, altrimenti riviviamo lo stesso incubo; non tocca al governo, ma è il potere esecutivo a stabilire se una società controllata dallo Stato rientra in un settore che era statale e fu privatizzato; se è questo che hanno in mente, sappiano che non sono dei rottamatori, ma dei restauratori. Del peggio che ci toccò vedere.

Che invidia per gli inglesi: vincono libertà e meno tasse

Che invidia per gli inglesi: vincono libertà e meno tasse

Davide Giacalone – Libero

Avessero avuto l’Italicum non avrebbero potuto scegliere i parlamentari e dovrebbero tornare a votare, per il ballottaggio. Gli inglesi, invece, hanno un sistema elettorale maggioritario, senza sconti per comitive. I parlamentari li hanno scelti uno a uno e il governo lo hanno consegnato, o, meglio, riconsegnato nelle mani di David Cameron, leader del partito conservatore. Governerà disponendo della maggioranza assoluta dei parlamentari (330 su 650), pur non avendo raggiunto il 37% dei voti. Vi sembra esagerato? Margaret Thatcher e Tony Blair ebbero quel tipo di maggioranza sfiorando il 30%. Eppure nessuno ha mai gridato al golpe o al regime, come da noi si starnazza in continuazione. Non perché ci sia un self control very british, ma perché quel sistema elettorale ha validità secolare, senza furbizie oscillanti fra il suino e il latinorum.

Un buon sistema maggioritario ha effetti distorsivi. Per fotografare il voto ci vuole il sistema proporzionale, buono per evitare guerre civili (da noi ha funzionato meravigliosamente), meno per assicurare univocità del potere esecutivo. Tanto per capirsi: i nazionalisti scozzesi, con meno del 5% dei voti, conquistano 56 parlamentari; i liberaldemocratici, con quasi l’8%, ne hanno solo 8; per non dire degli Ukíp, anti Unione europea, che ne conquistano 1, pur avendo preso più del 12% dei voti. Così vanno le cose, perché i voti si contano su base nazionale, ma i seggi si assegnano collegio per collegio, per cui se prendi il 20% (è capitato) nazionale, ma non prevali in nessun collegio, non becchi nulla. Al contrario, ed è il caso del Partito nazionale scozzese, porti una truppa consistente alla Camera dei comuni se i tuoi voti sono concentrati territorialmente. Nessuno grida allo scandalo perché le regole del gioco sono note, non mutate e stabili. Da noi è l’esatto opposto: si approvano leggi elettorali nuove, che però non entrano in vigore e non possono essere utilizzate subito. Per forza che, nel Regno Unito, i vari Ed Miliband (laburisti), Nick Clegg (liberaldemocraticí) e Nigel Farage (anti Ue) si dimettono: mica possono prendersela con il destino cinico e baro, bensì solo con sé medesimi.

Messa d’un canto l’invidia, per tanta civiltà democratica (da noi sarebbe complicato far funzionare quel sistema, ma l’approssimazione francese, con l’uninominale a doppio turno, potrebbe dare delle soddisfazioni), veniamo a considerazioni di ordine generale. Gli sconfitti sono tre: i laburisti, che hanno radicalizzato troppo la loro posizione, confermando la regola dei buoni sistemi maggioritari, secondo cui vince chi riesce a prendere una fetta dell’elettorato altrui; i liberaldemocratici, che si sono svenati in una collaborazione governativa che ha deluso le speranze della volta scorsa e nella quale non sono riusciti a caratterizzarsi; e gli anti Ue, che godono di vasta stampa continentale, ma di minore consenso insulare.

I vincitori sono due: i conservatori, naturalmente, che hanno saputo interpretare la forza del mercato, attirando società e contribuenti dal resto d’Europa, facendo calare il fisco e la spesa pubblica, quindi evidenziando un legame da noi ancora misconosciuto; e i nazionalisti scozzesi, che hanno perso il referendum, segno che l’elettorato non aveva alcuna voglia di separarsi, ma tengono alta una bandiera autonomista che raccoglie un consenso vasto. Senza dimenticare che loro sono europeisti, quindi capaci di dare sostanza reale, e non solo declamatoria, a quella richiesta d’autonomia. Si spera che il voto distenda i nervi, nel Regno. I problemi ci sono, eccome, ma ora il governo è nel pieno dei poteri e può gestirli. Questo dovrebbe aiutare a maneggiare la faccenda del referendum sull’uscita dall’Ue: la classe dirigente inglese è contraria, giustamente, e noi stessi speriamo che non accada. Avere un Paese non statalista e bilancisticamente socialista può essere seccante, in certi negoziati, ma è complessivamente un bene.

Cameron ha ora la maggioranza assoluta, dopo avere governato in coalizione con i liberaldemocratici. La cosa, evidentemente, non gli ha nuociuto. E non ha arrecato danni agli inglesi. Il fatto è che i governi forti esistono solo nei sistemi deboli. La muscolatura elettorale lievita fra i microcefali istituzionali. Quel che conta è la forza di un sistema che si compone di governo, equilibri istituzionali e autonomia del mercato. Da noi si pensa che tutto dipenda dalla forza del governo, dimenticando che 1’Italia ha conosciuto uno straordinario boom economico facendo finta di cambiare i governi come fossero abiti stagionali.

Il sistema inglese ha ripetutamente dimostrato di non essere affatto bipolare o bipartitico. La sostanza è del tutto diversa: l’equilibrio istituzionale è condiviso, sicché non si dubita della legittimità e affidabilità del vincitore, anche se da quello si dissente. Prego studiare, per non continuare a dire sfondoni. Se il sistema elettorale inglese ha funzionato, anche colà hanno fatto cilecca i sondaggi. Il perché è semplice: si sonda efficacemente un mercato dotato di continuità storica. Se a ogni giro cambiano o crescono i corridori, ogni previsione diventa meramente nasometrica. Peggio per chi paga per farsi prendere in giro.

Assunzioni e autopromozioni, così la scuola si boccia da sola

Assunzioni e autopromozioni, così la scuola si boccia da sola

Davide Giacalone – Libero

Due torti non fanno un’istituzione. Quelli che fischiano e scioperano contro la riforma, perché ci vedono la fine della scuola pubblica e l’avvento della spietata meritocrazia, dovrebbero dirci a quali allucinogeni testi fanno riferimento. Inoltre scioperano nel giorno in cui si sarebbero dovuti fare i test per valutare la preparazione degli studenti e protestano perché sono stati spostati per non essere cancellati, a dimostrazione che la scuola è l’ultimo dei loro pensieri.

I governanti che millantano come investimento per l’istruzione l’assunzione ope legis di personale docente, preso dalle pozze stantie e stagnanti delle graduatorie, quindi incorporando in via definitiva quel che non ha portato alcun beneficio neanche in via provvisoria, dovrebbero dirci se pensano di prendere in giro gli altri o se stessi. Pensare che per cambiare la scuola si debba partire con l’assunzione in via permanente di quelli che ci sono già stati e ci stanno, così confermando il passato e zavorrando il futuro, è un totale non senso. Né il governo può nascondersi dietro la sentenza della Corte di giustizia europea, che, dicono, impone quelle assunzioni. Non è vero: la Corte ha evidenziato un danno in capo a chi è stato imbrogliato con le graduatorie; si tratta di risarcire il danno, non d’imbrogliare tutti gli altri. È un tema sul quale ci siamo soffermati diverse volte, né ci sono novità: aumentando la spesa corrente si fa il verso al clientelismo di sempre, altro che cambiarlo.

Occupiamoci di un punto nuovo, rivelatore: il ministero dell’istruzione ha messo in rete un sito per l’autovalutazione delle scuole. È un tema fondamentale, che s’appresta a divenir burletta. In pratica si tratta della versione digitale del celeberrimo quesito: oste, è buono il vino? Ciascun preside si connette e compila il modulo, articolato in 49 indicatori e quesiti. Nessuno potrà chiedergli conto delle risposte che avrà dato, neanche nel caso in cui il vino fosse aceto. Al termine di questa profittevole applicazione, potrà confrontare i propri risultati con quelli che i suoi colleghi hanno inserito, con pari senso della realtà. Utilissimo.

Dice il sottosegretario, Davide Faraone: «Non stiamo mettendo voti né abbiamo creato un sistema per classificare le scuole». Peccato, perché è esattamente quel che si dovrebbe fare. E quelle informazioni dovrebbero essere messe a disposizione delle famiglie, in modo che possano scegliere a ragion ve­duta la scuola cui indirizzare i propri figli e i propri soldi. Certo, anche i soldi, perché la scuola si paga anche quando è pubblica ed è bene che sia il pagatore, non il pianificatore burocratico, a scegliere. Ma non si può fare, perché il personale dipendente è contrario. Non vogliono essere valutati. Il governo dovrebbe rispondere: valutati o licenziati, prego, scegliere. Un docente orgoglioso del proprio lavoro non teme la valutazione, la anela. E vuole che da quella dipenda lo stipendio. Ma sindacati e massa informe sono contrari, perché è dall’informità dell’insieme che discende il loro potere. La valutazione dovrebbe essere indipendente. Qui siamo all’indecenza dell’autovalutazione.

Vi segnalo anche due chicche, passate in commissione parlamentare, quali emendamenti al nulla che è la riforma in gestazione. La prima: le mense scolastiche devono essere rifornite a chilometro zero. Questi hanno scambiato il pasto dei bambini con le minchionerie del ristorante dove si paga di più per potere mangiare di meno. Nelle mense si deve fare attenzione al valore nutritivo dei pasti, non puntare a essere alla moda. La seconda: ci saranno dei corsi contro la discriminazione di genere. Meno male che non hanno pensato alle quote di genere, da rispettarsi per promossi e bocciati, ma la domanda è: tutte le altre discriminazioni sono benvenute? Vorrei sapere quali scuole hanno frequentato i parlamentari votanti roba simile. Se non altro per sconsigliare ad altri di metterci piede.

Tanto più che, dopo avere assunto più di centomila graduatoristi, pensano d’introdurre materie come la logica (per cui non sono portati), la musica (andiamo a orecchio o poi assumiamo maestri?), la computazione (che nel significato di «calcolare» si chiamava matematica) e l’insegnamento delle competenze digitali (credo si debbano pagare i ragazzi, capaci di spiegare molto ai loro insegnanti). In questo guazzabuglio di luoghi comuni e bischerate cubiche, i presidi, che non avranno nessuno dei poteri di cui ai primi annunci, dovranno redigere il Pof (piani di offerta formativa), uditi gli enti locali, le istituzioni, i centri culturali, sociali ed economici del territorio. Dove l’unica cosa chiara è la parola «territorio», che andrebbe zappato, affinché torni a veder germogliare almeno il buon senso.

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Un’altra tegola incombe: a rischio il ‘contributo’ chiesto dal governo Letta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Quando a dicembre 2011 era in preparazione il ‘Salva-Italia’, con relativo blocco della perequazione sulle pensioni, furono non pochi esperti ad avvertire che si rischiava una sentenza (totale o parziale) negativa da parte della Corte Costituzionale, che già ben due volte in passato ha censurato i ‘contributi di solidarietà’ sugli assegni previdenziali, a partire da quello deciso dal governo Berlusconi. Ora che la bocciatura è arrivata, ecco che già all’orizzonte se ne profila una seconda. E nel mirino c’è di nuovo un contributo di solidarietà, quello ‘riproposto’ nel 2013 da Letta. Il verdetto starebbe per arrivare in giugno e produrrebbe un ulteriore costo aggiuntivo, per circa 2-3 miliardi. Anche se una tesi (peraltro condivisa da pochi giuristi) sostiene che, al contrario, questa volta il contributo sarebbe giudicato ‘legittimo’, in quanto i fondi resterebbero dentro il pianeta Inps (gli incassi sono destinati a favorire le pensioni dei più deboli).

Ad essersi espresse, in punto di diritto, sono le Corti dei Conti della Calabria, del Lazio, dell’Emilia-Romagna, del Veneto (nonché di altre Regioni). A fronte di ricorsi a loro rivolti da associazioni di pensionati, hanno replicato che si tratta di misure già dichiarate incostituzionali da parte della Consulta: violerebbero ben 8 articoli (3, 4, 35, 38, 53, 81, 96 e 137) della Costituzione. Non solo, la Corte dei Conti aggiunge che le misure contrastano anche con 5 articoli della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo e che in materia la Corte di Strasburgo ha già ‘sentenziato’ nel 2013. Il nodo di fondo è che un’’imposta’ – perché tale è da fatto un contributo – sui soli pensionati è discriminatoria. In caso di difficoltà a far quadrare i conti, sarebbe logica e legittima soltanto un’addizionale, temporanea e progressiva, che colpisse tutti i redditi. Come fatto in numerosi Paesi Ocse. Peraltro il tema della previdenza si va sempre più ‘europeizzando’. Nella Ue è infatti in fase di avanzata redazione una ‘direttiva’ per uniformare in qualche modo i sistemi previdenziali e rendere più agevole la libera circolazione dei lavoratori (ora la totalizzazione dei versamenti in vari Paesi Ue è basata su una rete di accordi bilaterali). Una nuova condanna dalla Consulta renderebbe ancor più difficile, per l’Italia, incidere ‘politicamente’ sui contenuti di questa direttiva.