Edicola – Opinioni

Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Sull’Ilva le porcate di Stato non finiscono mai

Davide Giacalone – Libero

L’Ilva di Taranto riconosce d’essere responsabile di disastro ambientale e chiede il patteggiamento. I proprietari dell’Ilva restano imputati e subiranno il processo. La cosa singolare, in una situazione surreale, è che l’Ilva è commissariata dal 2013, quindi sotto il controllo e il dominio del governo, il quale governo della Repubblica italiana, aveva negato il disastro ambientale, aveva esibito i documenti che testimoniavano sia la regolarità dell’operato della società, sia il progredire del piano di risanamento ambientale. Il quale risanamento era reso necessario non da quel che aveva fatto l’Ilva privatizzata, ma dal precedente proprietario: lo Stato. Provo a raccontare meglio, perché capisco che ci si possa confondere. Ma spero di non riuscirci, spero che nessuno capisca, perché se qualcuno legge, dall’estero, è la volta che in Italia non ci mette piede neanche per le vacanze.

La polemica

L’Ilva era dello Stato, l’hanno venduta ed è passata ai Riva. Si può discutere sul prezzo e sulle condizioni, ma non sul fatto che insediamento e inquinamento erano quelli generati dal proprietario pubblico. Arrivato il nuovo proprietario la produzione procede bene e l’impianto produttore di acciaio è profittevole. Con il governo è concordato un piano di risanamento ambientale, che il governo stesso sosteneva essere stato rispettato. Interviene la procura della Repubblica e praticamente blocca la produzione, contestando disastro ambientale e altri reati. Esegue sequestri che rendono impossibile la continuazione dell’attività. Il governo (allora Monti) interviene, con un decreto legge, per sbloccare il tutto. Fermo restando che, naturalmente, il procedimento penale va avanti.

Nuovo corso

Ma nel 2013 cambia non solo il governo, ma anche la dottrina, sicché la società viene commissariata e la proprietà estromessa. Motivazione: sono in crisi. Ma la crisi non è data dall’attività industriale, bensì dall’azione della procura e, al momento, siamo ancora solo all’udienza preliminare. Dopo il commissariamento quel che era profittevole va in perdita.

Intervento

I soldi destinati al risanamento prima c’erano e venivano spesi, poi non ci sono più. Le difficoltà così create al gruppo Riva, che non ha solo quell’impianto (che è il più grande d’Europa, con il forno più grande del continente, ora spento), portano all’intervento delle banche tedesche, con il che abbiamo anche favorito quelle. La produzione comincia a essere insufficiente e i clienti si lamentano. E, come se non bastasse, ora la gestione commissariale chiede il patteggiamento. Neanche hanno torto, perché così si tirano fuori da un processo dagli esiti incerti e minimizzano le possibili conseguenze negative. Peccato che agiscono a nome dell’Ilva perché colà messi dal governo. E peccato che i proprietari restano sotto processo, avendo la loro società che ammette il reato da loro e dal governo negato. Con il che si dimostra claudicante non solo la difesa del diritto di proprietà, teoricamente tutelato dalla Costituzione, ma anche quello a difendersi in un processo. Nel quale, naturalmente, non ho idea se siano colpevoli o innocenti. Nel primo caso spero siano condannati, ma nel secondo vorrei fosse chiaro che la pena la scontiamo e la paghiamo tutti, cittadini di uno Stato inaffidabile e sleale.

Vi spiego l’irreversibile leggerezza dell’euro

Vi spiego l’irreversibile leggerezza dell’euro

Giuseppe Pennisi – Formiche

L’irreversibilità dell’euro, richiamata da Juncker e Draghi mentre Tsipras e Varoufakis si esibiscono in gare di salti mortali per raggranellare anticipi su commesse future per gasdotti al fine di far fronte alle esigenze più impellenti (di rimborso del debito), è come l’indissolubilità del matrimonio cattolico quale interpretato da certi tribunali canonici (sui quali Papa Francesco farebbe bene a chiedere una vigilanza rigorosa). Uno di tali matrimoni è stato dichiarato nullo a Roma, dopo circa cinquanta anni dalla feste di nozze, poiché lo ‘sposo’, per così dire, ha dimostrato di frequentare prostitute (o meglio, data l’età, di averlo fatto in passato) per decenni tre-quattro volte la settimana e, indi, di non avere compreso il significato del Sacramento e, perciò, di non essere adatto a fare il marito e il padre.

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In metà rinunciano agli sgravi del 730, saranno controllati lo stesso

In metà rinunciano agli sgravi del 730, saranno controllati lo stesso

Davide Giacalone – Libero

Ogni mattina un pensionato potrebbe ritrovarsi a far la fila dal medico. Ogni mattina un imprenditore potrebbe dovere versare qualche cosa all’erario. Ogni mattina, quando sorge il fisco, non importa che tu sia pensionato o imprenditore: scappa. Tanto poi ti acchiappano. Quel pensionato e quell’imprenditore sono, oggi, più uniti, nel diffidare dello Stato tassatore e controllore.

La Fondazione nazionale dei commercialisti è una fonte interessata. Diciamo che l’eccessiva semplicità degli adempimenti fiscali e l’idea che i cittadini possano far da soli, non è in cima ai loro desideri. Ma hanno più esperienza, sul campo, di tanti che legiferano. Ebbene, la Fondazione ha commissionato uno studio da cui si evince che circa 6 milioni di contribuenti sarebbero pronti a rinunciare alle detrazioni fiscali cui avrebbero diritto, pur di evitare i controlli. Si può sostenere che diffondano sfiducia e allarme per guadagnare clienti. In questo caso, però, non è così. Perché se l’adesione alla dichiarazione dei redditi precompilata, fornita dall’Agenzia delle entrate, diviene garanzia che non ci saranno controlli successivi, perché mai un cittadino dovrebbe prendersi il rischio di far valere un proprio diritto e scaricare spese che darebbero luogo a un risparmio fiscale marginali, comunque meno di quel che costerebbe un professionista nel caso si dovesse rispondere a rilievi delle autorità? La Fondazione calcola che, in questo modo, l’erario si troverà a incassare 1,5 miliardi non dovuti. Peccato, però, per due dettagli: non è vero che firmare la precompilata inibisce i controlli, perché questi sono sempre possibili sui dati che i terzi hanno trasmesso al fisco (quindi quasi tutti); considerare conveniente rinunciare a un diritto equivale a dire che non si ha nessuna fidu­ cia nella lealtà dell’amministrazione fiscale.

Ieri il Consiglio dei ministri ha varato qualche altro decreto legislativo, in materia fiscale. Oramai vengono giù a spizzichi e bocconi, fermo restando che è rimandato a giugno quello che era già stato illustrato e approvato a Natale (e la cosa passa come se fosse normale, come se non contenesse un sentore venefico il fatto che una norma fiscale la si voglia posporre alle elezioni regionali). Ieri è stato il turno, fra gli altri, dell’abuso di diritto. Dicesi «abuso di diritto» che un soggetto applichi le leggi esistenti, ma per trarne un indebito vantaggio. Che uno dice: scusate, se una legge consente un indebito vantaggio, cambiatela. No, ti rispondono, è il contribuente che deve applicarla con animo candido. Quindi non basta attenersi alla legge, occorre scegliere quella che non faccia sorgere il sospetto che ne stai approfittando.

Non basta: il decreto prevede che, da ora in poi, e sull’abuso di diritto, l’onere della prova spetti all’Agenzia delle entrate. E anche questa passa senza destare il dovuto scandalo: dovrebbe essere sempre così: tu Stato mi accusi, spetta a te dimostrare che ho torto, non a me che ho ragione. Invece no, vale solo su questo. E lo hanno scritto nel decreto. Dove si legge anche che se il contribuente ha un dubbio, ove non voglia abusare della legge, poverella, può chiedere all’ufficio fiscale quale legge applicare. Già me lo vedo: scusi, so che dovrei pagare 100, ma con il comma 329 dell’articolo 89 quater del regio decreto etc. etc., potrei pagare 80, secondo lei quale devo applicare? Risposta: sicuro che non ci sia nulla per cui deve pagare 120? Perché il funzionario che suggerisse la via più conveniente potrebbe andare incontro alla contestazione di danno erariale, qualora qualcuno domani dimostrasse l’abuso di diritto. Mentre, se il suggerimento viene dal commercialista, il professionista ne risponde come complicità, per cui gli devi anche pagare gli oneri dell’assicurazione. Però, oh, non vi lamentare, perché nel decreto legislativo c’è anche scritto che l’abuso di diritto non è contestabile in sede penale. Ovvero: non è un reato avere applicato una legge. Non importa se sei pensionato o imprenditore, scappa.

Una zona frana al posto di “Dublino”

Una zona frana al posto di “Dublino”

Davide Giacalone – Libero

In tutta Europa si affronta il problema dell’immigrazione ipnotizzati dal pendolo dell’emotività. In Italia c’è un sacco di gente che su quel pendolo si culla, compiacendosi delle cose che dice e alimentando un buonismo e un cattivismo che sono i gemelli dell’inutilità. Ricordando che il saldo previdenziale e fiscale, oltre che produttivo, dell’immigrazione regolare è attivo, quindi ci guadagniamo, ritengo che affrontare la questione, freddamente e ragionevolmente, sia possibile. A patto di non perseverare in tre colpe e dedicarsi a tre rimedi.

La prima colpa è dell’Onu. L’Africa e il Medio Oriente non sono problemi europei, ma globali. Il Paese che investe di più, in Africa, è la Cina. Se la fuga dalle guerre e dalla miseria ha una sponda geografica in Europa, e segnatamente in Italia, questo non attribuisce a quest’area l’esclusiva del problema. È evidente che i profughi non dovrebbero essere soccorsi mentre affogano, ma già quando scappano. L’Onu ha grandi uffici lussuosi e tanti esponenti pronti a far la morale a tutti, ma non ha campi raccolta dove servono e quanti ne servono. Non è una mancanza, è una colpa.

La seconda colpa è europea: con Schengen si è raggiunto un grande e positivo risultato, descrivendo frontiere comuni, ma il regolamento di Dublino (ex Convenzione), che dovrebbe regolare l’immigrazione, è un fallimento. Perderemo Schengen, se non sapremo rimediare. Ed è una colpa europea anche discutere di Triton e Mare Nostrum, magari con l’occhio solo ai costi, perché nessuna di queste soluzioni potrà mai funzionare. ed entrambe diventano collaborazionismo con gli schiavisti, se non hanno alle spalle una comune amministrazione dei migranti.

La terza colpa è italiana: persi nelle baruffe demagogiche sembriamo non vedere che i due poli, del respingimento e dell’accoglienza, sono privi di senso. I migranti di oggi sono già più del doppio del picco 2011, nonché dieci volte la media di questo secolo.Affrontarli con gli strumenti culturali dell’accoglienza e del respingimento è come presentarsi con una pinza nel mentre vien giù una diga.

Veniamo ai rimedi. Il primo rimedio è la sincerità. Il contrasto alle guerre tribali e agli attacchi fondamentalisti consiste nel far la guerra ai nemici della civiltà e della convivenza. In molti casi questa è anche la precondizione per rendere efficaci gli aiuti allo sviluppo. Noi (Europa e Occidente) non possiamo far la guerra a tutti. Si tratta di rendere noto cosa intendiamo e possiamo fare, evitando che alle parole non corrispondano i fatti. Le guerre sono brutte, ma perdere la credibilità è peggio. Perde credibilità anche chi, dopo avere combinato disastri in Libia, usa le stragi per regolare conti petroliferi.

Il secondo rimedio consiste nel predisporre le retrovie dei salvataggi. Noi non potremo mai accettare di assistere alla morte dei migranti. Non per bontà ipocrita, ma perché il giorno in cui l’avremo accettato saremmo già finiti. Come civiltà. Quindi, comunque si chiami la missione, continueremo a salvare migliaia di persone. E poi? Questo è il punto su cui è necessaria l’Unione europea: poi li si porta sulla terra ferma, in zona Ue che non sia sotto una sola giurisdizione nazionale, li si identifica, si destinano i profughi alla loro residenza finale, si accolgono i migranti “economici” che si ritengono utili e si riportano tutti gli altri al punto di partenza. In sicurezza e con determinazione. L’infezione italiana non è l’immigrazione, ma la tolleranza della clandestinità, e il regolamento di Dublino ci designa quali depositari di quell’infezione. Va cambiato subito. Anche per chiarire ai trafficanti che mescolare profughi e clandestini non potrà più portare loro profitti lordi di sangue.

Terzo rimedio: attacco alla Flotta dei barconi. Spetterebbe al governo locale, in difetto del quale è un diritto di chi è minacciato da quelle barche, ed è un atto d’umanità verso quanti ne riempiono e ne riempiranno le stive. Non serve a nulla invocare l’intervento europeo o gemere perché si è rimasti soli. Serve indicare la soluzione possibile. Mettere più soldi negli errori già in atto serve solo a prolungare lo strazio e annegare nelle parole inutili.

Il salvataggio “buttato via” da Tsipras e Varoufakis

Il salvataggio “buttato via” da Tsipras e Varoufakis

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Alla riunione primaverile degli organi di governo della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, il Presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha detto che sta ai greci (Governo, Parlamento, società civile) dare una risposta adeguata alla grave situazione di indebitamento e crisi in cui versa il Paese. Draghi ha anche aggiunto che se la Grecia deciderà di uscire dall’unione monetaria (e o sarà di fatto esclusa a causa della reintroduzione di pesanti controlli dei cambi), “l’Unione europea si troverà in acque inesplorate”.

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Grecia, come si arrovella Mario Draghi

Grecia, come si arrovella Mario Draghi

Giuseppe Pennisi – Formiche

Chi si ricorda del romanzo di Hans Fallada, pseudonimo di Rudolf Wilhelm Friedrich Ditzen “E adesso, pover’uomo?” (titolo originale Kleiner Mann, was nun?), scritto nel 1932 ma diventato popolarissimo grazie a una riduzione televisiva fattane negli Anni Sessanta con il titolo “Tutto da rifare pover’uomo”. E’ un romanzo molto più profondo di quanto non faccia pensare il titolo. Ditzen emigrò in Montenegro durante il nazismo e divenne dopo la guerra una delle penne più apprezzate di Berlino Est, ma morì nel febbraio 1947, prima che il regime, osannato negli Anni Settanta in un saggio di Barbara Spinelli, prendesse la piega che ha portato, prima al Muro e poi al suo crollo.

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Oppositori contabili

Oppositori contabili

Davide Giacalone – Libero

Da che si doveva sventare il pericolo della clausole di salvaguardia a che ci sono soldi in avanzo. Da che si scopre il tesoretto di 1.6 miliardi a che i tecnici di Camera e Senato avvertono che potrebbe diventare necessaria una correzione dei conti, per 6.4 miliardi. Da che si annuncia una valutazione prudenziale della crescita del prodotto interno lordo, fissata allo 0,7 per il 2015 (la metà della media eurozona, ma cresceremo di più, ripetono), a che si festeggia la stima fatta dal Fondo monetario internazionale, che ci vede in crescita solo dello 0,5 (un terzo dell’eurozona). Ora, a parte dotarsi di un pallottoliere, la domanda è: possibile che la sola opposizione, al governo, la facciano i contabili?

L’opposizione non è mera contrapposizione, che di quella abbondiamo. L’Italia è piena di soggetti politici che sono contro le privatizzazioni e contro le amministrazioni politiche, sicché si suppone auspichino la gestione divina. Di politicastri che protestano a fianco di chi è contro i tagli e di chi è contro le tasse. Loro sono “contro”, anche all’aritmetica e alla logica. Lasciamo perdere la coerenza. L’opposizione temibile, però, non è quella che cavalca i brontolii fagiolari (quella, quando vince, è segno che il sistema ha smollato), bensì quella che si rivolge agli elettori e dice: chi governa sta sbagliando, perché queste altre sono le cose che si dovrebbero fare. Meglio se è capace d’individuare la base sociale cui si riferisce, gli interessi che intende favorire e quelli che vorrebbe colpire. Le forze politiche che sono pro tutti sono pro niente e buon pro faccia a chi si sistema. Non la vedo, questa opposizione.

Sulla legge di stabilità c’è chi pubblica riflessioni e proposte e chi presenta critiche e diversi indirizzi. Ma proprio perché le firmano quelle sono posizioni loro, non di una forza parlamentare che stia facendo il mestiere dell’opposizione. Ciò provoca (ieri accadde a destra, oggi a sinistra) il nascere di un’opposizione innaturale, interna alla maggioranza. E comporta che il vincitore di turno diventi il solo giocatore in campo, con il risultato che perde il senso della realtà e dell’equilibrio, fino a gonfiarsi più di un rospo in calore.

A destra ci sono tanti bigotti rimasti sbigottiti, sicché dicono cose insensate su famiglia, procreazione e diritti individuali. Tanti socialisti asociali travestitisi da liberisti immaginari, sicché l’opporsi risulta loro difficile, nel mentre soffrono l’invidia della prestazione. Tanti giustizialisti manettari che vestirono i panni di un garantismo credibile come il botox. Tanti padri costituenti che ieri vollero quel che oggi considerano progenie bastarda. Finché avevano l’aia seguivano giulivi la scia del becchime, ora che si ritrovano nel pollaio inscenano guerre di galli, forse anche per dimenticare d’esser capponi.

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Davide Giacalone – Libero

Le campane del Fondo monetario internazionale suonano a morto, per l’Italia, ma da noi si offrono confetti. Il medico che comunicasse una diagnosi fatale, o l’avvocato che mettesse a parte il cliente dell’irrimediabile sconfitta giudiziaria, considererebbero matti gli interessati, se li vedessero festeggiare. Da noi si brinda per dati pessimi. Ed è segno che si è così fuori di testa al punto da negare l’evidenza dei numeri.

Dicono politici, giornali e opinionisti nostrani: secondo l’Fmi l’Italia crescerà più del previsto. Evviva. Dicono i numeri che la stima di crescita del prodotto interno lordo, per il 2015, s’inchioda allo 0,5%. Considerato che il governo ha appena previsto una crescita dello 0,7, a me pare qualche cosa in meno, non in più. Già, si obietta, ma è una stima al rialzo, perché prima il Fmi prevedeva solo 0,4. Peggio mi sento, perché l’incremento, dovuto alle politiche espansioniste della Banca centrale europea, è calcolato in +0,3 per l’eurozona e +0,1 per l’Italia. La nostra crescita incrementale è pari a un terzo della media europea. E non basta, perché la crescita 2015 dell’eurozona è stimata all’1,5 mentre la nostra, come detto, allo 0,5.

Dunque: fino a ieri noi rabbrividivamo all’idea di crescere solo la metà della media europea, mentre ora festeggiamo il crescere solo un terzo. Sono numeri da paura. Ma fa ancora più paura l’incoscienza e la superficialità di chi li commenta con il sorriso di compiacimento. Finalmente si rivede la crescita. Questa è la straordinaria fesseria che sentiamo ripetere. Taluni, e son tanti, hanno l’attenuante di non sapere di che parlano, ma altri hanno l’aggravante di far finta di non sapere cosa diavolo dicono. Tutti popolano la Repubblica dei bonus, quella in cui si redistribuiscono i soldi nel mentre si accresce il debito.

Una classe dirigente che si rispetti, fatta di politici, ma anche di cattedre e opinionisti, dovrebbe avere il coraggio di partire dalle previsioni (quelle del Fmi coincidono con quelle della Banca d’Italia) per dedicarsi a come modificarle, prendendo atto che segnano un sicuro insuccesso italiano, con un aumento del nostro svantaggio competitivo. Da lì si dovrebbe passare ai possibili rimedi. Ad esempio: la nostra macchina produttiva ha dimostrato, con le esportazioni, di avere un motore capace di ruggire, anziché dilapidare ricchezza blandendo elettori si potrebbe concentrare la spinta laddove la si crea, arricchendo tutti, elettori compresi. Ma quelli di domani, mentre ci si occupa solo di quelli odierni. Una classe dirigente non degna di rispetto, invece, prova a negare la realtà, allo scopo di tirare avanti senza farci i conti, Nel frattempo concentrando tutte le energie in partite certo non prive di rilevanza, ma estranee alla sola vitale: la capacità di riprendere la via della crescita, ad una velocità almeno pari a quella degli altri europei. È la sola condizione capace di farci reggere il peso del debito. Il resto è fuffa.

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di  simpatia

Tsipras ha ancora una via d’uscita. Ma lui e Varoufakis hanno bruciato l’iniziale patrimonio di simpatia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In un’unione monetaria che non è quella che gli economisti chiamano ‘un area valutaria ottimale’ (con perfetta ed effettiva mobilità di fattori di produzione, di beni e di servizi), la Grecia potrebbe ancora salvarsi, nonostante un debito pubblico pari al 175% del Pil e conti da considerare ‘poco chiari’ (a voler essere gentili). L’80% del debito dello Stato è, in conseguenza di varie ristrutturazioni e salvataggi, dovuto a istituzione pubbliche che non ammettono insolvenze o sconti (ma in certi casi accettano dilazioni). Atene dovrebbe attuare speditamente una strategia caratterizzata da tre mosse: ripagare subito i debiti con il Fondo Monetario (perché sono i più cari in termini di interessi ed ammortamento); pagare, al più presto le obbligazioni della Banca centrale europea (sia perché costose sia soprattutto per avere accesso a nuovi finanziamenti quali quelli del Quantitative easing); rinegoziare le scadenze di quanto deve ai Governi della zona euro (circa 30 miliardi di euro solo all’Italia).

In tal modo secondo calcoli effettuati il 13 aprile dal Peterson Institute of International Economics, il tasso effettivo medio d’interesse sul debito scenderebbe al 2%, una frazione di quello che gravava i greci nel 2009 quando la crisi è scoppiata. Unitamente a serie riforme interne, nel giro di un paio di anni la Grecia riprenderebbe a crescere, come mostra l’esperienza di una novantina di paesi censiti da Banca mondiale e Fondo monetario. Tuttavia, è difficile che questa strada venga seguita da Tsipras e Varoufakis ed accettata dagli altri principali protagonisti. Nel giro di tre settimane, infatti, Tsipras e Varoufakis hanno dilapidato il capitale maggiore che avevano a disposizione nei giorni successivi alla creazione del nuovo Governo: il capitale di simpatia creato con il loro modo di fare un po’ guascone (e molto poco pericleo) in un ambiente dove si veste in grisaglia e si portano cravatte scure. Lo hanno letteralmente buttato a mare prima prendendo impegni (di presentare programmi concreti e specifici per questa o quella data) mai mantenuti, ritirando fuori, poi, il contenzioso dei danni di guerra con la Germania, facendo, infine, intendere che sarebbero andati a flirtare con un Putin, il quale li ha degnati di tè e sorrisi senza neanche far loro gustare vodka e caviale. Principalmente, però, non sono stati in grado di giocare a due livelli trovando un equilibrio tra ‘reputazione’ con i loro creditori e ‘popolarità’ con i loro elettori. Ora contano quasi esclusivamente sul timore che i loro creditori avrebbero degli effetti dell’uscita delle Grecia dall’eurozona sul resto dell’area.

È una partita ad alto rischio: da un lato, una ‘Grexit’ non piace a nessuno, da un altro, nei piani alti dell’eurozona, ci si sente presi in giro da chi pratica il gioco delle tre carte con uno stile più levantino che dell’Atene classica.

La trappola della “precomplicata”

La trappola della “precomplicata”

Davide Giacalone – Libero

Siete prediffidati, non crediate alla precompilata. Agli italiani che accetteranno l’oracolo del fisco, apponendo la propria firma in calce a quel che l’erario chiede, rinunciando a ogni modifica e ulteriore detrazione, quindi anche a far valere le spese mediche eventualmente sostenute, si dice che, in quel modo, eviteranno ogni successivo controllo. Non è vero. Fate attenzione, perché delle bugie che racconta il fisco si pente solo con congruo ritardo. E senza pagare le ammende che pretende dai contribuenti.

Definimmo «precomplicata» quella che s’annunciava come precompilata perché il lavoro non lo ha fatto l’Agenzia delle entrate, che ne mena vanto, ma i sostituti d’imposta. Vale a dire i privati cittadini, per loro i commercialisti, le imprese, i datori di lavoro e, per quel che riguarda i pensionati, le rispettive casse. A una settimana dalla scadenza non era ancora disponibile il modello della CU, la certificazione unica, che ha sostituito la CUD, certificazione unica dipendenti. Tanto è vero che molti di noi hanno ricevuto (o inviato) certificazioni provvisorie e non a norma. Pazienza? Un corno, perché con il nuovo sistema si pagano 100 euro di multa per ogni errore. E il cielo non voglia che oltre a essere irregolare sia pure errata, perché, in quel caso, il contribuente risponde anche di quel che non ha fatto, ma ricevuto. Da qui le missive inviate, per dire: scusate, mi pare sia tutto a posto, ma il modello che mi avete inviato non è quello voluto dall’autorità preposta. Anche nel caso in cui s’accetti l’oroscopo fiscale, trovato nel cassetto digitale, questo non significa affatto che saranno esclusi i controlli. A chi lo sostiene si dovrebbe contestare il raggiro collettivo, perché sono sempre passibili di controlli e accertamenti i presupposti della dichiarazione, inviati all’amministrazione. Ed è la dimostrazione che la rivoluzione di cui parla la direttrice dell’Agenzia, Rossella Orlan­ di, altro non è che un assemblamento d’informazioni, fornite dai privati.

Esempio: la tua banca mi ha detto che hai un mutuo e tu mi hai detto che sei residente nella casa cui quel mutuo si riferisce, io fisco ho usato quelle informazioni per precompilarti la dichiarazione, ma non ne rispondo, perché sei tu banca e tu cittadino che me le hai date. Che, in compenso, sono sventolate minacciosamente verso quanti osino cambiarne anche un solo rigo. Magari, come detto, per detrarre le spese mediche. E non solo saranno controllati, ma ne risponderanno personalmente i consulenti che lo aiuteranno a farlo, siano essi commercialisti o Caf. I quali sono professionisti che il fisco s’era abituato ad utilizzare come esattori, il cui costo era ed è a carico del tassato, al punto da non sopportarne la funzione quando tornano a svolgere il loro genuino mestiere: aiutare il contribuente ad adempiere i propri doveri, senza, però, versare nulla più di quel che si ritiene dovuto. Fate pure, dice il fisco, ma se commettete un errore pagate in due: il contribuente e il complice.

È giusto? Secondo me no, ma ammetto che ci potrebbe anche stare, se l’amministrazione fiscale non si distinguesse a sua volta per grossolana demagogia ed enormità degli errori. Leggo che la dottoressa Orlandi prende le distanze dai blitz stile Cortina. «Abbiamo cambiato atteggiamento», dice. Il modo giusto per perseguire l’evasione fiscale è un altro, usando le banche dati. Ma va?! Noi lo sostenevamo allora, ma finimmo sommersi dalla marea retorica e stucchevole del dagli all’evasore, con il direttore dell’Agenzia che magnificava l’operazione. Sostenevamo allora quel che l’Agenzia dice oggi: è roba spettacolare, ma inutile. Solo che noi ci beccammo le accuse di volere proteggere gli evasori, lanciate da un’opinione pubblica da cotanto ufficio diseducata al rispetto dell’onorabilità di ciascuno. Direi che non guasterebbe ricevere le scuse. Se la cosa risulta complicata, possiamo inviarne una bozza, pre­compilata.