Edicola – Opinioni

Falso in falso in bilancio

Falso in falso in bilancio

Davide Giacalone – Libero

Regolare il falso in bilancio in una legge intitolata alla corruzione è un po’ come regolare l’aborto in una legge sulla violenza carnale. Non che fra le due cose non ci sia o passa esserci una relazione, ma tradisce una visione singolare della vita societaria e di quella collettiva. Il bilancio falso, del resto, è il tradimento del bilancio vero, le cui regole sono parte vivente del diritto societario, nonché anima onnipresente nel mercato. Supporre che la patologia possa essere individuata e colpita in luogo distante da quello in cui si definisce e regola la fisiologia è supposizione più vicina all’opera di una macumbeira, piuttosto che a quella di un medico.

L’idea politica che presiede all’operazione si può così riassumere: puniamo severamente il falso in bilancio, superando una legge che lo aveva depenalizzato, se non addirittura abrogato, favorendo la formazione dei fondi neri con cui si pagano le tangenti. Tanto che qualcuno ha titolato: reintrodotto il falso in bilancio. Sono favorevole a punirlo, severamente. Però non è mai stato abrogato, sicché sarà meglio guardare nelle pieghe. Mentre i fondi neri sono esistiti prima della riforma precedente, come anche dopo. Ed esistono in ogni parte del mondo, talché sarà opportuno ragionarne con meno frettolosità.

Il falso in bilancio non ha mai cessato di essere un reato. Solo che, naturalmente per le società non quotate in Borsa, se ne esclude la punibilità nel caso in cui il falso o l’omissione non alteri sensibilmente la rappresentazione economica, patrimoniale o finanziaria della società. Non si è punibili se le alterazioni non determinano una variazione del risultato d’esercizio, al lordo delle imposte, fino al 5% o una variazione del patrimonio fino all’1. Né lo si è se le voci dipendenti da stime (molte voci dei bilanci non sono somme, ma stime) differiscono fino al 10% della valutazione corretta. Questi sono i limiti ancora vigenti. A me non piacquero, perché da una parte introducono l’idea che ci sia un falso accettabile (una cosa è l’errore, compreso quello di stima, altra il falso), dall’altra lasciano un margine largo d’imprecisione su cosa sia rilevante e cosa no. Le soglie percentuali erano precise, invece. Larghe, ma precise. Fuori da queste ipotesi, si subisce una pena, che va dall’ammenda alla galera. Troppo basse le pene? Questo è un discorso inutile e fuorviante, perché l’aumento delle pene è una truffa ai danni di un Paese in cui la giustizia non funziona. Le pene esistenti sarebbero efficaci e severe, se solo fossero reali. Non lo sono, però. Sorte che agguanta anche quelle in discussione.

Ora si cambia? Nel testo approvato dal Senato c’è scritto che sono puniti i “fatti materiali rilevanti”. Esclusa l’esistenza dei “fatti immateriali”, suppongo significhi che i fatti non rilevanti non sono puniti. Ecco, appunto. L’ottimo Luigi Ferrarella (Corriere della Sera) c’informa che si tratta di una cattiva traduzione dall’inglese. Peggio. Resta che il testo afferma doversi punire il falso (sempre per le non quotate), con pene da 1 a 5 anni di reclusione. Ma si scende a 6 mesi nei casi di “lieve entità”. La pena massima di 8 anni è prevista solo per le società quotate.

Con il che si ritorna da dove si era partiti: se si intende un falso, concepito come tale, ma “lieve”, si ammette la sostanziale impunità del concetto, se, invece, vi si ricomprende l’errore, allora esiste già la regola generale. In ogni caso siamo a definizioni imprecise e prive di riferimenti oggettivi, lasciando tutto alla discrezionalità del giudice. Tanto più che il reato potrà essere punito “tenuto conto della natura e della dimensione della società e delle modalità o degli effetti della condotta”. Vi sembra così diversa dalla legge vigente? Aumenta le pene massime di 2 anni e perde le soglie, regalando spazi al giudice. Vale a dire che li toglie al legislatore. In ogni caso queste regole penali non si applicano alle società piccole, già fuori dalla portata della legge fallimentare.

In quanto ai fondi neri, si creano mediante spese regolarmente contabilizzate. Il falso non lo vai a cercare nel bilancio, ma nel rapporto professionale o nel servizio per cui è stata emessa fattura. O nelle pezze d’appoggio di costi gonfiati. Il che si riflette nel bilancio, ma non ci arrivi da quello. Spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che i cambiamenti sono declamazioni. Salvo il fatto che oltre al fisco ora anche il giudice penale può accasarsi nel bilancio di qualsiasi società. E non è poco.

L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è che cresce la disoccupazione, ma che diminuisce l’occupazione. Già patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, semmai un invito a piantarla di giocare con i numeri. Nessuno dovrebbe, oggi, rimproverare al governo i dati sulla disoccupazione, se non fosse che il governo, ieri, sparava numeri propagandistici. Ed è semplicemente demenziale continuare a misurarsi solo con se stessi: da noi la disoccupazione cresce, mentre diminuisce sia nell’Eurozona che nella Ue (28 paesi). Si cerchi di essere seri, quando si parla di cose serie. Invece se n’è vista poca, negli ultimi giorni, di serietà. Nell’eurozona la disoccupazione si attesta all’11,3%, scendendo dello 0,1 in un mese (febbraio rispetto a gennaio) e dello 0,5 in un anno (2015 rispetto al 2014). Nella Ue le cose vanno meglio: 9,8 i disoccupati, ­0,1 in un mese e ­0,7 in un anno. In Italia i disoccupati sono il 12,7 a febbraio, in crescita dello 0,1 in un mese, +2,1 nei 12 mesi. Matteo Renzi ama parlare dei nuovi contratti in termini assoluti, invitando a considerarli vite ritrovate. Bella suggestione, ma qui abbiamo 67mila disoccupati in più. Vite complicate.

Attenzione, però, perché il tasso di disoccupazione è certamente un problema, ma la sua crescita non necessariamente un male: se più persone nutrono fiducia e più numerosi cercano lavoro, quel tasso sale. Ma qui il segno è controverso, perché gli inattivi, quanti un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano, sono il 36% a febbraio: +0,1 rispetto a gennaio, ­1,4 su base annua. Luci ed ombre. Per una lunga stagione, fra il 2003 e il 2012, il tasso di disoccupazione italiano è stato inferiore alla media europea. Siccome ci sforziamo di ragionare e proporre, senza tifare e imbrogliare, scrivevamo che era drogato dalla cassa integrazione. Se avessimo contabilizzato fra i disoccupati quelli che pur non lavoravano per nulla, non saremmo più stati sotto la media europea. I governanti di allora (centrodestra) si arrabbiavano. Ora, però, siamo da un pezzo sopra la media. E la distanza si allarga. Unica consolazione è il calo della cassa integrazione. Consolazione misera se si giunge al dato decisivo.

Quel che conta è la partecipazione al lavoro. Ciò che classifica un Paese (ove non si viva di rendite petrolifere) è la percentuale di popolazione attiva effettivamente impegnata nella produzione. E qui son dolori seri, perché siamo solo al 55,7%. Che non è solo nettamente sotto la media europea e ancor più sotto quella dei concorrenti (Germania in testa), ma è anche in diminuzione (­0,2 in un mese, 44mila persone in meno al lavoro). La partecipazione maschile al lavoro si attesta al 64,7%, bassa, ma non con un distacco drammatico rispetto agli altri. Mentre quella femminile è al 46,8. Roba da fondamentalisti islamici. Ma il nostro non è un problema religioso, bensì ideologico e patologico: donne e giovani (42,6% di disoccupati, in crescita, mentre i giovani occupati scendono del 3,8 in un mese e dello 0,6 in un anno) fuori dal lavoro. Ovvio che con così scarsa partecipazione al lavoro l’Italia segni tassi di crescita inferiori a quelli che, altrimenti, la manovra espansiva della Bce consentirebbe. Il che aggrava i nostri problemi e aumenta lo svantaggio competitivo. Biascicare frasette sul ritrovato segno positivo è, dunque, patetico. Questa è la foto, se la piantiamo di prenderci in giro. Ed è un’immagine che somiglia molto a quella della Germania di 15 anni fa. Prima delle riforme. Loro le hanno fatte, noi no. Discusso, tanto. Fatto, poco.

Il ministro del Lavoro, Poletti, ha detto che il governo si sforzerà di prorogare gli incentivi per le nuove assunzioni. Strada sbagliata, perché qui abbiamo uno spaventoso svantaggio strutturale, non un inciampo congiunturale. Spostando risorse si sposta improduttività, gravando sulla fiscalità. A noi serve chiamare masse di inattivi e disoccupati al lavoro, specie donne e giovani. E un risultato di quel tipo non lo si ottiene con gli incentivi, ma con le defiscalizzazioni e deregolamentazioni. Germania docet. La cosa curiosa è che il governo dice di averlo già fatto, con il Jobs Act (che ancora deve cominciare a funzionare, Landini su questo, ha ragione). Ma poi non ci crede, puntando sugli incentivi. La realtà è che quanto c’è di buono, in quella legge, è, al momento, solo propaganda. Mentre quel che manca è realtà, a cominciare dai soldi per modificare gli ammortizzatori sociali. Peccato che le chiacchiere non producano ricchezza, altrimenti vivremmo da nababbi.

Le liberalizzazioni timide

Le liberalizzazioni timide

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 2015, definito Anno Felix, dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, dovrebbe essere caratterizzato da una crescita economica ben superiore allo 0,1% segnato nel primo trimestre e sorretta da un programma aggressivo di riduzione del debito pubblico (tramite privatizzazioni) e di aumento della produttività (tramite crescente concorrenza derivante da liberalizzazioni).

Di privatizzazioni ci occuperemo quando il programma e la sua attuazione saranno meglio definite. Il disegno di legge (ddl) sulla concorrenza, e quindi sulle liberalizzazioni, è stato varato a fine febbraio; quando questa mensile arriva in edicola, sarà all’esame del Parlamento. Al carattere del Presidente del Consiglio si possono attribuire tanti tratti ma non certo la timidezza. Tuttavia, il ddl in questione è più ‘timido’ delle ‘lenzuolate’ di bersaniana memoria di una diecina di anni, nonostante l’aggravarsi della situazione in questo lasso di tempo. Principalmente se la situazione italiana è comparata con quella dei nostri competitors europei (non parliamo di quelli dell’Emisfero Occidentale o dell’Asia).

Non ci riferiamo neanche ad inchini come quelli alla lobby dei taxi. E’ sufficiente pensare che nel campo dei servizi pubblici locali lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico (non certo un covo di liberisti) aveva chiesto che non ci fossero più enti (come le autorità portuali) al tempo stesso regolatori e fornitori di servizi (da loro stessi regolari) . In materia sanitaria, il Ministero della Salute (non affiliato a nessuna istituzione liberale) aveva proposto accreditamento periodico, e concorsuale, delle strutture sanitarie private e la liberalizzazione della vendita dei medicinali di fascia C. Piccoli passi verso una maggiore concorrenza, ma tali da imbarazzare il timido Presidente del Consiglio.

Non si può che suggerirgli la lettura di un’analisi condotta da dieci centri studi europei e coordinata dal piccolo ma dinamico centro studi italiano ‘ImpresaLavoro’ e di organizzare un seminario del Partito Democratico (pare sia prassi) al fine di preparare un maxi-emendamento prima della conclusione dell’iter parlamentare del ddl. Lo studio riguarda principalmente la libertà fiscale, che sintetizza il complesso delle altre libertà economiche  he agevolano o frenano l’impresa (e quindi l’occupazione).

Gli istituti hanno lavorato seguendo la medesima metodologia ed hanno computato un Indice della libertà fiscale sulla basa di quattro distinti indicatori: le dimensioni della tassazione complessiva rispetto alla produzione annuale; il modo in cui il prelievo fiscale colpisce lavoro, capitale e consumi; la complessità degli ordinamenti e, di conseguenza, il tempo e le risorse che imprese e famiglie devono destinare all’assolvimento degli obblighi di legge; la decentralizzazione del prelievo e, al tempo stesso, l’autonomia dei vari livelli di governo. La liberalizzazione (oppure la mancanza di liberalizzazione) e sottointesa in ciascuno dei quattro indici. L’Italia non esce affatto bene : con un total tax rate del 65,4% siamo alle prese con un moderno Leviatano, cui pare persino difficile opporsi e con cui l’opinione pubblica sembra ormai rassegnata a convivere. Si potrebbe rispondere che la delega fiscale a cui Governo e Parlamento stanno lavorando potrebbe curare questi problemi tributari. Tuttavia, chiunque abbia compiuto un minimo di studi economici sa che la liberalizzazione e la concorrenza sono gli unici strumenti per quella crescita che sola può permettere la riduzione dell’oppressione fiscale.

Un quarto di secolo fa, l’allora Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Pier Luigi Ciocca , sempre culturalmente contiguo al centro sinistra , nella prefazione alla raccolta di saggi ‘Disoccupazione di Fine Secolo’ (Bollati Boringhieri,1997 documentava che in mondo in cui il Nord America ha un carico tributario attorno al 30% del Pil ed i Paesi asiatici emergenti del 20% del Pil, con il nostro 46% di allora rischiava un declino sempre più grave e la disoccupazione di massa sempre più lunga.

Neanche i suoi amici con responsabilità di governo lo hanno ascoltato.

La riforma delle pensioni che può  “mandare a casa” Renzi

La riforma delle pensioni che può “mandare a casa” Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In The Doctor’s Dilemma, un noto play di George Bernard Shaw, il protagonista, un medico chirurgo di rango, è a un vero bivio: salvare o non salvare il marito (ammalato di tubercolosi) della propria amante (che lui vorrebbe sposare), utilizzando tecniche di avanguardia rare e costose. Non raccontiamo la conclusione per non fare perdere agli spettatori il gusto della sorpresa.

Un dilemma analogo è quello che affligge il Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Giornalisti vicino al Palazzo (in tutti i sensi) hanno diffuso la voce secondo cui, bruciando i tempi e con l’idea di fare un regalo di Pasqua agli italiani, venerdì 3 aprile verrebbe esaminato e approvato il Documento di economia e finanza (Def), base per la Legge di stabilità del prossimo settembre. Tuttavia a far quadrare i conti mancano circa 10 miliardi di euro nel comparto della previdenza.

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Mps, Carige e Ubi. Come procede l’Unione  bancaria europea

Mps, Carige e Ubi. Come procede l’Unione bancaria europea

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 14 aprile prossimo sarà passato un anno da quando è stato posta in essere la seconda gamba dell’Unione Bancaria Europea (UBE), il Single Resolution Mechanism (SRM), con un apposito fondo, procedure e consiglio di amministrazione, per impedire che una grave situazione, o un fallimento, di un istituto finanziario di grandi dimensioni possa contagiare il sistema del resto dell’eurozona. Un’analisi recente dell’UBE e del SRM è nel volume di Astrid Towards the European Banking Union: Achievements and Open Problems (a cura di Emilio Barucci e di Marcello Messori, pubblicato alcuni mesi fa da Passigli Editori).

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Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Di fronte al fanatismo, l’Occidente riscopra le sue radici – Editoriale di Carlo Lottieri

Carlo Lottieri

Succede ormai con periodicità. Era già accaduto al tempo dello scandalo sollevato dal romanzo di Salman Rushdie (Versetti satanici, 1989) e poi per il film Submission di Theo van Gogh (2004) e di seguito in altre circostanze. Di tanto in tanto il mondo musulmano sembra esplodere d’ira dinanzi a forme espressive – letterarie, satiriche, cinematografiche – dell’Occidente e reagisce, come nel caso delle vignette di Charlie Hébdo di qualche mese fa, scatenando una violenza inaudita.
Quando in Occidente si manifestano tesi critiche verso l’Islam e si avversano taluni aspetti di quella cultura, gli stessi rapporti tra mondo musulmano e società occidentale vanno in crisi. In tale contesto, la nostra società sembra incapace di trovare un equilibrio, talora mostrandosi perfino disponibile a non difendere la propria identità e le garanzie che, da noi, tutelano la libertà dei singoli.
Come allora si dovrebbe reagire a questo attacco tanto duro? Sicuramente non esistono risposte semplici. Qualunque analisi seria e responsabile, però, chiede che si distingua in maniera assai netta ciò che è legittimo sotto il profilo del diritto (l’ordine giuridico) e ciò che invece è opportuno in una prospettiva etica (l’ordine morale). Dal punto di vista del diritto, gli occidentali devono continuare a proteggere la libertà d’espressione di tutti: una libertà che non si estrinseca solo e in primo luogo nella facoltà d’affermare ciò che piace a tutti e che è largamente condiviso. Entro una società aperta e liberale hanno piena cittadinanza anche quelle tesi che taluni, e magari anche molti, giudicheranno assurde e insostenibili. Ogni religione deve vedere riconosciuto la piena facoltà di esprimersi e definire la frontiera che distingue il giusto e l’ingiusto, la santità e il peccato; e la stessa libertà va attribuita ai romanzieri, ai giornalisti, ai registi e così via. L’Europa farebbe un terribile errore se, per non suscitare tensioni con certe frange dell’Islam, abbandonasse la propria tradizione e amputasse la libertà di espressione. Quello che disegnavano e scrivevano gli autori di Charlie Hébdo barbaramente uccisi era legittimo al di là dei contenuti stessi.
Bisogna però distinguere tra una vera tolleranza e un’ideologia di Stato che pretende d’imporre a tutti una sorta di “religione laica” che di liberale ha ben poco e che sotto certi punti di vista finisce proprio per alimentare una reazione fanatica anti-europea. Specialmente in Paesi come la Francia, ma in parte anche da noi, ha preso piede un repubblicanesimo che avversa le culture religiose in quanto tali e che vorrebbe imporre un modello unico di società e di esistenza. Trionfa insomma un “politicamente corretto” che non sembra lasciare spazio al pluralismo anche se si presenta in abiti democratici. Tutto questo ha poco a che fare con la tradizione liberale, e se va difesa la libertà dei giornali satirici, allo stesso modo va salvaguardata la libertà delle famiglie cristiane, musulmane o di altro credo. Proibire a uno studente, come si fa in Francia, di portare a scuola una piccola croce appesa al collo o un qualsiasi altro simbolo religioso non è una scelta di libertà, ma semmai di segno opposto.
Una società libera è tale se ognuno rispetta chi è diverso da sé. Più di tutti devono però essere disposti a esercitare questo rispetto quanti dispongono del potere, che non hanno alcun titolo per considerare i loro valori come necessariamente giusti e universali, e quindi da imporsi agli altri. Il subdolo dispotismo del laicismo statale “alla francese” è, in qualche modo, il più prezioso alleato degli integralisti e dei fanatici islamisti.
Dobbiamo ammettere che da questo punto di vista l’Europa è assai deficitaria e che gli orientamenti prevalenti sembrano proprio rafforzare l’imposizione di una metafisica pubblica, di fatto in lotta con le religioni. La sacralità dei nostri Stati (che si autorappresentano come perpetui, indivisibili e sovrani) deve essere contestata, se si vuole costruire una società davvero plurale. Ed è importante comprendere come il laicismo imposto dal moderno welfare State sia cosa assai diversa dalla libertà individuale, la quale deve permettere a chiunque di fare le proprie scelte in ambito educativo, sanitario, previdenziale e via dicendo. Chiamando in causa taluni dibattiti della filosofia politica degli ultimi anni, bisogna allora prendere sul serio il pluralismo di un autore come Chandran Kukathas (autore de L’arcipelago liberale), che connette libero mercato e comunità volontarie.
C’è invece troppo “kemalismo” e troppa statualità nelle società europee, in cui gli apparati pubblici poggiano su una religione civile à la Rousseau che riduce gli spazi di libertà ed entra in tensione con le fedi. Ma è difficile costruire una convivenza serena se lo Stato non lascia che ogni cultura (cristiana, musulmana, ebraica, laica ecc.) non è libera di operare nei vari ambiti: fermo l’obbligo per tutti di non ledere i diritti altrui, dalla libera iniziativa imprenditoriale alla piena espressione delle proprie idee.
Nessuno è tenuto ad apprezzare fino in fondo un periodico tanto irriverente come Charlie Hébdo ed era facile prevedere che quelle vignette avrebbero buttato benzina sul fuoco. Ma il linguaggio del periodico francese non può essere considerato un crimine entro una società libera. Comprimere ancor più le nostre libertà, per giunta, non produrrebbe grandi risultati e in questo senso le piazze arabe in rivolta devono farci riflettere. Non per indurci a rattrappire ulteriormente i nostri spazi di libertà, ma semmai per dare basi più solide a quel pluralismo culturale e a quella tolleranza religiosa che – in tante occasioni – le logiche di Stato e il moralismo del “politicamente corretto” imposto per legge finiscono di fatto per minare nelle loro fondamenta.
Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.

La privatizzazione “sicula” del sale

La privatizzazione “sicula” del sale

Davide Giacalone – Libero

La Sicilia è terra di sale. Ma non nella zucca di chi l’amministra. Quella che segue è la storia brutta di come quel che si sarebbe dovuto privatizzare, la Italkali, si rischia di perderlo, incassando 3 milioni al posto di 20. Sembra la trasposizione demenziale di una poesia (L’omu di sali) di Renzino Barbera: «Sali, poi sali e poi sali / E sulu muntagni di sali / (…)/ di picciuli… un pizzicu sulu». La Italkali gestisce l’estrazione e la commercializzazione del sale minerale siciliano. Ogni anno totalizza ricavi per 90 milioni. Le azioni sono intestate in maggioranza (51%) alla Regione siciliana e per la rimanente parte a un socio privato. Nel 1999, come riporta il giornale online Live Sicilia, se ne decide, saggiamente, la dismissione. Non c’è ragione per cui la Regione debba fare quel mestiere. Ce ne sono molte per privatizzare. Ma vendere non deve significare regalare, come, invece, sta accadendo. Capita, difatti, che il processo di vendita, avviato allora, non è mai stato portato a compimento.

Si fece tura gara per scegliere l’advisor, e la vinse Meliorbanca. ll lavoro di valutazione e vendita s’interrompe più volte, tanto: che fretta c’è? Ma dal 2012 sembra essere in dirittura finale. Solo che, a novembre, Rosario Crocetta è eletto presidente della Regione, promettendo una stagione di radicali rinnovamenti e, manco a dirlo, di trionfi anti­maliosi. Invece si ferma tutto. Siccome corre l’anno 2015, e sono scaduti tutti i tennini di legge, il socio privato sostiene che quello pubblico è “decaduto”, quindi può essere liquidato al valore nominale delle azioni che ancora gli sono intestate.

Con una perdita, per l’erario siculo, di poco meno del 90% del valore. Mettiamo pure, per benevola concessione logica, che tutto questo si debba a semplice incuria, inettitudine e dimenticanza. Mettiamolo pure. Se ne dedurrebbe che la corruzione è assai più conveniente della scimunitaggine. Che se la cosa fosse stato un affare losco si sarebbe potuto immaginare di pagare un prezzo corruttivo, che so?, fino al 10%. Mentre ora il 10% è il totale dell’incasso. Morale immorale, ovviamente, ma pur sempre meno irrazionale di quel che accade.

La cosa è talmente macroscopica che pure da dentro il Partito democratico si levano voci di aperto dissenso, con Antonello Cracolici (vecchio giovane comunista isolano), consigliere regionale (anzi no, scusate, in Trinacria si chiamano “onorevoli”), che presenta un’interrogazione per bloccare la “svendita”. Che, però, manco una svendita è: trattasi di regalo. Prova a sostenere: l’avvio della vendita non aveva valore, i termini previsti dalla legge nazionale non si applicano in Sicilia, che è autonoma, e, comunque, vanno intesi come ordinatori, cioè privi di valore effettivo. E si tonra a Barbera: «Restu tra ‘u suli e lu sali». E ci resto all’infinito. Dice Cracolici: sono favorevole alle dismissioni, ma al valore reale, di mercato, dando íl diritto di prelazione al socio privato, ma mica facendosi scippare. Giusto. Ma si cominciò nel secolo scorso.

La cosa curiosa è che la notizia è rimbalzata anche sui quotidiani nazionali, senza che mai si capisse come fa un socio a “decadere”. Il dettaglio è che se effettivamente decade, e a quelle condizioni, il danno erariale imputabile ai decadenti è dato dalla differenza fra il valore e il liquidabile. Frai 16 e i 17 milioni. Come se abbondassero, in quelle casse. Alla prossima manifestazione di precari da blandire e prendere in giro, provino a spiegare loro perché i soldi si buttano dalla finestra. Con in cortile, a raccoglierli, tutto fuorché un bisognoso. Storie di ordinaria follia, nell’isola disperata e dimentica di sé. Dove in cima ai cortei contro il pizzo ci stanno quelli che prendono il pizzo. A guidare quelli contro la mafia, ci stanno quelli che avversarono Borsellino e Falcone. A capeggiare gli industriali contro l’onorata società ci sono quelli inquisiti per connivenza con i disonorati associati. E nessuno s’azzardi a citare Pirandello, o l’abusato Gattopardo (Tomasi di Lampedusa), perché queste non sono storie di verità indistinguibili o di cambiamenti conservativi. Qui è la principessa incapacità che convola a nozze con il re Furto. Semmai, ancora Barbera; «Chi vita scipita, ‘nto sale».

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Davide Giacalone – Libero

Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla. La sorte dei governi italiani è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole «no», a un ecumenico «sì, ma è normale che sia così», fino a un estremo «sì, fu un colpo di Stato». Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, l’Italia è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi per la fornitura di gas. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder prende la guida del gasdotto Nord Stream AG, designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario.

Ci torno, prima però è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero, molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono.

Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba. Tale fu la costituzione del fondo salva Stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio Pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne.

Così nacque il governo Monti (novembre). Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Tutte le nubi su Atene

Tutte le nubi su Atene

Giuseppe Pennisi – Formiche

Che cosa aggrava l’ingorgo ellenico di cui nessuno parla…

Secondo le corrispondenze da Bruxelles, Atene e Berlino, sui giornali di questa mattina, il nodo greco starebbe per sbloccarsi. Grandi sorrisi a Berlino (in Germania baci ed abbracci non si usano) tra Cancelliere tedesco e Presidente del Consiglio ellenico.

Una riunione straordinaria dell’Eurogruppo convocata per lunedì 30 marzo dovrebbe sbloccare cinque miliardi di euro di aiuti ed impedire il default; sempre il 30 marzo il Governo di Atene presenterebbe ai partner europei un programma di riassetto strutturale economico “accettabile” (ossia al minimo sindacale) che, almeno per i prossimi mesi, dovrebbe fare sì che il Governo greco adotti le misure essenziale per impedirne un’uscita (o espulsione) dall’unione monetaria.

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