Edicola – Opinioni

Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni  d’oro

Riforma pensioni 2015 – Ecco le “trappole” da evitare su flessibilità e pensioni d’oro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Nei ministeri competenti (e all’Inps) si stanno iniziando a predisporre articolati su una nuova riforma della previdenza da inserire nella prossima Legge di stabilità. Le norme consisterebbero essenzialmente in: a) nuovi contributi di solidarietà per quelle che vengono chiamate le “pensioni d’oro”; b) flessibilità in uscita per coloro che desiderano andare in quiescenza prima dell’età ora prevista da quella che viene chiamata “legge Fornero”.

Prima che i lavori preparatori vadano troppo avanti, potrebbe essere utile fare alcune considerazioni. In primo luogo, non soltanto i teorici della neoeconomia ma studi Ocse, Fmi e Banca mondiale e numerose analisi di centri di ricerca internazionale documentano che nessun Paese reagisce bene a riforme della previdenza che si succedono anno dopo anno; esse generano ansietà e incertezza e riducono la credibilità della politica. Ciò influisce negativamente sulla produttività. Quindi, meglio esaminare a fondo, e con la pazienza e il tempo che ci vogliono, le alternative e approvare, una volta per tutte, un sistema che resti solido per diversi anni.

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Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Davide Giacalone – Libero

Il rito è sempre lo stesso: condannare alcuni senza processo per non doversi interrogare sulle responsabilità diffuse. Parlare dei funzionari come portentosi ministri ombra, per non doversi domandare come mai i titolari non sono l’ombra di ministri. E mentre si celebra il rito inutile dell’irresponsabilità collettiva si perde di vista il cuore del problema, che non è criminale, ma economico: la ripresa non può essere innescata solo da politiche monetarie e l’Unione europea s’industria a liberare investimenti, pubblici e privati, in quelle che noi chiamiamo «grandi opere».

Da noi ci sono due possibilità: che ad averne la gestione siano costantemente dei lestofanti, o che chiunque le gestisca è passibile di finire in galera, perché è discrezionale e deresponsabilizzante la gestione degli appalti quanto quella delle inchieste. Il che ci mette nelle peggiori condizioni per agguantare la parte strutturale e permanente degli investimenti e della ripresa. Questo è il problema.

Alcuni funzionari, fra i più capaci, diventano potenti e inamovibili perché i ministri sono incapaci  e di passaggio. I secondi creano o accettano meccanismi che non possono funzionare, sicché tocca ai primi trovare il modo di raggiungere comunque il risultato. All’inizio è genialità e arcana furbizia, sì che qualche binario s’imbullona e qualche trave si poggia. Con il tempo diventa abitudine alla deroga e alla scorciatoia, imboccata con una discrezionalità patologica quanto l’irrealistica regolarità.

Vedo che molti di quelli che ne scrivono non hanno idea di come funzioni una gara o un appalto pubblici: un’orgia per amministrativisti, una palestra del ricorso, una fucina ch’emana vapori e clangori, ma non batte un chiodo. E quando s’accorcia pericolosamente la distanza temporale fra il lavoro da farsi realizzare e la procedura che non ha mai cominciato a camminare, ecco che si deve derogare o prorogare. Ma non è finita, perché anche derogando l’ipocrisia vuole che si racconti al volgo l’acuta capacità dell’ottusità ministeriale, capace di risparmiare operando. Così le gare diventano bische e i prezzi fantasie ribassiste. In quelle condizioni si chiude la procedura, ma certo non si realizza il lavoro, E allora ecco che partono le revisioni dei prezzi. Tante lievitazioni dei costi sono, in realtà, conseguenza di progetti irrealistici e preventivi farlocchi. Ma, anche qui, una volta che ci prendi la mano ci metti anche il resto, regali e consulenze compresi.

Anziché rimediare cambiando radicalmente la procedura, che diventerà razionale solo il giorno in cui si accetterà il principio che dal mondo non si bandiscono il vizio e l’interesse, ma se ne attribuisce il merito e la responsabilità a chi ha il potere (da noi alleviamo impotenti  irresponsabili, sicché prodighi nel vizio e proni all’interesse), preferiamo lo spettacolo dell’inchiesta. Sempre uguale e sempre nuovo, conferma ripetitiva di un costume che Manzoni vide con impareggiabile lucidità: «Servo encomio e codardo oltraggio». Ecco, dunque, il pubblico ministero che fa la conferenza stampa ed espone l’accusa sotto l’egida della giustizia, sicché il tribunale, che arriverà dopo anni, si troverà non a curare un malato, ma a farne l’autopsia. Ecco i vignettisti che raffigurano in galera gli arrestati, dimentichi che si tratta d’innocenti e i comici specializzati nel bastonare il cane che affoga. Ecco gli indignati in servizio permanente effettivo. Ed ecco quelli che leggendo queste righe diranno «garantismo peloso», ove spero che comprendano l’aggettivo meglio del sostantivo.

A tutti sfugge un dettaglio: che siano ladri agguantati o vittime in ceppi (senza che una cosa escluda necessariamente l’altra), a noi restano i cocci di una macchina pubblica intrisa di cieca ipocrisia, incapace di gestire quello che in questo momento sarebbe vitale: la ripartenza delle grandi opere. L’esito del derby fra colpevolisti e innocentisti, tifoserie comunemente avverse al diritto, lo conosceremo quando non gliene fregherà più niente a nessuno. Già da oggi conosciamo il risultato nazionale: meno di zero.

La guerra tra due concezioni delle infrastrutture

La guerra tra due concezioni delle infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Formiche

Al di là degli aspetti giudiziari e politici, occorre riflettere al “sottostante” tra due concezioni di cosa deve intendersi per infrastrutture in un Paese del livello di sviluppo economico e sociale (e dell’orografia) dell’Italia: se “grandi opere” principalmente per la logistica o operazioni ciascuna di piccola portata ma essenzialmente di “manutenzione straordinaria” o di miglioramenti tecnologici e ampliamenti selettivi al parco già costruito in secoli e secoli. Mentre in altri Paesi c’è stato, ed in alcune è ancora in corso, un dibattito per giungere ad una convergenza tra le due “scuole”, evidenziandone le complementare, in Italia è in corso una vera e propria guerra ideologica con ricadute di ogni sorta.Quattro anni fa il servizio studi della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) ha analizzato la situazione con grande cura statistica. I dati affermano da anni che il Nord Europa è dove il fabbisogno di grandi opere è maggiore a ragione del sovraccarico della rete dei trasporti. Soffermiamoci, a titolo indicativo, sul nostro Paese.

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Con le pene più alte la corruzione aumenta

Con le pene più alte la corruzione aumenta

Davide Giacalone – Libero

La corruzione avvelena la vita collettiva e inceppa il mercato. Anche la gnagnera dell’anticorruzione, però, non scherza. Se il contrasto alla corruzione ha così miseri risultati è proprio perché alla prevenzione e alla repressione si preferisce l’esposizione e la deprecazione. Un po’ come s’è visto nella mia Sicilia: cortei e indignazione, per poi passare all’intrallazzo e alla riscossione.

Si cambia legge contro la corruzione con più frequenza degli abiti, ma ne usciamo sempre dicendo che il fenomeno è crescente. L’anticorruzione parolaia ha bisogno di esagerare, per sentirsi al sicuro nel perpetuarsi della propria ciarliera inutilità. Ogni anno ci ripetiamo che il valore della corruzione ammonta a 60 miliardi di euro. Neanche sente la crisi, si riproduce uguale. Nel 2011 l’Onu calcolò quella mondiale in 1000 miliardi (di dollari), varrebbe a dire che deteniamo, a seconda del cambio, fra il 6,5 e l’8% della corruzione globale. Delirio. Se poi andiamo a vedere quanta corruzione si recupera, sotto forma di danno erariale, scopriamo che sono spiccioli. Dal che deduco che sono irreali entrambe: sia quella proclamata che quella perseguita. La soluzione di moda è sempre la stessa: rendiamo più severe le pene. Non serve a nulla, se la giustizia non funziona. Anzi, più si alzano le pene, più si allunga la prescrizione, più durano i processi, più cresce l’arretrato e meno la giustizia funziona. Esattamente quel che accade.

Volendo far finta d’essere severi, inoltre, mica si punta a far funzionare la macchina repressiva, ovvero la giustizia, ma a presidiare il campo produttivo con controlli invasivi. Si crede che il crimine possa essere cancellato, invece va solo punito. Ma noi alimentiamo le cronache con le retate, le coloriamo descrivendo l’evidente natura criminale degli arrestati, declassiamo la presunzione d’innocenza a carta per usi intimi, poi cambiamo capitolo e ci dimentichiamo tutto. Sicché i colpevoli sgattaiolano via e gli innocenti subiscono il martirio. E se osi dire che questa commedia è una pagliacciata c’è sempre il fesso (o il corrotto) che si alza e ti apostrofa: vuoi salvare i corrotti. Mi basterebbe salvarmi da quanti sono riusciti nel miracolo di corrompere la corruzione.

Il miglior rimedio all’oscurità non è il gatto, che nel buio fa i suoi comodi, rubando il salame mentre i topi portano via il formaggio, il miglior antidoto è la luce. La pubblica amministrazione dovrebbe essere tutta online, dacché non c’è riservatezza da tutelare nel disporre e nell’incassare denari pubblici. Il male non sta nell’appaltare, ma nel non consentire di guardare. Trasparente deve essere anche l’esito dell’azione penale, deve essere visibile non solo quanto dura la carcerazione degli odierni irretiti, ma anche quanto durano le indagini, quanto il tempo necessario per il rinvio a giudizio e per i processi, nonché il loro esito. E ove venissimo a scoprire che si prese un granchio, o ci si fece scappare la volpe, sapremmo meglio qual è la ragione di tanta impunità: la malagiustizia.

La corruzione finalizzata a ottenere vantaggi indebiti è un male grave. Ma la corruzione tesa a far marciare una macchina (autorizzazioni, revisioni, adempimenti, etc.) altrimenti inchiodata non è un male, sono due. I retori dell’anticorruzione non fanno che creare nuove macchine, capaci d’inchiodarsi e inchiodare. La cultura del proclama, al posto di quella dei risultati, è corruttiva. Avvelena tutti. Ditegli di smettere.

Cosa fare dopo Cernobbio

Cosa fare dopo Cernobbio

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il governo greco, soprattutto il ministro Yannis Varoufakis, ha dato prova di grande abilità nell’utilizzare il forum di Cernobbio per suscitare simpatie, proprio mentre è impegnato in un “gioco ad ultimatum” con le istituzione europee ed il Fondo monetario in cui rimette in ballo anche le riparazioni che la Repubblica Ellenica dovrebbe ricevere da Germania ed Austria per vicende inerenti la seconda guerra mondiale (vedi Formiche.net del 3 marzo) . Dal canto suo, il governo italiano, in particolare il ministro Pier Carlo Padoan, ha fatto bene nel frenare i fin troppo facili entusiasmi suscitati da alcuni barlumi di ripresa e della possibile fine della deflazione, evidenziati da alcuni indicatori mentre altri mostrano che la produzione industriale continua a crollare.

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La trattativa che mette  “sotto scacco” l’euro

La trattativa che mette “sotto scacco” l’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La “tragedia greca” era basata sulle unità aristoteliche di tempo e di luogo; l’azione era molto rapida e anche l’intreccio più complesso (si pensi a Edipo Re di Sofocle) si dipanava in meno di novanta minuti. Lo stilema venne rotto, al di della Manica, dal teatro elisabettiano e in Francia da quella mirabile Illusion Comique di Corneille che restò un unicum ed è anche oggi è poco rappresentata.

Questi ricordi non possono non venire in mente se si segue l’estenuante ultimo negoziato tra Grecia e Unione europea. Si tratta, abbiamo detto su queste pagine, di un gioco plurimo a più livelli in cui tutti i partecipanti cercano di raggiungere simultaneamente un equilibrio tra “reputazione” con i loro partner e “popolarità” con i loro sostenitori interni. È un equilibrio di Nash (proprio quello del film A Beautfiful Mind di circa tre lustri fa), ossia un profilo di strategie (una per ciascun giocatore) rispetto al quale nessun giocatore ha interesse a essere l’unico a cambiare. Grazie a Nash sappiamo che se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, il risultato cui si giunge non è che la situazione ottimale di un giocatore sia ottimale anche per tutti gli altri (l’ottimo paretiano dei testi universitari di un tempo) e si abbia il volterriano “migliore dei mondi possibili”. Dato che nel suo schema non c’è una mano invisibile è possibile che, se ogni giocatore fa unicamente il proprio interesse personale, si giunga a un’allocazione inefficiente delle risorse.

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Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Davide Giacalone – Libero

Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.

Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.

Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.

Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.

Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.

E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

L’Italia e il gioco ad ultimatum della Grecia con l’Ue

L’Italia e il gioco ad ultimatum della Grecia con l’Ue

Giuseppe Pennisi – Formiche

Lo avevamo previsto, su Formiche.net, dopo le elezioni in Grecia e l’apertura di nuove trattative tra Atene e le istituzioni internazionali. Nel “gioco a due livelli” tra i partner dell’UE si sarebbe prima o poi arrivati ad un “gioco ad ultimatum”. Ricordiamo di cosa si All’inizio degli Anni Ottanta, furono un libro ed alcuni saggi di Piercarlo Padoan (scritti a quattro mani con Paolo Guerrieri, ora senatore del Pd, entrambi professori alla Università Sapienza di Roma) a portare in Europa questa teoria, che allora stava facendo i primi passi negli Usa. Padoan e Guerrieri ne divennero “capi scuola”. In sintesi, nell’eurozona è in corso un gioco a più livelli in cui ciascuno dei partecipanti deve massimizzare obiettivi di “reputazione” e di “popolarità” differenti (e in certi casi divergenti) di fronte alle altre parti in causa. Tutti devono mantenere una buona reputazione rispetto agli altri soci dell’eurozona e presentarsi come convinti assertori della moneta unica. In termini di popolarità, però, ciascun partner risponde alla propria opinione pubblica.

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Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia  di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Una burocrazia troppo lenta e inefficace. Così il «grimaldello» europeo rischia di lasciare il nostro Paese a bocca asciutta

Giuseppe Pennisi – Avvenire

I documenti ufficiali sul “Piano Juncker” – essenzialmente i quelli all’esame del parlamento europeo – affermano che il programma, ancora in costruzione, è un grimaldello: attivare con una leva di 21 miliardi di “garanzie” (non di finanziamenti diretti) di Commissione europea (Ce) e Banca europea per gli investimenti (Bei) un totale di 315 miliardi di euro. Come tutti i grimaldelli, ha virtù o opportunità – apre le 28 scatole dei piani d’investimento degli Stati Ue – ma anche vizi o rischi: mostra quali scatole sono piene e quali vuote e quali potrebbero essere piene se i vincoli del Fiscal Compact non mettessero a repentaglio fondi di contropartita, a valere sui conti dei singoli Stati per arrivare la finanza privata.

Per l’Italia, da un lato, il “grimaldello” minaccia di mostrare che quasi nessuna amministrazione ha ottemperato ai decreti legislativi 102 e 228 del 2011 di adeguamento alla normativa europea, con i quali si richiedeva una programmazione pluriennale per progetti esecutivi  corredati da analisi economica e finanziaria. Di conseguenza, in una gara in cui i progetti non sono allocati per Paese ma scelti da un comitato di investimenti in base alla loro qualità e cantierabilità, rischiamo di restare a bocca asciutta. O quasi. Al tempo stesso, però, il “grimaldello” all’esame del parlamento si pone sul solco di una maggiore “flessibilità” nella lettura dei trattati europei e di accordi intergovernativi quali il Fiscal Compact.

Già a dicembre – a causa del periodo natalizio pochi se ne sono accorti – una comunicazione della commissione chiariva che per investimenti di rilevanza europea i contributi diretti dei paesi al Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici (il fulcro del Piano Juncker) non saranno “computati” ai fini della procedura per deficit eccessivo e che la commissione terrà conto dei cofinanziamenti nazionali ai programmi europei nel valutare i progressi verso il pareggio strutturale, consentendo “deviazioni temporanee”, ma solo se l’economia è in recessione e sia rispettato il tetto massimo del 3% nel rapporto deficit/Pil. Una nuova “comunicazione” ha iniziato il proprio percorso; potrebbe essere emanata prima dell’estate. È possibile un ulteriore ampliamento dell’interpretazione nell’ambito di un approccio coordinato di Bei (al centro del sistema) e banche nazionale di sviluppo e di promozione degli investimenti. In particolare, le “deviazioni” potrebbero diventare pluriennali (dato che tali sono gli investimenti), il tetto del 3% ammorbidito e con esso anche la clausola che ora richiede un “economia in recessione”. È un’opportunità importante per l’Italia, sempre che si sia in grado di allestire un adeguata platea di progetti. Altrimenti l’opportunità verrà colta principalmente da Germania ed Austria che hanno disperato bisogno di infrastrutture (principalmente nel comparto dei trasporti) e progetti pronti. Come ben sa chi si avventura sulle loro autobahn e sui loro treni.