Scrivono di noi

Le Regioni a statuto speciale Eden dei dipendenti pubblici

Le Regioni a statuto speciale Eden dei dipendenti pubblici

di Adriano Scianca – La Verità

Ma che ci dovrà fare mai, la Valle d’Aosta, con il doppio dei dipendenti pubblici della Lombardia? Parliamo di dati in percentuale rispetto agli abitanti, sia chiaro, eppure tutti questi impiegati dispersi in mezzo alle placide montagne sembrano un po’ messi lì a caso, soprattutto se li paragoniamo ai dipendenti pubblici in servizio nella Regione della capitale economica d’Italia. Non è peraltro l’unico paradosso della Pubblica amministrazione italiana. Ne emergono un bel po’, infatti, dalla ricerca del centro studi ImpresaLavoro (presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni) su elaborazione di dati Istat e della Ragioneria generale dello Stato.

In rapporto a popolazione residente, i 3 milioni e 142.000 dipendenti pubblici italiani sono inferiori a quelli delle altri grandi economie europee ma la loro distribuzione sul territorio nazionale non è affatto omogenea, nemmeno rispetto al numero degli occupati. A fronte di una media italiana del 5,18%, sono le Regioni a statuto speciale quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare la classifica è infatti la Valle d’Aosta con 11.519 dipendenti, pari al 9,05% dei residenti (bambini e anziani inclusi), davanti al Trentino Alto Adige (78.344 dipendenti, pari al 7,40% dei residenti), Friuli Venezia Giulia (82.380, pari al 6,75% dei residenti) e Sardegna (109.036 dipendenti, pari al 6,53% dei residenti). Segue il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (380.284. dipendenti, pari al 6,46% dei residenti). In fondo a questa particolare classifica si collocano invece Regioni più popolate ed economicamente più sviluppate come la Lombardia (4,02%) e il Veneto (4,51%). Al di sotto della media nazionale troviamo anche Campania (4,82%), Piemonte (4,86%), Emilia Romagna (5%), Puglia (5%) e Marche (5,17%).

La classifica elaborata da ImpresaLavoro cambia piuttosto nettamente se si prende in esame il rapporto tra il numero dei dipendenti pubblici e quello degli occupati. Al primo posto troviamo la Calabria, con il 22,03%: praticamente, dalle parti della Sila, più di un occupato su quattro è un impiegato statale.Un vero e proprio «lavorificio» che sembra creato più per sistemare le persone che per amministrare una regione che, pure, di problemi da risolvere ne avrebbe. Subito dietro si colloca ancora la Valle d’Aosta, con il 21,01% degli occupati che vengono retribuiti con denaro pubblico. In cima a questa classifica compaiono principalmente le regioni del Mezzogiorno, con un’incidenza dell’impiego pubblico di gran lunga superiore alla media nazionale (13.99%): Sicilia (19.95%), Sardegna (19,30%), Molise (18,06%), Campania (17,89%), Basilicata (17,87%) e Puglia (17,42%) seguite a distanza ravvicinata dal Friuli Venezia Giulia (16,62%) che registra uno dei valori più alti di tutto il Centro-Nord. In coda alla classifica troviamo invece Lombardia (9,44%), Veneto (10,80%), Emilia-Romagna (11,59%) e Piemonte (11,90%).

In compenso viene smentito il luogo comune per cui l’Italia avrebbe più dipendenti pubblici del resto dei Paesi industrializzati. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, in rapporto al numero dei residenti solo la solita Valle d’Aosta ha una percentuale di dipendenti pubblici (9,05%) superiore a quella di Francia (8,50%) e Regno Unito (7,90%). Mentre la media italiana (5,18%) risulta più bassa di quella di Spagna (6,40%) e Germania (5,70%), con 11 Regioni italiane che vantano un tasso di presenza dei dipendenti pubblici inferiore alla media tedesca. Le cose cambiano, ma solo marginalmente, quando ImpresaLavoro prende in esame il numero di dipendenti pubblici in rapporto al numero degli occupati. In questo caso, solo le percentuali di Calabria e Valle d’Aosta sono superiori a quella della Francia (20%). La percentuale di dipendenti pubblici in Italia (13,99%) è invece inferiore a quella di Regno Unito (17%) e Spagna (16%), superando solamente il dato della Germania (11%).

Insomma, l’impressione è che il vero gap, rispetto alle altre pubbliche amministrazioni, non sia tanto nella sostanza, quanto nell’organizzazione. E poi c’è il nodo, tutto italiano, delle Regioni a statuto speciale. Vere sanguisughe, per lo Stato. È di giovedì scorso il rifiuto, da parte delle Regioni «speciali» di farsi carico dei tagli alla sanità, cosa che potrebbe mettere a rischio l’erogazione dei nuovi Livelli essenziali di assistenza per tutte le altre Regioni. È stato calcolato che su mille euro versati al fisco dal cittadino di una Regione a Statuto ordinario ne rientrano più o meno 200. A un residente di una regione a Statuto speciale tornano invece ben 900. Ora scopriamo che hanno anche un esercito di dipendenti pubblici che a confronto la Germania è il Gabon. Qualcosa, nella Pubblica amministrazione, va rivista.

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

Ogni anno la benzina ci costa rincari per 1 miliardo di euro

di Francesco Borgonovo – La Verità

Come spesso accade, siamo i migliori carnefici di noi stessi. Ieri, con abile mossa propagandistica, Padoan e il direttore dell’Agenzia delle entrate, Rossella Orlandi, hanno tenuto una conferenza stampa per dire che grazie alla «lotta all’evasione› nel 2016 sono stati recuperati 19 miliardi. Probabilmente, viene da dire, sarebbero stati anche di più se con le grandi multinazionali della tecnologia si fosse tenuto un atteggiamento diverso, invece di regalare sconti agli amici potenti. Ma tant’è. Quello dell’anno passato, per l’erario, è stato «un gettito record», poiché sono stati incassati «oltre 450 miliardi secondo le prime stime, rispetto ai 436 miliardi del 2015 e ai 419 del 2014». Viene un po’ difficile credere che le tasse non siano aumentate, visto che sono entrati più soldi in cassa (la lotta all’evasione, da sola, non basta a spiegare il dato reso noto ieri). Insomma,quando si parla di tasse non c’è molto da fidarsi delle dichiarazioni che arrivano dall’alto e il motivo è semplice: non passa anno senza che il costo del carburante aumenti a causa di nuove gabelle.

Non è solo colpa dell’Europa, ovviamente. I politici italiani agiscono cosi da sempre: quando non sanno dove prendere denaro, corrono ad aumentare le accise. Le tabelle realizzate dal centro studi ImpresaLavoro mostrano i vari aumenti (ben 17) messi in atto nel corso dei decenni, a partire da quello, ormai famigerato, utile a finanziare la guerra d’Etiopia del 1935-1936. Le motivazioni sono le più diverse: dalla crisi di Suez del 1956 al disastro del Vajont del 1963, fino all’acquisto di autobus ecologici (2005) e sostegno ai terremotati dell’Emilia (2012). Ma al di là delle curiosità storiche, nello studio dell’associazione presieduta dall’imprenditore Massimo Blasoni ci sono parecchi altri dati. Numeri che fanno arrabbiare, poiché danno la misura di quanto incida sulle nostre esistenze questo Stato ormai ridotto a invadente moloch burocratico.

«Il gettito per accise nel nostro Paese è aumentato di 5 miliardi tra il 2011 e il 2016», scrivono i ricercatori di ImpresaLavoro. «Una vera e propria stangata nascosta tra i consumi di famiglie e cittadini. Le accise su prodotti energetici, loro derivati e prodotti analoghi garantivano alle casse dello Stato 20,4 miliardi nel 2011. Gli aumenti successivi hanno fatto crescere questa cifra del 24,7% in soli 5 anni portando il gettito del 2016 a poco più di 25 miliardi di euro, una cifra sostanzialmente stabile negli ultimi anni (25,6 miliardi nel 2015; 26,2 miliardi nel 2014; 24,5 miliardi nel 2013)». E come se non bastassero i 5 miliardi in più prelevati ai contribuenti nell’ultimo quinquennio, ora si pensa ad altri aumenti. Tutto questo fa ancora più infuriare quando si va a paragonare la situazione italiana a quella degli altri Paesi. Già oggi (dunque senza ulteriori possibili rincari) il prezzo de nostra benzina è il terzo più caro del Vecchio Continente.

«Con 1,5437 euro al litro», dice ImpresaLavoro, «il costo del nostro carburante è del 11,52% più alto di quello della media europea: il pieno in Italia costa il 9,27% in più rispetto alla Francia e il 10,50% in più rispetto alla Germania». A precederci in cima alla classifica dei prezzi ci sono soltanto l’Olanda (1,572 euro al litro) e la Grecia (1,546 euro). Sul costo finale, l’incidenza delle tasse e delle accise è micidiale: nel nostro Paese lo Stato influisce per il 65,22% del prezzo finale contro il 62,34% della media europea e il 54,45% della Spagna, il 62,82% della Germania e il 63,34% della Francia. Non stupisce che altri Paesi più ricchi paghino meno il carburante, visto che noi continuiamo a versare denari per emergenze già ampiamente concluse (nella realtà, perché nella mente confusa dei burocrati sono ancora in atto).

«Il ricorso all’aumento delle accise sui carburanti», commenta Massimo Blasoni, «è un sempreverde italiano. Non c’è governo o ministro dell’Economia che non sia ricorso a questo espediente per fare cassa. Un prelievo straordinario e giustificato spesso da emergenze contingenti che finisce per trasformarsi in una tassa perenne, silenziosa e per questo meno dibattuta ma che incide sui bilanci delle famiglie italiane indipendentemente dal loro reddito e, quindi, con poca equità». Difficile dargli torto. Tanto più che il discorso degli aumenti non vale soltanto per la benzina, ma pure per il diesel. Da noi costa il 12,06% in più rispetto alla media europea; il 10,59% rispetto alla Francia, addirittura il 17,07% rispetto alla Germania. Solo in Svezia e nel Regno Unito (per motivi diversi) il diesel costa di più: di nuovo, siamo sul podio dei peggiori del continente, almeno per quanto riguarda il costo del carburante.

È interessante notare, poi quale sia l’incidenza delle tasse sul prezzo finale del diesel, perché in questo frangente diamo veramente il meglio. Le tasse pesano sul costo finale per il 62,28%, e peggio di noi riesce a fare solo la Gran Bretagna. Siamo al terzo posto fra i Paesi con il diesel più costoso, ma al secondo per maggior numero di tasse. Veramente un bel record, un risultato di cui essere estremamente fieri. I nostri vicini austriaci, per dire, pagano il diesel il 24,48% in meno rispetto a noi. Per non parlare della benzina, che in Austria costa il 30,6% in meno rispetto all’Italia (gli sloveni si devono accontentare: pagano il pieno «solo» il 18,97% in meno di noi se si tratta di benzina; il 17,4.2% nel caso del diesel). Che Padoan decida o meno di aumentare il prelievo, il quadro della situazione è piuttosto cupo. Paghiamo ancora la guerra in Libano del 1983 e la missione in Bosnia del 1996. Altri spiccioli da destinare a Bruxelles sarebbero solo l’ultima delle fregature.

L’elemosina Ue per (non) fermare l’invasione

L’elemosina Ue per (non) fermare l’invasione

di Francesco Borgonovo – La Verità

C’è un sacco di gente, in questi giorni, che si straccia le vesti perché nel continente europeo stanno riaffiorando gli «antichi nazionalismi». Ricompaiono le frontiere, si scavano di nuovo – e più profondi – i confini. Cosi, i fanatici dell’integrazione europea sono pronti a tutto pur di arrestare l’ondata di populismo che avanza. Persino a sostenere l’idea di una «Europa a due velocità» partorita da Angela Merkel nel tentativo di non smarrire per strada nemmeno una briciola di potere assoluto.

Beh, a chi magnifica il grandioso aiuto che ci ha fornito l’Unione europea in questi anni forse è il caso di sottoporre la tabella che pubblichiamo in questa pagina, realizzata da ImpresaLavoro (impresalavoro.org), centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni. I ricercatori, elaborando i dati forniti nel corso degli anni dal ministero dell’Economia e delle Finanze, hanno messo nero su bianco il contributo che Bruxelles ha dato al nostro Paese onde affrontare al meglio l’emergenza immigrazione.

L’Italia, dal 2011 al 2016, ha speso qualcosa come 11,693 miliardi di euro per sostenere le spese dell’accoglienza e dell’ospitalità a beneficio degli stranieri. Altri 4,174 miliardi saranno sborsati per l’anno in corso. Insomma, una marea di denari. E dall’Ue che cosa è arrivato? Gli spiccioli. Facendo la media, stiamo parlando di poco più di 105 milioni di euro l’anno. Una miseria. Il dato risulta ancora più umiliante se consideriamo l’invasione migratoria nel suo complesso, e il ruolo che l’Ue vi ha giocato. Sono stati proprio gli accordi europei ad averci imposto,fino ad oggi, di farci carico di tutti gli stranieri in arrivo – via mare o via terra – nel nostro Paese. È stata l’Europa a sanzionarci perché non prendevamo le impronte digitali agli immigrati. Sempre l’Ue ha avanzato dubbi sulla gestione dei centri di identificazione e di espulsione e ci ha obbligato ad aprire i famigerati hotspot, che (secondo un recente studio commissionato dal Senato) si sono rivelati una fabbrica di clandestini.

Fate due conti e chiedetevi: l’Europa ci ha aiutato o ci ha danneggiato? La risposta è facile. Non c’è un aspetto della questione migratoria su cui Bruxelles non abbia tradito i patti. A cominciare dai famigerati «ricollocamenti», cioè i trasferimenti di profughi dal nostro Paese ad altri Stati comunitari. Una misura che si è rivelata un clamoroso fallimento, dato che i nostri amici europei nel corso dell’ultimo anno se ne sono allegramente fregati della nostra sorte e si sono per lo più rifiutati di farsi carico dei nostri rifugiati. Da una parte, dunque, l’Ue ci ha obbligato ad accogliere. Dall’altro, ci ha versato annualmente molti meno soldi di quelli che ora verranno dati all’Africa sotto forma di aiuti. All’ultimo vertice sull’immigrazione tenutosi a Malta, infatti, si è stabilito che vengano versati, nel solo 2017, 200 milioni di euro per aiutare la Libia ad affrontare il traffico di migranti. Soldi che si vanno ad aggiungere ai 31 miliardi stanziati per il piano di sviluppo del Continente nero. Ridicolo, vero? L’Ue ha dato più soldi agli africani che agli italiani.

Risultato: dobbiamo sborsare una marea di soldi di tasca nostra. Il premier Paolo Gentiloni, giorni fa, ci ha presentato l’accordo con la Libia come un passo fondamentale nella risoluzione del problema immigrazione. La verità, però, è che anche nel 2017 spenderemo un sacco di denari per l’accoglienza. Vari Comuni sparsi sul nostro territorio hanno già pubblicato bandi validi per i prossimi 12 mesi, onde invitare privati e associazioni a partecipare all’accoglienza, in cambio di milioni sonanti. Nel frattempo, la cronaca continua a raccontare brutte storie come quella di Savona, dove ieri sono stati arrestati un poliziotto e due funzionari della Prefettura nell’ambito di un’indagine riguardante proprio la gestione dell’accoglienza. I contribuenti spendono. I furbi, al solito, tentano di farci la cresta. Per farla breve, il giro d’affari non accenna a diminuire. Anche perché gli sbarchi a non calano, non c’è accordo che tenga. Solo ieri sono sbarcati a Brindisi 500 stranieri in arrivo – guarda caso – dalla Libia. Altri 500 hanno fatto rotta verso Augusta. Ecco che cosa accade a fidarsi dell’Europa.

L’azienda Italia si blocca in tribunale

L’azienda Italia si blocca in tribunale

di Gianni Zorzi * e Elisa Qualizza **

Quanto costano i ritardi della giustizia in Italia? Quanto incide l’inefficienza giudiziaria sull’economia? Il Centro studi ImpresaLavoro ha tentato di quantificare l’impatto negativo della lunghezza dei processi e dell’arretrato di cause pendenti su variabili chiave come l’attrattività degli investimenti esteri, la nascita e lo sviluppo delle imprese italiane, la disoccupazione e i volumi del credito bancario.

Il punto di partenza è la posizione piuttosto arretrata dell’Italia nelle varie classifiche internazionali che considerano l’efficacia della macchina giudiziaria. Il confronto internazionale è possibile grazie alla base dati armonizzata Cepej-Stat, messa a disposizione dalla Commissione per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa; risultati analoghi trovano conferma nei dati Doing Business incrociati con le statistiche di Eurostat. Gli ultimi dati, benché riferiti al 2014, permettono di inquadrare il problema nella sua gravità. Prendendo in considerazione le sole cause civili e di diritto commerciale, rimanevano in attesa di giudizio, in Italia, oltre 2 milioni e 758 mila processi: un record assoluto per tutti i Paesi dell’Europa allargata, in grado di oscurare il milione e mezzo di cause pendenti in Francia e le 750 mila scarse della Germania.

Il dato assoluto è riferito ai soli processi di primo grado, ed è fortunatamente in calo rispetto agli anni precedenti. Sta di fatto che a fine anno rimangono pendenti 45 processi ogni mille abitanti in Italia contro i 24 della Francia, i 18 della Spagna e i soli 9 della Germania. Il peso dell’arretrato si riflette anche nella difficoltà di diminuire la durata media dei processi: attorno all’anno e mezzo. I 532 giorni medi necessari per le sentenze di primo grado sono il doppio rispetto alla media europea e con la sola eccezione di alcuni Paesi dell’Est e di Malta tutti gli ordinamenti se la cavano con durate (ampiamente) inferiori all’anno. Analisi più estese, che tengono in considerazione anche il secondo e terzo grado di giudizio, mostrerebbero numeri ancor più impietosi: da noi servono quasi tre anni, in media, per gli appelli e altri tre e mezzo per i giudizi in cassazione.

A migliorare con la rapidità dei giudizi e la riduzione degli arretrati sono ad esempio i tempi di pagamento tra imprese, con tutti i relativi effetti in termini di maggiore liquidità in circolazione, minor numero di insolvenze e minore disoccupazione. Anche i tempi e i costi di recupero dei crediti sono collegati all’efficacia della giustizia e ciò dovrebbe far riflettere sul problema della valorizzazione e dello smaltimento della montagna di crediti deteriorati accumulati dalle banche. Uno studio basato su un campione di Paesi mostra inoltre che l’efficienza del sistema giudiziario migliora i tassi di imprenditorialità e di innovazione nelle imprese.

Nell’economia globale l’attenzione dei capitali si rivolge ai Paesi in cui è migliore il rapporto tra redditività attesa e livello di rischio. Se non supportata da solide prospettive di crescita, la possibilità di creare valore per le imprese passa da una riduzione degli elementi di incertezza: quelli di tipo giudiziario sono in grado di frenare in modo netto il flusso di investimenti nei Paesi meno efficienti. Se ci riferiamo al caso italiano, la media degli ultimi tre anni evidenzia investimenti netti annui dall’estero per un magro 0,72 per cento del Pil. Il dato non si riferisce solo alle acquisizioni ma all’effettiva apertura di nuovi centri, filiali e strutture in genere da parte dei non residenti: si tratta dunque di nuovi investimenti privati provenienti da investitori internazionali, il cui livello, molto inferiore alla media UE, mostra la scarsa attrattività del nostro Paese. Secondo un recente studio pubblicato dalla Commissione Europea, la riduzione delle cause pendenti per numero di abitanti è collegata all’incremento di questo tipo di investimenti: portarle al livello della media europea potrebbe di per sé generare afflussi extra dall’estero per un valore tra lo 0,66 e lo 0,86 del Pil (tra i 10,8 e i 14,1 miliardi annui: il doppio dell’attuale).

Ma non è l’unica via che contribuirebbe sicuramente a una più sana e robusta crescita. Ridurre di un quarto i tempi dei tribunali potrebbe infatti aumentare il tasso di natalità delle imprese e cioè incrementare il ritmo di nascita di nuove iniziative imprenditoriali di circa 143mila unità all’anno: una volta e mezza il tasso attuale. Lo shock positivo sarebbe ancora più evidente nel caso i tempi si dimezzassero, portandosi dunque alla media europea: la stima in questo caso varia tra le 192 mila e le 240 mila nuove imprese all’anno in più rispetto ai ritmi correnti. Se si potesse raddoppiare la velocità dei tribunali potremmo attenderci anche una crescita della dimensione delle nostre imprese, per circa l’8,5% in media, come stimato da Banca d’Italia. È condiviso inoltre che un sistema giudiziario meno tempestivo fornisce minori incentivi agli investimenti e all’assunzione di nuovo personale, decisioni sulle quali l’incertezza può solo fungere da deterrente. Il dato, peraltro, non è poco rilevante per un Paese come il nostro in cui il 70 per cento del valore aggiunto è prodotto da piccole e medie imprese.

Anche dal punto di vista della disponibilità di credito le conclusioni sono importanti. Diversi studi hanno esaminato il legame tra tempi della giustizia, costo dei finanziamenti e loro disponibilità presso il canale bancario: secondo le relazioni più significative, raggiungere il livello medio UE nei tribunali potrebbe aprire l’opportunità di nuovi prestiti alle imprese per ben 29,3 miliardi di euro, pari a un aumento del 3,7 per cento rispetto allo stock attuale.

E infine, anche il mercato del lavoro ne potrebbe beneficiare. Si pensi che un’analisi di ImpresaLavoro basata sugli ultimi dati del Ministero della Giustizia suddivisi per distretti giudiziari ha individuato in ben 5,7 punti il potenziale di disoccupazione riducibile con riferimento alle aree più disagiate. La stima è coerente anche con quanto rilevato in un report del Fondo monetario internazionale, il quale confermerebbe un incremento di diversi punti della probabilità di impiego in seguito a un tale efficientamento della macchina giudiziaria. Altri studi hanno evidenziato i benefici che si avrebbero, oltretutto, in termini di riallocazione più efficiente e rapida delle risorse umane, di produttività e di maggiore intensità di capitale nelle nostre aziende.

A fronte di tutti questi dati, almeno due elementi emergono al di là di ogni altra considerazione: l’inefficienza giudiziaria agisce come un freno allo sviluppo della nostra economia e ridurre il peso di questa inefficienza potrebbe finalmente liberare un volume importante di potenzialità ancora inespresse.

* docente di finanza dell’impresa e dei mercati

** ricercatrice Centro Studi ImpresaLavoro

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

Gli immigrati mandano 64 miliardi all’estero

di Adriano Scianca – La Verità

L’immigrazione fa bene all’economia? Sicuramente a quella dei Paesi che gli immigrati li mandano da noi. Basti pensare al fenomeno delle rimesse, cioè dei soldi mandati in patria dai lavoratori stranieri e quindi sottratti (legalmente, per carità) all’economia nazionale. Dal 2005 al 2015 (ultimo dato disponibile) le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di 64,522 miliardi di euro. Lo rivela un’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro su elaborazione di dati Bankitalia. Nel 2005 erano poco meno di 4 miliardi, nel 2015 poco più di 5. Il dato più alto è stato registrato nel 2011, con quasi 7 miliardi e mezzo. In 10 anni, quindi, abbiamo perso più di 64 miliardi di euro, finiti in Paesi europei o extraeuropei.

Ovviamente chi sta qui a lavorare ha tutto il diritto di fare ciò che vuole con i soldi guadagnati, e inviarli alla propria famiglia è un’opzione più che comprensibile. Osservando macroscopicamente il fenomeno, tuttavia, non si può non notare come questo determini un netto impoverimento per la nazione ospitante. Altro che “risorse”. Certo, la crisi si fa sentire anche per gli immigrati. E infatti, osservando la ripartizione per anno, si nota come la difficile congiuntura economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,251 miliardi del 2015 (-28,98%). Stime prudenziali contenute in alcuni paper pubblicati dalla Banca d’Italia sembrano inoltre suggerire che a queste cifre che transitano via intermediari ufficiali (money transfer, banche, poste) vadano aggiunti circa 700 milioni l’anno di rimesse che sarebbero inviate all’estero tramite canali “informali”, che quindi non fruttano neanche nulla in termini di commissioni e tassazioni.

Limitatamente al 2015, si osserva inoltre come i lavoratori stranieri che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro siano stati quelli residenti in Lombardia (1 miliardo e 156,6 milioni), nel Lazio (920,2 milioni), in Toscana (564,1 milioni), in Emilia-Romagna (449,7 milioni), in Veneto (411,3 milioni) e in Piemonte (303,984 milioni). Quanto alle diverse nazionalità, nella classifica stilata dal Centro studi ImpresaLavoro (che contempla cittadini di 229 nazionalità differenti) risulta che nel 2015 i lavoratori stranieri in Italia che hanno trasferito in patria il maggior quantitativo di denaro sono quelli romeni (847,621 milioni), cinesi (557,318 milioni), bengalesi (435,333 milioni) e filippini (355,360 milioni). A seguire, fortemente distanziati, si collocano quelli provenienti dal Marocco (262,851 milioni), dal Senegal (261,883 milioni), dall’India (248,363 milioni), dal Perù (205,038 milioni), dallo Sri Lanka (175,539 milioni) e dal Pakistan (166,776 milioni).

Tolti i cittadini della Romania, in cima alla classifica assoluta dei più generosi con i parenti in patria, decisamente più contenute risultano invece le somme di denaro che i lavoratori provenienti dai principali Paesi dell’Unione europea hanno trasferito nelle località d’origine nell’ultimo anno: al primo posto della classifica risultano i polacchi (43,123 milioni) seguiti daI bulgari (41,940), dagli spagnoli (40,143 milioni), dai tedeschi (29,208 milioni), dai francesi (27,711 milioni), dai britannici (21,135 milioni) e infine dai greci (8,966 milioni). Ampliando il confronto a livello europeo, emerge inoltre come le rimesse inviate all’estero dai lavoratori stranieri residenti in Italia siano elevate in confronto a quelle di altri Paesi. L’Italia è infatti al terzo posto per volume di rimesse verso l’estero dopo la Francia e, seppur di misura, la Spagna. Colpisce l’assenza sul podio della Germania.

Un rapporto del Fondo internazionale per lo Sviluppo agricolo risalente al 2015 stimava in 109,4 miliardi di dollari il flusso di denaro che nel 2014 i lavoratori stranieri che vivono in tutta Europa avevano spedito a casa. In quella rilevazione, l’Italia era al quinto posto con 10,4 miliardi di dollari. Il primo Paese per quantità di rimesse risultava invece essere la Federazione Russa (20,6 miliardi), seguita da Regno Unito (17,1 miliardi), Germania (14 miliardi) e Francia (10,5 miliardi). Dopo l’Italia si piazzava la Spagna con 9,6 miliardi. Certo, l’aspetto positivo della cosa potrebbe essere costituito dal fatto che mandare le rimesse all’estro è un modo di aiutare gli immigrati “a casa loro”, come spesso si auspica. Creare benessere lì, affinché non vengano più qui. Ma, a parte il fatto che le rimesse partono da immigrati che sono già qui, e quindi è dura farne una bandiera contro l’immigrazione, dato che esse la presuppongono, bisogna anche ricordare che l’Italia e l’Europa aiutano già con moneta sonante i popoli degli altri continenti. All’inizio di gennaio avevamo raccontato di come, nel solo mese di dicembre, l’Unione Europea abbia staccato assegni per circa 5 miliardi di euro da destinare a 29 Paesi del Continente Nero, spesso con finalità e modalità più che discutibili, andando a finanziare governi corrotti, economie irrecuperabili, progetti insensati. Insomma, li aiutiamo facendo passare i soldi dalla porta e poi li aiutiamo una seconda volta infilando denari anche nelle finestra. Un po’ troppi aiuti, per un’Europa che ai suoi cittadini predica austerity.

E lo Stato non paga 61 miliardi

E lo Stato non paga 61 miliardi

di Leonardo Ventura – Il Tempo

«In questi ultimi 2 armi la Pubblica amministrazione non ha ridotto i tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro, lo scorso 31 dicembre (2015 ndr.) questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro». È il bilancio di quanto lo Stato deve ancora dare alle aziende che hanno lavorato per lui. Insomma, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo si vedono recapitare multe salate.

Nel 2014 il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 201 All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto. Il dato non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, ImpresaLavoro ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.

 

La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

La grande fuga dei giovani dall’Italia, nel 2016 fanno le valigie in 123.000

di Gianluca Baldini – La Verità

Siamo d’accordo tutti. Chi lascia l’Italia per andare a lavorare all’estero non è per forza migliore di chi resta. «Bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori», ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. «Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averla più tra i piedi». Ma se, come succede da noi, il fenomeno riguarda ogni anno decine di migliaia di giovani, allora il problema c’è. Anche perché non conviene a nessuno formare professionisti che voi vanno ad arricchire le casse degli altri Paesi.

VIA TRENTINI E FRIULANI

Solo nel 2015 il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100.000 unità: si tratta di una cifra pari a due volte e mezzo la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13.000 unità al dato relativo all’anno precedente, come sottolineano i numeri di una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro basata su dati Istat. In un anno ci siamo giocati la popolazione equivalente di un piccolo capoluogo di provincia: si tratta di un flusso di persone, silenzioso ma incessante, che dal 2010 cresce inesorabilmente in media del 21 per cento all’anno, e che proprio in virtù di questo potrebbe raggiungere le 123.000 unità già nel 2016, a meno che la tendenza non si mentisca.

Calcoli alla mano, nel 2016, a lasciare la nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni 1.000. Non poco. Anche se ci sono aree del Paese dove questi numeri sono anche più alti. Come il Trentino Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), la Sicilia e la Lombardia (2 per mille). Ma se il fenomeno sta aumentando in tutto lo Stivale, le dinamiche che spingono i giovani a fare baracca e burattini nelle varie aree d’Italia sono differenti e a tratti sorprendenti. Per esempio, rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita degli italiani si è accentuato molto di più in regioni del Nord che – almeno in teoria – dovrebbero offrire più opportunità rispetto alla media. Lombardia ed Emilia-Romagna, assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. In crescita, ma non sono raddoppiati, i tassi di esodo di alcune regioni del Sud. In Sicilia e in Puglia, ad esempio, il numero di ragazzi che ha tentato fortuna non ha raggiunto i livelli di alcune regioni del Nord. Sono invece stabili in Basilicata e addirittura in flessione in Calabria, rispetto alle medie degli anni passati. In linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) i dati di Lazio, Liguria e Friuli Venezia Giulia.

La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è però molto rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione residente ed ora è tra le regioni più colpite dal fenomeno, mentre la Basilicata è scesa dal 4° all’ultimo posto e la Puglia dal 5° al quart’ultimo.

PARTONO E NON RIENTRANO

Il risultato è interessante anche se si considera il saldo tra le voci di italiani che rientrano e quelli che emigrano. Il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12.000 unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi, invece, la tendenza si inverte nuovamente, raggiungendo dapprima il saldo record di meno 38.000 unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72.000 nel 2015. I dati analizzati dal Centro studi ImpresaLavoro non vanno confusi con quelli dei saldi migratori globali, che includono quelli dei cittadini stranieri che si iscrivono o si cancellano dall’anagrafe e che evidenzierebbero tutt’altra dinamica.

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

Sulla casa pesano 11 miliardi di tasse in più

di Chiara Merico – La Verità

Uno degli argomenti più gettonati dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi è stato il taglio delle tasse a opera del suo governo, un refrain sentito più e più volte, specie nell’ultima fase della campagna elettorale per il referendum. Ma a smentirlo, alla vigilia del giorno in cui 25 milioni di italiani sono chiamati a versare il saldo di Imu, Tari e Tasi, arriva una ricerca del centro studi ImpresaLavoro, secondo cui dal 2011 a oggi il gettito complessivo derivante dalla tassazione sugli immobili è cresciuto del 30,2%, per un incremento su base annua di 11,4 miliardi rispetto a cinque anni fa. Questo anche se nel 2016 il gettito complessivo dovrebbe ammontare a 49,1 miliardi di euro, in calo del 6,1% rispetto al livello record di 52,3 miliardi di euro segnato lo scorso anno.

ANNUNCI TRIONFALI

Insomma, la pressione fiscale sui proprietari di immobili rimane altissima, nonostante l’abolizione della tassa sulla prima casa. E nonostante le rivendicazioni dell’ex premier, che lo scorso febbraio, in una delle sue newsletter Enews scriveva: «Tutti convinti che abbiamo fatto bene ad abbassare le tasse. Ma ciascuno ha la sua personale classifica di quelle che andavano tagliate e di quelle che invece andavano mantenute. Impossibile accontentare tutti. Però (c’è la, ndr.) consapevolezza che rispetto al passato si è cambiato marcia: ora le tasse vanno giù, prima andavano su». Matteo Renzi aggiungeva una lista delle principali obiezioni che si era visto rivolgere: «Perché hai eliminato le tasse sulla prima casa? E perché questa insistenza sugli 80 euro? E perché gli 80 euro alle forze di polizia? E immaginate il resto: Irap, costo del lavoro, tasse agricole, tax credit sulla cultura. Impossibile accontentare tutti, dai».

Certo non è possibile venire incontro a tutte le esigenze, ma a quanto risulta dallo studio di ImpresaLavoro, rispetto al 2011 la pressione fiscale su chi possiede immobili non solo non è calata, ma è aumentata di un terzo. «A subire il maggiore incremento in questi cinque anni è stata la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%), secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti», si legge nello studio, dove si precisa inoltre che «i 3,6 miliardi di euro di gettito in meno rispetto al 2015 sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi per le abitazioni principali, che ha fatto scendere il gettito da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu». Ma, sottolinea lo studio, «la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro». In totale, oggi gli italiani pagheranno 10,1 miliardi di euro di Imu e Tasi, per una media di 535 euro a testa, con punte di oltre mille euro nelle grandi città come Roma, Milano e Bologna. Chi dovesse ritrovarsi impossibilitato a pagare il saldo entro il 16 dicembre potrà in seguito accedere al cosiddetto ravvedimento operoso, che prevede sanzioni crescenti all’aumentare dei giorni di ritardo.

TREDICESIMA MAGRA

Le scadenze di fine anno pesano parecchio, anche sui bilanci familiari dei fortunati che avranno la tredicesima: dei quasi 35 miliardi di euro che gli italiani incasseranno grazie all’assegno supplementare, infatti, solo il 14,8% (pari a 5 miliardi) potrà essere speso per regali, viaggi e feste di fine anno. Il resto, secondo il rapporto di Adusbef e Federconsumatori, servirà per onorare debiti pregressi, pagare rate del mutuo, bolli auto e bollette, e ovviamente il saldo delle tasse per chi ha una seconda casa. In base ai calcoli delle due associazioni dei consumatori, infatti, per questi contribuenti un terzo della tredicesima, in media circa 530 euro, se ne andrà così, cifra che sale a due terzi (1.000 euro) per chi ha un immobile in una grande città. L’Imu sulla seconda casa assorbirà 2,3 miliardi (4-9,5% rispetto al 2015), mentre la seconda rata della Tasi costerà 2,4 miliardi, +9,1% rispetto al 2015. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa», osserva Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro, «la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

Via la Tasi? Non basta, il salasso sulla casa vale 11 miliardi in più

di Antonio Signorini – Il Giornale

Dovevano essere le tasse delle autonomie locali, quelle pagate in cambio di servizi ben definiti e visibili. Poi, per ammissione dello stesso Mario Monti – che da premier le ha trasformate in un incubo per gli italiani – sono state classificate per quello che sono. Tasse patrimoniali, balzelli che colpiscono la proprietà preferita dagli italiani, quella immobiliare. Oggi scade il termine per pagare il saldo Imu e Tasi per il 2016. Appuntamento fiscale capace di rovinare preventivamente le feste (cade in piena zona regali) e castrare la ripresa dei consumi.

Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato l’entità della stangata. Entro oggi circa 25 milioni di italiani dovranno pagare, nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale. Il mattone resta la forma di risparmio più diffusa in Italia e sono ancora molti a possedere una seconda casa oppure un immobile strumentale. Cioè adibito a un’attività imprenditoriale, categoria inspiegabilmente non inclusa nell’esenzione. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia si riduce quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento.

«La pressione fiscale risulta comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento», spiega il centro studi presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni. «Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – osserva Blasoni – la tassazione sugli immobili nel nostro Paese continua a essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna».

I numeri confermano questa lettura. Il gettito fiscale da immobili è aumentato nonostante siano in flessione le compravendite e quindi sia venuto meno molto gettito da imposte di registro. Cresce solo la quota patrimoniale, cioè le tasse pagate solo per il fatto di possedere un bene, più che raddoppiata (+173%) a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti. I 3,6 miliardi di gettito in meno rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della Tasi. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’Imu: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva 9,2 miliardi. E in cinque anni il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti è passato da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

 

25 milioni di italiani oggi alla cassa per il saldo Imu-Tasi

25 milioni di italiani oggi alla cassa per il saldo Imu-Tasi

Oltre 25 milioni di italiani sono chiamati a versare il saldo dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale, infatti, resta ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale. Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia si riduce quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale risulta comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando ín termini relativi un corposo più 30,2 per cento. Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro.

A subire il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo – più che raddoppiata (+173%) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti – a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (-29%) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti. I 3,6 miliardi di euro di gettito in meno rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della TASI per le abitazioni principali, facendo scendere il gettito da 4,7 a 1,1 miliardi di euro. Restano invece stabili a 20,4 miliardi su base annua le entrate derivanti dall’IMU: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva «solo» 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.