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La spesa pubblica ha doppiato il PIL

La spesa pubblica ha doppiato il PIL

di Claudio Antonelli – La Verità

La spesa pubblica negli ultimi 10 anni è cresciuta sia in termini assoluti sia in termini pro-capite. Spesso le parti in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica sia troppa o incida solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica.

METRO DI PARAGONE

La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il Pil. Questa misura non fornisce però alcuna indicazione su come vengano utilizzate queste risorse, se per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti obsoleti. Il centro studi ImpresaLavoro ha fatto un focus sui dati e ne emerge un quadro difficile: le risorse non hanno prodotto maggiore ricchezza. «Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica», spiega il centro studio ImpresaLavoro. «È qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche per fronteggiare il cambiamento». Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generale dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali. Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i Cpt danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato. «Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è cresciuta più di 1.600 euro», prosegue lo studio della fondazione di Massimo Blasoni. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del Pil e sulla crescita della spesa pubblica.

VARIAZIONI DI SPESA

«Nel confronto fra le variazioni del Pil e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del Pil sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuta una crescita superiore al 2,5%. Se questi interventi non vengono modulati il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica. Per spiegarsi meglio: mentre la spesa pro-capite aumentava di 1.600 euro fra il 2005 e il 2014, il Pil pro-capite cresceva della metà. Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche si è ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%. Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%. «La presenza della spesa pubblica come generatore del Pil è maggiore di quanto si possa attendere», conclude lo studio. «Questa considerazione deve far riflettere sulla qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati».

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

Gli aguzzini delle multe: Milano batte Firenze

di Adriano Scianca – La Verità

Le multe stanno diventando una tassa occulta per gli italiani. È Milano la città che, in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti, incassa di più dalle multe (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro). Il dato emerge dallo studio effettuato dal Centro studi ImpresaLavoro a partire dai dati del Siope, il Sistema informatico sulle operazioni degli enti pubblici. Oltre al capoluogo lombardo, la città più tartassate da sanzioni amministrative, ammende e oblazioni sono Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

In generale, negli ultimi tre anni i Comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extra-tributario grazie alle multe. Le risorse che i municipi ogni anno derivano da questa fonte di guadagno è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua. Nel 2016, i bilanci dei Comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

Si noterà che, nella speciale classifica delle città con i contribuenti più «spremuti», manca Roma. C’è in realtà una spiegazione «tecnica»: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati della capitale non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione romana. «Quest’anno – ha spiegato Elisa Qualizza, ricercatrice di ImpresaLavoro citata da Repubblica – abbiamo notato valori anomali legati al Campidoglio: se nel 2014 a questo punto dell’anno stimavamo 153 milioni di incassi, e nel 2015 eravamo in linea con 145 milioni, per il 2016 avremmo dovuto scrivere un dato di 46 milioni. Chiaramente non è giustificabile ma imputabile a un difetto contabile». Ecco perché il dato complessivo del 2016 può dirsi sottostimato.

Di sicuro si sa che l’amministrazione Raggi intende attingere proprio al bacino delle multe per colmare la ciclopica voragine dei conti capitolini, a partire da quelle non riscosse, che a Roma sarebbero addirittura più di quelle incassate. In una delibera propedeutica al bilancio previsionale 2017, già approvata dalla Giunta a Cinque Stelle e in attesa del nulla osta dell’aula Giulio Cesare, per l’anno venturo si stima un incremento di 21 milioni nelle entrate derivanti dalle multe rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda le multe già staccate e non ancora riscosse, la Raggi punta a un incremento di oltre un terzo degli incassi, da 115 a 155 milioni di euro. Va detto che, in generale, nel quinquennio 2010-2015 il gettito extra-tributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni riscosso dai Comuni italiani è diminuito di 272,5 milioni di euro. Le cifre complessivamente incamerate sono infatti passate da 1 miliardo 529 milioni nel 2010 a 1 miliardo 257 milioni nel 2015 (-17,82%). Nel 2015 il trend delle riscossioni era rimasto sostanzialmente stabile (+o,24%, pari a circa 3 milioni di euro), passando da 1 miliardo 254 milioni di euro nel 2014 a 1 miliardo 257 milioni di euro nel 2015.

Ciò non toglie che spesso, anziché essere sacrosante punizioni per automobilisti indisciplinati, e quindi potenzialmente pericolosi o dannosi per il prossimo, le multe si rivelano essere facili scorciatoie per amministratori in crisi di ispirazione, con lo specifico obiettivo di fare cassa, costi quel che costi. Anche con l’aiuto delle nuove tecnologie. I vigili urbani, per esempio, sono appena entrati in possesso di «Nuvola It urban security-street monitoring», un dispositivo in grado di segnalare in tempo reale diverse infrazioni, come il passaggio nelle zone a traffico limitato, la mancata revisione del veicolo, la sosta irregolare o l’assicurazione scaduta. Il sistema per ora è stato adottato dal Comune di Pisa ma presto potrebbe essere preso in considerazione da altri Comuni. Ai vigili basterà il numero di targa e verranno rilevate tutte le irregolarità. Per non parlare di Pegasus, sorta di «elicottero-radar» già in uso in Spagna e che sta per arrivare in Italia. Si tratta di un sofisticato sistema comprendente un radar, attraverso cui è molto piu semplice monitorare il traffico e quindi chiunque infranga i limiti di velocità. In termini numerici, lo scato rispetto ai radar fissi è notevole: 17% di controlli contro il 3%.

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

Blasoni: «Non mi uniformo a Confindustria, io voto No»

di Antonio Signorini – Il Giornale

Per nulla convinto dal merito delle riforme, sicuro che il governo Renzi abbia sbagliato bersaglio rinunciando a favorire la vera innovazione, quella che si fa con le aziende e nella pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di successo. Al referendum del 4 dicembre voterà No, quindi non seguirà le indicazioni di viale dell’Astronomia. «Non tutti gli imprenditori si uniformano a Confindustria. L’idea che votare Sì rappresenti un momento di innovazione contrasta palesemente con la realtà», spiega al Giornale il presidente del Centro studi ImpresaLavoro.

Eppure secondo il ministro Boschi chi vota No è contro il cambiamento…

«Ci sono due modi diversi di dire No: quello della sinistra più retriva che non vuole cambiare, ma anche quello di chi vuole più innovazione e vuole cambiare o rimuovere tutto ciò che impedisce al Paese di ripartire. Chi vuole dare una risposta al fatto che l’Italia è ancora sotto i livelli di Pil pre crisi, intorno all’uno per cento, contro il 3% di Spagna e Irlanda. La Costituzione va cambiata».

La Carta ha un peso sulla competitività del Paese?

«In negativo, perché risente della presenza nell’Assemblea costituente di un Partito comunista allora rilevantissimo. Va cambiata consentendo più facilmente l’innovazione».

Cosa cambierebbe?

«L’articolo 41».

Perché?

«Al primo comma recita che l’iniziativa privata economica e libera, ma poi si contraddice al terzo comma, stabilendo che l’attività pubblica e privata debba essere finalizzata ai “fini sociali”. Questa pretesa dello Stato di coordinare l’attività economica è un grande freno per l’impresa»›.

Altra obiezione del fronte del Sì: se vince il No, è rischio la stabilità del Paese. Condivide questi timori?

«Il rischio di instabilità nel nostro Paese non si risolve con un Senato di nominati. Pesa semmai la nostra incapacità di fare riforme economiche. La situazione delle pensioni resta grave, così come quella del credito o della giustizia civile. Chi può avere voglia di investire in Italia quando per regolare una qualunque contesa sono necessari anni? A settembre del 2016 il debito è cresciuto di oltre 37 miliardi. Il costo degli interessi è sceso ma la spesa corrente e il debito continuano a crescere. Sono queste le vere cause della instabilità del Paese. La riforma costituzionale è fatta male proprio perché non incide su quei dati strutturali che sono la causa dell’instabilità del Paese».

Nel merito, le riforme del governo la convincono?

«Da cittadino riesco a immaginare con fatica senatori, non eletti ma nominati, che dovranno svolgere il doppio lavoro di rappresentanti in Parlamento ed eletti nei consigli. Le riforme non semplificano il procedimento legislativo come sostiene il governo. Sarebbe stato meglio superare definitivamente il bicameralismo abolendo il Senato».

Che prospettive vede per il dopo voto?

«Io spero che vinca il No, ma ritengo che in ogni caso il Paese abbia bisogno di andare a votare, ha bisogno di una leadership eletta che comprenda fino in fondo i temi dell’economia. Un governo che distribuisca meno bonus e faccia più riforme».

 

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

Paese in ginocchio, falliscono 57 aziende ogni giorno

di Claudio Antonelli – La Verità

Nell’arco delle 24 ore in cui questa edizione sarà valida, in Italia avranno chiuso per insolvenza 57 aziende. È la media aritmetica dei fallimenti registrati. Un numero spaventoso che se viene spalmato dal 2009 a oggi arriva a contare 6 cifre. Se continua cosi chiuderemo, infatti, l’anno con 100.000 imprese finite a gambe all’aria.

I conti li ha fatti il centro studi ImpresaLavoro, presieduto da Massimo Blasoni, e definiscono un Paese in profonda crisi. Rielaborando i numeri forniti da Ocse e Cribis, società di servizi per la gestione del credito, appare chiaro come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di crac superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto alle nostre. Tutti le altre nazioni segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le imprese costrette a chiudere per insolvenza sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). Idem per la Finlandia, il Belgio e la Svezia.

Lo stupore di fronte a tale mortalità dovrebbe però lasciare spazio alla consapevolezza che la nazione che ci ospita è fondamentalmente avversa all’imprenditoria privata. Statalisti nel Dna, i politici che guidano il Paese sono molto restii a ridurre il perimetro della burocrazia e dello Stato. Qui sta il male originario di tutti i problemi e i gravami che cadono sulla testa di chi investe i propri capitali. Lo straripamento della spesa pubblica non genera solo una pressione scale abnorme, che obbliga un’azienda a versare allo Stato non meno di 55 centesimi per ogni euro incassato (arrivano a essere 68 se si aggiungono altri oneri o imposte), ma produce una lunga serie aggiuntiva dí tasse occulte. Sono scartoffie, corsi obbligatori per il personale, certificazioni vissute non come una tutela ma una vera e propria vessazione.

Un artigiano che lavora l’intera settimana senza pause può essere costretto a sborsare 160 euro + Iva per un certificato contro lo stress da lavoro correlato. Chi si occupa di autotrasporto sa che le norme nazionali o regionali sono un labirinto che finisce immancabilmente con un prelievo dal portafogli. Un’azienda che si occupa di impianti termoidraulici e magari ha 5 dipendenti nell’arco di cinque anni avrà finito con lo spendere 4.000 euro per la formazione professionale e oltre 250 ore sottratte alla produttività. In molti si chiedono a che servano i corsi di primo soccorso, se poi nessuno si azzarda a intervenire per timore che arrivi una denuncia penale e si finisca con l’essere processati. Così si chiama sempre il 118. Eppure se il titolare non si mette in regola (serve almeno un dipendente formato) scattano le sanzioni e persino le multe.

Da tenere nel cassetto ci sono anche le certificazioni sul rumore (300 euro + Iva) e il documento per la valutazione dei rischi che ovviamente passa per le mani di un professionista e non costa meno di 380 euro, sempre Iva esclusa. E questa è solo una veloce carrellata che rende l’idea di come la burocrazia appesantisca un’impresa quasi più della pressione fiscale. Certo, un giovane che si mette a fare l’imprenditore capisce subito che dovrebbe trasferirsi altrove. Per avviare un’impresa servono almeno nove procedure e si può arrivare ad attendere 36 mesi per avere tutte le carte in regola. E ci sarà un motivo se le persone pagano più per timore delle multe che per reale convinzione: perché spesso gli adempimenti servono a giustificare l’esistenza di chi li ha inventati.

Ovviamente queste «rogne» riguardano solo le attività che sono in salute. Le altre devono affrontare la rigidità dei finanziamenti, la crisi del credito e alla fine la voragine della giustizia civile. Il primo motivo per cui gli stranieri sono restii a investire in Italia. Nel complesso, l’ambiente è ostile alle aziende. Non è odio. È solo aridità. Come vivere nel deserto se si è una pianta di mele: molto difficile. Non a caso tutte le statistiche internazionali ci dipingono come una nazione del Terzo mondo. Ultimo in ordine di tempo è il Global Competitiveness Index. L’Italia si è piazzata al 44° posto (43° nel 2015) preceduta, tra gli altri, da Islanda 29°, Malesia, Azerbaigian, Federazione Russa e Spagna (33°). L’efficienza del mercato del lavoro è al numero 119 su 138 in classifica. L’efficienza delle istituzioni è al numero 103 e la trasparenza del mercato finanziario al 122° posto. Per innovazione tecnologica ritorniamo nella parte alta della classifica. Come ci riusciamo, con tutte le zavorre, non si sa. Deve essere lo stesso mistero che permette all’Italia di svegliarsi ogni mattina. E ripartire dai fallimenti.

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

La strage delle imprese: ne chiudono 57 al giorno

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sempre più difficile fare impresa in Italia. I segnali di ripresa, se ci sono, si traducono in un lieve rallentamento della strage di imprese iniziata già da anni e mai interrotta. Con buona pace di chi ancora vede segnali positivi e incoraggianti. Il Centro Studi ImpresaLavoro ha messo in fila i dati sui fallimenti degli ultimi sei anni. Dal 2009 a oggi sono fallite 95mila imprese e alla fine del 2016 si prevede avranno chiuso i battenti 100mila. Il ritmo è impressionante: in Italia chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo. Fallimenti veri, non un dato fisiologico, rileva il centro studi diretto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

ImpresaLavoro, basandosi su dati provenienti dall’Ocse, evidenzia come i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42% rispetto a sei anni fa, cioè da quando è iniziata la crisi mondiale. Sono passati dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia.

In altre parole il problema dell’Italia non è la crisi della finanza mondiale. Semmai i mercati in tempesta dal 2009 ad oggi, hanno fatto emergere la debolezza del Paese. E l’incapacità della politica a dare risposte ai problemi delle imprese. In tutti gli altri Paesi, c’è infatti stato un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono calate in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%). L’unico sollievo per l’Italia è un lieve rallentamento dei fallimenti nei primi due trimestri di quest’anno rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro, alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Un po’ di ottimismo è d’obbligo, ma il problema è che l’Italia resta lontanissima dai livelli pre-crisi (nel 2009 i fallimenti furono 9.384) ed è sempre più distante dagli altri Paesi europei. La soluzione secondo Blasoni, imprenditore del Nord Est, sono le riforme. «La ripresa del ciclo economico dipende dalla salute delle imprese. Occorrono politiche volte a ridurre il macigno della burocrazia e il peso delle tasse». Altrimenti il rischio è quello di «un ulteriore incremento del numero dei fallimenti».

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Dal 2009 sono fallite 100mila imprese italiane

Alla fine di quest’anno la crisi avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti dall’Ocse, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015.

Un dato, questo, che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’Ocse: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto all’Italia. Tutti gli altri Paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1.000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014.

Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi a oggi sono fallite nel nostro Paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro Paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

Per l’accoglienza dei profughi abbiamo già speso 12 miliardi

di Francesco Borgonovo – La Verità

Ieri Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’Immigrazione del ministero dell’Interno, si è presentato davanti al Comitato Shengen per un’audizione. Il superprefetto alle dipendenze di Angelino Alfano è l’uomo che dovrebbe occuparsi di gestire l’emergenza immigrazione per conto del governo. Ma, stando alle sue dichiarazioni, pare che il suo compito sia piuttosto quello di sponsorizzare l’ospitalità. «L’accoglienza ci costa un miliardo e 200 milioni l’anno, ampiamente sotto quello che i migranti che vivono nel nostro Paese e lavorano legittimamente ci restituiscono sotto forma di Pil» ha detto ieri. Quello fornito da Morcone è un dato singolare, che fa a pugni con quanto dichiarato dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nei giorni scorsi. Nel testo della manovra presentata dal governo, infatti, sta scritto che «al netto dei contributi Ue», il costo dell’accoglienza «è attualmente stimato a 2,6 miliardi di euro per il 2015, previsto a 3,3 miliardi per il 2016 e a 3,8 miliardi per il 2017, in uno scenario costante, assumendo che non ci siano escalation nella crisi».

Dove sta la verità? Quanto ci costa davvero accogliere gli stranieri? A fare chiarezza provvede una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, che vi presentiamo in esclusiva. Le cifre che emergono non soltanto sono altissime, ma sono pure diverse sia da quelle diffuse da Morcone sia da quelle presentate da Padoan. Secondo ImpresaLavoro, infatti, «il conto complessivo negli ultimi sei anni supera gli 11 miliardi di euro, con una progressione impressionante: spenderemo nel 2016 cinque volte la cifra impegnata nel 2011, con un esborso per le casse dello Stato che arriverà a 4,11 miliardi di euro su base annua». Alla fine del 2016, infatti, «saranno sbarcate sulle nostre coste 162mila persone, 9mila in più rispetto allo scorso anno e 8mila in meno rispetto al picco fatto registrare nel 2014, quando arrivarono in Italia 170mila migranti».

C’è un aspetto ulteriore della questione: non soltanto aumentano i flussi, ma crescono le persone che affollano i centri deputati all’ospitalità. «Nel 2013 nel sistema di accoglienza erano ospitate 22.118 persone, praticamente triplicate l’anno successivo (66mila) per superare quota 100mila nel corso del 2015», spiegano gli esperti di ImpresaLavoro. «L’ultima ricognizione è del 18 ottobre e certifica 164mila presenze tra centri di accoglienza, strutture temporanee e sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati». Il settore dell’accoglienza, ad oggi, «assorbe 2,4 miliardi di euro, circa il 50% della spesa complessiva». Nelle voci di bilancio vanno considerati anche il fondo per i minori stranieri non accompagnati e le commissioni territoriali che esaminano le richieste di asilo politico. Poi ci sono le spese amministrative, comprese quelle del ministero dell’Interno. Infine, c’è il soccorso in mare, per cui «spenderemo quest’anno poco più di un miliardo che servirà sostenere le spese per gli uomini e i mezzi della Difesa, delle Capitanerie di porto e della Guardia di Finanza». Non è finita. A tutto ciò vanno aggiunte le spese relative alle cure ricevute dagli stranieri irregolari e rimborsate dal ministero dell’interno alle varie Asl. E come dimenticare i costi per l’istruzione degli alunni stranieri irregolari? «Al 31 dicembre di quest’anno per la somma di queste due funzioni avremo speso ulteriori 689 milioni di euro», dice ImpresaLavoro.

Vediamo allora di tirare le somme. Nel 2011, il totale dei costi dell’accoglienza ammontava a 828 milioni di euro. Nel 2012 siamo saliti a 834 milioni. Nel 2013 eravamo già a 1 miliardo e 255 milioni. Poi si verifica l’exploit: 2,045 miliardi nel 2014 e 2,616 miliardi nel 2015. Per il 2016, la previsione di ImpresaLavoro è di 4,115 miliardi. Significa che, dal 2011 alla fine di quest’anno, gli stranieri irregolari ci saranno costati quasi dodici miliardi (11,7 per la precisione). E per il 2017 la proiezione è di una spesa pari a 4,174 miliardi.

Domanda: come è possibile che le stime di Padoan – utili a ottenere la flessibilità dall’Europa – siano inferiori? Semplice: il ministero dell’Economia ha tenuto conto di un scenario costante». Cioè ha presunto che i flussi di stranieri in entrata non aumenteranno. Tuttavia, i dati forniti dal ministero dell’Interno mostrano un crescente aumento degli sbarchi, quindi le spese sono destinate a salire. Va notato, fra l’altro, quanto sia risibile il contributo dell’Europa. Bruxelles trasferisce al nostro Paese «in media 110 milioni su base annua. Erano 94 milioni nel 2011, sono arrivati a 160 nel 2014 e sono scesi a 112 nel 2016. Niente a che vedere con i 3 miliardi che sono stati riconosciuti alla Turchia».

Secondo Massimo Blasoni, imprenditore e presidente di ImpresaLavoro, «emerge con chiarezza che i costi per la gestione di questa emergenza stanno crescendo esponenzialmente di anno in anno. L’effetto è generato in parte dall’aumento degli sbarchi, in parte dalla lentezza con cui il nostro sistema esamina le richieste di asilo e dispone gli eventuali rimpatri». A parere di Blasoni, «senza una vera politica europea di redistribuzione dei profughi tra tutti i Paesi rischiamo di ritrovarci con una pericolosa bomba nei nostri conti pubblici». Una bomba le cui dimensioni, a quanto pare, sfuggono tanto a Morcone quanto a Padovan.

La politica croce e delizia di chi innova

La politica croce e delizia di chi innova

di Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’inchiesta sulle “idee per riaccendere l’Italia” e sull’innovazione e le vere e proprie eccellenze, inducono a chiedersi se e come “la politica industriale” possa contribuire ad accelerare il rinnovamento. Per decenni, una linea di pensiero ha ritenuto che l’intervento dello Stato potesse non incoraggiare ma addirittura frenare l ‘innovazione: in un volume del 1972 ( “Il Governo dell’industria in Italia”, il Mulino 1972) definiva la pubblica amministrazione in supporto dell’innovazione «impicciona» e «pasticciona». A un giudizio quasi analogo si giunge dalla lettura di un recente volume di Franco Debenedetti. Il titolo è eloquente: “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti: l’insana idea della politica industriale” (Marsilio, 2016).

Un punto di vista differente è quello di Salvatore Zecchini, presidente del Comitato Piccole e Medie Imprese dell’Ocse e vice segretario generale Ocse, nonché direttore esecutivo del Fondo monetario: “La politica per l’innovazione in Italia: criticità e confronti” (Centro Studi ImpresaLavoro, 2016). Il volume confronta gli interventi, da un lato con la realtà del fare innovazione in Italia, e dall’altro lato con le politiche e strategie attuate dai Paesi di maggior successo ed indica misure specifiche per chiudere le falle: a) dare al pubblico il ruolo di coordinatore e facilitatore; b) stimolare ricerca e innovazione in azienda; c) creare un contesto favorevole all’innovazione; d) sviluppare la domanda di R&I sia privata sia pubblica; e) rendere più efficaci le modalità d’intervento e di finanziamento; f) potenziare la valutazione economica degli interventi. Per ciascuno di questi temi vengono declinati provvedimenti puntali che saranno presto oggetto di un dibattito a Roma.

E il Nord guarda all’estero

E il Nord guarda all’estero

di Elisa Qualizza – Panorama

La fuga degli italiani all’estero è un fenomeno sempre più evidente, notevolmente aggravatosi negli anni della crisi fino a toccare livelli record a fine 2015. Lo scorso anno il numero di italiani andati a vivere oltreconfine ha superato per la prima volta la quota di 100mila unità: due volte e mezza la media registrata tra il 1995 e il 2010, e superiore di oltre 13mila unità al dato relativo all’anno precedente, come testimoniano i numeri presentati da una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro basata su dati Istat.

L’equivalente di un piccolo capoluogo di provincia ogni anno, dunque, emigra: un flusso che dal 2010 cresce in media del 21 per cento all’anno, e che potrebbe raggiungere le 123mila unità già nel 2016, a meno che la tendenza recente non si smentisca. Quest’anno, pertanto, a lasciare la propria nazione potrebbero essere oltre due italiani ogni mille, un livello già raggiunto lo scorso anno in Trentino-Alto Adige (ben il 2,5 per mille di italiani emigrati), Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta (per entrambe il 2,1 per mille), Sicilia e Lombardia (2 per mille).

Il fenomeno si sta aggravando ma con dinamiche differenti tra le regioni del Sud e quelle del resto d’Italia. Rispetto alla media 1995-2010, il flusso in uscita si è accentuato molto di più in regioni del Nord come Lombardia ed Emilia-Romagna: assieme a Veneto, Valle d’Aosta, Marche e Umbria, queste regioni hanno infatti visto il proprio tasso di espatrio quadruplicarsi in pochi anni. La crescita delle migrazioni è quindi diffusa ma ben altri numeri ne descrivono le dinamiche nelle regioni del Sud: anche qui i flussi risultano per la gran parte in crescita ma in termini relativi in alcuni casi non sono ancora raddoppiati (come in Sicilia e Puglia), in altri risultano stabili (Basilicata) o addirittura in leggera flessione (Calabria) rispetto alle medie storiche. Sono in linea con la tendenza nazionale (aumento del 150 per cento) invece i dati di Lazio, Liguria e Friuli-Venezia Giulia. La classifica delle regioni da cui si emigra di più verso l’estero si è rivoluzionata negli anni: rispetto al 2002 la Lombardia è passata dal 12° al 5° posto per espatri in rapporto alla popolazione ed è ora tra le regioni più colpite, mentre la Basilicata è scesa dal quarto all’ultimo posto e la Puglia dal quinto al quart’ultimo.

Un ulteriore aspetto riguarda gli italiani che decidono di rimpatriare. Il dato medio di circa 30mila unità all’anno è sostanzialmente stabile dal 2008, anche se inferiore di oltre un quarto rispetto al quinquennio precedente (picco di 47.500 unità annue riferito al 2003). Se si considera il saldo tra italiani che rientrano e italiani che emigrano, il bilancio appare strutturalmente negativo fino al 2001 per quasi 12mila unità annue in media, mentre è positivo nel triennio successivo e, seppur di poco, anche nel 2007. Dal 2008 in poi la tendenza si inverte nuovamente raggiungendo il saldo record di meno 38mila unità nel 2012 per poi arrivare a quello ancor più ampio di meno 72mila nel 2015.

I dati non consentono di rilevare sostanziali differenze tra classi d’età. A emigrare sarebbero più i giovani, ma la tendenza non sembra rilevante e il fenomeno è piuttosto stabile, con la metà degli espatri in una fascia d’età tra i 18 e i 39 anni. Qualche considerazione in più è invece possibile esprimerla sulla destinazione: nel 73 per cento dei casi si tratta di Paesi europei, con una tendenza più forte rispetto al passato. Il Regno Unito sembra aver acquisito maggiore attrattività ricevendo il 15,2 per cento degli italiani che emigrano: è una quota doppia in termini relativi e quintupla in termini assoluti se paragonata alle cifre del 2002. Ha ripreso quota anche la Germania (oltre il 16 per cento), destinazione preferita in assoluto secondo i dati più recenti, e la Svizzera (quasi il 12 per cento), in terza posizione. Per quanto riguarda i giovani, la meta più popolare è decisamente il Regno Unito: la sceglie uno su cinque. Più distaccate Francia (scelta in poco meno del 10 per cento dei casi), Spagna (il 5 per cento, in flessione) e Belgio (meno del 3 per cento).

L’emigrazione rischia di assumere i contorni di un fenomeno strutturale. Un numero sempre maggiore di connazionali sceglie infatti di emigrare e, se questa tendenza si consoliderà ai ritmi che stiamo osservando, lo faranno presto a una velocità tripla rispetto al passato. Un’accelerazione che non riguarda solo le aree più disagiate: già oggi l’aumento sembra colpire maggiormente Nord e Centro. Così come, dal punto di vista demografico, l’emigrazione riguarda, oggi, trasversalmente tutte le fasce della popolazione in età da lavoro e diversi territori: segnali che indicano una tendenza che si sta facendo via via una normalità e che non viene invertita da una ripresa economica debole, da un prodotto interno lordo ancora lontano dai livelli pre-crisi e da un mercato del lavoro che non pare in grado di offrire opportunità di occupazione e crescita.

«IN ITALIA MANCANO LE OPPORTUNITÀ»

di Massimo Blasoni – Imprenditore e presidente di ImpresaLavoro

Andare a lavorare per qualche tempo all’estero di per sé non è un male. Il problema è che poi moltissimi italiani decidono di non tornare in Italia perché privi di una qualsiasi prospettiva. Il nostro mercato del lavoro è infatti asfittico perché prigioniero di regole sbagliate. D’altronde i dati Ocse parlano chiaro, purtroppo. La disoccupazione giovanile in questi anni è aumentata nel nostro Paese di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo.

 

Trenta mesi di favole e le imprese aspettano 61 miliardi dallo Stato

Trenta mesi di favole e le imprese aspettano 61 miliardi dallo Stato

di Antonio Signorini – Il Giornale

Debiti della Pubblica amministrazione ancora a quota 61,1 miliardi di euro, sostanzialmente lo stesso livello di due anni. Poi ritardi nei pagamenti che solo nel 2016 costeranno alle imprese 5,1 miliardi. Se si conteggiano gli interessi, Matteo Renzi dovrà scalare molto più in alto dei 817 metri di Monte Senario per espiare il peccato di non avere cancellato, come promesso, gran parte dei debiti della Pa. Magari una cima alpina.

Domani è San Matteo e per il terzo anno di fila, ha ricordato ieri il centro studi ImpresaLavoro, non si può che registrare come la promessa di Renzi di ridurre drasticamente lo stock del debito che le pubbliche amministrazioni hanno contratto con privati non sia stata rispettata. Era il 13 marzo del 2014, l’ex sindaco di Firenze si era insediato da poco a Palazzo Chigi e a Porta a Porta promise che il 21 settembre di quell’anno – suo onomastico – avrebbe cancellato i debiti della Pa contratti fino al 2013 oppure sarebbe andato a piedi al Santuario di Monte Senario. A tre anni di distanza non si sono ridotti «i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale».

Le cifre di ImpresaLavoro, basate su dati Intrum Justitia, sono chiari: oggi lo stock, quindi i debiti accumulati, ammonta a 61,1 miliardi di euro, sostanzialmente stabile rispetto al 2015 e in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014. La spiegazione è semplice. Inutile cancellare i vecchi debiti se la Pa continua a non onorare quelli nuovi. «Liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo». L’alto livello del debito, insomma, è il risultato del ritardi nei pagamenti della Pa che ci vede ancora tra i peggiori. Lo Stato italiano paga i suoi fornitori in media in 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell’Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania. I soli ritardi accumulati dalla Pa nel 2016 determineranno per le imprese italiane un onere relativo alle anticipazioni di 5,1 miliardi di euro.

Gli effetti negativi sono molteplici, spiega Blasoni, che è un imprenditore. «Per un’azienda anticipare in banca per mesi i propri crediti verso lo Stato non solo è molto costoso» ma «ne abbassa il merito creditizio. Insomma, se si usano le proprie linee di credito per far fronte ai ritardi di pagamento della Pa (i propri dipendenti e fornitori vanno pagati) è più complesso trovare risorse per investire o ampliare la produzione». I dati di oggi aumentano il divario tra noi e gli altri stati europei come Germania e Danimarca: «Lì lo Stato è serio e paga in pochi giorni». Peraltro, aggiunge Blasoni, «le lentezze sono spesso frutto di una burocrazia infinita». Il rischio, se l’Italia non perderà questo primato negativo, è che «si rompa definitivamente il patto di fiducia tra Partite Iva e Stato: se l’imprenditore non paga una tassa alla data prefissata scattano Agenzia delle Entrate, Equitalia e ganasce varie, lo Stato invece paga i propri debiti quando vuole e resta impunito».