Scrivono di noi

Stritolati dal fisco

Stritolati dal fisco

di Gianni Zorzi e di Elisa Qualizza – Panorama

Giugno è considerato il mese della verità per i proprietari di immobili chiamati a versare gli acconti relativi alle tasse ricorrenti sulle proprie case, edifici e terreni. Anche quest’anno alla scadenza di inizio estate si è accompagnata l’ennesima novità – questa volta fortunatamente positiva – introdotta a livello di tassazione immobiliare. Come rivela uno studio confezionato da ImpresaLavoro, infatti, dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale sul mattone sarebbe comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta superiore agli 11 miliardi annui, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento.

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, quasi triplicata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

La flessione di circa 3 miliardi e mezzo prevista per il 2016 rispetto all’annata precedente, invece, si deve interamente a una delle misure principali contenute al riguardo nell’ultima legge di stabilità: l’esenzione delle abitazioni principali dalla TASI. Va subito notato, però, che proprio la fiscalità sulle case di residenza è quella che ha subito il maggior numero di variazioni negli ultimi anni, rappresentando un vero emblema dell’incertezza che domina da un anno all’altro il destino dei tributi sulle case nel nostro Paese.

Nata formalmente nel 2014 come imposta sui servizi locali, la TASI si è comportata negli effetti da malcelata patrimoniale, tesa a ripristinare a favore degli enti locali il gettito inizialmente perso dall’IMU sulle prime case. La sua abrogazione sarà ora destinata a perdurare nel tempo? Così non è stato, finora, per le imposte che l’hanno preceduta.

L’introduzione dell’IMU a partire dal 2012 (intervento contenuto nel decreto Salva Italia dell’inverno del 2011) ha fatto balzare d’un tratto di oltre 12 miliardi il gettito fiscale sugli immobili, con una quota di quasi quattro miliardi attribuibile proprio alle abitazioni principali, le quali erano rimaste indenni dal 2008 per effetto dell’esenzione dalla vecchia ICI. Il nuovo tributo è stato subito oggetto di riforma per il 2013, con l’abolizione sulle abitazioni di residenza (non di lusso), salvo ricomparire per l’appunto l’anno successivo con regole diverse e sotto il nuovo nome di Tassa sui Servizi Indivisibili. L’intervento ha dunque portato il prelievo complessivo delle tasse sul mattone a sfondare per la prima volta nel 2014 il muro dei 50 miliardi, raggiungendo l’anno successivo il record storico di 52,3.

Sono cambiate negli anni anche le regole per le detrazioni, la quantificazione dei versamenti in acconto e a saldo, nonché le regole per i casi più particolari (il comodato ai parenti, le case dei residenti all’estero). Aliquote, coefficienti applicabili e codici per il versamento dei tributi si sono moltiplicati determinando una oggettiva complessità per i contribuenti a fronte di un quadro impositivo così mutevole e intricato.

Oltre a questo, uno studio di Banca d’Italia ha dimostrato che negli ultimi due anni il nuovo prelievo aveva prodotto l’effetto (probabilmente non voluto) di ridurre notevolmente la progressività delle imposte andando dunque a pesare più di prima sui ceti più deboli e sulle case di valore più modesto. L’effetto dovrebbe ridursi quest’anno proprio grazie alle norme della legge di stabilità, ma è anche vero che non è destinato ad annullarsi, visto l’incremento tendenziale che si rileva ogni anno su altre tasse locali.

Coinvolta anch’essa nel balletto degli acronimi (dai vecchi TARSU e TIA all’odierno TARI, passando per la fugace apparizione della TARES, rimasta in vigore solo nel 2013), l’imposta sui rifiuti ha infatti registrato nel periodo 2011-2015 un incremento netto del 50 per cento, arrivando a toccare 8,4 miliardi secondo le più recenti stime presentate da Confcommercio. Il peso della fiscalità sugli immobili nei bilanci degli enti locali, del resto, nello stesso periodo è incrementato in tutte le sue singole voci passando nel complesso dal 46 all’81,6 per cento, e dimostrando quindi una progressiva decentralizzazione di questo tipo di prelievo.

A meno di sorprese, dunque, il 2016 dovrebbe segnare una prima riduzione del carico fiscale complessivo sulle case, con una compensazione solo parziale derivante da voci attese in crescita come quella del gettito sui trasferimenti (in particolare le compravendite) nonché della cedolare secca sugli affitti, che conti alla mano non smette di crescere dall’anno della sua introduzione (2011).

Ma è proprio sui trasferimenti immobiliari che sono necessarie alcune considerazioni. A partire dal 2014, alcune imposte che colpiscono le compravendite (in particolare le imposte di registro, ipotecaria e catastale) hanno subito un allentamento per quanto concerne le prime case, e l’agevolazione da quest’anno spetta anche a chi acquista una prima casa pur avendone già un’altra (a patto che quest’ultima venga infine ceduta entro il termine di dodici mesi). Queste misure, tese a far riprendere il numero degli scambi sul mercato immobiliare, non sembrano tuttavia aver impedito il crollo di valore delle abitazioni italiane.

Secondo alcune interpretazioni, sarebbe invece ipotizzabile una correlazione tra l’aumento delle tasse sul mattone e la discesa dei prezzi delle abitazioni. In effetti, i numeri evidenzierebbero un certo impatto anche se, incrociando i dati Istat e Banca d’Italia sull’andamento dei prezzi e dello stock delle abitazioni in Italia, ImpresaLavoro stima in una quota media compresa tra il 5 e il 10 per cento la perdita di valore del patrimonio attribuibile a fronte dell’incremento più netto rilevato sulle imposte (quello rilevato tra il 2011 e il 2015).

In effetti, rispetto al calo dei valori di mercato il peso medio effettivo delle imposte è salito in modo ancor più vistoso, raggiungendo il 7,7 per mille nel 2015 con una componente patrimoniale pari al 5,4 per mille: sarebbe dunque possibile che quest’ultimo elemento incida sui prezzi e i volumi delle compravendite ancor più di eventuali riduzioni delle imposte una tantum sulle transazioni.

È ancora molto presto, in ogni caso, per parlare di riduzione strutturale della fiscalità sulle case, anche perché come abbiamo dimostrato, l’abolizione TASI sulle abitazioni di residenza determina per ora solo una prima inversione di tendenza, a cui dovrà necessariamente seguire una stabilizzazione sia del livello dell’imposizione che del quadro stesso delle regole che compongono la fiscalità sui nostri immobili.

A tal proposito, due grandi minacce sembrano incombere sia sulla semplificazione che sul livello delle tasse sulle case, risalito già ampiamente nelle graduatorie internazionali come documentato anche dall’Ocse. La prima minaccia è costituita dall’evolversi della dialettica tra erario e autonomie locali sulla scomposizione e suddivisione dei tributi che colpiscono le abitazioni.

La seconda è quella relativa alla cosiddetta riforma del catasto, di cui si parla da tantissimo tempo senza tuttavia averne stabilito i tratti fondamentali: il rischio a questo punto per le tasche dei contribuenti è quello di una revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili.

La vera notizia sarebbe dunque, nei prossimi anni, quella di non ritrovare ulteriori modifiche, aumenti o nuovi acronimi che facciano rientrare dalla finestra ciò che è uscito quest’anno dalla porta. Quella della nostra prima casa per l’appunto.

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

L’ennesimo falso miracolo di (San) Matteo

Panorama

Era il 13 marzo 2014 quando Matteo Renzi, ospite di Porta a Porta e di Bruno Vespa, promise di saldare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese “entro il 21 settembre successivo”, cioè entro il giorno di San Matteo. Insomma, il presidente del Consiglio, con una battuta delle sue, voleva autocelebrarsi come divino. Ecco, si è invece rivelato demoniaco.

Basta far di conto. Alla fine del 2014 il passivo dello Stato nei confronti dei suoi fornitori di beni e servizi era di circa 70 miliardi contro i 90 raggiunti durante l’era di Mario Monti a Palazzo Chigi. È pacifico, dunque, che il premier ha disatteso da subito la sua promessa. E dopo, come sono andate le cose? Alla faccia della trasparenza, sul sito del ministero dell’Economia l’ultimo aggiornamento sui pagamenti pubblici risale all’11 agosto 2015.

A quella data la somma versata ai creditori risultava essere di 38 miliardi di euro: mancavano quindi all’appello ancora 32 miliardi, cifra peraltro considerata in realtà superiore da molti economisti indipendenti. Quanto ai giorni a noi più vicini, in assenza di dati ufficiali, ci si può appellare solo ai centri studi. Secondo ImpresaLavoro, al 31 dicembre 2015 i debiti della pubblica amministrazione sono arrivati a 61,1 miliardi; per Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato, “il conto in sospeso” era invece “di 65 miliardi e mezzo”.

E a metà 2016, a parere dell’Ance, l’associazione nazionale costruttori edili, “la situazione non è migliorata neanche con il superamento del patto di stabilità interno previsto dalla Legge di stabilità”. Questo perché “in media le imprese che realizzano lavori pubblici sono pagate 168 giorni (5 mesi e mezzo) dopo l’emissione degli Stati di avanzamento lavori, contro i 60 giorni previsti dalla normativa Ue”. Fatti e circostanze rendono quindi l’Italia il peggiore Stato pagatore d’Europa. E tra poco più di un mese è di nuovo San Matteo. Due anni dopo. (F.B.)

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

da Il Fatto Quotidiano

Il dato sul Pil di ieri certifica che per la dodicesima volta in quindici anni un governo italiano dovrà rivedere al ribasso le sue previsioni sulla crescita. Ormai è un fatto che si dà quasi per scontato, eppure quelle stime rosee inquinano il dibattito pubblico finché non vengono smentite (ma sempre con l’aggiunta: “La crescita ripartirà nel prossimo semestre” o “l’anno prossimo”, a seconda).

Una ricerca di ImpresaLavoro – su dati del Tesoro e dell’Ocse tra il 2002 e il 2015 – ha rivelato che le previsioni dei governi per l’anno successivo sono state prudenziali o esatte solo in tre casi (2006, 2007 e 2010), per il resto tanto ottimismo. Questi i risultati: fatto 100 il Pil del 2001, se le stime governative si fossero avverate il Prodotto italiano oggi sarebbe 123,75 e invece è 97,8. Si dirà, è difficile prevedere cosa succederà un anno dopo il momento in cui si scrive: in realtà, però, anche sull’anno in corso – cioè sulle stime di aprile rispetto al risultato di dicembre – c’è negli ultimi anni un errore medio vicino allo 0,5%. La cosa è un fatto talmente risaputo che l’ha scritta lo stesso Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza del 2014: gli ultimi governi hanno “mediamente sovrastimato la crescita economica per 0,5 punti in primavera e 0,2 punti nelle previsioni formulate in autunno (cioè a ottobre, ndr)”. Non sono solo i governi, però, a sbagliare per eccesso le previsioni.

Uno studio dell’ufficio studi della Cgil sugli anni 2008-2014 mostra con palmare evidenza che tutte le istituzioni che hanno costruito il racconto ideologico che ha guidato i nostri governi (deflazione salariale, austerità, privatizzazioni) sbagliano le loro stime con regolarità; in questo periodo, ad esempio, i governi Berlusconi, Monti e Letta hanno errato per eccesso del 14,3%, inventandosi circa 330 miliardi di Pil; la Banca d“Italia, però, ha sbagliato per 13,6 punti percentuali, la Commissione europea per 12,4 e il Fondo monetario per 11,6. La più accurata, per così dire, è stata l’Ocse, che ha sbagliato “solo” del 10,5% (che comunque, in soldi, fa la bella cifretta di 200 miliardi di euro di Pil inesistente). E’ appena il caso di ricordare, infine, che al momento della presentazione dell’ultimo Def da parte del Tesoro, l’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità sui conti pubblici) non aveva validato le previsioni per il biennio 2017-2018 perché troppo ottimistiche. Il futuro non sarà diverso dal passato.

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

La nostra benzina a peso d’oro: siamo i terzi più cari d’Europa

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Estate, tempo di viaggi in auto. Il mese di agosto è quello che mette gli italiani dinanzi a una realtà che nel resto dell’anno si può anche evitare di vedere: benzina e diesel sono troppo cari, nonostante il prezzo del petrolio abbia recuperato solo parzialmente la gran discesa dei prezzi dell’ultimo biennio.

In Italia, però, di tutto questo non c’è evidenza: il costo dei carburanti è superiore dell’11,9% rispetto alla media europea. In particolare, il differenziale è del +10,4% rispetto alla Germania, del +12,6% rispetto alla Francia, del +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura del +30,4% rispetto all’Austria. Non si può, pertanto, non provare un po’ di invidia per friulani e altoatesini che hanno una possibilità di scelta, negata invece al resto dei connazionali. La ricerca, elaborata dal Centro studi ImpresaLavoro in base ai dati Weekly Oil Bulletin della Commissione europea, evidenzia come la «resistenza» rispetto alle oscillazioni ai prezzi di mercato sia legata all’eccessivo carico fiscale sulle benzine. Tasse e le accise pesano in media per il 68,8% sul prezzo finale praticato al consumatore. L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, a pari merito con la Gran Bretagna e subito dopo Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Il malcostume non è solo italico: in tutta Europa l’incidenza delle tasse sul prezzo finale non scende mai sotto il 53,07% della Bulgaria. Anzi, la media dei 28 Paesi è del 66%, dunque quasi tutti i cittadini europei finanziano i loro stati con i due terzi del costo dei carburanti. La prassi, però, ha molto più senso laddove le imposte sui redditi sono più basse e il carico fiscale si sposta, pertanto sui consumi. In Paesi come l’Italia, la Svezia, la Danimarca, la Francia e il Belgio, invece, i contribuenti sono tassati due volte: quando guadagnano e quando spendono.

In valore assoluto un litro di benzina Euro-Super 95 costa, secondo i dati dell’Ue, 1,4325 euro, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un prezzo che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). In Germania un litro dello stesso carburante costa 1,2970 euro, in Francia 1,2714 euro e in Spagna 1,1345 euro. Solo in Bulgaria (0,9973) e in Polonia (0,9972) un litro di benzina costa meno di un euro.

Quanto al diesel, il suo costo medio in Italia è di 1,2894 euro al litro: anche in questo caso si tratta del terzo prezzo più caro in Europa, dopo quello praticato nel Regno Unito (1,3299 euro al litro) e in Svezia (1,2896 euro al litro), a fronte di un prezzo medio europeo di 1,1203 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Bulgaria (0,9673 euro), la Lettonia (0,9627 euro), la Lituania (0,9625 euro), la Polonia (0,9427 euro) e soprattutto il Lussemburgo (0,9120 euro). Anche per il diesel, sono le tasse a portar via larga parte del prezzo finale praticato al consumatore. Imposte e accise pesano per il 68,2% del prezzo finale nel Regno Unito, il 65,9% in Italia e il 63,3% in Francia. Anche in questo caso, in tutta Europa, l’incidenza delle tasse rimane sempre sopra il 50% del prezzo finale (60,9% la media Ue). Il fatto di essere tartassati non è comunque un buon motivo per non godersi le vacanze.

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

Benzina più cara d’Europa: il petrolio cala, le tasse no

di Antonio Castro – Libero

Ogni estate è la stessa storia: gli italiani si mettono al volante e il prezzo della benzina lievita (prezzo medio ieri 1,432 euro/litro, diesel prezzo medio 1,272). Un costo/litro che in Europa è inferiore solo a Olanda (1,4510) e Danimarca (1,4438). Pochi centesimi di ritocco certo (siamo lontani dai 2 euro al litro toccati nell’agosto 2012), però, a ben guardare, 4 anni fa il prezzo del petrolio viaggiava verso i 115 dollari al barile (il Wti a 97,41 dollari, il Brent a 115,1). Ieri a Wall Strett il greggio di tipo Wti (quello più pregiato), faceva fatica a reggere i 41,7 dollari al barile, mentre il Brent superava di poco i 44,2 dollari. E allora sorge il dubbio: perché se i prezzi sono dimezzati, il costo di un litro di carburante si è ridotto di meno di un quarto?

Esistono due risposte: una tecnica, noiosissima e un po’ traballante. E una molto più semplice. Quella tecnica scansiona gli equilibri mondiali, la geopolitica e le fluttuazioni sui mercati finanziari. Tutto vero, per carità. Poi c’è quella papale papale: paghiamo la benzina uno sproposito perché oltre il 69% del prezzo di questo (e il 66% del gasolio), è fatto di tasse, accise, Iva e balzelli vari (dati Unione Petrolifera). In teoria c’è dentro l’addizionale per la guerra d’Etiopia (1935), una manciata di terremoti e disastri (l’ultimo quello in Emilia del 2012), e pure il “Salva Italia” di Monti del 2011.

Il problema dell’iper tassazione dei prodotti petroliferi è comune a tutta Europa. Ma noi in Italia siamo speciali: nel nostro Paese il prezzo dei carburanti continua a restare tra i più alti in Europa: +11,9% rispetto alla media europea e in particolare +10,4% rispetto alla Germania, +12,6% rispetto alla Francia, +20,7% rispetto alla Slovenia e addirittura +30,4% rispetto all’Austria. Il Centro studi ImpresaLavoro, ha elaborato i dati della Commissione Europea e messo in colonna la classifica dei più tartassati.

L’Italia si colloca al terzo posto di questa speciale graduatoria, subito dopo l’Olanda (70,9%) e la Svezia (68,9%). Tralasciando il dettaglio che in questi due Paesi i governi finanziano generosamente chi intende passare a vetture a impatto zero (elettriche, idrogeno). Loro alzano le tasse per scoraggiare comportamenti inquinanti, da noi solo per fare cassa. «Le entrate derivanti dalle accise sugli oli minerali, energia elettrica e gas naturale nel corso del 2015 si sono attestare a circa 31,3 miliardi di euro», spiega la Relazione 2016 dell’Up. Una torta troppo grande golosa per rinunciarvi.

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

ImpresaLavoro, oltre 200 persone al convegno con Nicola Porro e Massimo Blasoni

Udine20 

“Sold out” per l’incontro di ieri sera a palazzo Kechler dal titolo “Estate 2016: opinioni su economia, lavoro, Tv e giornali” . Oltre duecento persone erano presenti al convegno organizzato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” che ha visto protagonisti il Presidente di “Impresalavoro”, l’imprenditore udinese Massimo Blasoni e il conduttore televisivo NIcola Porro, vicedirettore de Il Giornale e reduce dalla fortunata esperienza alla guida di Virus, in prima serata su Rai2. Introdotti dal direttore del Centro Studi, Simone Bressan, i due protagonisti sono stati incalzati dalle domande del giornalista Vittorio Pezzuto. Blasoni e Porro si sono confrontati in un acceso dibattito sull’attualità economica e sui principali temi in agenda in queste settimane: dalla Brexit alla crisi delle banche, dall’emergenza profughi al futuro delle pensioni.

In apertura, Nicola Porro ha raccontato i retroscena della sua dipartita dalla RAI parlando di “mano forte della censura televisiva”. Con una versione “politically correct”, la RAI ha dato il benservito al giornalista motivando una volontà di “trovare nuovi linguaggi televisivi”. “in un contesto storico così delicato mi hanno voluto imbrigliare, togliere la possibilità di parlare dimostrando una debolezza politica scollegata alla realtà”, ha sottolineato Porro.

Numerosi i temi di grande attualità affrontati durante la serata. Dall’immigrazione, della quale Blasoni ha evidenziato i costi, 4 miliardi di cui soltanto 120 i milioni di aiuti provenienti dall’Europa, alla Brexit e le conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna dallo scacchiere dell’UE. Continuando con il terrorismo per il quale Porro definisce “inaccettabile il senso di colpa occidentale” e le riforme costituzionali. Blasoni si è soffermato sulla presenza pervasiva dello Stato, definendo “troppo ampio il perimetro di azione” e ponendo l’accento sugli eccessi e sui difetti. Eccessi in quanto ”troppe persone vogliono vivere di politica”, difetti identificati nella “poca capacità degli amministratori”. Per Blasoni “bisogna ridurre la burocrazia e ridare speranza perché non sarà lo Stato a rilanciare il paese, ma le imprese”. Blasoni, imprenditore di prima generazione, in conclusione ha volutamente lanciato una provocazione: la proposta di una legge che preveda un’esperienza lavorativa di almeno 5 anni per accedere alle massime cariche politiche.

“ImpresaLavoro” è un centro studi di ispirazione liberale che promuove sul panorama nazionale studi e ricerche sui temi dell’economia e del lavoro. L’attività di ricerca è coordinata da un board scientifico presieduto dall’economista Giuseppe Pennisi, ex dirigente della Banca Mondiale e attuale consigliere del Cnel, e composto da Salvatore Zecchini (Presidente Commissione Ocse sulle Pmi), Luciano Pellicani (sociologo e professore alla LUISS) e Cesare Gottardo (professore di materie economiche). Recentemente il centro, che ha una sede anche a Roma, ha pubblicato il suo report annuale sulla Libertà Fiscale in Europa e un articolato rapporto sulla sanità digitale in Italia, realizzato in collaborazione con il Censis.

Il necessario cambio di passo della sanità digitale

Il necessario cambio di passo della sanità digitale

di Carla Colicelli* – Sole 24 Ore**

Una recente indagine Censis del 2015 sul tema della digitalizzazione della Pubblica amministrazione ha mostrato che tra coloro che usano internet il 39% si dichiara poco o per nulla in grado di utilizzare i servizi online della Pa, quota che sale al 49% tra gli ultrasettantacinquenni; mentre i servizi online più usati sono quelli legati alla comunicazione e all’informazione, e tra gli utilizzatori dei servizi online circa il 66% ha utilizzato la posta elettronica, il 39,8% ha letto giornali online, oltre il 36% frequenta social network. Quote più basse hanno svolto attività transattive, quali lo svolgimento di operazioni bancarie (24%), l’acquisto di beni e servizi (15,6%, comprese prenotazioni di visite mediche), la gestione di pratiche con gli uffici pubblici (12,7%, comprese richieste di servizi).

Questi ed altri dati certificano un sostanziale gap tra Italia ed altri paesi europei nella diffusione della utilizzazione dei servizi informatici che riguardano la pubblica amministrazione e i suoi servizi, e ciò nonostante la evidente ampia propensione degli italiani ad accogliere di buon favore le innovazioni tecnologiche e le loro applicazioni in altri ambiti. Ugualmente ampi sono, al tempo stesso, i benefici attesi a seguito della diffusione della digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche e soprattutto in area sanitaria, in termini di efficienza e qualità. Le motivazioni che stanno alla base delle attese in tema di processo di digitalizzazione in sanità sono sia di natura sociale che di natura economica. Dal punto di vista sociale il valore sta principalmente nella opzione di rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca ad assumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute. In questa prospettiva, i cittadini vengono considerati non tanto utenti finali dei servizi digitali quanto veri e propri co-protagonisti della digitalizzazione del sistema. A questo proposito fondamentali sono gli obiettivi della condivisione delle informazioni, della interazione fra pazienti, operatori e strutture, della riduzione dell’errore medico e della gestione delle patologie croniche. Non mancano al tempo stesso, dal punto di vista sociale, importanti criticità legate ad alcune implicazioni sociali e culturali, quali la partecipazione degli utenti al processo, la facilitazione della acquisizione di una avanzata cultura digitale dei servizi ed il contrasto delle forme di divide culturale esistenti e future, che rischiano ed ancora più rischieranno di rendere vani gli sforzi. Da questo punto di vista è evidente che per transitare verso una sanità moderna ed efficiente, alla quale la digitalizzazione può dare un contributo primario, occorre agire sulle carenze informative, sulle lacune tecnologiche ed in particolare informatiche, sulla scarsa considerazione del ruolo che spetta al fattore umano nella relazione terapeutica, e sulla effettiva fruibilità dei canali tecnologici.

Dal punto di vista economico, invece, va innanzitutto sottolineato che ancora troppo poco si è indagato sui risparmi possibili grazie alla utilizzazione della strumentazione informatica in chiave prospettica, per la scelta delle terapie più appropriate, per la personalizzazione delle cure, per l’integrazione dei servizi e per il superamento delle lungaggini burocratiche. E troppo poco si è riflettuto sulla necessità di consolidare gli investimenti rendendoli quanto più possibile fruttuosi.

Proprio per inquadrare nel medio periodo le prospettive della sanità digitale italiana in termini di fabbisogno finanziario e strategico, lo studio prodotto da Censis e Impresalavoro, e presentato al pubblico presso il Censis martedì 5 luglio (Le condizioni per lo sviluppo della Sanità Digitale: scenari Italia-UE a confronto), esamina lo stato dell’arte e gli scenari al 2020, prospettando la necessità di una accelerazione dell’impegno, sia in termini di investimento che in termini di architettura e governance del sistema. In particolare Giuseppe Pennisi, presidente del Board scientifico di Impresalavoro, ha analizzato i dati relativi alla spesa per sanità digitale in Italia ed Europa, gli scenari evolutivi prevedibili ed auspicabili e le implicazioni di policy. La conclusione cui si arriva è che ci sia bisogno di un cambio di passo e di risorse aggiuntive considerevoli, se vorremo contrastare l’allargamento della distanza tra noi ed il resto d’Europa che si è verificato negli ultimi anni. Ma al tempo stesso bisogna essere consapevoli del fatto che l’investimento finanziario non basta, e che bisogna mettere mano anche alla architettura del sistema di offerta e di gestione dei servizi sulla base di un nuovo approccio, che tenga conto dei modelli di valutazione del rischio e della compatibilità strategica generale.

*Advisor scientifico della Fondazione Censis
**Dal Sole 24 Ore del 12 luglio 2016

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Economia, lavoro, tv e giornali: Massimo Blasoni e Nicola Porro a Udine

Domani, giovedì 7 luglio, a Udine, incontro a Palazzo Kechler per un dibattito tra il Presidente del centro studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, e il vicedirettore de “Il Giornale”, Nicola Porro. Vittorio Pezzuto intervista gli ospiti su “economia, lavoro, tv e giornali”. Introduce il direttore di ImpresaLavoro, Simone Bressan.

udine-07-07-16

La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

La sanità digitale cura meglio, ma l’Italia è fanalino di coda

di Paolo Viana – Avvenire

Prenotazione delle visite via web, informazione online sulle cure disponibili, trasmissione telematica delle ricette da medico a farmacista. Il digital divide non è un muro invalicabile solo per chi ha una certa età, ma rappresenta un problema per tutta la Sanità italiana: lo attesta il rapporto del Censis e di Impresa Lavoro sulla sanità digitale che e stato presentato ieri a Roma e che ci offre una poco rassicurante immagine della solita Italietta aggrappata alle scartoffie. Certo, tra non  molto, si ridurrà la distanza che ci separa dai Paesi dell’Ue che investono di più in questo campo ma solo perché il Regno Unito, con il suo 4% (contro il nostro 1,2%) uscirà dalle statistiche comunitarie. Al contrario, investire nell’eHealth significa «rendere il cittadino fulcro dei processi di cura, offrendogli strumenti perché riesca a  sumere un ruolo maggiormente attivo nella gestione della propria salute»: non siamo ancora alla centralità della persona che soffre, ma siamo già oltre l’approccio ragionieristico che usa falcidiare – indiscriminatamente – sprechi e diritti.

Siamo, però, ancora e solo ai buoni propositi: la realtà è invece quella che viene radiografata da questo rapporto, che vede la sanità italiana «ben al di sotto della media Ue» sia nella ricerca di informazioni online sui temi della salute da parte di cittadini (27° su 28 Paesi Ue + Islanda e Norvegia), sia nella prenotazione di visite mediche via web (12°, con il 10% contro il 36% della Spagna), sia nella percentuale di medici di famiglia che inviano attraverso la rete le prescrizioni ai farmacisti (17° con il 9% contro il 100% della Danimarca e il 99% della Croazia), sia, infine, nella condivisione delle informazioni tra medici e altri professionisti sanitari (su questo fronte siamo 14°). Se continueremo così, nel 2020 l’eHealth assorbirà solo l’1,36% del budget sanitario: si può raggiungere il 2% – limite più basso della media dei Paesi europei – solo investendo duemila milioni più di oggi, mentre per staccare il gruppo di coda l’investimento aggiuntivo dovrebbe superare i cinquemila; solo portandolo a 7.767 milioni, quindi con una spesa destinata alla sanità digitale di 15.243 milioni contro i 1.385 di oggi il ritardo sarebbe davvero colmato.

Censis e ImpresaLavoro sottolineano che un cambio di policy garantirebbe tra l’altro la riduzione delle prescrizioni e delle prestazioni non necessarie, una razionalizzazione delle spese e un miglioramento della stessa attività diagnostico-terapeutica: il Fascicolo Sanitario Elettronico e la Telemedicina permetterebbero di ottimizzare l’erogazione dei servizi e anche gli errori medici sarebbero meno frequenti. Si prevede anche un miglioramento nella gestione delle patologie croniche. Peraltro questo cambio di passo non può essere solo finanziario o infrastrutturale: secondo il rapporto, il vero “nodo” che strangola il sistema sanitario italiano è organizzativo e di governance – «la Sanità Digitale ha bisogno di svilupparsi ad un passo che la burocrazia non regge», scrivono Censis e ImpresaLavoro, spingendo implicitamente verso una rinazionalizzazione del sistema della salute – oltre che culturale, poiché non vi è investimento, si ammette, che non sia a rischio se non si riuscirà a garantire una vera partecipazione degli utenti al processo. E si torna al “solito” digital divide.

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

Taci, il capo ti ascolta. Sorvegliati speciali in ufficio

di Matteo Basile – Il Giornale

Taci, il capo ti ascolta. O almeno potrebbe. E potrebbe fare pure di peggio. Spiare, controllare, intromettersi. Tenerti sotto controllo. Avere un accesso diretto alla tua casella di posta elettronica, al tuo smartphone ma anche monitorare la tua produttività e addirittura avere un quadro preciso del tuo stile di vita e delle tue abitudini. Potrebbe, almeno in teoria e, chissà, forse in un futuro prossimo potrà farlo davvero. Perché la tecnologia unita alla volontà delle aziende di aumentare la produttività in periodo di crisi economica potrebbe portare a questo e altro.

Negli ultimi anni in tema di spioni aziendali è successo un po’ di tutto, per nostra fortuna soprattutto all’estero. Emblematico il caso di una segretaria negli Stati Uniti, licenziata perché in una mail indirizzata ad un’amica aveva scritto «Il mio capo è un idiota». E lui, il capo, che controllava la corrispondenza, non l’ha presa bene. Ma se in America le leggi possono consentire episodi di questo tipo, anche in Europa, dove la legislazione è più stringente in tema di spionaggio aziendale, episodi analoghi non sono del tutto assenti. A Londra, pochi mesi fa, i giornalisti del Daily Telegraph hanno trovato sotto le loro scrivanie una scatoletta con scritto «OccupEye». È bastata una ricerca sul web per scoprire che quelle scatolette misteriose contenevano sensori di movimento e temperatura capaci di rivelare ai datori di lavoro se una scrivania era occupata o meno. Niente altro che una spia in grado di monitorare quanto e come i dipendenti stavano alla loro postazione. Sollevazione generale inevitabile, proteste durissime, scuse dell’azienda e provvedimento ritirato. Ma la convinzione che sì, un giorno, l’eccezione potrebbe anche diventare norma. E potrebbe pure essere peggiore. Succede già oggi infatti che molti minatori e camionisti australiani indossino il cappellino «SmartCap» che, attraverso sensori simili a quelli necessari per effettuare un elettroencefalogramma, verifica che i lavoratori siano svegli e reattivi. Tornando al Regno Unito, i magazzinieri dei supermercati della catena «Tesco» indossano un braccialetto che traccia i loro spostamenti e la percentuale di lavoro svolto: benefit se si finisce in anticipo il proprio compito, penalità se si va in pausa senza preavviso. Ma il top si è raggiunto in Messico dove la «InterMex» ha obbligato i dipendenti a scaricare un’applicazione che tramite gps comunica in tempo reale ai vertici dell’azienda tutti gli spostamenti e i movimenti dei dipendenti. Una sorta di braccialetto elettronico come quelli installati ai carcerati in regime di semilibertà, tanto che un’impiegata ha denunciato l’azienda. E ha pure vinto. Troppo, senz’altro. Ma sarà questo il futuro che ci aspetta sul posto di lavoro?

Forse, ma non ora. Perché in Italia la legislazione parla chiaro e non consente nulla di simile. Anche se il Jobs Act ha leggermente allargato le maglie dei controlli sui lavoratori da parte dei propri capi. «Si è modificata le norma del 1970, quando esistevano solo telecamere e registratori ma non c’erano computer, posta elettronica e smartphone», spiega l’avvocato Aldo Bottini, presidente dell’Associazione nazionale avvocati giuslavoristi e tra i massimi esperti del settore. Alcune cose si possono fare ma con limiti e confini ben precisi. «Con le nuove norme si mantiene il principio per cui non si possono installare strumenti tecnologici di monitoraggio con l’unica finalità del controllo dell’attività lavorativa – spiega il legale -. Per installare strumenti tipo telecamere serve ancora un accordo sindacale o l’autorizzazione amministrativa. La novità è che il principio non si applica agli strumenti di lavoro come pc e smartphone che non sono assoggettati all’autorizzazione. Di fatto attraverso questi strumenti si può legittimamente controllare l’attività del lavoratore a patto che lo stesso venga informato della possibilità in maniera chiara e completa. È lo stesso principio che vige in tutta Europa. L’unica novità è che le aziende dovranno dotarsi di un’adeguata policy per l’utilizzo il controllo, il funzionamento e le eventuali conseguenze nell’abuso di tutti questi strumenti».

Il problema dunque, alla fine rischia di ricadere sulle aziende, costrette a districarsi tra norme e cavilli burocratici che complicano non poco la vita. «La legislazione italiana è un incubo, il numero di norme è elevatissimo e spesso in aperta contraddizione», attacca Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del centro studi «ImpresaLavoro». «Accanto alle sacrosante norme per la tutela della privacy ne servirebbero anche altre a tutela della produttività e di chi fa impresa». Un altro problema per le aziende sono i furbetti del certificato medico, quelli che cioè tendono a darsi malati con eccessiva leggerezza se non con cadenza regolare. «Ci sono pessime abitudine da parte di alcuni medici un po’ troppo benevoli nel fornire certificati – spiega Blasoni -. Le verifiche sono assolutamente labili e chiedere un intervento è pressoché inutile. Questo finisce per essere un ulteriore gravame per chi deve districarsi quotidianamente tra tasse, cavilli e burocrazia. Spesso si è arrivati a contese con dipendenti indifendibili che grazie all’intervento dei sindacati e a sentenze sconcertanti sono riusciti ad essere reintegrati».

Già, i sindacati. Organo a tutela del lavoratore sfruttato o maltrattato oppure ultima spiaggia per chi fa il furbo ma sa che in un modo o nell’altro, alla fine, avrà le spalle coperte? «Non scherziamo, chi commette una truffa non solo è indifendibile ma da attaccare – racconta Guglielmo Loi, della segreteria nazionale della Uil -. L’importante è agire sempre nell’ambito delle regole, dall’ultimo impiegato fino al massimo dirigente. Deve essere chiaro quali sono i limiti e quali i doveri. Un lavoratore deve essere informato con precisione quando entra in possesso di un’apparecchiatura aziendale». Anche perché il controllo sul dipendente, alla fine, può rivelarsi un’arma a doppio taglio. «Capita spesso che il telefono aziendale resti acceso ed operativo per motivi di servizio ben oltre l’orario di lavoro. In caso di controllo eccessivo un dipendente potrebbe decidere di rendersi irreperibile finito il suo orario e, a quel punto, nessuno potrebbe lamentarsi».

Alla fine, come spesso accade, a far la differenza è il buonsenso. Ma nel dubbio è sempre meglio comportarsi secondo le regole. Perché il Grande Fratello è tra noi e, forse, guarda proprio noi. Anche sul posto di lavoro.