Studi

Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Nel 2016 tasse sugli immobili a 49,1 miliardi: 11,4 miliardi in più rispetto al 2011

Venerdì 16 dicembre circa 25 milioni di italiani avranno un importante appuntamento con il fisco e saranno chiamati a versare il saldo dell’Imu e della Tasi. Nonostante l’abolizione delle tasse sull’abitazione principale, infatti, resta ancora in vigore il prelievo sulle seconde case e sugli immobili diversi dall’abitazione principale.

Dopo il livello record raggiunto nel 2015 (52,3 miliardi di euro), il gettito complessivo sugli immobili in Italia dovrebbe ridursi per quest’anno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. La pressione fiscale risulterà a fine anno comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento. Lo rileva una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro.

Immobili

Ciò che ha subito il maggiore incremento nel periodo considerato è la quota patrimoniale del prelievo, più che raddoppiata (più 173 per cento) secondo quanto riporta la stessa Corte dei Conti, a differenza delle entrate attribuibili agli atti di trasferimento (meno 29 per cento) e a quelle sul reddito immobiliare, sostanzialmente inalterate secondo quanto risulta a ImpresaLavoro, nonostante la crescita del gettito da locazioni favorita dall’introduzione della cedolare secca sugli affitti.

I tre miliardi e mezzo di calo rispetto all’anno precedente sono integralmente attribuibili al taglio della TASI per le abitazioni principali licenziato dal governo nell’ultima legge di stabilità e che fa passare il gettito della misura da 4,7 a 1,1 miliardi di euro.  Stabili a 20,4 miliardi su base annua sono invece le entrate derivanti dall’IMU: la componente esplicitamente patrimoniale dell’imposizione sugli immobili è comunque più che raddoppiata rispetto al 2011 quando valeva “solo” 9,2 miliardi di euro. In crescita rispetto a cinque anni fa anche il gettito derivante dalle tasse sui rifiuti che passano da 5,6 a 8,4 miliardi di euro.

“Nonostante l’abolizione della Tasi sulla prima casa – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – la tassazione sugli immobili nel nostro paese continua ad essere del 30% più elevata rispetto al 2011. Si tratta di una vera e propria patrimoniale operata a danno di quello che molte famiglie consideravano un vero e proprio bene rifugio. Una manovra che ci venne richiesta a gran voce dall’Europa e che ha prodotto effetti negativi su molti versanti: ha impoverito il patrimonio delle famiglie, messo in ginocchio il settore dell’edilizia e generato grande incertezza, deprimendo consumi e domanda interna”.

Oltretutto sul settore incombe la grande incognita della riforma del catasto: il rischio è quello di una  revisione al rialzo delle rendite, ossia della base imponibile su cui poggiano più di 40 dei 49,1 miliardi che paghiamo ogni anno sui nostri immobili. Con, conseguente, aumento della pressione fiscale sull’intero comparto.

 

La buona e la cattiva spesa pubblica

La buona e la cattiva spesa pubblica

di Paolo Ermano

Riassunto

La spesa pubblica in Italia ha rappresentato uno strumento fondamentale per sostenere l’economia in anni di caduta del PIL. Questo centro studi più volte ha sottolineato l’importanza di ridurre l’impegno pubblico. Purtroppo è un fatto che l’impegno pubblico negli ultimi 15 anni sia aumentato significativamente, ben oltre quanto il pubblico si possa immaginare.

Entrate o uscite?

Spesso le parte in campo nel gioco della politica sostengono che la spesa pubblica è troppa o incide solo in parte allo sviluppo del Paese; che la spesa pubblica è male indirizzata o che abbiamo per fortuna servizi pubblici di prima qualità; che le tasse sono alte o che le tasse sono alte solo per chi le paga. Altri argomenti, non sempre ben strutturati, vengono avanzati ogni volta che si discute sul peso che dovrebbe avere il pubblico nell’attività economica. La misura più utilizzata per valutare l’impatto dello Stato sull’attività economica è il Total Tax Rate che, dietro un’espressione inglese di sicuro impatto, cela un semplice rapporto fra il totale delle entrate pubbliche e il PIL. Questa è una misura efficace per l’agone politico ma poco significativa perché non dice alcune cose importanti: primo fra tutte, chi contribuisce alle entrate, le imprese o i dipendenti, i consumi o i redditi, i ricchi o i poveri; secondo, non fornisce alcuna indicazione su come verranno utilizzate queste risorse, se per ridurre il debito, per rilanciare gli investimenti, per pagare pensioni inique o per mantenere enti o funzioni obsoleti se non dannosi.

Per contribuire a capire meglio come si stia muovendo il nostro Paese in questi anni di cambiamenti strutturali delle economie e delle società, molto più interessante è andare ad analizzare la spesa pubblica. E’ qui che si annidano l’altra parte delle informazioni sulle azioni messe in campo dalle varie amministrazioni pubbliche (nazionali, regionali o locali) per fronteggiare il cambiamento. Entrare nei dettagli della spesa è un’attività molto complessa resa però più semplice dal dettagliato lavoro svolto dalla Ragioneria Generali dello Stato attraverso il progetto sui Conti Pubblici Territoriali (CPT). Attraverso una ricostruzione puntuale delle voci di entrata e di spesa divise per settore e aree amministrative, i CPT danno la possibilità a chi interessato di analizzare in maniera puntale l’attività dello Stato.

Quanto incide la spesa?

Per quanto riguarda la spesa, i CPT ci permettono di valutarne l’ammontare totale e diversi tipi di parziali secondo il principio contabile di competenza per cassa: vengono registrate le spese nel momento in cui l’Amministrazione pubblica eroga i fondi ad una controparte. Così, se andiamo a vedere com’è variata la spesa pubblica negli ultimi 10 anni, ci accorgiamo di un suo aumento sia in termini assoluto che in termini pro-capite (tabella 1).

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Lo Stato è presente e incide sulla nostra vita più di quanto possiamo immaginarci: si tenga conto che dal 2005 al 2014 la spesa pubblica pro-capite è crescita di più di €1.600. Per averne un’idea prendiamo il dato sulla crescita del PIL e sulla crescita della spesa pubblica. La tabella 2 mette ben in luce qual è il contributo della variazione della spesa sulla crescita del PIL (1).

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Nel confronto fra le variazioni del PIL e della spesa effettiva, si osserva come in alcuni anni la crescita del PIL sia stata ottenuta sostanzialmente modulando la spesa pubblica. Si prenda ad esempio il tasso di crescita nel 2008: senza una vigorosa iniezione di denaro pubblico la crescita dell’economia si sarebbe attestata ad un -4,5%; così, nel 2014 la anemica crescita dello 0,4% si è ottenuta in un momento di riduzione della spesa effettiva: con le stesse risorse pubbliche del 2013 si sarebbe ottenuto una crescita superiore al 2,5%.

Troppo pubblico?

Ben venga, a parere di chi scrive, la spesa pubblica se ha una funzione contro ciclica di tipo keynesiano: quando i privati non generano reddito, l’intervento dello Stato a sostegno della domanda può essere funzionale alla ripresa economica. Intervento che però deve essere modulato e ben indirizzato; in caso contrario il rischio è quello di trovarsi dipendenti dalla spesa pubblica, una dipendenza difficile da eradicare (tabella 3). Un dato su tutti: come già accennato, mentre la spesa pubblica pro-capite aumentava di €1600 fra il 2005 e il 2014, il PIL pro-capite cresceva della metà.

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Dalla tabella si evince chiaramente come la componente generata dall’attività privata e non da attività pubbliche (una distinzione utile più al ragionamento che corretta dal punto di vista sostanziale) si è progressivamente ridotta: se nel 2005 lo spazio privato creava il 50% del reddito individuale, nel 2014 siamo al 45%.
Un bel problema, soprattutto se l’obiettivo è, ad esempio, quello di ribaltare queste proporzioni, portando il pubblico al 45% e il privato al 55%.

Conclusioni

La presenza della spesa pubblica come generatore del PIL è maggiore di quanto si possa attendere. Questa considerazione deve far riflettere quella qualità della spesa e sulla sua pervasività in maniera più incisiva e costruttiva di quanto si faccia ora. Uno dei problemi è che la discussione politica e tecnica affronta la questione da prospettive che servono a colpire il pubblico, più che a formare un’opinione strutturata basata sui dati. Per questo l’utilizzo dei CPT, insieme ai molti altri importanti strumenti messi a disposizione del pubblico negli ultimi anni (un plauso ai vari enti che si sono prodigati per aumentare la trasparenza della cosa pubblica), rappresentano un valido strumento per sminare diversi luoghi comuni sul ruolo dello Stato nella nostra economia.


(1) Ricordiamo che il PIL è formato dalla somma di alcune voci che caratterizzano l’impiego di risorse in un Paese. Ricordando l’equazione principale della macroeconomia che viene insegnata il primo anno di ogni corso di laurea in economia, il PIL è dato dalla somma di: consumi, investimenti privati, spesa pubblica (consumi e investimenti pubblici), bilancia dei pagamenti. Ove una componente si riduca, per mantenere costante il valore del PIL è necessario che aumenti un’altra componente

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Multe: nel 2016 i Comuni incasseranno 1,25 miliardi di euro. Milano, Firenze e Parma le città con il gettito pro-capite più elevato.

Negli ultimi tre anni i comuni italiani hanno incamerato 3,87 miliardi di euro di gettito extratributario per sanzioni amministrative, ammende e oblazioni. Le risorse che i municipi ogni anno derivano dalle “multe” è stabile nel triennio, attestandosi a circa 1,3 miliardi di euro su base annua.

Secondo la stima effettuata da ImpresaLavoro su dati SIOPE, nel 2016 i bilanci dei comuni potranno contare su incassi complessivi per 1 miliardo 257 milioni di euro. Un dato in leggera discesa rispetto a quello del 2015, quando gli incassi da multe erano arrivati a 1 miliardo 362 milioni e leggermente superiore al dato del 2014 (1 miliardo 254 milioni).

A pesare, oltre a un calo strutturale di questa voce che è rimasta negli ultimi tre anni sempre molto lontana dal “picco” di 1,53 miliardi del 2010, c’è anche un dato tecnico: nel 2016, per problemi legati alla contabilizzazione e comunicazione degli incassi al sistema centrale Siope, i dati di Roma non sono disponibili in forma completa e quindi manca al conteggio complessivo una fetta importante delle sanzioni incassate nel 2016 dall’amministrazione capitolina.

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ImpresaLavoro ha poi effettuato un’analisi incrociata dei dati SIOPE e Istat sulle sanzioni e ammende riscosse nel periodo 2014-2016 in un campione rappresentativo dei principali Comuni italiani. È risultato così che Milano è la città che in rapporto ai cittadini maggiorenni residenti incassa di più da sanzioni, ammende e oblazioni (138,90 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 158 milioni di euro), seguita da Firenze (99,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 32,58 milioni di euro), Parma (95,12 euro a testa ogni anno, per un gettito medio annuo di circa 15,47 milioni di euro), Bologna (94,61 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 31,47 milioni di euro) e Torino (67 euro a testa, per un gettito medio annuo di circa 50,84 milioni di euro).

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**Dati 2008-2015 definitivi, dati 2016 stima ImpresaLavoro su andamento incassi dell’anno in corso.

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Fallimenti ancora record: tra 2009 e 2016 fallite 100mila imprese

Alla fine di quest’anno la crisi iniziata nel 2008 avrà fatto fallire nel nostro Paese più di 100mila imprese. A rilevarlo è una ricerca del Centro Studi ImpresaLavoro che, rielaborando i numeri forniti da OCSE e CRIBIS, evidenzia come rispetto a sei anni fa i fallimenti in Italia siano cresciuti del 55,42%, passando dai 9.384 del 2009 ai 14.585 del 2015. Un dato questo che non ha paragoni con le altre grandi economie monitorate dall’OCSE: oltre all’Italia, infatti, solo la Francia (+13,81%) presenta oggi un numero di fallimenti superiore rispetto al 2009 e con proporzioni del fenomeno decisamente più limitate rispetto al nostro paese. Tutti gli altri paesi segnalano, invece, un numero di aziende fallite inferiore a quello di sei anni fa. Le aziende costrette a chiudere per insolvenza economica sono infatti in calo in Spagna (-4,45%), Germania (-22,90%) e Olanda (-30,25%).

Per quanto riguarda l’Italia, i dati relativi ai primi due trimestri di quest’anno lasciano intravedere un piccolo rallentamento nel numero dei fallimenti rispetto all’anno precedente. Secondo le stime elaborate dal Centro Studi ImpresaLavoro alla fine del 2016 saranno fallite in Italia 14.348 imprese su base annua, 237 in meno del 2015 e quasi 1000 in meno rispetto al picco registrato nel 2014. Dati che non possono essere comunque accolti con ottimismo, visto che siamo ancora lontanissimi dai livelli pre-crisi e dalle 9.384 aziende che fallivano nel 2009. Dall’inizio della crisi del 2008 ad oggi sono fallite nel nostro paese più di 95mila imprese e il 2016 verrà ricordato come l’anno in cui si taglierà il traguardo delle 100mila imprese chiuse dal 2009 ad oggi. Il ritmo dei fallimenti è impressionante: nel nostro paese chiudono per insolvenza 57 imprese ogni giorno lavorativo.

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Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Lavoro: mercato italiano ancora ultimo per efficienza in Europa

Il mercato del lavoro italiano è ultimo per efficienza in Europa e 119esimo su 138 censiti nel mondo. In termini di efficienza ed efficacia si colloca infatti subito dopo quello dell’Honduras, del Brasile, dell’Isola di Capo Verde e del Kuwait. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi ImpresaLavoro sulla base dei dati contenuti nel “The Global Competitiveness Report 2016-2017” pubblicato dal World Economic Forum.

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Il Jobs Act continua ad avere un impatto positivo sulla complessiva performance del nostro sistema: anche nell’ultimo anno l’efficienza del nostro mercato del lavoro è migliorata a livello mondiale, passando dalla 126esima alla 119esima posizione. Nonostante questo segnale positivo, però, il nostro continua a restare il mercato del lavoro meno efficiente tra i 28 paesi dell’Unione Europea.
L’indicatore dell’efficienza è un aggregato di più voci che bene evidenziano le difficoltà che il nostro mercato del lavoro attraversa, nonostante il lieve miglioramento registrato negli ultimi due anni. Inoltre, i principali indicatori analizzati ci pongono agli ultimi posti per efficacia nel mondo e, quasi sempre, nelle retrovie della classifica europea.

Per quanto concerne ad esempio la collaborazione nelle relazioni tra lavoratori e datore di lavoro siamo al 111mo posto al mondo e penultimi tra i Paesi dell’Europa a 28 (ai primi tre posti ci sono Danimarca, Svezia e Olanda). Siamo invece al 131esimo posto al mondo e quart’ultimi in Europa per flessibilità nella determinazione dei salari, intendendo con questo che a prevalere è ancora una contrattazione centralizzata a discapito di un modello che incentiva maggiormente impresa e lavoratore ad accordarsi. E proprio in tema di retribuzioni siamo il peggior Paese europeo (nonché 127esimo nel mondo) per capacità di legare lo stipendio all’effettiva produttività. Dati questi che vanno letti assieme a quelli sugli effetti dell’alta tassazione sul lavoro: in Europa siamo 22esimi (e 130esimi nel mondo) per quanto riguarda l’effetto della pressione fiscale sull’incentivo al lavoro (facciamo peggio di Paesi come Lituania, Polonia e Portogallo). Anche la scarsa efficienza nelle modalità di assunzione e licenziamento mette in luce l’arretratezza del nostro Paese: per quanto riguarda questo aspetto siamo 124esimi nel mondo e quart’ultimi in Europa, mentre recuperiamo qualche posizione con riferimento alla capacità di trattenere talenti (107esimi nel mondo e 21esimi in Europa) e di attrarre talenti (105esimi nel mondo e 18esimi in Europa).

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«Il nostro mercato del lavoro – commenta Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ha certamente difetti strutturali che possono essere risolti solo con politiche di medio-lungo periodo. Il Jobs Act ha invertito la tendenza all’irrigidimento delle regole che si era verificata con la cosiddetta Riforma Fornero, generando un positivo effetto sulla nostra competitività. Adesso è importante favorire un processo di innovazione anche sul versante della contrattazione e della produttività, incoraggiando contratti di prossimità e un maggior rapporto tra salari e produttività, anche e soprattutto attraverso regimi fiscali di favore nei confronti di accordi che premiano risultati ed efficienza».

 

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

di Paolo Ermano

RIASSUNTO
Andando oltre il dato nazionale sulla crescita economica, che vede un’Italia anemica e bisognosa di scosse, per indagare lo sviluppo regionale, si scopre allo stesso tempo sia un’Italia disgregata nella sua capacità di crescere dal 2000 ad oggi, sia un’Italia in cui la dinamica demografica condiziona le performance dei territori. Un Paese con il PIL sostanzialmente invariato dal 2000 al 2014, fino a quando non lo si pesa rispetto alla popolazione: nello stesso periodo, il PIL pro-capite è diminuito di 8 punti a causa dell’aumento demografico; con un Sud depresso e relativamente svuotato, un Nord che sembra resistere se non fosse per gli effetti migratori, e un Centro che pian piano cerca di avvicinarsi al Nord.

LA MEDIA DEL TASSO DI CRESCITA DEL PIL
E’ uno dei grandi caratteri italiani quello della diversità fra regioni e soprattutto fra Nord e Sud. Una varietà di atteggiamenti, paesaggi, storie che rende l’Italia uno dei paesi più vivi e ricchi del mondo. Ma queste molteplicità di forme si traducono, dal punto di vista della politica economica, in un serio problema di gestione della complessità. Ad esempio, ricette adatte allo sviluppo della Liguria potrebbero rivelarsi controproducenti in Sicilia, e viceversa. Da questo dovrebbe discendere la necessità di maggior autonomia dei territori nelle scelte di politica economica; autonomia da accompagnare a una maggiore responsabilità e a un difficile dialogo sulle modalità di redistribuzione delle risorse collettive. Il tema è complesso e molte fra le migliori intelligenze del Paese hanno più volte cercato di sbrogliare la matassa. Eppure, oltre le questioni di economia e di diritto, questa varietà, se non osservata adeguatamente, non permette di inquadrare bene la situazione del Paese al fine di proporre le giuste contromisure per affrontare la più profonda crisi economica dal dopo guerra a oggi. Una delle ragioni è presto detta: ogni volta che vengono forniti dati sulla situazione economica del Paese, spesso ci troviamo di fronte a dati aggregati che perdono quelle specificità dei territorio o delle macro aree (Nord, Centro, Sud) utili per avviare una seria riflessione sullo sviluppo del nostro Paese dopo il grande spartiacque del tracollo dell’economia mondiale del 2008.

LA SITUAZIONE DISAGGREGATA
Se prendiamo l’andamento del PIL dal 2000 al 2014 sia in Italia che nelle regioni che la compongono (tabella 1), la varietà di situazioni di cui si è accennato emerge con chiarezza. Come si può osservare, l’evoluzione dell’economia italiana dal 2000 al 2014 è tutt’altro che di facile lettura.

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Tutti i territori, come vediamo, hanno vissuto un periodo di crescita fra il 2000 e il 2007, dove il Nord e il Centro crescevano a una velocità rispettivamente doppia e tripla rispetto al Sud. Se non fosse intervenuta la crisi, c’è da immaginare che le distanze fra queste aree sarebbe rimaste molto ampie, con un Sud che rincorreva un’Italia certamente non brillante come altri Paesi ma non per questo priva di slancio. La discussione sul futuro del Paese sarebbe stata diversa in questo caso, essendo più facile gestire un divario economico in periodo di crescita economia che in un periodo di contrazione generale dell’economia. Invece, la realtà ci consegna una situazione in cui per quanto l’Italia nel suo insieme arretri dal punto di vista economico di 1 punto in 14 anni, il Sud ne perde 10, di punti, il Nord resta stabile mentre il Centro guadagna poco più di 2 punti. Nel 2007, 15 regioni su 21 crescevano meno dalle media nazionale; nel 2014 erano 14 le regioni che crescevano meno: ad eccezione delle regioni del Sud, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia e Umbria sono le uniche regioni del Centro-Nord a crescere meno della media nazionale nell’arco di tempo considerato. E’ in questi luoghi che la scusa della crisi può essere giustamente considerata tale, visto che i limiti allo sviluppo emergono ben prima del 2008. Nel complesso dopo 14 anni emerge come il Centro abbia distanziato il Sud di oltre 11 punti, più per colpa dell’arretramento del Sud che per le brillanti performance del Centro. A livello aggregato, lo stipendio dell’italiano medio nel 2014 era dell’1% più basso rispetto allo stipendio del 2000. Ma se avessimo analizzato la situazione a Napoli, per esempio, avremmo constatato come in termini assoluti il territorio poteva definirsi nel 2007 più felice di molte altre aree del Sud, visto che il reddito complessivo era cresciuto di più del 5% in 7 anni. Il risultato si sarebbe ribaltato nel 2014 quando l’analisi dei dati avrebbe evidenziato sul reddito complessivo un crollo pari a più di 17 punti rispetto a quanto maturato nel 2007: un PIL decurtato di quasi 1/5 in pochi anni. Di contro, a Roma potevano vantare una crescita del reddito complessivo del Lazio di più di 6 punti in 14 anni: niente di straordinario, a confronto con altri partner europei, ma pur sempre un risultato degno di nota per una territorio ad una ora di macchina dalla Campania.

LA SITUAZIONE MIGRATORIA
L’analisi appena avanzata presenta due limitazioni. La prima è che ponendo pari a 100 il reddito prodotto dalle singole regioni (il PIL) nel 2000, si perdono le differenze assolute fra regioni. Per capirsi, nel 2007 il PIL della Lombardia era pari a circa €350 miliardi, cresciuto di poco del 10% dal 2000; il PIL della Campania era invece pari a €110 miliardi, cresciuto, come si diceva, del 5% rispetto al 2000. La crescita è in Campania è stata la metà di quella lombarda, ma i valori di partenza erano molto diversi: nel 2000, nello stesso tempo impiegato per produrre €1 in Campania, in Lombardia se ne producevano €3,18; nel 2014 il rapporto era €1 per €3,57. Differenze tutt’altro che marginali. La seconda riguarda gli abitanti. Mentre l’economia italiana era stazionaria, la popolazione dal 2000 al 2014 è cresciuta di poco più di 3 milioni di unità, circa il 6% in più. Usando lo stesso espediente applicato al PIL, se nel 2000 la popolazione era pari a 100, nel 2014 avrebbe raggiunto un valore poco superiore a 106. Quindi, dove nel 2000 a ogni persona corrispondeva una unità di reddito (100 unità di reddito per 100 persone), nel 2014 ogni persona deve accontentarsi di meno di una unità di reddito (98,7 unità di reddito per 106 persone: circa 0,92 unità di reddito pro-capite). Spesso si sorvola sul fatto che la popolazione cambia e che, alla fine, quello che conta è il reddito pro-capite, più che il valore assoluto del PIL. Per questo, non si deve dimenticare che alcuni territori hanno visto la propria popolazione crescere (Nord e Centro), altri no (Sud). Per certi versi è logico che sia così: al Nord e al Centro l’economia cresceva più che al Sud, creando così incentivi affinché le persone si muovessero dove potevano trovare più opportunità di lavoro. Il risultato complessivo dopo 14 anni, però, è dal punto di vista economico ancor più problematico (tabella 2).

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Pesando la crescita economica con la crescita della popolazione, la fotografia del paese è ancor più sciapida: fra il 2000 e il 2014 il reddito pro-capite è sceso di quasi 8 punti! Un’emorragia di produzione e redditi. Nel 2007, nessuna regione del Nord cresceva più della media italiana, e solo 6 Regioni potevano vantare una dinamica del PIL pro-capite superiore alla media. Nel 2014, solo 5 regioni superano la media nazionale. Andando un po’ più nel dettaglio, paradossalmente i dati sul Sud sono meno negativi di quelli del Centro-Nord. Dove il Sud vede un crollo del reddito pro-capite praticamente in linea con il valore complessivo dei redditi prodotti nel territorio, assorbendo con il flusso emigratorio la pessima performance dell’economia, il Nord, con una dinamica migratoria più vivace, non riesce a sostenere uno sviluppo adeguato alle sfide demografiche che sta affrontando: a livello pro-capite, la Lombardia perde più di 5 punti ma sono di nuovo il Piemonte, la Liguria e il Friuli Venezia Giulia a fare una pessima figura, ottengono un risultato peggiore della media del Sud Italia. Solo la Provincia Autonoma di Bolzano, uno dei territori meno popolati d’Italia, riesce a stare sopra alla pari. Preoccupante la situazione dell’Umbria. Ribadiamo che questo non significa che queste regioni sono ora più povere di altre regioni del Sud: ponendo pari a 100 il reddito pro-capite di tutti nel 2000, appiattendo le differenze, si perdono di vista le diverse condizioni di partenza. E’ però certo che guardare in questi termini lo sviluppo del Paese appare chiaro come i mostri sacri di un tempo, quelle regioni del Nord produttive e ricche, appaiono oggi altrettanto appesantite e rigide quanto lo erano e sono le regioni del Sud per anni bistrattate e lasciate a se stesse. Insomma, il Nord non è stato capace di curarsi e di rilanciarci quanto ci si sarebbe dovuto aspettare.

CONCLUSIONI
Una fotografia di un Paese dovrebbe restituire nel ritratto le caratteristiche del territorio descritto. Spesso in Italia si preferisce guardare la foto di gruppo per paura di dover descrivere e giudicare le singole aree che la compongono. In un periodo di forte crisi economica e culturale, in Italia come altrove, è ancor più necessario aver la forza di osservare nei dettagli i territori e le loro caratteristiche. Ciò che emerge da questa analisi basata su due indicatori, il PIL e il PIL pro-capite, è un’Italia a molte velocità, non facilmente definibili nelle categorie di Nord-Centro-Sud. Per questo è importante sottolineare che se le dinamiche economiche hanno condizionato lo sviluppo dei territori negli ultimi tre lustri, non meno hanno pesato le condizioni demografiche.


 

San Matteo, promessa non mantenuta per il terzo anno di fila. Stock debiti Pa ancora a 61,1 miliardi

San Matteo, promessa non mantenuta per il terzo anno di fila. Stock debiti Pa ancora a 61,1 miliardi

Il 13 marzo 2014 il premier Matteo Renzi promise in tv agli italiani che il 21 settembre di quell’anno, giorno del suo onomastico, avrebbe fatto un pellegrinaggio al santuario di Monte Senario se il suo Governo non avesse pagato tutti i debiti che la Pubblica amministrazione aveva contratto fino al 2013. Domani è San Matteo. E per il terzo anno di seguito, Renzi non si recherà in pellegrinaggio per espiare la promessa mancata. Nonostante i reiterati annunci del premier, infatti, in questi ultimi tre anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, ad oggi questo stock ammonta a 61,1 miliardi di euro (sostanzialmente stabile rispetto al 2015 e in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014).

Questo dato non fa che confermare quanto denunciato a più riprese dal Centro studi ImpresaLavoro: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare (e solo in parte) i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione.

Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti nel 2016 determinerà per le imprese italiane un onere relativo alle anticipazioni necessarie pari a 5,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,38% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti.

Il fenomeno dei ritardi di pagamento della nostra PA mantiene dimensioni che non hanno pari rispetto ai nostri principali partner europei. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti in media 131 giorni: 16 giorni più della Grecia, 33 giorni più della Spagna, 55 giorni più del Portogallo, 73 giorni più della Francia, 91 giorni più dell’Irlanda, 101 giorni più del Regno Unito e addirittura 116 giorni più della Germania.

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Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

Scomposizione e sostenibilità della spesa pensionistica italiana

di Michele Liati

La spesa per pensioni rappresenta, da molti anni, la voce più importante dell’intera spesa pubblica italiana (non solo di quella sociale). Secondo gli ultimi dati Istat sul conto economico (consolidato) dalla Pubblica Amministrazione, la spesa per prestazioni pensionistiche nel 2015 è stata di quasi 260 miliardi a fronte di una Spesa Pubblica totale di 826 miliardi; le pensioni rappresentano quindi il 31,5 % dell’intera spesa.
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Secondo i dati Ocse per il 2011 (ultimo anno che permette confronti internazionali su questi aggregati) la spesa pubblica italiana per pensioni (vecchiaia, reversibilità e invalidità) ha raggiunto il 17,8% del Pil. La quota più alta tra i paesi Ocse e 7,2 punti percentuali al di sopra della media.

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A cosa si deve questo primato? Sicuramente all’elevata quota di anziani all’interno della popolazione italiana; ma l’invecchiamento della popolazione da solo non basta, e non spiega infatti in che modo altri paesi con identici problemi demografici, come Germania o Giappone, possiedono percentuali molto più contenute. Se l’aumento della spesa è dovuto all’invecchiamento della popolazione, inoltre, è lecito chiedersi quanto possa essere sostenibile la spesa pensionistica in futuro, considerando che la quota di ‘anziani’ in Italia continuerà a crescere ancora per diversi decenni.

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Per comprendere l’origine dell’elevata spesa pensionistica italiana su Pil e la sua sostenibilità futura (e quindi anche per capire cosa si è fatto e cosa si prevede di fare per contenerla), può essere utile scomporre tale rapporto secondo diversi fattori, così come svolto, per esempio, da Epc-Wga (EPC’s Working Group on Ageing Populations and Sustainability, un gruppo di lavoro costituito, sin dal 2001, dal Comitato di Politica Economica dell’Unione Europea per studiare proprio le conseguenze economiche e di bilancio dell’invecchiamento della popolazione) o dal Ministero dell’economia e delle finanze italiano (Mef – che elabora le previsioni della spesa italiana per Epc-Wga); ad esempio:

La spesa pensionistica su Pil potrebbe essere così scomposta:

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Analizziamo i diversi fattori dell’ultima espressione.
Il primo fattore è l’indice di dipendenza (dependency ratio): rappresenta la quota di anziani (65 anni e più) sulla popolazione totale. Indica quindi il livello di ‘invecchiamento’ di una certa popolazione.
Il secondo fattore è il tasso di copertura (coverage ratio): rappresenta il numero di pensionati (o il numero di pensioni) rispetto al numero di ‘anziani’ (over 65); questo fattore è legato ai requisiti per l’accesso alla pensione, tra cui l’età di pensionamento.
Il terzo fattore rappresenta il rapporto tra il reddito pensionistico medio e la produttività media, detto rapporto di beneficio (benefit ratio); fornisce quindi una misura della ‘generosità’ degli assegni pensionistici in confronto all’andamento economico del paese (produttività), quindi alla capacità stessa di finanziare le pensioni. Notiamo che questo fattore non va confuso con il tasso di sostituzione (rapporto tra reddito pensionistico medio e ultima retribuzione percepita).
L’ultimo fattore, inverso del tasso di occupazione, rappresenta l’effetto dovuto al mercato del lavoro (labour market ratio).
Questa scomposizione, molto semplice, utilizza tuttavia dei fattori per certi aspetti poco significativi; qui utilizzeremo quindi quelli presenti nell’ultimo rapporto EPC-AWG (The 2015 Ageing Report), riferiti alle pensioni dei paesi europei (a partire dal 2013, con previsioni fino al 2060 a intervalli di cinque anni):
L’indice di dipendenza visto prima è sostituito con il rapporto tra gli over 65 e la popolazione con età compresa tra i 20 e i 64 anni. In questo modo si ha un confronto più efficace tra la popolazione anziana e la popolazione in età da lavoro.
Il rapporto di beneficio è calcolato sulla retribuzione media invece che sul pil/occupato.
Da ultimo, il labour market ratio include il tasso di occupazione calcolato sulla popolazione 20-64.

La situazione attuale

Vediamo innanzitutto la spesa pensionistica su Pil per i vari paesi europei per l’anno 2013 (in tutti i grafici verranno evidenziati i valori riferiti a Italia, Germania, Spagna, Francia, Grecia e i valori medi EU28). In questo caso, il livello per l’Italia è inferiore soltanto a quello della Grecia.

6L’Italia ha l’indice di dipendenza più alto, ma si noti anche – come già evidenziato – il valore tedesco, prossimo a quello italiano.

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Riguardo al tasso di occupazione, quello italiano è uno dei più bassi, e meno occupati significa ovviamente meno redditi e quindi meno contributi (e tasse); ovvero una minore capacità di finanziare la spesa pensionistica. Su questo fattore si concentra anche gran parte della differenza rispetto alla Germania.

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Il tasso di copertura italiano risulta più basso rispetto alla media europea (e molto più basso di quello francese), ma più alto di quello tedesco, spagnolo e greco.

9Infine, per il rapporto di beneficio, ovvero riguardo alla generosità dei trasferimenti pensionistici rispetto alle retribuzioni medie, l’Italia, insieme alla Grecia e alla Spagna, presenta indici più elevati della media, della Francia, ma soprattutto della Germania.

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L’analisi di questi fattori, per il 2013, ci conferma quindi in che modo le varie riforme italiane, degli anni ’90 e 2000, hanno operato per cercare di contenere la spesa pensionistica: per compensare l’invecchiamento della popolazione (indice di dipendenza) e il basso tasso di occupazione, si è ridotto il tasso di copertura, attraverso il rapido innalzamento dell’età di accesso alla pensione. Si è fatto invece poco o nulla per contenere, o addirittura ridurre, come avvenuto in Germania, il livello degli assegni pensionistici.

Le previsioni per il futuro

Ma come si potrà contenere la spesa pensionistica per il futuro, considerando che l’invecchiamento della popolazione italiana peggiorerà ancora per molti anni, se fino ad ora si è ottenuto così poco? Le previsioni elaborate dal Mef sembrano molto ottimistiche, e stimano che la spesa pensionistica su Pil potrà rimanere all’incirca al livello attuale. Vediamo come.

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La spesa pensionistica su Pil diminuirà leggermente (-0,4 p.p.) fino al 2020, tornerà a crescere ma in maniera contenuta fino al 2040 (+0,1 p.p. rispetto al 2013), da quel momento inizierà a scendere.

L’indice di dipendenza continuerà a crescere (ma in maniera più contenuta, come vedremo a breve), trainando la crescita della spesa. Anche il rapporto di beneficio continuerà a crescere, nonostante tutto, fino al 2025, per tornare al livello attuale dopo il 2040 e fornendo poi un contributo negativo (facciamo notare che dal 2035-2040 circa, inizierà ad entrare nel sistema pensionistico italiano la generazione “contributiva”). Il contributo maggiore al contenimento della spesa verrà, come si vede, dall’ulteriore riduzione del tasso di copertura, attraverso il continuo innalzamento dell’età pensionabile. Un ulteriore aiuto verrà anche dell’effetto sul mercato del lavoro, ovvero principalmente dalla (prevista) crescita del tasso di occupazione.

Vediamo un confronto con gli altri paesi, considerando il contributo che ciascun fattore fornisce alla variazione globale del rapporto ‘spesa pensionistica/pil’ dal 2013 al 2060.

12Una osservazione riguardo all’andamento dell’indice di dipendenza: come visto, l’Italia ha oggi l’indice di dipendenza più elevato tra i paesi europei, ma nei prossimi anni la sua crescita sarà inferiore a quello di molti altri paesi (Germania, Grecia, Spagna, Portogallo, Polonia, etc.). Tale risultato, secondo le previsioni, sarà ottenuto soprattutto attraverso un maggior tasso di immigrazione netto.

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Tornando alle componenti:

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Per comprende meglio l’impiego dell’effetto di copertura per il contenimento della spesa, utilizziamo questo grafico, con l’età (media) di uscita dal mercato del lavoro per il 2013 e 2060. Come si può notare questo valore sarà nel 2060 tra i più alti (67,4 anni), e con una variazione rispetto all’età 2013 tra le più elevate (5,1 anni).

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I rischi per il futuro

Ognuna delle componenti finora analizzate è il risultato di diversi fattori, che contengono un certo grado di incertezza: il tasso di occupazione, l’indice di dipendenza (che, come visto, è legato al tasso netto di immigrazione), lo stesso benefit ratio (che dipende anche dall’andamento del Pil per occupato, o dalle retribuzioni medie) non sono direttamente controllabili dai governi, i quali possono solo sperare di riuscire a migliorare questi fattori “a suon di riforme”, dall’esito comunque sempre incerto. È fondamentale quindi comprendere in che modo il rapporto “spesa pensionistica/Pil” sia sensibile a questi fattori, e come potrebbe modificarsi se qualcuno di questi non dovesse rispettare le previsioni.
L’ultimo rapporto Epc-Wga stima queste variazione per ognuno dei seguenti fattori (negativi):
Una maggior crescita della speranza di vita alla nascita (al quale è legato l’indice di dipendenza) di due anni al 2060, comporterebbe una variazione di +0,4 p.p. .
Un tasso di immigrazione più basso del 20 % darebbe un +0,4 p.p.
Una crescita della produttività del lavoro più bassa di -0,25 p.p. darebbe un +0,5 p.p.
Una crescita della produttività totale dei fattori più bassa (0,8% invece che 1%) darebbe +0,7 p.p.
Una crescita dell’occupazione inferiore (2 p.p. rispetto alla previsione 2060) avrebbe invece un effetto limitato, inferiore a +0,1 p.p.
Il peggioramento di tutti questi fattori (secondo le variazioni stimate) potrebbe comportare quindi una variazione globale di 2,1 p.p nel rapporto “spesa pensionistica/pil” a fronte della variazione di -1,9 p.p totale prevista.
Ma quanto sono realistiche o ottimistiche le previsioni su queste componenti? Vediamolo, in particolare per produttività e tasso di occupazione, confrontando i valori previsti con quelli del passato (utilizzando i dati dell’ultimo rapporto RGS).

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Come si vede, le previsioni sembrano abbastanza ottimistiche: la produttività dovrebbe tornare a crescere ai tassi degli anni ’70 e ’80 (dopo che è rimasta quasi ferma per gli ultimi 20 anni); il tasso di occupazione, da sempre a livelli molto bassi in Italia, dovrebbe arrivare livelli più “normali” (per gli standard degli altri paesi).

E se queste previsioni dovessero, nella realtà, risultare scorrette? È ovvio che in questo caso, per controbilanciare questi effetti, la politica dovrebbe intervenire nuovamente sugli unici fattori direttamente controllabili, l’età di accesso alla pensione (già di molto alzata) e l’entità degli assegni pensionistici (già ridotti), rendendo sempre più povere le future pensioni.

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Giovani disoccupati e NEET: per l’Italia record negativo in Europa

Dal 2007 al 2015 la disoccupazione giovanile in Italia è aumentata di 17,4 punti percentuali, passando dal 21,4% (ultimo trimestre 2007) al 38,8% (ultimo trimestre 2015). Nello stesso periodo di tempo la categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione, è inoltre cresciuta di 7,4 punti percentuali (passando dal 19,5% al 26,9%). In entrambi i casi il nostro Paese si colloca ai gradini più bassi nelle rispettive classifiche a livello europeo. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, su elaborazione di dati Ocse.

Nel periodo di tempo considerato, la crescita percentuale degli italiani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che sono senza lavoro (ma che sarebbero disponibili a lavorare e che hanno effettuato almeno una ricerca attiva di lavoro nelle ultime quattro settimane) risulta superiore a quella di quasi tutti gli altri Paesi europei. Peggio di noi hanno fatto solo Spagna (+27,4 punti percentuali, passata dal 19% al 46,4%) e Grecia (+26,5 punti, passata dal 22% al 48,5%).

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L’Italia fa molto peggio della media dei 28 Paesi dell’UE – in cui il tasso di disoccupazione giovanile a fine 2015 era del 19,7% (+4,4 punti rispetto al 2007) – e perde il confronto con tutti gli altri competitor europei. In particolare con Irlanda (+11,1 punti percentuali, passata dal 9,3% al 20,4%), Portogallo (+8,5 punti, passato dal 23% al 31,5%), Francia (+6,0 punti, passata dal 18,5% al 24,5%), Gran Bretagna (-0,3 punti, passata dal 13,7% al 13,4%) e Germania (-4,3 punti, passata dall’11,3% al 7%).

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Variazione tra il tasso di disoccupazione giovanile in punti percentuali del 2007 e quello del 2015

Preoccupano anche i dati relativi alla categoria dei Neet, i giovani non occupati che non frequentano né scuole né corsi di formazione. Osservando i dati Ocse si scopre infatti che nella classifica siamo il Paese dell’UE con il più alto tasso di inattività giovanile per quanto riguarda l’anno 2015. Tra il 2007 e il 2015 la percentuale di Neet è cresciuta in Italia di 7,4 punti (passando dal 19,5% al 26,9%), con un incremento inferiore soltanto a quello registrato in Grecia (+8,3 punti, passata dal 16,4% al 24,7%).

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È vero che nello stesso periodo di tempo l’incremento percentuale dei Neet è un dato comune a tutta l’Europa (il tasso medio 2015 nell’UE a 28 Stati è del 16%, +1,3 punti rispetto al 2007) ma in tutti gli altri Paesi si registra una crescita del fenomeno inferiore a quella italiana quando non addirittura un’inversione di tendenza. Nel primo gruppo vanno inseriti ad esempio Spagna (+6,8 punti percentuali, passata dal 15,9% al 22,7%), Francia (+4,3 punti, passata dal 12,9% al 17,1%), Irlanda (+2,1 punti, passata dal 14,5% al 16,6%) e Portogallo (+1,9 punti, passato dal 13,2% al 15,1%). Del secondo gruppo, invece, fanno parte tra gli altri Gran Bretagna (-1,0 punti, passata dal 14,6% al 13,6%) e soprattutto Germania (-3,5 punti, passata dal 12,3% all’8,8%).

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Variazione tra la percentuale di NEET del 2007 e quella del 2015

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Pil: negli ultimi sei anni previsioni del Governo sempre smentite

Quattordici errori su quindici: con 12 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2016. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse e con le previsioni per l’anno in corso elaborate dal Fondo Monetario Internazionale.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Con la previsione di crescita dell’1,2% per il 2016 (a fronte di una stima del FMI che si ferma a +0,9%), siamo al sesto anno di fila in cui il governo prevede una crescita superiore a quella che poi effettivamente si registrerà. Dal 2011 ad oggi, infatti, l’esecutivo italiano, in sede di predisposizione del Documento di Economia e Finanza ha sbagliato le sue previsioni, sovrastimandole per cifre che vanno dallo 0,3% di quest’anno al 4,1% del 2012.

Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che purtroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 15).

«Il fatto che da sei anni di fila, sistematicamente, sovrastimiamo la nostra crescita – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – è preoccupante. Sulle ipotesi di crescita, infatti, si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

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