Le patrimoniali nascoste nella manovra
Oscar Giannino – Panorama
Il problema del fisco in Italia è che continua a dar ragione a Mark Twain. Lui diceva che c’è una sola differenza tra l’impagliatore e l’esattore pubblico: l’impagliatore si accontenta della vostra pelle. Purtroppo, continua a essere vero anche nella bozza di legge di stabilità varata dall’attuale governo, che pure ha il vanto di abbattere di 18 miliardi le entrate, di azzerare la componente lavoro dell’Irap, di aggiungere 1,9 miliardi di incentivi agli assumi a tempo determinato, mezzo miliardo di bonus bebè, confermare gli eco-incentivi e quelli alla ristrutturazione, e via continuando. Che cosa fa storcere il naso a un irriducibile liberale, allora? Parecchie cose. Una certa qual disinvoltura su numeri e saldi, per cominciare. E poi tre scelte di fondo.
Sui numeri è presto detto: se si dice che ci sotto meno entrate per 18 miliardi, quanto meno insieme bisognerebbe dire che ce ne sono di aggiuntive per 3 miliardi e mezzo, che diventano 4 e mezzo a dire il vero se ci aggiungiamo il prelievo straordinario annunciato sui giochi legali (al momento nessuno ci fa caso o quasi, ma per i conti delle aziende concessionarie è una botta clamorosa, visto che lo Stato da loro ha ricavato 8,4 miliardi in tasse nel 2013). Direte voi: non sottilizziamo. Mica vero. In altri tempi, assumere 3,8 miliardi di euro di incassi dalla lotta all’evasione come copertura ex ante di nuova spesa pubblica avrebbe fatto urlare allo scandalo assoluto. Si tratta di questioni di sostanza, di sana e prudente gestione della contabilità pubblica, non di sfumature. Ma le cose più dure da mandar giù sono altre: le tre scelte di fondo che ispirano la filosofia delle entrate della legge di stabilità.
La prima è la stangata sul risparmio previdenziale, venduta come «allineamento alle medie europee». Si passa dall’11,5 per cento di tassazione dei fondi di previdenza integrativa, al 20. Per le casse previdenziali professionali, l’aliquota sale dal 20 al 26 per cento. L’allineamento all’Europa, già utilizzato per elevare al 26 l’aliquota sui conti correnti mentre i titoli di Stato restano tassati al 12,5, non c’entra assolutamente nulla. L’idea vera è quella di scoraggiare gli italiani al risparmio, perché occorre incentivare i consumi. È la tenaglia fiscale che risponde alla stessa filosofia del bonus di 80 euro sul versatile della spesa, confermato per il 2015.
Ma questa idea è profondamente sbagliata. Per almeno due ragioni. La prima è che viviamo in un Paese dove la previdenza pubblica, malgrado il drastico innalzamento dell’età pensionabile disposto dalla legge Fornero, pesa per il 16 per cento del Pil cioè 3 punti più della media europea e oltre 4 rispetto alla media Ocse. E questo bel peso si regge solo grazie a oltre 50 miliardi di euro l’anno che vengono dalla fiscalità generale, rispetto ai contributi raccolti, che sono l’unica fonte per pagare i trattamenti visto che il sistema resta a ripartizione. In un sistema tanto squilibrato, dopo anni trascorsi a tentare di convincere gli italiani a metter da parte quote crescenti del proprio salario per una pensione integrativa che si aggiunga a quella molto più magra di un tempo che maturerà col sistema non più agganciato alle ultime retribuzioni, diamo oggi agli italiani un messaggio totalmente opposto. Spendete cari italiani, perché sulla pensione integrativa lo Stato allunga le mani. Come le allunga sul Tfr sia che decidiate di ritirarlo in busta, visto che vi alzerà il prelievo Irpef complessivo, sia che lo facciate restare accantonato, visto che l’aliquota sale anche in quel caso di 6 punti rispetto a oggi.
Dicono che sia un’impostazione keynesiana. Non è vero per nulla. Dimenticano che per il buon economista invocato dai fautori di Stato e deficit la leva essenziale per uscire dalla crisi sono gli investimenti: e colpire il risparmio previdenziale significa proprio disboscare le masse finanziarie che, accantonate con versamenti rateali, intanto vengono impiegate sui mercati acquistando titoli privati e pubblici, e a sostegno delle imprese.
Ma la cosiddetta stretta sulle rendite finanziarie non è solo sbagliata economicamente, è anche una vera e propria trappola verbale cara alla sinistra. Oggi tornata platealmente di moda, citando a raffica Thomas Piketty e il suo tomo che invoca tasse patrimoniali à gogo. L’aliquota del 26 per cento sul conto corrente, che con il concomitante bollo titoli patrimoniale può arrivare per interesse composto anche a una tassa superiore al 40 per cento del rendimento maturato, colpisce il ceto medio e basso, non certo magnati e industriali. La stessa cosa avviene con lo stellare aumento della tassazione sugli immobili, ascesa in 4 anni da poco più di 9 miliardi annui a, ci scommetto, oltre 28 miliardi in questo 2014 (e occhio alla local tax semplificata annunciata dal governo, perché nelle bozze fino a due settimane fa si parlava di un plafond «contenuto»›, si fa per dire, in 30 miliardi annui di entrata, cioè un ulteriore aumento nel 2015).
E oggi si aggiunge un terzo pilastro: la sberla al risparmio previdenziale. Paragonare risparmi, pensioni e case alla manomorta dei latifondisti da colpire nel Settecento illuminista è un trucco che solo a dei malati di mente può risultare accettabile. Eppure così va il mondo, in un’Italia in cui parole e fatti coincidono in sempre minor misura.
Infine. Ancora una volta nella legge di stabilità lo Stato gioca da baro con la retroattività degli aumenti fiscali. Lo sgravio Irap annunciato per 5 miliardi nel 2015 in realtà vale poco più della metà, perché contestualmente si rialza al 3,9 per cento l’aliquota e lo si fa retroattivamente, cioè a partire dal primo gennaio 2014 quando alle imprese si era detto che quest’anno pagavano un 10 per cento in meno, sgravio che ovviamente scompare. Idem dicasi per gli aggravi di aliquota sul risparmio previdenziale. Anche quelli retroattivi dal 2014. Con tanti saluti alla delega fiscale innovativa, allo Statuto del contribuente, all’impegno di retrocedere al contribuente onesto almeno parte dei proventi della lotta all’evasione invece usati per coprire nuova spesa.
Peccato. Peccato continuare a prevedere clausole di garanzie con ulteriori aumenti fiscali nel triennio a venire: se i governi toppano sui conti dovrebbe bloccarsi automaticamente la spesa come negli Usa, non aumentare automaticamente le entrate. Peccato che le imprese ancora non saldate dallo Stato non siano ammesse a compensazione fiscale immediata. Peccato non far pagare all’Agenzia delle entrate un 15 per cento del petitum al contribuente come ristoro del danno e tempo perso, se è questi a vincere. Niente di tutto questo. Speriamo di essere ancora in grado di pagare qualcosa, quando il fisco italiano deciderà di cambiare strada e di non essere un impagliatore di cadaveri.