banche

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Capezzone (Cr): “Se il Governo si occupa di banche, i titoli crollano”

Daniele Capezzone*

Qualcuno dica a Renzi che i titoli bancari continuano a crollare. Più il Governo annuncia di “occuparsi” di banche, più c’è caduta libera… Questo dimostra la chiara sfiducia dei mercati verso l’interventismo politico in generale, e verso l’interventismo politico di questo Esecutivo in particolare.

*Deputato dei Conservatori e Riformisti

Crisi delle banche: ecco a quanto ammonta il conto per i risparmiatori

Crisi delle banche: ecco a quanto ammonta il conto per i risparmiatori

di Paolo Ermano

Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi. Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.

La procedura di risoluzione adottata in novembre rappresenta una sorta di anticipo rispetto a quanto potrebbe accadere dal 2016 anche per altre banche con l’entrata in vigore delle norme sul bail-in, ovvero sulle procedure di salvataggio interno che limitano drasticamente – se non annullano – le possibilità di intervento del contribuente al ripianamento delle perdite degli istituti in difficoltà. In realtà, l’applicazione rigida del bail-in alle quattro banche avrebbe avuto dei risvolti ancor più drammatici poiché avrebbe comportato delle perdite anche per i titolari di obbligazioni ordinarie e, probabilmente, anche di una parte dei correntisti con giacenze superiori a 100mila euro.

Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori. Il dissesto sarà certamente ricordato tra i più gravi della storia finanziaria del nostro paese, tanto da essere già stato paragonato ai casi di Parmalat e Cirio, anche se il confronto più azzeccato – fatte le dovute proporzioni – è quello con il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, intervenuto nel 1982. Anche allora il valore delle azioni fu azzerato, ma i soci ricevettero il diritto di partecipare al capitale del Nuovo Ambrosiano, che dopo un lungo risanamento e una serie di operazioni di fusione con altri istituti ha contribuito alla nascita dell’odierno gruppo Intesa Sanpaolo.

Le quattro banche oggetto, lo scorso mese, della procedura di risoluzione erano state da tempo commissariate da Banca d’Italia (Carife lo era addirittura dal 2013). L’amministrazione straordinaria, del resto, segnala un grave stato di crisi e negli ultimi anni ha portato metà delle banche coinvolte a chiudere i battenti, mentre l’altra metà si è salvata riprendendo la normale attività oppure trovando acquirenti come nel caso recente di Banca Tercas e Caripe, acquistate dalla Popolare di Bari. Ad oggi tuttavia sono ancora dieci gli istituti bancari in tutta Italia sottoposti a questa procedura, e per i quali dunque perdura la situazione di crisi.

Non sono commissariate ma stanno affrontando una situazione molto delicata anche Veneto Banca e Popolare di Vicenza, le due grandi popolari del Nordest che figurano tra le società ad azionariato diffuso (ovvero tra i cui soci figurano una moltitudine di piccoli risparmiatori), che prevedono di quotarsi in Borsa solo nella primavera del 2016, momento nel quale emergerà il reale valore di mercato delle stesse. Dal 2014 infatti, il meccanismo interno di rivendita delle azioni di tali istituti si è sostanzialmente bloccato, sotto il peso di svalutazioni di bilancio e perdite sempre più consistenti, e della consapevolezza ormai diffusa che il prezzo delle azioni fissato “a tavolino” dal Cda negli ultimi anni è oggi ampiamente fuori mercato, e per questo tale da scoraggiarne l’acquisto.

Agli inizi di dicembre il Cda di Veneto Banca ha determinato il prezzo di recesso per le azioni in 7 euro e 30 centesimi, con una gravissima perdita (pari all’81,5%) rispetto al prezzo di 39 euro e 50 che gli stessi titoli avevano solo nove mesi prima. Viste le numerose analogie tra i due istituti, si teme che una proporzione del genere possa applicarsi anche a Banca Popolare di Vicenza; in entrambi i casi oltre al danno si aggiunge anche la beffa, dal momento che gli scambi delle rispettive azioni sono comunque ancora bloccati e potranno riprendere solamente tra qualche mese con l’approdo in Borsa, dove potrebbero subire peraltro nuove riduzioni di valore. Il conto delle perdite, dunque, per i soci delle grandi popolari del Nordest, potrebbe essere già oggi stimabile in 6,2 miliardi di euro, nonostante i quasi 1,9 miliardi versati dagli azionisti negli ultimi 2 anni sotto forma di aumenti di capitale e di rimborso anticipato (in azioni) di obbligazioni convertibili. Entrambe le banche inoltre si apprestano a richiedere ai soci altri 2,5 miliardi di capitale nei primi mesi del 2016, al fine di ripristinare i livelli di patrimonio e garantire la continuità aziendale.

Al di fuori delle due popolari venete (che a dispetto della denominazione hanno nel tempo assunto una dimensione nazionale e tale da essere incluse tra le 15 “big” italiane vigilate direttamente dall’Europa), vi sono una quarantina di istituti non quotati ma con azionariato diffuso, e dunque con una compagine sociale costituita in gran parte anche da piccoli risparmiatori. Oltre alla Popolare delle Province Calabre (commissariata), tra questi istituti non risultano altre crisi in corso paragonabili a quelle di Vicenza e Veneto Banca, ma la trasparenza dei prezzi e nelle quantità di azioni di questi istituti, scambiate attraverso i loro “borsini interni” più o meno evoluti, risulta in media molto scarsa (seppur variando significativamente tra istituto e istituto). Oltretutto, il prezzo di tali azioni risulta in media più alto rispetto ai multipli di borsa ed è dunque possibile che, a fronte di eventuali nuove svalutazioni, emergano perdite per i loro piccoli azionisti per un totale di altri 2,5 miliardi di euro.

Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Nonostante il netto recupero che si sta materializzando sui titoli quotati sin dal 2013, secondo i dati di Borsa Italiana il settore delle banche italiane risulta aver bruciato, rispetto al 2007, ben 100,1 miliardi di valore, a cui si devono aggiungere i 48,9 miliardi versati dai soci tramite aumenti di capitale dal 2008 a oggi. Tra le quotate, oltre alla già citata Banca Etruria caduta in liquidazione, a presentare le perdite più vistose sono state Banca Carige e il Monte dei Paschi, che hanno però superato i più recenti test europei sul capitale. Inoltre, vanno citati anche gli azionisti di Banca Popolare di Spoleto, che vivono nell’incertezza da almeno due anni, con il titolo sospeso dalle quotazioni e con il commissariamento di Banca d’Italia (conclusosi nel 2014), ora impugnato dagli ex-vertici.

Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche sostanzialmente comune a tutto il sistema ed è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil.  Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.

Così le banche fanno business

Così le banche fanno business

Massimo Blasoni – Metro

Un pessimista spesso è solo un ottimista ben informato. Ecco perché, pur apprezzandola, non ci siamo uniti al coro degli entusiasti per l’importante immissione di liquidità nelle banche italiane garantita dal Quantitative Easing della Bce. Se questa misura potrà davvero sostenere la ripresa economica di famiglie e imprese lo sapremo soltanto fra qualche mese. Rielaborando le rilevazioni del Sistema europeo delle Banche centrali, abbiamo però scoperto che dal 2005 al 2015 le banche italiane hanno visto crescere del 96% i propri depositi (per un controvalore di circa 1.160 miliardi di euro) ma che di questi meno della metà (530 miliardi) è servita a finanziare famiglie e imprese (+47% nello stesso periodo) mentre la restante parte è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli (cresciuta del +189% per una cifra corrispondente di 559 miliardi).
Continua a leggere su Metro.

 

 

L’Unione bancaria compie un anno, ora deve crescere

L’Unione bancaria compie un anno, ora deve crescere

Giuseppe Pennisi – Avvenire

L’Unione bancaria europea (Ube) ha circa un anno. Prendiamo come data convenzionale della sua nascita il 14 aprile 2014, quando il Meccanismo unico di risoluzione – ossia il sistema per gestire ordinatamente le crisi di banche di maggiori dimensioni (e a maggior rischio di contagio) – ha preso definitivamente forma; la nomina dei componenti dell’apposito Consiglio di risoluzione è avvenuta pochi mesi dopo.

Secondo le proposte approvate dai Capi di Stato e di governo Ue, l’Ube sarebbe dovuto essere uno sgabello a tre gambe diretto a prevenire crisi come quella iniziata nel 2008 (o a trovare vie d’uscita appropriate) e a facilitare l’integrazione del mercato finanziario e bancario europeo. La prima gamba è un sistema unico di vigilanza (per 5.500 banche dell’area dell’euro) affidato alla Banca centrale europea, che ha aumentato il proprio organico e costruito una nuova sede; per gli istituti di piccole dimensioni, la vigilanza resta nazionale ma segue regole uniformi. La seconda gamba è il Meccanismo unico di risoluzione: regole nazionali uniformi per gli istituti a rischio di dissesto e un apposito strumento europeo (dotato di un fondo ad hoc) per i dissesti tali da poter mettere a repentaglio la stabilità finanziaria dell’unione monetaria. La terza gamba sarebbe dovuta essere uno Schema europeo di Garanzia dei depositi. Alcuni ritengono che non sia necessario, in quanto le regole dei gran parte degli Stati dell’euro prevedono garanzie simili (100mila euro) per i singoli conti correnti.

A mio avviso, non solo uno sgabello a tre gambe è più resistente di uno a due, ma una Garanzia europea sarebbe stata un vero sigillo di solidarietà e avrebbe impedito corse agli sportelli come quelle viste a Cipro e in Grecia. Sarebbe bene riprendere una trattativa ora su un binario morto. Alcuni saggi recenti contengono valutazioni positive dei primi passi che sta facendo il sistema di vigilanza: essenzialmente si sta andando verso il nuovo sistema senza le scosse traumatiche che alcuni avevano temuto. È difficile esprimere un giudizio sul Meccanismo unico di risoluzione. Le analisi dei suoi regolamenti esprimono perplessità e li giudicano troppo complessi per raggiungere l’obiettivo di risolvere i nodi di una grande banca in dissesto nell’arco di un fine settimana (per operare a mercati chiusi). Soprattutto, non c’è stato modo di metterli alla prova. Un caso possibile – si badi bene – sarebbe potuto essere il dissesto (o il timore di un dissesto) del Monte dei Paschi di Siena, ma si è preferita una soluzione nazionale. Gli stessi schemi di un’eventuale bad bank per alleggerire da sofferenze istituti di credito italiani sono puramente nazionali.

Dove sinora lo sgabello a due gambe sembra non avere inciso è nell’obiettivo più alto di integrazione dei mercati bancari e finanziari dell’eurozona. Lo mostra un lavoro freschissimo dell’Economist Intelligence Unit: negli ultimi 12 mesi c’è una febbre di fusioni e concentrazioni bancarie ma quasi interamente nazionali, oppure – quella della Sadabell con quattro banche britanniche – per avere teste di ponte al di fuori dell’euro. Forse, però, proprio in questo campo è troppo presto per giungere a conclusioni.

Depositi delle banche italiane raddoppiati negli ultimi 10 anni

Depositi delle banche italiane raddoppiati negli ultimi 10 anni

NOTA

In dieci anni le banche italiane hanno visto i propri depositi crescere del 96%, per un controvalore di circa 1.160 miliardi di euro, ma di questi meno della metà (530 miliardi) è servita a finanziare famiglie e imprese (+47% nello stesso periodo), mentre la restante parte è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli (cresciuta del +189% oppure 559 miliardi).
Le rilevazioni del Sistema Europeo delle Banche Centrali su 14 diversi sistemi bancari pongono l’Italia nei primi posti delle classifiche tra quelli che hanno visto incrementare maggiormente il proprio stock dei depositi nel periodo che va dal 2005 al 2015. La crescita, per il nostro paese, corrisponde sostanzialmente a un raddoppio: da 1207 a 2368 miliardi, gran parte dei quali accumulati nel periodo pre-crisi. Anche dopo il fallimento di Lehman, tuttavia, il sistema ha continuato ad aumentare la raccolta, seppure ad una velocità inferiore (+205 miliardi).

Diapositiva1

Diverso il discorso per quanto attiene all’impiego di prestiti all’economia reale, ed in particolare a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si ritrova solo nella seconda metà della classifica, con una crescita del +47% corrispondente a 530 miliardi. Rispetto al settembre 2008 (data considerata come lo “spartiacque” prima e dopo il crollo di Lehman Brothers), i prestiti verso le imprese sono diminuiti del -6% (56 miliardi) mentre verso le famiglie sono comunque incrementati del +28% (132 miliardi).

Diapositiva2

Ciò che più è aumentato negli attivi dei bilanci bancari italiani è infatti l’impiego in titoli di stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 559 miliardi (+189%). Solamente il sistema portoghese ha visto una crescita maggiore della nostra nello stesso periodo, mostrando un +288% pari a 81 miliardi circa.

Diapositiva3

Questi dati certificano dunque la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre-crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di stato e obbligazionari rispetto agli impieghi verso famiglie e, soprattutto, imprese. In tale direzione infatti si è incanalata la maggior parte degli oltre 1.100 miliardi di nuovi depositi, al quale peraltro si è accompagnata una crescita di 276 miliardi della raccolta in titoli di debito e di ulteriori 271 miliardi di capitale e riserve.
Mps, Carige e Ubi. Come procede l’Unione  bancaria europea

Mps, Carige e Ubi. Come procede l’Unione bancaria europea

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 14 aprile prossimo sarà passato un anno da quando è stato posta in essere la seconda gamba dell’Unione Bancaria Europea (UBE), il Single Resolution Mechanism (SRM), con un apposito fondo, procedure e consiglio di amministrazione, per impedire che una grave situazione, o un fallimento, di un istituto finanziario di grandi dimensioni possa contagiare il sistema del resto dell’eurozona. Un’analisi recente dell’UBE e del SRM è nel volume di Astrid Towards the European Banking Union: Achievements and Open Problems (a cura di Emilio Barucci e di Marcello Messori, pubblicato alcuni mesi fa da Passigli Editori).

Continua a leggere su Formiche.
QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Meno prestiti e più depositi in Fvg, aumenta il risparmio di famiglie e imprese

Udine Today

Nei primi dieci mesi del 2014 i prestiti del sistema bancario del Friuli Venezia Giulia ad imprese e famiglie sono scesi di 6,3 miliardi di euro, a fronte di un aumento dei depositi presso le banche di 5,1 miliardi di euro: lo rende noto un report del Centro Studi ImpresaLavoro che ha analizzato l’andamento dell’attività bancaria in regione.

Secondo l’istituto fondato da Massimo Blasoni, non si allenta quindi la morsa del credit crunch e questo nonostante il sistema bancario abbia ricevuto dal 2011 ad oggi fortissime iniezioni di liquidità. In parte si è trattato di trasferimenti effettuati dalla BCE ma una buona fetta di quelle risorse derivano dall’incremento del risparmio di famiglie e imprese.

Continua a leggere su Udine Today.