banche

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Crisi italiana: quelle divergenze tra Bce e Bankitalia

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Su cosa verte la differenza di punti di vista tra Italia ed Unione Europa sulle circostanze eccezionali del Fiscal Compact che consentirebbero una deviazione dalle regole sull’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni (ossia il deficit), oltre al rinvio del pareggio di bilancio? Il nodo del problema è quello che in lessico economico viene chiamato l’output gap (letteralmente ‘divario produttivo’), ossia il differenziale tra Pil potenziale e Pil effettivo. Prima della crisi, nel 2008, la Commissione Europea, il Fondo monetario, e l’Ocse stimavano attorno all’1,3% la crescita potenziale del Prodotto interno lordo dell’Italia. Per avere un paragone, i ‘piani triennali’ dell’inizio degli Anni Ottanta la ponevano sul 22,5%, spiegando che è quello che già allora ci si poteva aspettare da un Paese con una popolazione anziana, un apparato produttivo non modernizzato eccetto che in certe nicchie specifiche, ed un’amministrazione pubblica tutt’altro che efficiente. Le stime econometriche che giungevano ad un potenziale di crescita dell’1,3% tenevano conto dell’evoluzione avvenuta negli ultimi trent’anni (non positiva né sotto l’aspetto demografico né sotto quello dell’apparato produttivo), nonché dal peso del debito che incide comunque sulla crescita.

Nel 2010 il servizio studi della Banca d’Italia ha pubblicato uno studio che esaminava il periodo 1999-2005 (ossia gli anni che hanno preceduto la crisi) e poneva l’output gap del nostro paese tra lo 0,5% e lo 0,7% del Pil. Se la crescita potenziale è lo 1,3%, quella effettiva si poneva quindi attorno tra lo 0,8% e lo 0,6%. Mentre di recente, l’Ocse ha stimato l’output gap dell’Italia a -5 punti percentuali del Pil. Una chiara giustificazione di ‘circostanze eccezionali’.

La Banca centrale europea ha reso pubblico sul suo sito da meno di una settimana uno studio firmato da un gruppo di economisti. Non sono stati pubblicati lavori della Commissione Europea, ma si intende che le stime di Bruxelles coincidono con quelle di Francoforte. Il lavoro analizza gli effetti della crisi economica sui tassi di crescita potenziali, utilizzando una vasta gamma di modelli econometrici, e confronta l’eurozona con gli Stati Uniti ed il Giappone. Per l’Italia il Prodotto interno lordo potenziale sarebbe attorno al livello zero per l’anno 2013, proprio in quanto non sono state fatte le riforme sulle strutture dell’economia (essenzialmente miglioramento delle infrastrutture e delle reti, liberalizzazioni in tutti i settori, dalle professioni, alle banche ed assicurazioni, ai servizi pubblici locali, ai taxi, e via discorrendo) e in campo di privatizzazioni siamo riusciti a portare a casa solo quella dell’ente degli ufficiali in congedo. Quindi, non si possono invocare circostanze eccezionali. Non siamo, però, condannati alla ‘crescita zero’. A pagina 118 di quello studio, infatti, si dice chiaramente che tutto dipende dalle riforme strutturali, e cioè quelle sulla struttura economica del sistema nazionale, che non coincidono – lo ricordiamo – con quelle istituzionali. A questo punto Palazzo Chigi e Via Venti Settembre farebbero bene a mostrare le loro carte.

I veri gufi sono i banchieri

I veri gufi sono i banchieri

Gaetano Pedullà – La Notizia

Napolitano lascia o il Patto del Nazareno raddoppia, agli italiani i giochi della politica interessano poco quando in tasca non c’è un euro. E di euro, appunto, se ne vedono sempre meno. Ieri a confermarlo è stata Bankitalia: anche a settembre sono diminuiti i prestiti delle banche a famiglie e imprese. Così non c’è Governo, non c’è politica e non c’è cacciatore di gufi che tenga: la nostra economia non può ripartire. Questa ultima flessione è infatti la più inquietante, perché a metà settembre la Bce aveva offerto credito illimitato e quasi gratuito a tutte le banche europee. Quelle italiane avevano preso pochi miliardi (preoccupate per gli imminenti stress test) ma i nostri banchieri si erano impegnati a riaprire i cordoni della borsa. E fare il loro mestiere: prestare un po’ di soldi a tanti e non montagne di milioni solo a pochi. Alla prova dei fatti invece i prestiti sono calati ancora, i potenti come De Benedetti, che ha fatto un buco da due miliardi con Sorgenia, come sempre sono stati salvati. E migliaia di piccoli artigiani sono stati fatti fallire per pochi euro. Le riforme servono, ma chiamare alla loro responsabilità questi minuscoli banchieri è urgente. Una priorità.

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Siena: in piccolo, una fotografia del disastro italiano

Carlo Lottieri

Siena è una città bellissima, ricca di storia e monumenti, che conserva istituzioni e tradizioni uniche. Una città che conquista chi la visita e che è ancora oggi carica di potenzialità. Ma in questo tempo di scandali si tratta ormai di una realtà umiliata, piegata in due, smarrita, che vede venir meno ogni riferimento. Questo minuscolo capoluogo del mondo è sempre più una rappresentazione in scala ridotta del disastro italiano, un’esagerazione di quanto sta avvenendo nell’intera Penisola: sia per quanto esso è bello, sia per quanto è disperato. La folle vicenda del Monte dei Paschi è solo l’ultimo episodio di una disfatta. Negli scorsi anni si era assistito anche al progressivo declinare del sistema turistico e alberghiero, con molti esercizi costretti a chiudere, e soprattutto allo sfaldarsi dell’università, che sotto il rettorato Tosi ha infoltito oltre ogni ragionevolezza gli organici – specie nel settore amministrativo – e si è lanciata in spese difficilmente giustificabili, accumulando una quantità impressionante di debiti. Ora l’ateneo sta provando a risalire la china, ma deve fare i conti con una pesante eredità.
Siena è un piccolo gioiello magnifico che si trova ora a fare i conti con un recente passato pieno di errori, un presente che l’ umilia e un futuro davvero a rischio. E le ragioni di questa situazione sono chiare. A Siena è trionfato quel mix di ideologia e cinismo che è uno tra i tratti più caratteristici dello statalismo nazionale. Non soltanto l’Italia è il Paese che per anni e anni ha avuto il partito comunista più forte dell’Occidente, ma qui si è anche elaborato un interventismo “di relazione” che è basato sul favore e sul’appartenenza. La contrada, la loggia, la sede di partito, la parrocchia o qualsiasi altra cosa sia in grado di creare un legame faccia-a-faccia è in grado di permettere il raggiungimento di obiettivi altrimenti fuori portata.
Se l’ideologia ha voluto fornire una giustificazione “alta” a ogni forma di intervento pubblico, la relazione para-familiare ha gestito nei fatti il giorno dopo giorno di questo progressivo ampliamento del numero delle prebende e dei privilegi. A Siena ci si rivolgeva a questo o a quello per andare a lavorare in Mps, e quasi ogni altro ambito cittadino rispondeva a questo tipo di logiche. La banca faceva comunque da cassa un poco per tutti, dalle associazioni alle imprese, offrendo lavoro e finanziamenti con grande generosità e al di fuori di logiche di mercato.
Siena muore per la politica: a causa della politica. È una città in cui relazioni interpersonali anche di grande efficacia e tutt’altro che da demonizzare (si pensi al fenomeno formidabile delle contrade: una realtà che tutto il mondo ammira) sono state “imbastardite” da una progressiva pubblicizzazione di ogni ambito: con la conseguenza che quasi ogni comportamento ha finito per configurarsi come un favore a questo o quello.
Siena potrà rialzarsi se penserà che la propria tradizione bancaria è essenzialmente una tradizione di mercato, e che quanto è avvenuto negli ultimi decenni può diventare solo una (triste) parentesi. Siena può salvarsi se saprà riscoprire e valorizzare, con spirito competitivo, quanto ha di eccellente: in università e non solo (si pensi, ad esempio, a un’istituzione musicale ammirevole come l’Accademia Chigiana). La città uscirà da questo psicodramma che ormai dura da anni solo se tornerà a essere una città di imprenditori: nel turismo e in altri settori. Ma parlare di Siena vuol dire parlare dell’Italia. Il microcosmo toscano è in qualche eccessivo nel raffigurare tutto il bene e tutto il male della Penisola. Siamo tutti un poco senesi, in questo senso, e tutti dobbiamo allora riscoprire il meglio del nostro passato per poter presto dimenticare questo presente che ci offre davvero ben poco.
Stress e test

Stress e test

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è farsi misurare, ma non misurarsi. In una Unione europea sempre più conflittuale. I test sulle banche sono andati, per l’Italia, alla grande. Certo che ci sono dei problemi, ma guai a non ricordarsi di come eravamo messi due o tre anni addietro. Abbiamo una singolare propensione a ingigantire i nostri svantaggi e miniaturizzare i vantaggi. Non si tratta di praticare un ottimismo di maniera, ma di usare il materialismo realista. Altrimenti si creano classi dirigenti subalterne e incapaci. Dunque: una premessa e sei osservazioni.

La premessa: la vigilanza bancaria unica europea è una cosa positiva, se la si interpreta e usa al meglio. Gli stress test sono cosa buona e giusta. Se li avessero fatti per tempo, negli Usa, non sarebbe successa la tragedia che s’è vista. Il sistema bancario non può essere accusato, a intermittenza, oggi di non prestare a tutti e domani di avere prestato senza considerare i pericoli. Veniamo alle osservazioni, che sono la sostanza.

1. Nel corso della bufera, dal 2010 in poi, le nostre banche non hanno avuto aiuti di Stato, al contrario di quelle francesi, inglesi, spagnole e tedesche. I soldi prestati al Monte dei Paschi sono stati restituiti. Non solo: l’intervento europeo, con il fondo salva stati da noi cofinanziato, ha salvato le banche che avevano investito, per lucro e speculazione, nei titoli dei paesi avviati al default. Tali banche sono principalmente tedesche e francesi.

2. I tedeschi hanno chiesto e ottenuto di tenere le casse dei Lander, le Landesbank, fuori dalla vigilanza comune. Tale situazione deve essere cancellata, perché se uno scolaro si rifiuta di fare i compiti a casa non è un buon motivo per escludere tale rifiuto dalla valutazione della sua condotta e della sua preparazione.

3. Si ritrovano in difficoltà, e nella necessità d’integrare il proprio capitale, due banche italiane: Mps e Carige. Lo sapevamo di già. Ce lo siamo raccontati in tutte le salse. Semmai s’è fatto finta di niente, propiziando il calo borsistico successivo. Mentre altre sette banche, italiane, non vengono bocciate perché le operazioni sul capitale, effettuate l’ultimo anno, sono esaustive. Bene, vuole dire che se si vuole e si sa fare, si può fare.

4. Il presidente dell’Associazione bancaria, Abi, Antonio Patuelli, ha giustamente osservato che non è stato certo un favore all’Italia andare a fare i conti usando i dati del 2013, che risentono del momento peggiore per la divaricazione degli spread. Sarebbe stato meglio usare i dati del 2014. Certamente, ma vado oltre: si è introdotta l’idea che anche i titoli di Stato comportano un rischio e si è considerato che le banche italiane ne hanno in pancia per 427 miliardi, le tedesche per 359 e le francesi per 275. Se si calcola la percentuale rispetto al prodotto interno lordo, l’esposizione delle nostre banche a quel rischio cresce. Ci sto. Ma si deve fare osservare che l’Italia, al contrario della Germania, non ha mai mancato di pagare i propri debiti. Come anche che noi teniamo al nostro interno il 65% del nostro debito pubblico, mentre la Francia ne ha fuori il 55%. Chi crea maggiori rischi sistemici e collettivi?

5. Le banche sono state utilizzate per spegnere l’incendio della speculazione sui debiti sovrani, in tal senso ricevendo soldi all’1%, dalla Bce. Ha funzionato, applausi. Ma ora che i pompieri sono vittoriosi non si vorrà mica considerare peggiori quelli che hanno usato più acqua, avendo più fiamme da domare?! Così la recessione si perpetua, i prestiti si contraggono e i conti delle banche peggiorano. E queste non sono faccende tecniche, ma terreno di schietto scontro politico.

6. Infine, stress test e vigilanza comune preludono al mercato bancario unico. Evviva. Ciò porta con sé la necessità di aggregazione fra le banche (come in Italia s’è già fatto). Chi governa questo processo? Occhio, perché se i titoli del debito italiano sono considerati più rischiosi dei derivati spericolati nella pancia delle banche tedesche la conseguenza è che gli scassoni saranno in grado di comprare banche forse non modernissime, certamente non spericolate, sicuramente troppo generose con i peggiori e avare con chi produce, ma decisamente meno malate e più trasparenti di quelle da cui si spera che non prendano esempio.

Ecco perché questa è una faccenda politica. A noi italiani è mancata la politica. Sono stati i governi supposti tecnici (Monti) e di salvezza nazionale (Letta) ad avere accettato condizioni tecnicamente svantaggiose e di affossamento nazionale. Guai, oggi, a leggere i risultati di quei test senza cogliere i punti di forza che nascondono. Quelli da far valere con fermezza, senza mettersi a fare gli ondivaghi sui conti pubblici.

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Le simulazioni dimostrano che la crisi è superata. Ora però serve più credito

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Molto rumore per nulla, si potrebbe shakespeariamente dire una volta letti i risultati di uno stress test che per alcuni giorni ha causato nervosismo ai mercati. Dopo una crisi economica e finanziaria che si protrae dal 2008, deve essere considerato, tutto sommato, segno di buona salute che solo 25 delle 131 maggiori banche (ossia il 19%) dell’eurozona abbiamo problemi di capitalizzazione, o meglio presentino tali problemi nei conti 2013. Dei due istituti bancari italiani nell’elenco, probabilmente uno ne è uscito nel primo semestre 2014. Ciò non deve, però, essere motivo di compiacimento. Da un lato, occorre chiedersi ancora una volta perché i finanziamenti non arrivano alle imprese. È scattata la trappola della liquidità a ragione del diffondersi ed approfondirsi di aspettative negative, specialmente nell’eurozona? Oppure, la lunga recessione , preceduta da una ancor più lunga stagnazione, fa sì che le imprese abbiano i cassetti vuoti, che manchino di progetti ‘bancabili’ di rinnovo e di espansione di impianti perché troppo assillati dalle difficoltà di riuscire a resistere?

Da un altro, c’è la minaccia di un aumento dei tassi negli Stati Uniti, dove il direttivo della Fed si riunisce oggi e domani: da mesi il tasso base di riferimento, l’interbancario, è rimasto ancorato allo 0,25% (in effetti è negativo dato che l’aumento dei prezzi viaggia sull’1,8%) e quello sui titoli di Stato decennali è al 2,24% (rispetto alla media dello 0,90% nell’eurozona). Negli ultimi mesi, ragioni macroeconomiche sembrano suggerire l’esigenza di una politica monetaria meno espansionista: nell’ultimo trimestre il Pil è aumentato a un tasso annuale del 4,6% e la produzione industriale a quello del 4,2% mentre la disoccupazione è sotto al 6%.

Più eloquente un dato poco seguito in Europa; l’aumento dei ‘tetti’ nelle norme (di competenza dei singoli Stati dell’Unione) agli interessi per i prestiti personali a individui e famiglie a basso reddito e prive di garanzie reali. Nelle ultime settimane, otto Stati hanno aumentato, in vario modo, tali ‘tetti’ (introdotti in gran misure per impedire nuove crisi di prestiti subprime oltre che a fini antiusura). Ciò vuol dire che c’è una forte spinta ‘dal basso’. I governatori delle 12 Banche federali di riserva, prossimi al territorio, potrebbero mettere in minoranza il presidente della Fed, Janet Jellen, favorevole a mantenere una politica monetaria espansionista per almeno altri due mesi. Ciò non resterebbe senza implicazioni per la Bce: il mercato finanziario atlantico è integrato. Un’asimmetria sostanziale genererebbe un flusso di capitali verso la sponda Usa, rendendo più difficile e la politica monetaria Bce e la ricapitalizzazione di quelle banche europee che ne hanno esigenza.

Ora sotto esame le banche

Ora sotto esame le banche

Francesco Manacorda – La Stampa

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone – analisti di Borsa e uomini delle banche – che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità – e non più delle singole autorità nazionali – su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti – quelli delle banche – si apprestano così a un esame europeo.

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio.

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 – un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose – ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale – per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali – da noi la Banca d’Italia – dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo – tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo – ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori – chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni – avranno dei parametri per orientarsi meglio.

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iper prudenziale dei regolatori – dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme – rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker.

La grande minaccia è l’incertezza

La grande minaccia è l’incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

«Le banche sono il polmone del sistema economico: se gli si stringe troppo il collo, il polmone si ferma e tutto il sistema collassa». Più che uno scenario, per i banchieri è oggi una certezza: lo stallo dell’economia, il crollo delle Borse e l’avvitamento dei titoli bancari su tutti i grandi listini – e in particolare a Piazza Affari – hanno purtroppo radici comuni.Quali? Risposta scontata: il clima di incertezza che circonda le banche. Tesi di parte o autodifesa che sia, sta di fatto che il mercato finanziario sembra ormai confermare con i fatti quanto le banche paventavano da tempo: il rischio di soffocamento da «stretta regolatoria».

È difficile definire del resto una casualità il fatto che il crollo di Wall Street, Londra, Milano, Parigi o Francoforte sia cominciato proprio con la diffusione dei bilanci trimestrali delle grandi banche internazionali: per gli investitori, la redditività stagnante, il basso rendimento del capitale e quindi gli utili asfittici emersi dai conti dei colossi americani come JP Morgan, Wells Fargo o Citigroup sembrano rappresentare non solo la conferma di uno stallo globale della ripresa economica, ma soprattutto il segnale di una svolta strutturale nel ruolo-guida avuto finora dalle banche nella crescita dei mercati e degli indici azionari.

Per i banchieri non è una sorpresa: tassi di interesse ai minimi storici, economie ancora deboli, domanda di credito che non riparte e soprattutto l’incertezza creata dai crescenti requisiti di capitale e dagli eccessi regolatori si stanno combinando in una miscela esplosiva, pericolosa tanto per il credito quanto per le Borse e il risparmio investito. Se Wall Street è crollata infatti sui bilanci delle grandi banche sistemiche, le Borse europee stanno palesemente tremando sull’incertezza (e la durezza) creata dagli stress test dell’Eba. Il timore di un’ondata di ricapitalizzazioni forzate dopo la diffusione dei risultati il 26 ottobre è infatti generalizzato in tutta Europa, esasperando le illazioni sui sistemi nazionali e sulle banche che saranno più colpiti dall’esito dei test sui bilanci del 2013. Un importante contributo al crollo borsisitico delle banche italiane e quindi di Piazza Affari, per esempio, lo ha dato ieri uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi: sul sito online dello Spiegel è apparso infatti un articolo in cui si affermava che l’Italia è fra i paesi che avranno i risultati peggiori dagli stress test sulle banche disposti dalla Bce.

Lo Spiegel, citando fonti anonime «ma ben informate», ha preannunciato che per due-tre Paesi del Sud Europa i risultati saranno molto negativi: «Candidati bollenti – è scritto nell’articolo – sono Italia e Cipro». Risultato: il Banco Popolare ha ceduto l’8,09%, Mps il 7,63%, Bpm il 7,59%, Unicredit il 6,14%, Intesa il 5,85% e Mediobanca il 5,77%. Davanti alle illazioni e a un crollo di tale portata, persino il presidente dell’Abi Antonio Patuelli si è sentito in dovere di intervenire: «Spero che le nostre pagelle siano buone – ha detto Patuelli – ma il vero problema è quello delle regole, della rigidezza e della loro applicazione». Anche in questo caso si può obiettare che quella di Patuelli è solo un’auto-difesa d’ufficio, una posizione che cerca di nascondere le debolezze strutturali di un sistema bancario che non ha completato la pulizia dei bilanci e deve ancora affrontare un ineludibile processo di ristrutturazione. Ma l’analisi sarebbe riduttiva. I timori e le incertezze create dalla stretta regolatoria che rischia di soffocare le banche italiane sono gli stessi che gravano sui colossi globali del credito e soprattutto sulle cosiddette banche sistemiche, un gruppo in cui l’Italia è rappresentata solo da Unicredit.

Ebbene, le proposte di revisione dei requisiti di capitale in via di definizione da parte del Financial Stability Board e dal Comitato di Basilea sulla Supervisione bancaria sono talmente ampie e confuse da aver creato un destabilizzante clima di incertezza, tanto per le banche quanto per il mercato. Senza entrare troppo nel dettaglio, basti pensare che l’Fsb ha fatto circolare delle bozze in cui si ipotizza di elevare tra il 16% e il 20% il «core tier one» dei colossi del credito (è il cuscinetto di capitale necessario per assorbire perdite impreviste). Sembrano pochi punti, ma quando si parla di migliaia di miliardi il risultato finale cambia radicalmente: con la soglia del 20%, le banche globali avrebbero un deficit patrimoniale di 870 miliardi di dollari, con quella del 16% di 375 miliardi di dollari. Per i banchieri, come per gli investitori, la forbice dell’incertezza comincia qui. E da qui comincia la caduta dei mercati.

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Evasione, la Ue dice addio al segreto bancario

Andrea Bonanni – La Repubblica

Dopo decenni di battaglie, i governi hanno decretato ieri la fine del segreto bancario in Europa. I ventotto ministri delle Finanze dell’Unione, sotto la presidenza dell’italiano Pier Carlo Padoan, hanno finalmente trovato un accordo nella loro riunione a Lussemburgo per aderire ad un meccanismo di scambio automatico di informazioni tra le amministrazioni che prevede tra l’altro anche quelle relative ai dati bancari oltre che ai redditi da lavoro, alle pensioni, ai redditi patrimoniali e immobiliari. In pratica qualsiasi amministrazione fiscale potrà ottenere in modo automatico dalla controparte di un altro stato membro tutte le informazioni patrimoniali relative ad un proprio contribuente che abbia redditi, depositi o immobili in quel Paese.

L’accordo che, come ha spiegato Padoan, «costituisce una pietra miliare nella lotta contro l’evasione fiscale», è stato possibile grazie al fatto che Austria e Lussemburgo hanno rinunciato ad opporre il veto che avevano mantenuto per anni contro qualsiasi decisione in materia. La svolta è maturata dopo che in seno all’Ocse e al G-20 si era formato un consenso generale tra i governi interessati per generalizzare lo scambio di informazioni in modo da mettere un freno all’evasione fiscale.

La direttiva, che era stata proposta più di un anno fa dalla Commissione europea, entrerà in vigore al primo gennaio dell’anno prossimo. Ma il meccanismo di scambio automatico, che richiede l’adozione di uno speciale software da parte delle amministrazioni fiscali degli stati membri, diventerà operativo solo entro il 2017. L’Austria, che ieri ha dato il proprio accordo politico all’intesa, ha chiesto e ottenuto una proroga dì un anno per adeguarsi alle nuove norme, e dunque entrerà a far parte del sistema solo a partire dal 2018. Il Lussemburgo, invece, ha fatto sapere che si adeguerà al sistema di scambio automatico entro i tempi previsti.

L’accordo, naturalmente, aumenta enormemente la pressione sugli altri paradisi bancari del Continente. La Commissione europea ha ricevuto mandato dal Consiglio di chiudere i negoziati per cooptare nel meccanismo di informazioni la Svizzera, San Marino, il Liechtenstein, il principato di Monaco e Andorra. I governi di questi cinque Paesi hanno già, in linea di principio, accettato di adeguarsi alla nuova normativa europea e all’accordo delineato in sede Ocse, anche se c’è da aspettarsi che alcuni cercheranno di guadagnar tempo. Forse un po’ ottimisticamente, la Commissione ha comunicato che conta di chiudere il negoziato con questi Paesi entro la fine dell’anno. Ieri tra l’altro, il Consiglio sotto presidenza italiana ha anche concluso con la Svizzera un accordo che pone fine al contenzioso tra la Ue e la Confederazione sulla tassazione delle imprese, e che riguardava un regime fiscale particolarmente favorevole che la Svizzera applicava alle società che trasferivano la propria sede sul suo territorio. Un regime che molti governi europei consideravano come una forma di «concorrenza fiscale» sleale.

Scoperto il tesoro italiano

Scoperto il tesoro italiano

Salvatore Tramontano – Il Giornale

A leggerla così viene quasi da ridere: gli italiani sono i terzi al mondo per ricchezza mediana. Almeno così assicura uno studio di Credit Suisse. Le statistiche, si sa dai tempi di Trilussa, non bisogna proprio prenderle alla lettera. È vero, però, che qualcosa raccontano, soprattutto se si incrociano con altri dati. Questa lunga crisi, per esempio, ha colpito consumi e investimenti. È una lunga litania di segni meno marchiati di rosso. Eppure un’analisi di Unimprese, con numeri di Bankitalia, certifica che questa curva in discesa non vale per i depositi bancari. I soldi nei conti correnti sono aumentati. Sembra un paradosso, ma non lo è.

La recessione e una brutta bestia. Non solo perché ti scarnifica il portafoglio, fa chiudere aziende e manda a casa i lavoratori. La recessione genera paura. Fa paura perché toglie la speranza. Tanti non spendono perché non hanno i soldi, perché il secondo lunedì del mese sono in bolletta, ma altri (e non sono pochi) ci pensano quattro volte prima di acquistare qualcosa perché non si sa mai. E allora i soldi li mettono in banca. Risparmiano. Non rischiano. È normale. È la parte più profonda e a lungo termine di ogni crisi economica, soprattutto di quelle disperate come quella che stiamo vivendo.

Gli italiani sono un popolo di risparmiatori, ma nella loro storia sanno anche costruire ricchezza. Sono riusciti a risollevarsi da momenti bui, scommettendoci, credendoci. Quello che registra Credit Suisse è che questo Paese ha grossi problemi di debito pubblico, ma gli italiani non sono ancora a terra, sconfitti, incapaci di rialzarsi. È un popolo che sa resistere, faticando ogni giorno. Non siamo i pezzenti dell’Europa. L’Italia non è la nazione stracciona che deve andare dai burocrati di Bruxelles a chiedere l’elemosina. Non dobbiamo vergognarci davanti all’arroganza tedesca. Non ci sono lezioni da prendere e sentirci ogni volta ripetere che non abbiamo fatto i compiti a casa. Forse la classe dirigente ha qualcosa da farsi perdonare, ma gli italiani sono ancora ricchi di idee e di risparmi per finanziare quelle idee. Quello che ci sta macerando l’anima è la paura. Questa maledetta paura che l’Europa, ossessiva e apocalittica, continua a scaricarci addosso. L’Europa che boccia tutto e si incazza se il governo prova ad abbassare le tasse.

Sempre meno banche in Europa

Sempre meno banche in Europa

Alessandro Merli – Il Sole 24 Ore

Il settore bancario dell’eurozona si presenta all’appuntamento della fine dell’esame da parte della Banca centrale europea, fra meno di due settimane, con meno banche e un attivo ridotto, ma con una redditività tuttora modesta, secondo uno studio della stessa Bce pubblicato ieri. Un rapporto dell’agenzia di rating Fitch nota che la conclusione dell’esame delle banche condotto dalla Bce è solo il primo passo per uniformare l’accesso ai fondi privati e la capacità di aumentare il credito. Fitch osserva che i livelli di crediti problematici non coperti da accantonamenti resta alto nei Paesi maggiormente investiti dalla crisi, come Italia, Spagna, Grecia e Irlanda, rendendo alcune banche ancora vulnerabili. Solo un piccolo numero di banche, secondo l’agenzia, fallirà il test della Bce.

Il consolidamento del settore è continuato nel 2013, l’anno cui lo studio Bce si riferisce, portando il numero degli istituti sotto quota 6mila, a 5.948. Nel 2008, prima dello scoppio della crisi finanziaria, erano 6.690. L’attivo totale si è contratto a 26.800 miliardi di euro da 33.500 prima della crisi, soprattutto per effetto dell’azione delle grandi banche: metà della riduzione è dovuto alla chiusura di posizioni sui derivati. «Il deleveraging delle banche europee continua – ha detto il vicepresidente della Bce, Vitor Constancio, nel presentare il rapporto -. Questo è stato compensato da un significativo aumento dell’attività del settore bancario “ombra”, che dev’essere osservata da vicino». Le preoccupazioni sull’evoluzione dell’attività creditizia da parte di entità fuori dal perimetro della regolamentazione bancaria sono state al centro della discussione anche nei giorni scorsi a Washington alle riunioni dell’Fmi.

Il processo di razionalizzazione del settore, sostiene la Bce, suggerisce che l’efficienza complessiva del sistema continua a migliorare. Tuttavia i risultati di bilancio e la redditività restano bassi, anche se in nessun Paese dell’eurozona il sistema bancario nel suo complesso ha accusato una perdita operativa nel 2013. La redditività continua a subire l’impatto negativo dei tassi d’interesse molto bassi, il continuo peggioramento della qualità dell’attivo, i costi di ristrutturazione e di procedimenti giudiziari e cause legali. La scarsa redditività delle banche europee è stata sottolineata la settimana scorsa anche dal Fondo monetario, che ha sollevato dei dubbi sulla loro capacità di finanziare la ripresa.

Le banche europee hanno anche ridotto la loro dipendenza dai mercati dei capitali, affidandosi maggiormente alla raccolta da clientela, e dalla Bce, con il rimborso di buona parte dei prestiti Ltro concessi dall’Eurotower nel 2011-2012. Il valore mediano del capitale tier è aumentato da 12,1 nel 2012 a 13% a fine 2013. Fitch sostiene che la capitalizzazione delle 130 banche all’esame della Bce si è rafforzata notevolmente dall’ultimo stress test del 2011, continuando nel 2014. Secondo l’agenzia, le banche hanno raccolto capitale per 65 miliardi di euro nella prima metà del 2014. Fitch prevede che ulteriori aumenti di capitale e ristrutturazioni, soprattutto da parte delle banche più deboli, seguiranno la pubblicazione dei risultati della valutazione appronfondita della Bce. Questa avverrà il 26 ottobre prossimo. Le banche hanno poi due settimane di tempo per presentare i propri piani su come far fronte alle carenze di capitale. Secondo Fitch, questo riguarderà solo un piccolo numero di banche. Il quotidiano tedesco Handelsblatt riferiva ieri che in Germania solo la landesbankdi Amburgo, Hsh, fortemente esposta al settore in crisi del trasporto marittimo fallirebbe il test.