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La scelta delle banche che non aiutano il paese

La scelta delle banche che non aiutano il paese

Andrea Monticini – Il Secolo XIX

Nonostante innumerevoli provvedimenti legislativi (salva Italia, cresci Italia, sblocca Italia) di crescita, in Italia negli ultimi 15 anni, ce ne è stata ben poca. Una delle ragioni che permettono di spiegare una recessione e il declino di un’economia è la cattiva allocazione del risparmio privato. In altre parole, il risparmio di famiglie e imprese viene utilizzato per finanziare settori produttivi che operano in mercati a basso tasso di crescita e soprattutto a basso valore aggiunto, invece di finanziare quelle attività in grado di generare maggiore ricchezza. 

Per comprendere le ragioni della crisi italiana occorre quindi analizzare quali siano stati i settori produttivi finanziati dalle banche italiane negli ultimi 15 anni: in Italia infatti la fonte principale per il finanziamento degli investimenti è senza dubbio il canale del credito bancario, in quanto purtroppo gli scandali dei bond Parmalat, Cirio ecc. hanno distrutto il mercato obbligazionario corporate, privando così le imprese italiane di una fonte di finanziamento alternativa al credito bancario. Incrociando questa informazione con l’andamento del valore della produzione (è ragionevole assumere che gli impieghi siano correlati con il valore della produzione piuttosto che al valore aggiunto) di tali settori si può quindi capire se il sistema bancario abbia indirizzato in modo corretto (o meno) il risparmio privato. A questo proposito, nell’anno 2000, circa il 4-1% degli impieghi bancari era indirizzato al settore industriale ed in misura quasi equivalente, il 43%, al settore dei servizi. I restanti impieghi si concentravano per circa il 4% nel settore agricolo e per circa il 12% nelle costruzioni. Questi impieghi permettevano, rispettivamente, al settore industriale di contribuire per circa il 40% e dai servizi per circa il 51% del valore della produzione totale italiana.

La situazione nel 2013 è notevolmente cambiata. Infatti, gli impieghi bancari sono per il 28% orientati al settore industriale e per circa il 50% ai servizi, che è aumentato in buona ragione per l’aumento dei servizi immobiliari. Gli impieghi nel settore agricolo sono rimasti stabili a circa il 4 e, infine, il 18 al settore delle costruzioni. Si evidenza quindi un aumento considerevole dell’allocazione del credito al settore dei servizi, il cui finanziamento passa dal 43% al 50%,e al settore delle costruzioni (dal 12% al 18%), a scapito principalmente del settore industriale. Ci si aspetterebbe quindi un aumento proporzionale del contributo dei servizi alla produzione totale italiana. Invece, nel 2013, il settore industriale contribuisce per circa il 39%, mentre il settore dei servizi per circa il 52%. Quindi, nonostante un notevole incremento degli impieghi bancari nel settore dei servizi (dal 43% al 50%), il contributo di questo aumento alla creazione di beni e servizi è stato modesto, passando dal 51% al 52%.

Questi numeri ci permettono di effettuare due considerazioni. In primo luogo, l’economia italiana dal 2000 al 2013 è sempre più caratterizzata per la presenza dei servizi ed è quindi fondamentale che in tale settore avvengano ulteriori liberalizzazioni volte ad aumentarne l’efficienza e la concorrenza. In secondo luogo, le banche in questi 13 anni hanno finanziato un settore, quello dei servizi (in particolare sono aumentati i finanziamenti al settore dei servizi immobiliari), non troppo esposto alla concorrenza internazionale e a basso tasso di crescita. Così facendo hanno senza dubbio assolto il loro fine di imprese private che massimizzano i propri profitti, magari sfruttando settori protetti, ma il rendimento di tali investimenti è stato modesto ed ha ulteriormente posto le basi per la profonda recessione che stiamo vivendo.

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Più che il lavoro, a costarci troppo cari sono il denaro e la finanza sregolata

Paolo Cirino Pomicino – Il Foglio

Al direttore – La riunione dei banchieri centrali tenutasi alcuni giorni fa nel Wyoming ha avuto come tema centrale del dibattito il mercato del lavoro, un tema che affligge da anni le democrazie occidentali che presentano un tasso di crescita modesto o, come nel caso italiano, negativo, dopo oltre cinque anni di recessione. E sinora la ricetta messa in campo dagli Usa, dal Giappone e dalla stessa Gran Bretagna e sempre la stessa, una politica monetaria e di bilancio espansiva, con debiti pubblici crescenti. E’ davvero questa l’unica ricetta? Noi crediamo di no anche se per invertire un ciclo economico negativo c’e bisogno in prima battuta di politiche monetarie accomodanti e di politiche di bilancio espansive che mettano al centro dell’attenzione una diversa qualità della spesa pubblica orientata, prima ancora che alla sua riduzione, alla crescita per concorrere a una politica anti ciclica. Bene ha fatto Mario Draghi nel ribadire che la politica monetaria non può sostituire una politica economica fatta di politiche di bilancio, di politiche sociali, di formazione, di ricerca e di innovazione, Avremmo gradito, in verità, anche un riferimento più preciso dall’insieme dei governatori delle Banche centrali sulla crisi che ha investito in particolare l’occidente. Una crisi che, a nostro giudizio, e di domanda e non di offerta tant’è che il nuovo spettro e la deflazione mentre se fosse una crisi dell“offerta avremmo visto crescere i prezzi. Sottolineiamo questo aspetto perché un’analisi non precisa o non completa rischia di portare a soluzioni parziali o addirittura incoerenti, Non e un caso, infatti, che i suggerimenti emersi dalla riunione dei banchieri centrali siano in una unica direzione, ridurre il costo del lavoro e contrarre gli stessi salari per recuperare competitività all’impresa, unico soggetto, pubblico o privato che sia, capace di produrre ricchezza, E questo sarebbe un errore. Non perché non sia necessario ridurre il costo del lavoro ma perché la competitività di una impresa ha anche altre componenti altrettanto importanti come, ad esempio, la finanza intesa nel suo doppio versante, patrimoniale e del fabbisogno di credito. Una questione, questa, del tutto assente non solo nel dibattito ultimo tenuto a Jackson Hole nel Wyoming, ma anche e principalmente nei comportamenti delle Banche centrali e, per quanto riguarda l’Europa, nella messa a punto di Basilea 3 che aumenta in maniera notevole per le banche l”onere dei propri impieghi e quindi, a cascata, gli oneri finanziari per le imprese. Sembra quasi che l*unica preoccupazione debba essere la salvaguardia del denaro delle banche e non dell’altra componente dell’impresa che e il lavoro dell’imprenditore e delle s ue maestranze. Tanto per f’are un esempio di casa nostra, la Banca d’Italia da per il trimestre luglio-settembre 2014, per affidamenti creditizi superiori a 5 mila euro, una forchetta di tassi applicabili tra il 10,20 e il 16,75. Un siffatto onere e o non è un elemento che pesa sulla competitività delle imprese almeno quanto il costo del lavoro? E per non indurre in errore chi ci legge, anche in paesi diversi dal nostro che hanno, cioè, tassi più bassi, il costo del denaro è un elemento non secondario sulla competitività delle aziende. Questo aspetto non può che rientrare nella competenza delle banche centrali ma anche in quella delle imprese bancarie che devono poter ridurre il costo della propria struttura per alleggerire il peso di quel pilastro degli oneri finanziari che opprime la competitività delle imprese alla stessa maniera di come il carico tributario pesa sulle banche e sui loro equilibri di bilancio, essendo anche esse imprese. Come si vede e una filiera il cui anello terminale resta l’impresa e la sua competitività.Ma c’e di più. Da vent’anni a questa parte la finanza ha via via dismesso il suo ruolo di infrastruttura al servizio dell”economia reale per diventare una industria a se stante in cui la materia prima son quattrini e il prodotto son più quattrini, La dimostrazione di questa mutazione genetica sta nella vita delle stesse imprese, in particolare in quelle medio-grandi, il cui fatturato e per almeno un quinto legato ad attività finanziarie e non ad attività di produzione o di servizi. Un solo dato: nel triennio 2009-2011 gli impieghi di natura finanziaria (acquisizioni, dividendi e liquidità )delle multinazionali americane, europee e giapponesi sono stati 1,5 volte quelli industriali. Questa e una grave distorsione del capitalismo occidentale perché investe in pieno la crescita del benessere fondato sulla diffusione di prodotti e di servizi che elevano il tono di vita complessivo delle società moderne. Una modernità che non prevede una utopica uguaglianza nel tono di vita ma che non può a lungo sostenere una crescita esponenziale di disuguaglianze, come quelle che abbiamo visto in questi venti anni durante i quali larghe masse di quello che una volta si chiamava ceto medio produttivo e professionale si sono impoverite mentre una sempre più stretta élite finanziaria ha accresciuto in maniera notevole le proprie ricchezze. Questa mutazione genetica del capitalismo occidentale arriva da lontano, dalla deregolamentazione dei mercati finanziari che con i suoi prodotti innovativi hanno attratto sempre più risorse sottraendole alla economia reale e, per essa, alla competitività delle imprese per quanto abbiamo sinora detto, creando, inoltre, una economia di carta sovrastrutturale che, se non fermata a tempo, farà scoppiare una bolla monetaria dagli effetti devastanti. Quando invochiamo una diversa regolamentazione dei mercati finanziari non pensiamo a vecchie tentazioni dirigiste ma a una diversa convenienza tra investimenti finanziari e quelli nell’economia reale, privilegiando questi ultimi. Il capitalismo finanziario, infatti, rischia di ammazzare quella economia di mercato che per crescere e consolidarsi ha bisogno di una armonia di tutte le proprie componenti (della incidenza della componente energetica sulla competitività parleremo in altra occasione), e senza la quale diventa difficile difendere anche quel sistema democratico che l’occidente si è dato nel secolo scorso. Come si vede in politica come in economia tutto si tiene ed è forse giunto il tempo che la politica torni a discutere di economia, rompendo quella esclusività di un dibattito solo tra economisti e banchieri centrali. 

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Banche di sviluppo per uscire dalla recessione

Giuseppe Pennisi – Avvenire

In che misura può l’investimento pubblico (e privato) in programmi a lungo termine aiutare l’Europa – e in particolare l’eurozona – a uscire da una recessione che dura quattro anni? Cosa possano fare le Banche di sviluppo per facilitare questo compito? Tutti gli Stati dell’area dell’euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle pubbliche amministrazione a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare programmi ben definiti che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% della forza di lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi. È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei.
In Europa non manca liquidità, specialmente presso le famiglie, e il desiderio di impiegarla in collocamenti che non diano necessariamente rendimenti mirabolanti (numerose dita si sono scottate con le varie «bolle»), ma consentano di staccare cedole sicure, dormendo tra due guanciali. Ciò non vuole dire che la Bei debba diventare l’unico finanziatore di investimenti a lungo termine – compito immane che le sue strutture farebbero fatica a reggere.
Tuttavia, al mondo sono state censite circa 300 banche di sviluppo, in gran parte istituite negli ultimi cinquant’anni sulla scia del successo delle istituzioni di Bretton Woods (in particolare della Banca mondiale). I «puristi» ritengono cheVnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la prima istituzione a potersi fregiare del titolo di «banca di sviluppo» .In Europa, oltre a banche di sviluppo regionali come la Bei e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), esistono numerose banche di sviluppo nazionali di qualità. Le principali – ad esempio la Caisse des Dépôts et Consignation, la Cassa Depositi e Prestiti italiana, la German Kreditanstalt für Wiederaufbau tedesca, per citare le più note – hanno costituito nel 2009 un «club» di investitori a lungo termine non solo per forgiare strategie in comune, ma sopratutto per operare su alcuni fondi d’investimento a lungo termine ben definiti.
Da poco più di un mese il club è presieduto dalla Cassa Depositi e Prestiti, e quindi dal suo presidente Franco Bassanini. Gli strumenti non mancano. Occorre chiedersi se in questi anni difficili non sia stata ridotto, oltre al finanziamento all’investimento di lungo periodo, anche la progettazione. In molti Paesi – tra i quali l’Italia – sono stati costituiti fondi specifici per la progettazione (elaborazione di schemi progettuali, di progetti definitivi con computi metrici, documenti di gara). Sono stati utilizzati al meglio?
Il superbanchiere e la deflazione

Il superbanchiere e la deflazione

Federico Fubini – La Repubblica

Nelle otto conferenze stampa che ha tenuto dall’inizio dell’anno, Mario Draghi ha sempre parlato della ripresa in arrivo. Cambiavano giusto gli aggettivi scelti dal presidente della Bce per descriverla. Da gennaio a marzo era “lenta”. Ad aprile questa sfumatura di cautela è caduta, quasi che le nubi si stessero sollevando. A giugno però la ripresa è diventata di colpo “un po’ più debole del previsto” e a inizio agosto “moderata e diseguale”. Poi a metà agosto l’Europa ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Sarebbe facile ora rimarcare che nell’ultimo anno e mezzo lo staff della Banca centrale europea ha regolarmente sbagliato i suoi calcoli. Ha sempre previsto una crescita superiore a ciò che poi è successo e non ha mai messo in conto che l’intera zona euro si sarebbe trovata sull’orlo della deflazione.
Se queste previsioni erano la base delle scelte,non sorprende che la Bce stia fallendo nel suo compito principale: garantire la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione “vicina ma sotto al 2%” nel medio periodo. Quest’estate i prezzi sono in caduta in Spagna, Portogallo, Grecia e di fatto anche in Italia, mentre nella media dell’area l’inflazione (in frenata) è ad appena lo 0,4%. Angel Ubide dal Peterson Institute nota che i mercati non credono affatto che i prezzi ripartiranno: i valori impliciti nei tassi forward – stime di mercato sul futuro – danno un ritorno alla normalità non prima di un decennio. Le conseguenze sono note. Famiglie e imprese rinviano consumi e investimenti in attesa di prezzi ancora più bassi domani. L’economia ristagna più a lungo. E poiché con un’inflazione a zero il peso reale dei debiti aumenta, l’intera contabilità di famiglie, imprese e governi in Europa sta già cambiando in peggio. Oggi circolano obbligazioni emesse in euro da europei per 13.300 miliardi (quasi un terzo del Pil del mondo), di cui 7.300 miliardi a carico degli Stati dell’area. Tutti coloro che si sono sobbarcati dei debiti in questi anni, lo hanno fatto nell’idea che la Bce avrebbe rispettato il proprio impegno a difendere un’inflazione attorno al 2%. Non a quota zero. Ora quell’impegno viene meno e rende la gestione di tutti i debiti molto più pesante: gli interessi restano uguali, i ricavi per pagarli scendono. Lo stesso Fiscal Compact diventa più difficile da rispettare e meno credibile, quasi nato morto.

Sarebbe facile notare adesso questi errori della Bce, non fosse che nessuno si illude che una banca centrale possa sempre evitarli. Non succede mai. Dall’inizio di questa crisi la storia dell’Eurotower è piena di errori commessi e poi corretti. Soprattutto è piena di errori della Bundesbank e delle persone espresse dalla banca centrale tedesca nell’Eurotower, sempre convinte che creare moneta e allargare il bilancio della Bce avrebbe creato troppa inflazione. Non è mai andata così: al suo massimo il bilancio dell’Eurotower è quadruplicato, eppure l’inflazione è scesa. Nel 2007 Jürgen Stark, tedesco nell’esecutivo Bce, si lamentò quando la banca lanciò le prime iniezioni di liquidità con la crisi dei subprime; la storia ha dimostrato che si sbagliava. Nel 2010 e nel 2011 lo stesso Stark e Axel Weber, allora presidente della Bundesbank, votarono contro gli acquisti di titoli di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, furono messi in minoranza e anche questa volta la storia ha dato loro torto. Lo stesso vale per Jens Weidmann, successore di Weber alla Buba, quando nel 2012 si oppose alla svolta con cui Draghi promise sostegno illimitato ai Paesi che avessero accettato un programma di riforme. Quella promessa non costò un euro, salvò l’Italia e la moneta unica e dimostrò che la Buba si sbagliava e andava messa in minoranza.
Se questa storia ha ancora un senso, è perché continua: la banca centrale tedesca si oppone a ciò che serve per scongiurare la deflazione. Come hanno già fatto la Federal Reserve americana, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra, per fare il suo dovere oggi la Bce ha bisogno di creare almeno mille miliardi di euro e comprare a tappeto titoli pubblici e privati dei Paesi dell’area euro. È il cosiddetto “quantitative easing”, inaugurato dalla Fed nel 2009. Avrebbe già dovuto farlo, risparmiando un po’ dei problemi di debito, crollo degli investimenti e stallo dell’export che oggi affliggono l’Italia e altri Paesi. Non è successo perché Draghi non ha voluto muovere un passo del genere contro la Bundesbank.

Il presidente italiano della Bce ha due ottimi argomenti dalla sua. Il primo è che già la sua promessa del 2012 di difendere l’euro a tutti i costi, ricreando fiducia, ha di fatto prodotto un effetto “quantitative easing”: da settembre 2012 a marzo 2014 le banche private estere hanno riportato in Italia 163 miliardi di dollari (dati Bri), eppure il paziente non si riprende. La differenza è che nuovi interventi della Bce svaluterebbero l’euro e darebbero finalmente ossigeno all’export, mentre gli afflussi di denaro privato invece rafforzano il cambio.
Il secondo argomento di Draghi è anche più serio: poiché la Germania è di gran lunga il primo azionista Bce, è difficile imporle il rischio di sobbarcarsi debito italiano per centinaia di miliardi contro la sua volontà. In questo l’Italia può aiutare, cercando di ricostruire una credibilità che in Europa ha perso da un pezzo. Ma per la Bce combattare la deflazione è un dovere. È stata creata apposta: se condizionasse le sue scelte in proposito a quelle dei governi, di fatto rinuncerebbe all’indipendenza.

Ormai Draghi è davanti a un bivio, forse il più difficile della lunga carriera di successi. Può fargli comodo un consiglio contenuto nelle memorie di un suo vecchio amico, l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: meglio prendersi la colpa dei propri errori, che di quelli degli altri. Inclusa, al solito, la Bundesbank.

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Le troppe tasse e le banche uccidono il mercato della casa

Francesco Forte – Il Giornale

Il dopo ferragosto comincia con una brutta notizia, che riguarda la casa in Italia: i mutui immobiliari non beneficiano abbastanza del basso costo del denaro, dovuto al bassissimo tasso (appena lo 0,25%) della Banca centrale europea.

La differenza salta subito all’occhio facendo il confronto con il resto d’Europa: comprare casa con il mutuo a maggio costava il 3,1% annuo nel nostro Paese, mentre nel resto del Vecchio continente costa il 2,71%. E oltre al costo del mutuo c’è quello delle imposte patrimoniali, che in due anni sono aumentato del 107% secondo le stime diffuse ieri dalla Confartigianato, che sono una media per tutti gli immobili e non comprendono ancora il rincaro dovuto alla Tasi, il cui livello in molte città non è stato ancora determinato.

Non solo. La prima casa, che al tempo di Berlusconi, cioè sino al 2011, era esonerata dalla patrimoniale, prima con Monti, poi con Letta e ora con Renzi invece è tassata. La conseguenza è stata una contrazione dell’industria delle costruzioni. I cui risultati sono evidenti da queste cifre: le imprese del settore sono diminuite del 2,71% e gli occupati si sono ridotti del 4,8%, di circa 70mila unità, oltre lo 0,3 per cento degli occupati. Aggiungendo i posti persi nelle industrie che lavorano per l’edilizia da quelle dei laterizi, a quella delle piastrelle e del vetro e i posti persi nelle industrie e nei servizi che riguardano i nuovi immobili, ne risulta un rilevantissimo contributo alla crescita dei disoccupati e alla stagnazione della nostra economia.

Occorre anche aggiungere che si è creato un circolo vizioso fra la crisi delle industrie dell’edilizia e connesse e il costo dei mutui immobiliari, dovuto al fatto che le banche hanno, ora, parametri patrimoniali che rendono per loro difficile espandere più che tanto il credito. Tali parametri sono intaccati dalle perdite sui crediti concessi negli anni passati. Ciò non tanto per i muti immobiliari, che in Italia, a differenza che in altri Paesi, sono chiesti e concessi con maggior cautela, quanto nei prestiti alle imprese, in particolare dell’edilizia e del mercato immobiliare e delle industrie e dei servizi connessi, andate in difficoltà, con la crisi causata dalla nuova tassazione patrimoniale.

Ecco la sequenza della spirale perversa, che è stata scatenata dagli “apprendisti stregoni” della vetero sinistra italiana, al potere dalla fine del 2011, che credevano che la tassazione patrimoniale degli immobili e soprattutto della prima casa, servisse per l’equità (Monti aveva addirittura denominato «salva Italia» la sua manovra, in cui campeggiava la patrimoniale immobiliare, di cui la tassazione della prima casa era, per lui, uno degli strumenti maggiori del “salvataggio”).

Il mercato immobiliare viene depresso dalla nuova patrimoniale immobiliare e da altri tributi sul risparmio come il rincaro del bollo sui costi correnti. Prima scricchiola, poi crolla l’industria edilizia. Molte imprese edilizie e di settori a monte e a valle di essa vanno in crisi. La loro occupazione si riduce. I mutui a molte di queste imprese si incagliano o diventano insoluti. I parametri patrimoniali delle banche peggiorano perché i loro cespiti immobiliari perdono valore e così le perdite bancarie si accrescono. In questa spirale perversa, il credito diventa più difficile, anche per i mutui immobiliari. Tanto più che le famiglie hanno meno valori immobiliari da offrire in garanzia, perché il prezzo delle case è sceso per effetto della crisi economica. L’industria edilizia subisce nuove contrazioni con un aumento della disoccupazione.

Se questa è giustizia sociale, anche Bin Laden può aspirare alla beatificazione. La ricetta equa è opposta. Per rilanciare l’economia e l’occupazione serve una industria delle costruzioni che va. In altri Paesi, la ripresa del mercato delle costruzioni e di quello immobiliare ha fatto da volano all’intera economia. Bisogna quindi moderare la tassazione degli immobili, onde i mutui e gli investimenti immobiliari riprendano vigore e le famiglie possano avere più benessere.

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Crescita, la scossa che serve all’Italia: tasse giù, opere pubbliche e investimenti europei

Luca Cifoni – Il Messaggero

L’economia italiana non sembra ancora in grado di uscire dalle sabbie mobili della recessione: le difficoltà in cui continua a dibattersi sono legate ad un insieme di nodi difficili da sbrogliare: da una parte i vizi antichi che già a partire dagli anni Novanta hanno messo il freno al nostro prodotto interno lordo, dall’altra le recenti tempeste, in particolare nell’area dell’euro, che hanno imposto un percorso di risanamento faticoso. Nel 2000 il nostro Paese ha sperimentato per l’ultima volta una crescita robusta, con +3,7 per cento, ma poi nel nuovo secolo l’incremento del Pil è tornato solo una volta sopra la soglia del 2 per cento. E subito dopo è iniziata la grande crisi, prima nel segno degli Stati Uniti e delle sue banche, poi dei debiti pubblici europei.

Il governo guidato da Matteo Renzi rivedrà a settembre le proprie stime, dopo aver preso visione del dato preliminare sul prodotto del secondo trimestre, che l’Istat diffonderà il prossimo 6 agosto. Ma lo stesso presidente del Consiglio ha riconosciuto che sarà praticamente impossibile confermare l’obiettivo fissato in primavera, ossia un pur modesto incremento dello 0,8 per cento. L’esecutivo conta sull’effetto favorevole delle riforme sia economiche che istituzionali, molte delle quali sono però ancora nel pieno del percorso parlamentare. Tra le misure già in vigore c’è l’alleggerimento dell’Irpef per i dipendenti con reddito medio basso: un provvedimento che secondo la Banca d’Italia avrà un effetto di spinta all’economia, ma limitato: nel biennio 2014-2015 due decimi di punto in più per i consumi e un decimo per il Pil. Questo anche a causa del contemporaneo impatto di segno contrario, restrittivo, delle misure di taglio alla spesa incluse nel provvedimento.
È chiaro che non esiste una ricetta magica per la crescita. Né si può pensare che la spinta all’economia venga solo dall’azione di un governo. Ci sono però scelte che possono contribuire a riportare il Paese su un sentiero di sviluppo, soprattutto se perseguite con coerenza nel tempo. Il Messaggero ha chiesto a quattro rappresentanti di altrettante associazioni d’impresa e a due autorevoli economisti di sintetizzare le proprie indicazioni, di spiegare quale può essere la scossa necessaria a far ripartire davvero il Paese.
Il quadro che ne esce è naturalmente variegato, ma emergono alcuni importanti elementi in comune nelle diverse analisi. Da una parte la necessità di alleggerire in modo sensibile un carico fiscale che si è fatto insopportabile in particolare con l’avanzare della crisi. Dall’altra quella di rilanciare davvero l’investimento pubblico, vera vittima della stagione della stretta sui bilanci: al momento di tagliare la mannaia è sempre caduta in maniera più pesante su questa voce che sulle uscite correnti. Ma una vera spinta agli investimenti non può che passare per l’Europa, e questo a sua volta richiede un cambio di marcia sia delle strutture comunitarie che degli stessi governi. Poi certo ci sono i mali atavici del nostro Paese, la burocrazia, l’insufficiente livello di innovazione: occorre agire anche su questi ma i tempi saranno inevitabilmente più lunghi.

Marcella Panicucci (Confindustria)
Puntare sull’impresa regole certe e semplici

Ritrovare la crescita: un imperativo urgente. Le imprese hanno le idee chiare sulla ricetta per farlo.
Regole semplici, certe e stabili nel tempo. Ecco perché le riforme costituzionali sono essenziali. Sono la chiave per accendere il motore dell’economia e fa bene il Premier a perseguirle con determinazione. Parallelamente serve un piano urgente di rilancio dell’economia, per recuperare competitività e permettere alle nostre imprese di andare sui mercati esteri a pari condizioni con i concorrenti stranieri. Un unico perno di questa strategia: puntare sull’impresa manifatturiera. Tre i pilastri: ridurre i costi, rilanciare gli investimenti, dare liquidità. Per ridurre i costi occorre partire dal carico fiscale sul lavoro, abbattendo l’Irap, che è una vera tassa sull’occupazione, e dal costo dell’energia, evitando, come fatto con il taglia-bollette, di distribuire pochi benefici a centinaia di migliaia di soggetti facendone pagare il costo (alto) alle imprese manifatturiere.

Rilanciare gli investimenti il secondo imperativo, a partire da quelli in R&I. La leva fiscale è un grimaldello che se usato in modo virtuoso può dare frutti straordinari. In altri paesi che hanno seguito questa strada è stato così. Per questo serve liquidità. Vanno sbloccati i prestiti alle imprese, anche sfruttando le misure della BCE, e pagati subito tutti i debiti della PA. Le imprese hanno voglia di ripartire. Con pochi, ma decisi interventi la ripresa è a portata di mano.

Carlo Sangalli (Confcommercio)
Un piano credibile per ridurre le imposte

Gli effetti della recessione picchiano ancora duro sulle imprese che continuano a chiudere e sulle famiglie, ancora molto prudenti per il futuro incerto. Per Pil e consumi non c’è ancora nessun chiaro segnale di risveglio ed è evidente che l’export da solo non basta a spingere l’economia. Il 2014 non sarà certamente l’anno della ripresa. In questo quadro la priorità è quella di un’unica, grande riforma economica: quella fiscale. Con l’obiettivo di ricostituire il potere di acquisto delle famiglie. Perché deve essere chiaro a tutti che l’attuale livello di pressione fiscale su famiglie e imprese è incompatibile con qualsiasi concreta prospettiva di ripresa. Quello che serve, dunque, è una certa, graduale e sostenibile riduzione delle tasse perché solo così si possono stimolare nuovi investimenti, favorire nuova occupazione e soprattutto si può dare una scossa tangibile alla domanda interna che, per consumi e investimenti vale l’ottanta per cento del prodotto interno lordo e che può favorire una ripresa più robusta e duratura. Per fare questo occorre agire su due leve fondamentali: da un lato, controllo, riduzione e riqualificazione della spesa pubblica, e qui occorre davvero usare il bisturi su quegli ottanta-cento miliardi di sprechi ritenuti aggredibili sia a livello centrale che periferico.
Dall’altro, fare in modo che ogni euro recuperato dalla lotta all’evasione e all’elusione fiscale venga destinato alla riduzione della tasse.

Antonio Patuelli (Abi)
Recuperare la fiducia per spezzare la crisi
Occorre più fiducia per spezzare ciò che rimane del clima di recessione, per favorire una ripresa degli investimenti di imprese e famiglie. In questi mesi è cresciuta la valutazione internazionale dell’Italia e sono affluiti capitali sui nostri titoli azionari e di Stato e per gli aumenti di capitale (in particolare delle banche) che hanno avuto successo. Paradossalmente vi è più fiducia dall’estero verso l’Italia che di troppi italiani verso l’Italia stessa. Non bisogna arrendersi a stati d’animo del genere né sottovalutare i gravi problemi esistenti: occorre non rassegnarsi ad essi ma favorire uno spirito costruttivo anche quando non gioca la Nazionale di calcio. Occorre rifiutare ogni pessimismo strumentale: non si tratta di diventare ottimisti comunque, ma di imprimere un ottimismo della volontà. In tal senso sarà decisiva la prossima legge di stabilità con le misure che emergeranno. Anche le recenti decisioni assunte dalla Bce per tutta l’Europa potranno contribuire a dare concretezza a un nuovo clima di fiducia. L’innovazione di rendere disponibile nuova liquidità solo per ulteriori prestiti bancari sarà importante e da utilizzare con efficacia appena le nuove misure saranno operative, dal settembre prossimo. Le banche operanti in Italia, tutte sorrette da capitali privati nazionali ed esteri, devono essere in prima fila a spingere la ripresa in convergenza con gli investimenti delle imprese di ogni altro settore. Non è un sogno astratto, ma un obiettivo concreto e realizzabile per innestare un nuovo circuito virtuoso per più produttività e occupazione, anche con più solidi valori etici.

Jean-Paul Fitoussi (Luiss)
Più libertà sul deficit per le spese produttive
Matteo Renzi ha cominciato bene, con energia, dimostrando che alle parole seguono i fatti, agli annunci le riforme. Adesso comincia una fase più difficile, quella di capire quali siano i reali margini di manovra economici, ovvero fino a dove si possa arrivare per sostenere crescita e occupazione. Il proseguimento della politica di Matteo Renzi implica un accordo europeo. Le questione che si pone in questa nuova fase è la stessa per tutti i paesi europei: intendiamo accontentarci di un tasso di crescita leggermente positivo dopo sei anni di segno negativo e di stagnazione, oppure ci decideremo finalmente a prendere misure all’altezza della situazione, molto più radicali, che prevedano spese d’investimento e un aumento transitorio del deficit pubblico nella maggior parte dei paesi europei? In altri termini, o l’Europa si accontenta di registrare unicamente gli aumenti del deficit che sono conseguenza diretta della riduzione del Pil, oppure farà scelte più dinamiche e accetterà aumenti del debito per incoraggiare gli investimenti e facilitare la crescita. Non mi riferisco a cifre o percentuali: è necessario mettersi d’accordo su quali spese si possano considerare produttive, educazione, ricerca, ambiente energie rinnovabili. O l’Europa accetterà che queste spese possano essere finanziate con prestiti – e questo servirà a tutti, Italia compresa – o continuerà con la sua politica puramente aritmetica. Basta con le percentuali e le cifre magiche, bisogna essere intelligenti e pragmatici.

Paolo Buzzetti (Ance)
L’edilizia unico motore del mercato interno
La crisi non è finita. Dopo quasi 5 anni di austerity anche la locomotiva Germania sta perdendo colpi. Segno che le politiche europee di contenimento della spesa pubblica e di tagli radicali agli investimenti (-47% in Italia solo nell’edilizia dall’inizio della crisi) non hanno sortito gli effetti sperati, anzi hanno contribuito alla recessione. Tra le peggiori performance c’è sicuramente quella del nostro Paese che per ripartire non può che puntare sull’edilizia: unico vero motore del mercato interno. Messa in sicurezza delle scuole, manutenzione del territorio, riqualificazione delle città sono alcuni dei principali capitoli sui quali dobbiamo concentrarci nei prossimi mesi. Ma per riuscire a mettere in atto questi ambiziosi programmi, che finalmente sono tra le priorità dell’agenda di Governo, ci vuole una forte spinta politica e il coraggio di superare dogmi finanziari che hanno frenato finora ogni possibilità di ripresa. Come il limite del 3% del rapporto deficit/Pil, un parametro anacronistico e arbitrario, o il patto di stabilità che non consente alle amministrazioni pubbliche di fare manutenzione, pagare le imprese e garantire servizi efficienti ai cittadini. Ci vuole dunque un grande piano di opere pubbliche diffuse su tutto il territorio da realizzare con regole ordinarie, all’insegna della trasparenza e della legalità. Insieme a una politica di sostegno alla casa martoriata da un fisco iniquo che penalizza le fasce più deboli della società.

Giacomo Vaciago (Università Cattolica)
Programma europeo di nuovi investimenti

Tutta l’Europa è ferma, per un semplice motivo: manca una politica economica europea. All’interno del continente naturalmente c’è qualcuno che va avanti e qualcuno che va indietro, ma questo succede anche nel nostro Paese. E non ha senso rallegrarsi perché la Germania rallenta un po’, visto che il suo rallentamento danneggerà anche noi. C’è una sola cosa da fare, subito: i 18 governi dell’Eurozona devono smettere di credere che questa sia composta da 18 Paesi indipendenti, come se l’Europa fosse solo un’espressione storico-geografica. È necessario agire insieme. Invece, come nel caso della polemica sulla flessibilità, passiamo il tempo a discutere su come interpretare la mole di regole che abbiamo prodotto. La crescita però bisogna meritarsela: la Cina ad esempio è riuscita a ripartire dopo i provvedimenti del governo. Noi europei rischiamo di diventare l’ultimo vagone del treno globale, di dipendere da quello che si decide altrove. Dobbiamo piantarla con il giochino di darci la colpa l’un l’altro e iniziare a muoverci. In concreto, si tratta di attivare rapidamente un piano europeo di investimenti, un piano congiunto anche se differenziato nei vari Paesi.
Le cose da fare sono tante, basti pensare in Italia alle infrastrutture per la mobilità o alla messa in sicurezza del territorio. Il nostro Paese ha la responsabilità della presidenza di turno, è fondamentale non far passare questo semestre in chiacchiere ma concentrarsi sulle decisioni. Da noi poi servono investimenti massicci anche nel privato: è giusto ricapitalizzare le banche, ma hanno bisogno di essere ricapitalizzate le stesse imprese.

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Tino Oldani Italia Oggi

Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.

Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).

Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.

Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo. Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika. Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.

Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.

Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).

Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.

Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.

Partita bancaria

Partita bancaria

Davide Giacalone – Libero

È dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.

Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.

Arriva di rincalzo Antonio Patuelli, ieri all’assemblea dell’Abi, ricordando una frase di Helmut Kohl, cancelliere tedesco: «L’unione politica è la contropartita indispensabile per l’unione economica e monetaria (…). È fallace si possa sostenere l’unione economica e monetaria senza unione politica». Bingo: ai tedeschi si deve imporre quel che i tedeschi dissero. Pacta sunt servanda, lo diciamo anche noi, mica solo loro. Il continuo richiamo di Patuelli alla necessità di regole e condizioni comuni, per il mercato bancario europeo, è il tasto su cui qui battiamo e ribattiamo. Ed è la musica che ci rende forti, mentre la giaculatoria della flessibilità ci rende deboli.

Tali regole non sono affatto comuni, oggi, è si traducono in svantaggi. “Sussistono penalizzazioni delle attività bancarie in Italia – ha detto Patuelli – rispetto alle concorrenti nella Ue: dal trattamento delle svalutazioni e perdite sui crediti a quello del costo del lavoro ai fini Irap, dagli interessi passivi nella tassazione societaria Ires e Irap, all’Iva di gruppo, dall’ampio ruolo di sostituto d’imposta a vari calmieri dei prezzi, fino alle addizionali sorprendenti e talvolta anche tardive”. Il tutto in capo a un sistema bancario, quello italiano, che al contrario di quello tedesco, francese o inglese (e di altri), non ha avuto salvataggi di banche a spese del contribuente, semmai l’opposto: il crescere della pressione fiscale.

Certo le difficoltà ci sono, pure grosse. In Italia, oltre una impresa su quattro è divenuta “deteriorata”. Le sofferenze lorde, nel periodo 2008-2014, passate da 43 a 166 miliardi di euro. Il complesso dei crediti deteriorati ha superato i 290 miliardi di euro (da 86,5 miliardi di fine 2008). Il deterioramento dei crediti è stato fronteggiato con giganteschi accantonamenti e con quasi cinquanta miliardi di aumenti di capitale, tutti privati e senza alcun intervento pubblico (capitolo a parte, e non concluso, quello del modo increscioso con cui s’è fatta la doverosa rivalutazione del capitare della Banca d’Italia). Gli altri sono lesti, e a ragione, nel far pesare i nostri ritardi e le nostre mancanze, che ci sono, ma noi siamo tardi e balbettanti nel far valere i nostri punti di forza, che ci sono pure quelli.

Anziché continuare a ripetere che l’Europa deve essere dei cittadini e non delle banche, concetto da cui si spreme lo stesso sangue che può essere donato da una rapa, sarà bene tendere l’orecchio verso quel tipo d’impresa, le banche, appunto, che senza una reale integrazione di mercato vedono prevalere gli egoismi e le miopie nazionali, che dell’Europa sono l’esatto opposto. Subendone un danno. Se proprio non si può resistere alla retorica, mettiamola così: ci vuole l’Europa dei correntisti, che siamo noi tutti cittadini, ove di mestiere non si faccia lo spacciatore e per vocazione l’evasore fiscale.

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.