burocrazia

La priorità trasversale chiamata burocrazia

La priorità trasversale chiamata burocrazia

Lello Naso – Il Sole 24 Ore

Risorse? Riforme? Progetti di sviluppo che non ci sono? Non c’è dubbio che l’Italia abbia un deficit di competitività che deriva dall’arretratezza del sistema nel suo complesso, dalla crisi congiunturale e dalla mancanza endemica di risorse. Ma la lezione che arriva dalla vicenda del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione è che in ogni occasione il nodo più duro da sciogliere è quello della burocrazia. Nonostante la buona volontà del premier Renzi, che ci ha messo la faccia, e del Governo, nonostante la disponibilità degli uffici, e nonostante, presumiamo, la massima volontà di tutti i creditori di incassare le somme dovute, più di un terzo delle imprese è ancora insoddisfatto. Eppure, attenzione, le risorse erano e sono tutte disponibili.

Il motivo è molto semplice. Ogni qualvolta si attiva una procedura,la complicazione è sempre in agguato. Il labirinto di norme, il cavillo, l’elenco, la procedura da attivare, la certificazione. Molto è indispensabile, non c’è dubbio. Molto, invece, è frutto di un sistema normativo ipertrofico e complicato in cui norma chiama norma, regolamento chiama regolamento, cavillo chiama cavillo. Ecco perché non si può che partire dalla riforma della burocrazia. La priorità trasversale. Ecco perché non ci si possono permettere errori. Neanche minimi.

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Nuove imprese straniere, neanche una nell’ultimo anno

Paolo Baroni – La Stampa

Certo, c’è l’articolo 18 ed uno dei sistemi del lavoro più complicati del mondo. Ma poi ci sono gli eccessi della burocrazia, i tempi eterni della giustizia e le tasse troppo alte, ovvero tutti quei fattori, o meglio «mali storici», che da anni ci condannano alla parte bassa di tutte le classifiche mondiali sulla competitività. Epperò negli ultimi tempi, dopo i crolli del 2008 e del 2012, una certa attenzione nei confronti dell’Italia è tornata. Nei primi sei mesi dell’anno oltre metà delle operazioni di acquisizione e fusione porta la firma di investitori esteri, dai russi che entrano in Pirelli alla People bank of China che investe in Fiat, Generali e Telecom, sino a Electrolux che rileva Merloni. Si tratta di 5,7 miliardi di euro su un totale di 10, +81% sul 2013.

E gli investimenti industriali? Invitalia su 36 «Contratti di sviluppo» ne ha siglati 15 con società straniere, per un controvalore di circa 750 milioni. Si va da Bridgestone a Denso, da Stm a Whirlpool e Sanofi. Progetti anche importanti, ma si tratta sempre e solo di ampliamenti di impianti già esistenti, soprattutto al Sud. Investimenti che invece partono da zero, i cosiddetti «greenfield» (a prato verde) come li chiamano gli esperti? Se ci eccettua quello annunciato a gennaio da Philip Morris, che a Bologna investirà 500 milioni di euro creando 600 nuovi posti, non c’è nulla. Nessuna impresa o gruppo straniero nell’ultimo anno e anche di più, ha avuto il coraggio di investire in un nuovo impianto industriale di dimensioni significative sul suolo italiano. «Siamo a zero», conferma a malincuore Guido Rosa, presidente dell’Aibe, l’associazione delle banche estere che operano in Italia e interlocutore naturale di molti potenziali investitori esteri.

«Il problema fondamentale, come emerge anche dal nostro osservatorio sull’attrattività del Paese, è che il sistema Italia in una scala da zero a cento si colloca appena a quota 33,2. Un livello davvero troppo basso». E oggi, ovviamente, sorprende una forbice così ampia tra investimenti finanziari in forte ripresa e investimenti industriali al palo. «Questo è certamente il dato più rilevante», spiega Nicola Rossi, economista, ex senatore Pd. «Dopo un forte calo è tornato ad esserci un certo movimento sul fronte delle acquisizioni, ma di “greenfield” non si fa nulla. Da molto tempo. E questo la dice lunga sui problemi dell’economia italiana». Che anche in questo campo continua a perdere terreno: in 10 anni, tra il 1994 ed il 2013, l’Italia ha attratto investimenti diretti esteri (finanziari e industriali), i cosiddetti Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari, contro i 567 della Spagna, gli 800 e più di Francia e Germania. Quanto basta per far calcolare al ministro dello Sviluppo Guidi un margine netto di crescita, a regime, di almeno 20 miliardi all’anno. Con quello che significa anche in termini di nuova occupazione.

Inutili fino ad oggi le tante iniziative messe in campo negli ultimi tempi, dal decreto «Destinazione Italia» varato da Letta al più recente «Sblocca Italia»? «È il caso di dire troppo tardi, troppo poco – sostiene Nicola Rossi -. Non sono iniziative sbagliate, ma è poca roba rispetto a quello che sarebbe necessario fare. E poi serve tempo per farle assimilare agli investitori esteri». Quantomeno gli ultimissimi interventi sono serviti a fare un po’ d’ordine, chiarire che la promozione e le trattative coi partner esteri spettano all’Ice, che a Invitalia va la gestione degli insediamenti sul territorio e che «Desk Italia», che fino a ieri fungeva da struttura di raccordo, non serve più e va soppresso. Ma l’ultimo decreto in materia sta ancora in Parlamento in attesa di conversione e la nuova struttura non è ancora partita. Per non parlare dei fondi per la promozione ancora insufficienti: appena 400mila euro contro i 15 milioni dei francesi.

Il cahier de doléances è infinito. Rosa: «C’è tutto un sistema che non funziona: dalla burocrazia alla giustizia, al fisco. Ma la cosa peggiore è l’incertezza totale che avvolge il tutto: è la cosa che gli stranieri non possono sopportare. Chiedono trasparenza, chiarezza e norme stabili nel tempo, non regole che continuano a cambiare e che alcune volte diventano pure retroattive. Un malvezzo pazzesco questo, che i nostri governanti non si rendono conto di quanti danni produca!». Di fatto, spiega a sua volta Nicola Rossi, in questo modo «addossiamo all’impresa molti rischi che vanno oltre il normale legittimo e doveroso rischio di mercato: il rischio fiscale, perché non si sa quante imposte dovranno pagare e come; quello amministrativo, perché non si ha certezze sulle autorizzazioni e sulle date entro cui arrivano; e ancora gli addossiamo rischi sul personale, perché con l’attuale configurazione dell’art. 18 c’è sempre un terzo, il giudice, che si può incuneare nel rapporto a due imprenditore-dipendente. È chiaro che in queste condizioni nessuno viene in Italia a investire davvero. Già il rischio di mercato basta e avanza…».

Come dice Licia Mattioli, presidente del Comitato tecnico per l’internazionalizzazione e gli investitori esteri di Confindustria, «fare impresa in Italia non è facile». «Ma ora ci sono tutte le condizioni perché gli investimenti “a prato verde” siano il prossimo step del ritrovato interesse verso l’Italia degli investitori esteri. Perché da noi ci sono sia competenze estremamente interessanti, sia tecnologie e servizi molto sviluppati. Per questo ora occorre avviare una fase di grandissima attenzione verso l’industria, a cominciare dalle regole sul lavoro». «Tutti guardano come molto interesse e molta attesa al programma di riforme di Renzi, dipende però da quanta strada riuscirà a percorrere. Ed è questo che ora preoccupa», aggiunge Rosa. Che di suo è abbastanza pessimista: «L’Italia ormai da anni è un Paese incapace di modificare alcunché, una paese incredibilmente conservatore».

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Salvò un’azienda dal crac, la burocrazia lo punisce

Fausto Carioti – Libero

L’aula di Montecitorio, dove ieri Matteo Renzi ha promesso «una politica economica espansiva che rialimenti la fiducia tra imprese e cittadini», vista da qui è davvero dall’altra parte della Luna. Siamo a Noventa di Piave, in provincia di Venezia. Una settantina di dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto, fatturato che dopo un periodo diflìcile è cresciuto sino a quota 20 milioni, commesse importanti all’estero, un curriculum che vanta edifici come il ponte di Calatrava, il Lingotto di Torino firmato da Renzo Piano e l’hotel Vela a Barcellona: i numeri per andare avanti ci sono, ma dinanzi un lucernario non a norma di legge valgono poco. La Simco Tecnocovering rischia di finire nel lungo elenco delle vittime dell’ottusità della burocrazia.

L’impresa progetta e applica quelle facciate di vetro e metallo diventate, grazie agli archistar, il simbolo della modernità. Il gruppo cui apparteneva, la Lorenzon Techmec System, si era trovato sul baratro quattro anni fa. Ma aveva commesse e contatti sparsi per il mondo e un know how di tutto rispetto. Così l’azienda di Noventa fu acquistata dalla Simco Tecnocovering, consociata del gruppo che fa capo al friulano Marco Simeon. Da allora ha lavorato per costruire le facciate del ministero della Difesa francese a Parigi, della torre di Telecom Maroc a Rabat, della nuova sede del Credit Agricole a Nantes e del palazzo Trebel a Bruxelles, destinato al Parlamento europeo, e in molti altri cantieri. Insomma, il lavoro non manca e i tempi brutti sembrano alle spalle.

Se non fosse per quel lucernario, di cui ha scritto ieri il Corriere del Veneto, e tutto quello che esso rappresenta. Tre anni fa Simeon aveva acquistato la sede dell’azienda dal tribunale. Decide di cambiare la distribuzione degli spazi e presenta un progetto in sanatoria. Tutto bene, tranne il torrino in alluminio e vetro che sporge di quattro metri. Si scopre che il massimo previsto dal progetto originario è ottanta centimetri. È un abuso ereditato dalla vecchia proprietà, ma alla burocrazia non interessa. Siccome il permesso di costruire dura tre anni, Simeon chiede tempo per trovare una soluzione. La risposta è un’ordinanza del Comune datata 24 aprile, in cui si obbliga alla demolizione del lucernario entro 90 giorni. Copia dell’ordinanza è inviata alla procura e «comunicata agli uffici competenti per l’eventuale cessazione delle forniture e dei servizi pubblici». Così ora l’azienda rischia di trovarsi senza acqua né elettricità e con un procedimento penale in più.

«Non manderò mai a casa i miei dipendenti», assicura Simeon parlando con Libero. «Smonterò il torrino, perché sono costretto a farlo dalla burocrazia, e andrò avanti con la mia attività». Ma questa storia è una metafora: se la racconta, spiega, e solo perché è un esempio di ciò che accade a tante altre imprese. «Stiamo parlando di una società che ha salvato il personale di quella che era fallita, ne ha acquistato i beni, è andata in giro per il mondo a vendere il suo prodotto nonostante i problemi creati dalla burocrazia, ha portato i quattrini fatti all’estero in Italia, li ha riversati sul territorio, e qui trovo chi mi intima di smontare un torrino che ho comprato dal tribunale».

Simeon comincia a capire chi va via. «I grossi gruppi come Fiat hanno iniziato a mettere le loro società fuori da questo sistema, ma sono in tanti che ci stanno pensando. Io in questo momento non ho intenzione di farlo, ma se dal punto vista fiscale e burocratico si va avanti così una simile scelta diventerà inevitabile per la sopravvivenza del nostro sistema imprenditoriale».

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

La burocrazia rallenta i pagamenti alle imprese

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Una promessa mantenuta. Alla maniera di Renzi, però. La certificazione telematica dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione in modo da accelerarne lo smobilizzo è uno dei pochi impegni rispettati dal presidente del Consiglio. Tuttavia, i risultati dell’iniziativa, finora, sono modesti. Secondo il Tesoro, a fine luglio erano infatti stati saldati 26 miliardi di euro di debiti pregressi al 31 dicembre 2013, mentre gli stanziamenti attuali ammontano a circa 31 miliardi, più o meno la metà di quanto resta ancora da pagare.

Lo strumento telematico dovrebbe, in teoria, consentire di velocizzare la procedura. Ma, purtroppo, siamo in Italia e la velocità è un concetto relativo. Ecco perché, all’8 settembre, risultavano presentate istanze di certificazione per soli 6 miliardi, dei quali solo 3 sono stati realmente certificati. Non si può parlare di flop perché l’iniziativa è partita il 21 luglio e i termini, inizialmente fissati al 31 agosto, sono stati prorogati al 31 ottobre. Se si prendessero sempre per oro colato le parole del premier («Tutti i debiti saranno pagati entro il 21 settembre, giorno di San Matteo»), non si potrebbe fare a meno di evidenziare la scarsa incisività del provvedimento.

Sulla carta, è tutto molto facile. Alle imprese (dalle persone fisiche alle società di capitali) basta registrarsi sul sito certificazionecrediti.mef.gov.it e aprire un account come si fa per la posta elettronica o per un social network. Poi si passa all’inserimento delle fatture che può essere manuale (digitando i dati delle singole ricevute) oppure telematico (sia tramite file precompilati sia con le fatture elettroniche per le società che già le utilizzano). Le amministrazioni hanno 30 giorni di tempo per dare una risposta e riconoscere che il credito sia certo ed esigibile. Una volta ottenuta la risposta, le imprese hanno dinanzi a sé due strade: aspettare il pagamento oppure recarsi presso una banca per ottenere una cessione pro soluto a tassi agevolati (1 ,9% fino a 50mila euro, 1,6% oltre i 50mila). Grazie a un accordo che coinvolge Tesoro, Cassa depositi e Associazione bancaria italiana, gli istituti scontano le fatture (per 100mila euro ne riconoscono 98.400) rivalendosi poi sulla Pa.

Perché si sono registrate solo 56mila richieste? Un po’ per la pausa estiva. Un po’ perché la burocrazia la fa da padrona anche qui. Le amministrazioni, infatti, tendono a prendersi un po’ più dei 30 giorni loro concessi e non sempre rispondono positivamente (va ricordato che non si possono certificare crediti classificabili come spese in conto capitale). E anche se le imprese possono chiedere la nomina di un commissario ad acta, non sempre tutti vogliono o possono infilarsi nei meandri del contenzioso. In secondo luogo, nonostante questi crediti siano garantiti dallo Stato con gli stanziamenti e tramite Cdp, le banche tendono a valutare molto minuziosamente ogni pratica di sconto fatture. Ecco perché Confindustria ha chiesto al governo di «monitorare il meccanismo di cessione al sistema finanziario e di stanziare nuove risorse per lo smaltimento integrale dei debiti». Idem Confcooperative: «Meglio il 98,4% che nulla», dice il presidente Maurizio Gardini, consapevole che «la pesante situazione iniziale» porta necessariamente rallentamenti. Il vero problema ora sono i debiti del 2014: la normativa europea (limite di 60 giorni) non viene ancora rispettata. L’ultima ciambella di salvataggio può essere rappresentata dalla prossima pubblicazione del decreto per la compensazione delle cartelle esattoriali con i crediti verso la Pa. Le aziende lo aspettano da 4 mesi, ma forse questa è la volta buona…

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

La burocrazia costa alle imprese 30 miliardi l’anno

Luigi Offeddu – Corriere della Sera

Qui non ci sono grandi misteri: se in Finlandia il 5% delle imprese ha difficoltà nell’ottenere il credito delle banche, se in Germania la percentuale sale al 10%, e se in Italia raddoppia e più toccando il 25%, chi avrà più difficoltà a stare sul mercato? Oppure: se un piccolo o medio imprenditore impegna 269 ore in un anno a mettere insieme la sua cartella delle tasse, a verificarla, e poi a pagarla, sarà o più o meno competitivo di uno che di ore ne impiega la metà, o un terzo? Domanda oziosa. E risposta scontata. Una delle tante risposte, raccolte dagli esperti della Commissione Europea, che spiegano il crollo della produttività italiana: è italiano, infatti, il primo imprenditore preso in esame, e le tasse divorano il 65,8% dei suoi profitti totali; ben più del 41,3% certificato in media per gli altri Paesi europei, dall’organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo.

Ogni anno, dopo l’estate, la Commissione presenta un paio di rapporti sulla competitività dei vari Paesi Ue. Quest’anno li ha illustrati Ferdinando Nelli Feroci, il commissario italiano all’industria e imprenditoria, e da quei numeri è emerso come i segni di una ripresa, per quanto fragile, continuino a manifestarsi qua e là. Ma dietro, ci sono le ombre della recessione. Dal 2007 al 2012 l’industria tedesca ha creato 50mila posti in più, mentre la Francia ne ha perso 350mila e l’Italia circa 550 mila. La nostra potenza manifatturiera è scesa in media del 15% rispetto alla situazione di prima della crisi ,anzi il declino è arrivato al 20% in almeno 14 settori su 22: una slavina. La produzione automobilistica ha battuto anche le peggiori previsioni: meno 40%. Ma del resto, il panorama è ugualmente nero in tutta l’Europa: 3,5 milioni i posti di lavoro persi in tutto nel manifatturiero. E per tornare all’Italia, chi ha provato ad affrontare la crisi chiedendo aiuto là dov’era più logico chiederlo, cioè negli istituti di credito, ha picchiato il naso sul tronco di una quercia: in media, per i nuovi prestiti, sempre secondo i dati della Commissione Europea, i tassi italiani si aggirerebbero intorno al 3,6%, circa 150 punti in più di quanto venga chiesto agli sportelli delle banche tedesche e francesi. 

Per quanto riguarda le «pagelle» compilate sull’efficienza dei governi, la Finlandia è salita da una quota indicativa 1,9 (nel 2008) a quota 2,3 (2013); l’Italia da 0,2 a 0,4, ma a tutt’oggi prevale soltanto sulla Grecia, la Bulgaria, la Romania. In compenso, pesano le formalità burocratiche imposte dallo Stato alle piccole e medie imprese: 30,9 miliardi in un anno. Nelle tabelle di Bruxelles, con i dati forniti dal governo italiano, vi sono anche squarci consolanti, come quelli che calcolano in pochi giorni il tempo necessario per avviare un’azienda; ma sono dati «benauguranti», cioè proiettati sulle raffiche di riforme appena fatte o annunciate, e in attesa della verifica del tempo.  

Norme edilizie, invincibile Babele

Norme edilizie, invincibile Babele

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?

Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’…

Se le semplificazioni rimangono una bandiera

Se le semplificazioni rimangono una bandiera

Antonello Cherchi – Il Sole 24 Ore

Semplicità: dovrebbe essere questa la parola che regola il vivere in Italia. Sono così tante le norme che della semplificazione hanno fatto la loro bandiera, che pensare il contrario apparirebbe paradossale. E invece è proprio così: il nostro Paese continua a essere ingessato dalla burocrazia e ad avere tanto bisogno di una profonda opera di snellimento.

Anche il decreto legge sblocca-Italia, approvato venerdì dal Consiglio dei ministri, ritorna sull’argomento e presenta una nuova serie di semplificazioni. Prima ancora – per rimanere al passato meno lontano – ci aveva provato il Governo Monti, che alla questione aveva dedicato un decreto legge ribattezzato proprio Semplifica-Italia. Se si scorre il decreto del Fare varato da Letta si incontrano misure per rendere più facile la vita alle imprese, ai contribuenti, ai lavoratori, per velocizzare le verifiche dell’Inps.
Non si può escludere che alcuni di quegli interventi abbiano sortito l’effetto annunciato. Nel complesso, però, è arduo sostenere che il confronto di tutti i giorni con la burocrazia sia meno faticoso. Di certo, non è così semplice come lascerebbero presupporre i tentativi legislativi adottati per renderlo tale.
D’altra parte, per una misura di semplificazione, ce ne sono altrettante (e anche di più) che introducono nuovi adempimenti. Il sospetto è che il saldo non sia mai pari a zero, ma i nuovi oneri finiscano per sopravanzare quelli cancellati.

Un modo per tenere questo tipo di contabilità ci sarebbe, ma come racconta la relazione sul primo anno di applicazione del taglia-oneri, non tutti i ministeri hanno tenuto fede all’impegno e, per di più, quelli che si sono adoperati lo hanno fatto in maniera a dir poco svogliata: hanno presentato un bilancio in pari, smentito però dagli imprenditori, a cui la misura è rivolta. Della quantificazione monetaria dei nuovi adempimenti, poi, neanche l’ombra. Ed è anche così che la burocrazia si alimenta: una disposizione nata all’insegna della semplificazione, si trasforma essa stessa in un onere. Richiede uffici che vi lavorino, relazioni annuali da presentare, programmi da definire, come quello recente con le nuove linee guida per la misurazione e la riduzione dei tempi e degli oneri amministrativi. Basta scorrerlo per capire come l’intera operazione abbia scarsissime probabilità di riuscire.

Non è certo l’unico caso. Con l’Air (Analisi di impatto della regolamentazione) e la Vir (Valutazione di impatto della regolamentazione) qualche anno fa si è cercato di andare anche più a fondo e di fare le pulci ai nuovi provvedimenti legislativi, così da capirne la reale necessità e quantificarne l’impatto finanziario. Invece, talvolta le nuove leggi ne sono sprovviste o quando li hanno sono come compitini di uno scolaro distratto. Sono diventati oneri tra gli oneri.

Dopo il gelato, l’aspirina

Dopo il gelato, l’aspirina

Fancesco Forte – Il Giornale

Il decreto legge sblocca cantieri che il premier Renzi aveva presentato come una misura per il rilancio della nostra economia, che è entrata in recessione nel secondo trimestre e che, secondo le stime Istat rimarrà allo stesso livello nel terzo, non serve per il rilancio del 2014 e costituisce una mera aspirina per gli anni successivi. I 10 miliardi di nuove spese di investimenti sbandierati dal premier, infatti, ammesso che il decreto si realizzi secondo le previsioni, come al solito, più ottimistiche che realistiche, non darà luogo a lavori nel 2014 e comporterà 3 miliardi di lavori fra il 2015, il 2016 e il 2017, da includere nella legge di stabilità. Gli altri vanno a finire dopo. Tanto che sono piovute critiche dal presidente dei costruttori edili (Ance) Paolo Buzzetti: «Sblocca Italia ha un’ottima impostazione, ma se non ci mettiamo i soldi e non facciamo ripartire le cose perché l’ Europa ci blocca, i problemi restano tutti lì». Insomma, «non si tratta di provvedimenti choc che facciano ripartire l’economia.13,8 miliardi so pochi, ci aspettavamo una botta maggiore su tutto, un impegno maiore».

Non c’è più in questo testo la parte migliore della sua bozza iniziale ossia la proroga e rivitalizzazione della legge obbiettivo, varata da Berlusconi nel 2001 per coinvolgere nel finanziamento delle grandi opere le iniziative private in modo efficiente. Il testo varato dal Consiglio dei ministri (ancora suscettibile di modifiche) è pensato e scritto in burocratese di vecchio stile dirigista. Esso consiste di semplificazioni del dirigismo, non in un nuovo modo di legiferare consono all’economia dei mercati globali. Ci sono due sezioni di questo decreto migliori della media, di ispirazione berlusconiana quella sulle concessioni perla banda larga, che deriva dai progetti di Berlusconi primi ostacolati da lobby monopolistiche nazionali e poi affossati insieme al resto del decreto sullo sviluppo del ministro Romani, dell’autunno 2011, bocciato per ragioni politiche e quella sull’asse ferroviario Napoli-Bari ispirata dalla Regione Campania guidata da Forza ltalia. Per la banda larga, gli investimenti nelle aree in cui occorre l’incentivo pubblico, ora (ci sono le gare per le concessioni alle grandi imprese private, e gli investimenti non inizieranno prima del 2016. 

Grazie al Pd, dunque l’Italia avrà la cablatura elettronica globale solo alla fine di questo decennio anziché all’inizio. Per la Napoli-Bari il governo nomina come Commissario l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato,di fatto in un regime di concessione ispirato alla Legge obbiettivo. Ma,pur con la connessa semplificazione e accelerazione di procedure, il programma sarà operativo solo alla fine del 2015. 

La parte sulla privatizzazione di imprese pubbliche è slittata al futuro, data la contrarietà di Regioni ed enti locali feudo delle sinistre. Sono rimaste le norme sulle nuove competenze della Cassa Depositi e Prestiti e sui «project bond», nuovo strumento finanziario per l`investimento privato/pubblico e sulla privatizzazione di immobili del Demanio militare tutte scritte in tortuoso burocratese.

C’è una parte sullo sblocco della burocrazia nell’edilizia pubblica, molto smagrita per le opposizioni di giustizialisti, ambientalisti, fanatici dell’intervento pubblico nel settore culturale e di fanatici delle regolamentazioni urbanistiche-edilizia. Tutti tabù della vecchia sinistra ex Pci, Pdup e via cantando. Per dare un’idea di questa zavorra basta un comma sulle regole edilizie: «La destinazione di uso di un fabbricato è quella prevalente in termine di superficie utile. Il mutamento di destinazione d’uso all’interno di essa è sempre consentito, salva diversa previsione delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici». Frase gattopardesca sembra che tutto cambi, ma c’è una clausola, (che ho messo in corsivo) per cui tutto resta come prima. Nel complesso, Renzi sino ad ora non ha fatto nulla per farci uscire dalla crisi con nuovi investimenti né per privatizzazioni onde ridurre debito e spesa pubblica, né per l’efficienza dei rapporti di lavoro: la sfida maggiore su cui lo richiamano le frasi recenti di Marchionne.

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Ormai impazza la burocrazia dei divieti insensati e delle leggine

Sergio Luciano – Italia Oggi

Autostrada Serenissima, esterno notte. A una stazione di servizio di un gruppo petrolifero italiano, l’erogatore di Gpl, pur segnalato come attivo, risulta in realtà chiuso. Il gestore, anzi la gestrice – per usare uno di questi terrificanti nomi al femminile che fanno contenta la presidenta Boldrini – si sfoga con il cliente «a secco»: «Non me ne parli, siamo infuriati, il fatto è che il serbatoio, per legge, deve stare ad almeno 42 metri dal più vicino manufatto abitativo e due anni fa il gestore del bar ha ristrutturato lo stabile, è stato autorizzato ad allargarlo e si è preso due metri di spazio in più, proprio verso il serbatoio, per cui la distanza, che era di 42 metri, si è ridotta a 40 e non ci hanno mai più ridato l’agibilità dell’impianto. Noi ce la siamo presa col barista, che ha girato la palla sul concessionario, che l’ha rimpallata a lui, e così sono passati due anni, siamo fermi alle lettere degli avvocati e abbiamo perso un sacco di soldi».

Ecco: chiunque viva nel mondo reale sa che questa burocrazia dei piccoli «no», più o meno insensati, sta ormai ammazzando l’Italia. E le pur (per certi versi) lodevoli iniziative riformiste del governo Renzi sembrano non rendersene conto.

È una burocrazia folle. Che il ventennio berlusconiano non è riuscito a risanare, anzi. È l’Italia dei burocrati piccoli piccoli, che non tentano nemmeno di entrare nel merito delle questioni ma moltiplicano paletti e leggine, e quando va male li usano per escutere tante microtangenti, ma comunque sempre per non fare e non «far fare». La vera riforma della pubblica amministrazione da fare sarebbe questa: demolire questa burocrazia. Nel caso dell’impianto Gpl, è del tutto evidente che una regola sulla distanza minima è necessaria, ma è anche chiaro che – fatta la frittata di aver ridotto quella distanza – dovrebbe esserci una qualche autorità in grado o di derogare alla regola così marginalmente violata, o di imporre a chi ha causato il danno di pagare di tasca sua un risarcimento al danneggiato. Macché.

Al contrario, lo Stato arretra dove sarebbe per molti versi meglio che restasse. Si pensi all’ormai scontata decisione di ridurre il controllo in Eni ed Enel, senza clausole antiscalata, col rischio di privare l’Italia della proprietà di due colossi energetici ben gestiti che mezzo mondo ci invidia; e invece esonda, protunde, invade e schiaccia dove dovrebbe e potrebbe farsi i fatti suoi. È l’eterno tradimento del motto liberista secondo cui «è permesso tutto ciò che non sia esplicitamente vietato». In Italia, si sa, «è vietato tutto ciò che non sia esplicitamente permesso».

Lasciate in pace il ceto medio

Lasciate in pace il ceto medio

Dario Di Vico – Corriere della Sera

La parola chiave della politica sociale di metà agosto è «asticella». L’ha usata ieri il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, intervistato sul Corriere da Enrico Marro. Si discuteva di un (non tanto) ipotetico contributo di solidarietà (slittamento lessicale che sostituisce la parola «tassa») a carico delle pensioni alte ed è rispuntato un progetto e un vecchio dilemma dei governi succedutisi in questi tribolati anni. Se il contributo di solidarietà lo si carica sugli assegni mensili veramente d’oro e d’argento le risorse che si rastrellano per questa via alla fine sono poche, assomigliano dal punto di vista del bilancio dello Stato a briciole. Se invece l’asticella ministeriale del prelievo viene collocata più in basso ecco che la platea dei colpiti diventa molto più larga e si raccoglie decisamente di più. Il guaio è che in questo modo non ci si limita a sforbiciare i redditi dei superburocrati che godono di una pensione aurea ma si tassa di nuovo una parte significativa del ceto medio.

Il governo Renzi ha scelto questa strada? La tesi di un prelievo con asticella bassa nel dibattito di politica economica viene in genere attribuita al deputato Yoram Gutgeld, renziano della seconda ora che in passato aveva immaginato un contributo del 10% sulle pensioni superiori a 3.500 euro per un incasso totale di 3,3 miliardi. Dopo essere stato per un lungo lasso di tempo in ombra, Gutgeld dovrebbe essere il perno della squadra di economisti che Matteo Renzi vuole vicino a sé da settembre a Palazzo Chigi e non è un caso, dunque, che i ministri ricomincino a ventilare l’ipotesi del contributo di solidarietà. Gutgeld è un ex manager di punta della società di consulenza McKinsey ed è naturale quindi che nella sua formazione economico-culturale prevalga un’impostazione di tipo illuministico, sorprende caso mai che Renzi, attentissimo al consenso popolare, la faccia propria. Una nuova tassa che colpisca il ceto medio, seppur la sua porzione relativamente più agiata, riporterebbe indietro le lancette dell’orologio del Pd. I democratici sarebbero risospinti nel solco della tradizione della sinistra italiana poco attenta ai mutamenti di opinione del ceto medio tartassato.

Attenzione, però. Già nei giorni scorsi le cronache hanno registrato un repentino cambio di umore a Nord Est con un sondaggio secondo il quale anche gli artigiani veneti – che pure avevano votato e si erano spellati le mani per Renzi – cominciano a nutrire dubbi sull’efficacia della sua azione. Il segnale, per quanto agostano, non va sottovalutato: vuol dire che i disillusi non albergano solo tra le élite. Ma al di là delle considerazioni che attengono al campo dei sondaggi e degli indici di popolarità, aprire uno scontro con il ceto medio proprio ora, alla ripresa delle attività dopo la breve pausa estiva, sarebbe un errore grossolano. Il Paese ha bisogno di un semestre di mobilitazione per la crescita, di sforzi sinergici tra azione di governo e sentimento della società civile. Gli 80 euro in busta paga devono servire a far riprendere i consumi e rianimare la boccheggiante domanda interna. Se invece alla fine a dominare la comunicazione dovesse essere ancora una volta la parola «tasse» saremmo punto e a capo. Saremmo pronti per organizzare il Festival della Depressione.