busta paga

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Col Tfr in busta pensioni giù fino al 22%

Fosca Bincher – Libero

Cedere alla proposta di Matteo Renzi e aderire alla proposta sul “Tfr nello stipendio” potrebbe mettere a rischio e non di poco quella pensione integrativa che faticosamente si è tentato di fare mettere da parte in questi anni. La certezza di vedere diminuire l’assegno c’è per tutti: alla fine dei conteggi mancheranno quei versamenti a cui si rinuncia ora per incassare subito (facendosi per altro tassare di più quella somma). Ma il taglio sarà tanto maggiore quanto più vicini alla pensione si è ora. A segnalarlo, una simulazione ancora una volta assai preziosa fatta dalla Fondazione studi dei Consulenti del Lavoro: farsi ingolosire dalla sirena di Renzi potrebbe costare fra l’8 e il 22% dell’assegno mensile di previdenza integrativa che si percepirà quando si potrà andare in pensione.

Proprio la percentuale più alta chiarisce bene un punto chiave: quella possibilità di ottenere il Tfr in busta paga non è un dono fatto dal governo ai contribuenti italiani, ma la proposta di un prestito dietro cessione di un quinto dello stipendio e con grande lucro da parte dello Stato, che incassa un bell’interesse sull’operazione attraverso la maggiore imposizione fiscale. Per il contribuente italiano è più svantaggioso però di un normale prestito ottenuto da qualsiasi banca o finanziaria: perché in quel caso la cessione del quinto dello stipendio sarà limitata al raggiungimento della somma chiesta in anticipo più i relativi interessi. Nel caso proposto da Renzi sul Tfr la cessione del quinto (o del decimo nei casi più lievi) della pensione integrativa futura varrà tutta la vita, e quasi sempre supererà ampiamente il vantaggio economico che ora si percepisce.

Sono tre le simulazioni fatte dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro: quella di un giovane di 33 anni entrato nel mondo del lavoro nel 2007, aderendo fin dal primo giorno al sistema di previdenza integrativa con accantonamento del proprio Tfr. Il secondo caso è invece quello di un lavoratore di 43 anni assunto nel 1997 che versa il proprio Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Terzo caso, quello di un lavoratore sessantenne, più vicino all’età della pensione: assunto la prima volta nel 1980, versa anche lui il Tfr alla pensione integrativa dal 2007. Aderendo alla proposta Renzi tutti e tre avranno tagliato per i mancati versamenti fra il 2015 e il 2018 la propria pensione integrativa.

Sarà un escalation: quel lavoratore assunto nel 2007 perderà il giorno in cui andrà in pensione l’8% del proprio assegno di pensione integrativa. E lo perderà dal giorno in cui lo percepirà fino al giorno in cui chiederà gli occhi. Quindi per 20-30 anni a seconda della lunghezza della propria vita. In valore assoluto ovviamente l’erosione dell’assegno futuro dipenderà dalla retribuzione oggi percepita: il danno va da 481,12 euro su 17 mila lordi di stipendio a 2.886,73 euro circa su 100 mila euro di stipendio.

Secondo caso: età 43 anni e ingresso nel mondo del lavoro datato 1997. Aderendo oggi alla proposta Renzi sul Tfr, l’assegno di pensione integrativa verrà tagliato dell’11% per tutta la vita. Anche in questo caso sono state ipotizzate tre fasce di reddito attuale, e in valore assoluto la diminuzione della pensione integrativa andrà da 386,95 a 2.321,69 euro l’anno (con fasce di reddito fra 17 e 100 mila euro lordi annui).

Terzo caso, quello del sessantenne che ha iniziato a lavorare nel 1980. Per lui scegliendo proprio alla vigilia della pensione il Tfr in busta paga, la perdita percentuale sull’assegno di pensione integrativa sarà la più alta: -22% dell’importo. In valore assoluto si oscilla sugli stessi redditi ipotizzati per gli altri fra 242 e 1.452 euro (in valore assoluto più si è anziani più si abbassa l’importo di pensione integrativa a cui si ha diritto, perché i versamenti sono iniziati solo a fine carriera, nel 2007).

I danni sono dunque rilevanti, ed è giusto che la scelta venga fatta con tutti i calcoli su vantaggi e svantaggi. Anche se è chiaro fin da ora che chiunque aderisca alla proposta Renzi perderà comunque soldi. Ne perderanno rispetto ad ora ovviamente anche le gestioni dei fondi pensione (che però recupereranno in futuro i danni sul vitalizio del lavoratore), mentre il solo ad avere vantaggi economici sarà lo Stato, che con questa proposta incasserà più tasse di prima. E non poche. Il solo vantaggio del lavoratore è avere a disposizione un po’ di liquidità in più che pagherà molto cara. Se proprio c’è bisogno di quei soldi, forse è più conveniente un prestito tradizionale in banca.

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Ecco perché il Tfr in busta paga conviene solo a redditi fino a 15mila euro

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore

Il passaggio dalle slides del dopo-consiglio dei ministri alla bozza del testo del Ddl di Stabilità ieri in circolazione (47 articoli per 123 pagine) reca diverse novità sull’operazione Tfr in busta paga. La prima, quella che ha suscitato le maggiori reazioni, riguarda il profilo fiscale. Sulla retribuzione integrativa di chi opta per avere la liquidazione nel mensile scatterà la tassazione Irpef. Una scelta che, se confermata nel testo ufficiale che verrà trasmesso al Parlamento, farebbe crollare l’appeal della misura per i lavoratori con un reddito superiore ai 15mila euro. L’aliquota media attualmente applicata al Tfr è infatti compresa tra il 23 e il 26%, mentre l’Irpef sull’imponibile che supera i 15mila euro parte dal 27% e cresce con gli scaglioni di reddito sulla nota curva delle aliquote fino al 43%. Ne segue che più elevato è il reddito da lavoro meno è incentivata (fiscalmente) l’opzione del Tfr in busta. A controbilanciare quest’aggravio ne arriva un altro di segno opposto: l’imposta sostitutiva sui redditi derivanti dalle rivalutazioni dei fondi per il trattamento di fine rapporto (ovvero sul maturato) passerà dall’11 al 17%. A chiudere il quadro fiscale una clausola di salvaguardia che esclude il reddito aggiuntivo dal computo del tetto complessivo che garantisce il bonus Irpef da 80 euro, in vigore dal maggio scorso. Insomma, chi opterà per il Tfr in busta non perderà quel bonus.

Passando agli altri profili, l’operazione si conferma di carattere sperimentale, visto che sarà valida per le paghe comprese tra il marzo del 2015 e il giugno del 2018, e volontaria. Sarà inoltre esclusivamente rivolta ai dipendenti privati (ma non i lavoratori domestici e agricoli) e nel caso di scelta della liquidazione in busta mese dopo mese non si potrà più cambiare idea fino a fine giugno 2018. Esclusi dall’iniziativa anche i dipendenti di aziende in crisi o con una procedura concorsuale aperta, mentre potranno optare per il Tfr in busta nei prossimi tre anni anche coloro che hanno già aderito a un fondo di previdenza integrativa.

Sulle modalità di pagamento del Tfr in busta paga si prevede per le imprese una doppia strada: versare direttamente l’ammontare del Tfr maturando ottenendo in cambio gli stessi benefici oggi previsti per i datori che versano il Tfr alle forme di previdenza complementare oppure optare per lo schema di accesso al credito bancario che verrà definito con un Dpcm (da adottare entro 30 giorni dal varo della legge di Stabilità) e con la convenzione Abi-Mef-Ministero del Lavoro. Per seguire questa seconda via il datore deve chiedere all’Inps la certificazione del Tfr maturato dei singoli lavoratori dopodiché potrà chiedere il previsto finanziamento bancario. Al momento del rimborso alla banca degli anticipi dovrà essere riconosciuto solo il tasso di rivalutazione della quota Tfr (ovvero l’1,5% più lo 0,75% annuo dell’indice di inflazione).

Per le piccole imprese (meno di 50 addetti) l’operazione sarà sostenuta da un Fondo di garanzia Inps che parte con una dote di 100 milioni e che verrà finanziato con un contributo datoriale dello 0,2%. In caso di insolvenza le banche si rivolgeranno a questo fondo a sua volta assistito dalla «garanzia di ultima istanza» dello Stato. Tutta l’attuazione del meccanismo è rinviata, come detto, a un decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Mentre l’Inps dovrà svolgere il ruolo di «certificazione dei Tfr» a budget invariato e senza contare su nuove risorse umane o strumentali.

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Manovra nel solco del New Deal, l’asso è il Tfr

Stefano Patriarca – Europa

Una politica economica anticiclica e affronti il nodo del lavoro deve aumentare la domanda aggregata (consumi e investimenti) e contestualmente agire sulle condizioni dell’offerta che sia il mercato del credito, del lavoro, della concorrenza, delle condizioni di contesto. Agire solo sull’offerta sarebbe inutile, se per le imprese non cambiano le aspettative e la domanda, se non ha sete “il cavallo non beve” per quanta acqua gli metti davanti. Ma se le aspettative si invertono le condizioni dell’offerta diventano decisive. Per questo non esiste l’alternativa “prima la crescita e poi la regolazione” o viceversa, è una discussione come quella sull’uovo e la gallina. La più grande operazione anticiclica fatta, il New Deal di Roosevelt fu un grande mix di interventi sull’offerta e sulla domanda (e per questo anche Keynes ebbe da ridire).

La legge di stabilità e gli altri provvedimenti del governo muovono passi in quella direzione. Per la prima volta da molti anni si utilizza lo strumento del finanziamento in deficit. La legge di stabilità sceglie di operare tagli sulla spesa pubblica (certo inferiori al previsto ma senza toccare sanità e pensioni, e senza aggravare la situazione occupazionale), tagli ai quali corrisponde un’equivalente operazione di riduzione di tassazione per imprese e famiglie, più ulteriori interventi di detassazione finanziati in deficit, tra i quali il rilevante finanziamento degli ammortizzatori sociali. Un’operazione che a vincoli europei immutati è una sorta di cubo di Rubik, ma sicuramente positivamente innovativa. Ci si deve interrogare piuttosto sul livello di efficacia dell’intervento in termini di input anticiclico. È noto infatti che gli effetti moltiplicativi sull’economia dei una riduzione di tassazione, sono molto più lievi e lenti rispetto ad interventi diretti di domanda aggiuntiva fatti tramite investimenti o consumi.

È proprio per rendere efficace l’intervento che la manovra ha calato una sorta di asso: il Tfr in busta paga. Si tratta di una sorta di quattordicesima che tutti i lavoratori possono liberamente decidere di avere ora, riducendo il risparmio futuro. Da tempo ho sostenuto che tale operazione fosse importante e necessaria. L’impatto sul reddito di una famiglia può essere del 7%, su tutti i consumi tra l’1 e il 2%, sul Pil tra lo 0,8 e 1,5% (in relazione a quale sarà l’adesione dei lavoratori).

Se le condizioni concrete di attuazione saranno coerenti con le enunciazioni (condizioni che ho sottolineato più volte come essenziali), l’operazione ipotizzata dal governo non graverà sulle imprese (perché l’anticipazione sarà a carico delle banche), non costituirà un aumento fiscale per i lavoratori perché la tassazione sarà separata (come quella che il lavoratore avrebbe alla fine del rapporto di lavoro) per le banche (remunerate con il conveniente tasso di capitalizzazione del Tfr indicizzato all’inflazione) è una forma di impiego risk free, più redditizia dell’impiego in titoli pubblici e utile anche alla stabilizzazione finanziaria degli impieghi.

Finalmente si intacca un vero tabù della nostra società: il fatto che la crescita dipenda sostanzialmente da quanto si risparmia e che il benessere futuro possa essere solo a scapito del benessere di oggi. Siamo un paese che risparmia più di ogni altro in case, che ha una ricchezza pensionistica futura (anche con il sistema contributivo) comparabile e spesso superiore a quella degli altri paesi europei, che ha quote di ricchezza finanziaria superiori alla media europea, che può permettersi di investire all’estero 35 miliardi del Tfr che le imprese italiane hanno versato, che destina a risparmio quasi il 45% del monte retribuzioni. E questo spesso in nome di una falsa valutazione sulle future pensioni pubbliche che avranno una tasso di sostituzione più basso dell’attuale (eccessivamente alto), ma adeguato. Nessun sistema al mondo può garantire pensioni floride con un disastroso mercato del lavoro e senza crescita. La garanzia del reddito futuro non è solo in quanto si risparmia, ma in quanto si cresce, in quanto sarà qualitativamente alto e non barbarico il mercato del lavoro, in quanta occupazione aggiuntiva vi sarà per i giovani.

Quando la crisi provoca una disoccupazione rilevante specie per i giovani, anticipare un po’ di ricchezza futura dei meno giovani per finanziare consumi, redditi e posti di lavoro è un segnale importante, perché mentre si predica loro di non vivere da cicale, si eviterà di ritrovarsi con un mondo di giovani formiche morte, alle quali anche se affamate sarebbe vietato di mangiare un po’ di quel cibo che stanno portando all’ammasso per le generazioni precedenti.

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Tfr: anticipo in busta paga fino al 2018, ma le tasse sono più pesanti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Un’operazione a costo zero per le imprese. Da appena 100 milioni per lo Stato. Ma molto costosa per i lavoratori. Il provvedimento sull’anticipo del Tfr (trattamento di fine rapporto) in busta-paga, vistato dalla Ragioneria, entra in extremis nella legge di Stabilità varata ieri sera dal consiglio dei Ministri. Verranno rispettate le due condizioni annunciate dal governo: volontarietà della scelta di incassare anzitempo il Tfr da parte del lavoratore e nessun deficit di liquidità per le imprese, soprattutto quelle medio-piccole. Ma chi sceglierà di avere il Tfr in busta paga subirà su queste somme la tassazione secondo l’aliquota marginale. È questa, secondo le indiscrezioni, l’ipotesi sulla quale è orientato il governo. L’operazione Tfr in busta paga, quindi, non sarebbe conveniente, soprattutto per i redditi medio-alti.

Il testo definitivo non è stato distribuito ieri in conferenza stampa. Il meccanismo prevede che le banche che anticiperanno alle imprese le risorse per pagare il Tfr in busta-paga avranno la stessa remunerazione che oggi viene garantita al Tfr in azienda (1,5% più lo 0,75% del tasso d’inflazione). Il provvedimento dovrebbe avere un arco temporale che terminerebbe nel 2018 (data che coincide con la scadenza delle Tltro, l’operazione di rifinanziamento mirata a lungo termine della Bce).

Il dipendente privato (per quello pubblico la norma non vale) potrà fare richiesta di ottenere il Tfr in busta-paga mensilmente anziché alla fine del periodo lavorativo.Visto che l’accantonamento del Tfr corrisponde a circa una mensilità all’anno, per un lavoratore che incassi 1.400 euro netti significa ottenere in busta-paga più di 100 euro al mese per 13 mensilità. L’impresa per cui lavora dovrà farsi certificare dall’Inps il diritto alla prestazione. Tale certificazione verrà trasmessa alla banca che deciderà se erogare il finanziamento. Al termine del periodo lavorativo del dipendente, sarà l’azienda a dover restituire i soldi alla banca finanziatrice. Se non lo farà, la banca per recuperare le spettanze dovrà rivolgersi al fondo di garanzia dell’Inps. La novità sta nella controgaranzia dello Stato, pari a 100 milioni per il 2015. Tale controgaranzia consente alle banche di non trovarsi in difficoltà con le regole di Basilea perché evita loro di farsi carico di un fardello patrimoniale per i finanziamenti legati al Tfr in busta paga. Il provvedimento, previo decreto attuativo e successivo protocollo tra ministeri competenti e Abi, dovrebbe essere operativo a metà 2015 con effetto retroattivo dall’inizio dell’anno.

Ci sono due aspetti ancora da chiarire. Il primo attiene appunto alla cifra che lo Stato potrebbe incassare per la tassazione della parte del Tfr che entra in busta-paga e che una stima quantifica minimo in un miliardo e mezzo e massimo in 4 miliardi. L’altro aspetto riguarda il fondo Inps che raccoglie i versamenti effettuati dalle imprese sopra i 50 dipendenti, importi che con la nuova normativa potrebbe perdere. La manovra conterrebbe anche un altro aumento secco del prelievo, quello dell’aliquota sui rendimenti dei fondi pensione dall’11,5% al 20%.

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Tfr e Irap: i conti della liquidazione in busta paga, deducibile il costo del lavoro

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

Dopo un lungo tira e molla, il capitolo Tfr entra nel disegno di legge di Stabilità che oggi sarà approvato in Consiglio dei ministri. L’anticipo in busta paga del trattamento di fine rapporto sarà su base volontaria, possibile fino al 100% della somma maturata nell’anno, e riguarderà anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Per gli ultimi dettagli è in corso un confronto con l’Abi, l’Associazione delle banche. A ieri sera dal meccanismo erano esclusi solo i dipendenti pubblici. Ma potrebbero restare fuori anche altre due categorie: agricoltura più colf e badanti.

Per le colf si sta valutando se l’anticipo sarebbe un vantaggio per le famiglie, che già oggi possono liquidarlo anno per anno, oppure una spesa che finerebbe per mangiarsi buona parte delle misure a loro sostegno, compreso il bonus da 80 euro. A proposito di bonus, la misura viene confermata e allargata ma solo per le famiglie numerose con un solo stipendio. Come previsto, rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati a giugno, il tetto massimo di reddito sale a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. In parallelo dovrebbe arrivare un ritocco agli assegni familiari.

Il ddl di Stabilità prevede interventi per 30 miliardi di euro, di cui 11,5 finanziati in deficit, il resto in arrivo soprattutto da tagli di spesa. Per le imprese diventa più leggera l’Irap, l’Imposta sulle attività produttive, dalla quale sarà interamente deducibile il costo del lavoro per un valore di 6,5 miliardi di euro. Ma ad avvantaggiarsene saranno soprattutto le grandi aziende mentre resteranno fuori quelle senza dipendenti, il 70% del totale come ricorda Rete imprese Italia. Sempre dal lato delle imprese sul piatto c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs act , che però deve ancora passare l’esame della Camera.

Salvo sorprese dell’ultima ora, viene rinviato ancora una volta il riordino delle agevolazioni fiscali. La legge di Stabilità si limiterà a costituire un gruppo di lavoro per sfoltire quella lista composta oggi da 700 voci. Ma il criterio base è già stato fissato: non si procederà con sgravi modulati a seconda delle fasce di reddito, come pure si era pensato di fare in un primo momento, ma alcune agevolazioni saranno eliminate per tutti. Non dovrebbero essere toccate quelle ad alto impatto sociale, come le detrazioni sulle spese mediche o sugli interessi per i mutui sulla prima casa. L’ipotesi iniziale era di ricavare da questo riordino almeno 1 miliardo di euro. Per far quadrare i conti potrebbe essere ulteriormente rafforzato l’aumento della tassazione sulle slot machine, anche se gli operatori dicono che, limitando le vincite, lo Stato finirebbe per incassare meno. Rinvio, sempre salvo sorprese, anche per la tassa unica sulla casa, che fonderà Tasi, Imu e Tari, con il ripristino delle vecchie detrazioni Imu: 200 euro per l’abitazione principale, più 50 euro per ogni figlio a carico.

Tfr, scelta volontaria
L’anticipo in busta paga del Tfr, il trattamento di fine rapporto, sarà possibile su base volontaria. Il lavoratore potrà chiedere di ricevere mese per mese fino al 100% della somma maturata nel corso dell’anno. Il Tfr maturato negli anni precedenti non può essere oggetto di anticipo. Sono esclusi i dipendenti pubblici, si ragiona su agricoltura e colf. Potranno fare domanda anche i lavoratori che hanno scelto di spostare il Tfr verso i fondi pensione. Proprio sui fondi il prelievo a carico dell’iscritto salirebbe dall’11,5 al 12%. Mentre verrebbe ridotta dal 20 al 12% la tassazione sugli investimenti.

Bonus di 80 euro
Confermato il bonus da 80 euro per i lavoratori dipendenti. Come previsto l’intervento viene allargato ma solo per le famiglie numerose che hanno un solo reddito: per loro il limite massimo di reddito sale rispetto ai 26 mila euro lordi l’anno fissati con il decreto che ha introdotto il bonus. E arriva fino a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre figli, 50 mila con quattro. In tutto la misura dovrebbe costare 500 milioni di euro. In parallelo è in arrivo anche un ritocco degli assegni familiari. Possibile il ritorno delle detrazioni fisse per i figli (50 euro) per la nuova tassa unica sulla casa, che metterà insieme Tasi, Imu e Tari. Nessun intervento sulle pensioni.

Pressione fiscale
Diventa più leggera l’Irap, l’Imposta regionale sulle attività produttive. Dall’anno prossimo sarà interamente deducibile il costo del lavoro, per un taglio del carico fiscale pari a di 6,5 miliardi di euro. La misura è stata accolta con grande entusiasmo da Confindustria. Ma riguarderà soprattutto le grandi aziende, mentre resteranno fuori 3 milioni di aziende senza dipendenti, il 70% del totale. Nel disegno di legge di Stabilità c’è anche un miliardo di euro per azzerare i contributi sulle nuove assunzioni, quelle che saranno fatte con il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dal Jobs act .

Più tasse sui giochi
Non c’è solo l’aumento della tassazione sulle slot machine. Nel disegno di legge di Stabilità ci sono anche altre tasse, che però potrebbero scattare solo come clausola di salvaguardia, cioè come piano B per garantire la tenuta dei conti se qualcosa dovesse andare storto. Possibile un ritocco delle accise sulla benzina, ma anche un aumento dell’Iva e delle imposte indirette che porterebbe in dote 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 nel 2017 e 21,4 nel 2018. Salvo sorprese, viene rinviata ancora una volta la revisione delle agevolazioni fiscali, quella lista di 700 sconti che vengono recuperati nelle buste paga di luglio. Se ne dovrebbe occupare un comitato ad hoc.

Il tfr di Pantalone

Il tfr di Pantalone

Tito Boeri – La Repubblica

In queste ore il governo sta decidendo se varare l’operazione Trattamento di fine rapporto in busta paga. Nell’ambito di una legge di stabilità che si annuncia di basso profilo (solo 5 miliardi dalla spending review al posto dei 20 annunciati!), questo potrebbe essere l’unico provvedimento di un certo rilievo. Servirebbe per rilanciare i consumi rimpinguando gli 80 euro in busta paga. Il tutto con effetti contenuti sul disavanzo, destinato già ad aumentare fino a sfiorare il vincolo “invalicabile” del 3 per cento. Insomma, sembra la famosa quadratura del cerchio. Purtroppo non è così. Prima di spiegare perché e cosa si può fare in alternativa, bene chiarire quali sono le ipotesi allo studio, scusandoci in anticipo col lettore perché sono molto complicate.

Il Tfr lasciato in azienda è una fonte di finanziamento a basso costo per le imprese. Le aziende maggiormente coinvolte in questa operazione hanno meno di 50 dipendenti e sono quelle che hanno più problemi di accesso al credito. Per evitare di sottrarre loro liquidità, il governo intende chiedere alle banche di versare questi soldi ai lavoratori utilizzando a tal fine i fondi presi a prestito dalla Bce a tassi TL-TRO cioè uLTRavantaggiosi, diventando così creditrici delle imprese, al posto dei lavoratori. Si pensa inoltre di dare ai lavoratori la facoltà di scegliere se incassare questi soldi oppure lasciarli in azienda o presso il fondo istituito presso l’Inps per replicare i rendimenti del Tfr. Non avrebbero invece questa facoltà i lavoratori che hanno dirottato il trattamento di fine rapporto verso la previdenza integrativa.

Il Tfr esiste dal 1942 e non è certo la prima volta che un governo accarezza l’idea di cambiarne la destinazione d’uso per sostenere la domanda. Ma questa volta si fa sul serio e proprio a ridosso di una riforma che ha deciso che il Tfr doveva servire per alimentare la previdenza integrativa. Di più, i lavoratori che hanno messo i soldi in fondi pensione, seguendo i suggerimenti degli stessi partiti che oggi appoggiano Renzi, sono trattati peggio. Infatti non viene loro offerta la possibilità, concessa invece agli altri lavoratori, di attingere a questi accantonamenti, in caso di bisogno. Perché li si esclude? Apparentemente per non contraddire troppo la riforma del 2007. Ma ci si dimentica che questa scelta spingerà altri lavoratori a non alimentare col Tfr la previdenza integrativa. La liquidità è un bene prezioso, soprattutto di questi tempi. La prospettiva di investimenti molto liquidi rischia di dissuadere i giovani, destinati ad avere pensioni pubbliche molto più basse di chi si ritira oggi dalla vita attiva, dall’investire nella previdenza integrativa. In un Paese che ha smesso di crescere, la previdenza integrativa è ciò che può tutelare le pensioni future dei giovani. Negli ultimi 13 anni i fondi negoziali hanno offerto un rendimento cumulato nominale del 49% contro il 30% circa offerto dai contributi alle pensioni pubbliche; negli ultimi 3 anni, poi, il rendimento più basso offerto da un fondo pensione negoziale è stato del 4,5% (comparto garantito), mentre i contributi previdenziali sono stati virtualmente capitalizzati a meno dell’1 per cento.

Non pochi lavoratori che hanno sin qui optato per tenere il Tfr in azienda lo hanno fatto perché il trattamento di fine rapporto è un deterrente ai licenziamenti. Un’impresa che deve scegliere chi licenziare presumibilmente opterà per il lavoratore al quale non deve versare la liquidazione, soprattutto se le imprese faticano a finanziarsi. Coinvolgendo un terzo attore, le banche, che dovrebbero ereditare il debito dell’impresa verso il lavoratore, questo deterrente, che risponde alla logica delle compensazioni monetarie a chi perde il lavoro anziché della reintegra che il governo intende abolire, viene a cessare. Il tutto in virtù di un sostegno pubblico, non di un accordo fra una banca e un’impresa privata. Infatti il governo, per invogliare le banche a partecipare a questa operazione, dovrà offrire loro la garanzia che, in caso di fallimento dell’impresa, sarà Pantalone a farsi carico del debito contratto dall’azienda nei confronti dell’istituto di credito. È una garanzia che rischia di essere molto costosa perché saranno soprattutto i lavoratori di imprese che stanno per portare i libri in tribunale a optare per incassare subito il Tfr.

Per queste ed altre ragioni (ricapitolate su lavoce.info) non si vede perché mettere in piedi un’operazione intricata – che coinvolge banche, Bce e Cdp – per modificare nuovamente le norme sulla previdenza integrativa rendendole (credevamo non fosse possibile) ancora più complesse di prima. Il tutto con il rischio di apparire come un governo che non esita a rendere più facili i licenziamenti e ad approfittare delle documentate scarse capacità degli italiani di pianificare i loro risparmi, pur di incassare tasse più alte dal Tfr (il prelievo su rendimenti finanziari dei fondi pensione è dell’11,5% mentre il Tfr in busta paga verrebbe tassato mediamente al 23%). Se, come crediamo, il vero intento dell’esecutivo è quello di sostenere la domanda, bene che sia consapevole del fatto che i soldi dati in busta paga verranno spesi solo se percepiti non come un dono effimero, destinato a essere ripagato un domani con tasse più alte, ma come un aumento permanente del reddito disponibile. Con tutta la buona volontà, è difficile credere che un’architettura così bizantina come quella allo studio possa reggere nel tempo.

Se proprio si vogliono mettere più soldi in busta paga, meglio piuttosto ridurre i contributi dei lavoratori dipendenti all’Inps. Si può, ad esempio, abbassarli di cinque punti, portandoli ai livelli del lavoro parasubordinato. Servirà anche a riequilibrare il sistema previdenziale tra pubblico e privato. Non è un’operazione che aumenti il debito pubblico perché ormai tutti versano in un sistema contributivo in cui minori entrate oggi nelle casse dell’Inps saranno un domani compensate da spese più basse. La Commissione Europea, che ha più volte elogiato il nostro sistema contributivo lamentando semmai il fatto che sia entrato in vigore troppo tardi, potrà accettare un disavanzo oggi più alto che viene automaticamente coperto da minori disavanzi futuri. Tra l’altro, tagliando in modo equo le pensioni più alte per fiscalizzare i contributi dei lavoratori con salari più bassi, come già proposto su queste colonne, si otterrà il duplice effetto di contenere gli effetti temporanei sul deficit e salvaguardare le pensioni più basse. Il tutto in modo sostenibile, dunque credibile, e senza mettere di mezzo la Cassa Depositi e Prestiti.

Tfr, tutto e subito

Tfr, tutto e subito

Davide Giacalone – Libero

Cancellare il Tfr, restituendolo ai lavoratori, è una riforma seria e strutturale. Renderne volontario l’incasso minimale e rateale, mantenendone l’obbligatorietà dell’accumulazione, è una via di mezzo insipida, che somiglia a un trucco contabile. Evitiamo di fare come con le pensioni, cui mettono mano tutti quelli che passano, meglio cambiamenti stabili.

L’allarme da noi lanciato la scorsa settimana, avvertendo che se il Trattamento di fine rapporto smette di essere un risparmio forzoso e un reddito differito entra a far parte del reddito attuale, quindi dell’imponibile, e entrandovi porta sia all’aumento delle tasse da pagare che alla perdita del bonus 80 euro, fu accolto con fastidio, ma era così fondato che ora sento i governativi sperticarsi a dire: non sappiamo ancora come si farà, perché dobbiamo ancora discutere i dettagli (alla faccia dei dettagli!) tecnici, ma il Tfr in busta paga non porterà né più tasse né alla perdita del bonus. Bravi, ci siate arrivati: il pericolo esiste. Aggiungo: le soluzioni che avete in mente sono barocchismi impraticabili.

Per ottenere quel risultato, infatti, si dovrebbe avere una busta paga in cui alcune parti del reddito non solo non contribuiscono a comporre l’imponibile (ai fini delle aliquote), ma manco il reddito (ai fini del bonus). Per essere partiti volendo semplificare, direi che non s’ebbe la fortuna di chi buscò ponente per il levante. Leggo che l’aliquota sul Tfr incassabile sarà del 23%, ovvero la più bassa. Non voglio crederci, perché sarebbe disperazione fiscale. L’aliquota che si paga, oggi, è una media di quella subita negli ultimi cinque anni, quindi il 23% è la più bassa. Oggi calcolata su un montante maggiore, perché il Tfr non solo si accumula, ma si rivaluta (l’agevolazione fiscale riguarda la base imponibile, discorso diverso). Cederlo oggi al 23% significa aver la fregola d’incassare subito il meno, non avendo il tempo di aspettare domani il più. Disperazione, appunto.

Girate la frittata, che è meglio. Primo passo: si abolisce il Tfr. Fine della trasmissione: ciascuno si trova i propri guadagni in busta paga e ne fa quello che gli pare, risparmiandone una parte o sbafandosi il tutto. Viva la libertà. Secondo passo: smaltire lo stock di Tfr accumulato, che sono soldi dei lavoratori. Vero, ma utilizzati dal depositario come fossero debiti a lunga scadenza, tali, quindi, che se devono essere restituiti subito provocano il crollo delle casse che li contengono. Come si fa? Mettendo a fuoco i tre problemi che si creano: a. nel pagamento della previdenza integrativa; b. nelle casse dell’Inps; c. nelle casse delle aziende sotto i 50 dipendenti. Il primo problema (che, detto fra parentesi, dimostra quanto la volontarietà in accoppiata con l’obbligatorietà non funzioni, infatti a quella destinazione s’è rivolta una minoranza di lavoratori, a meno che non si facciano le riforme nella speranza che falliscano) si affronta con una norma transitoria che consenta di riversare il capitale, o parte di esso, alle stesse condizioni di rivalutazione (o migliori) nel fondo privato. Quelli sono contratti privati, quindi serve una norma d’accompagnamento. Terzo passo: i buchi nei bilanci, invece, si coprono con garanzia della Cassa depositi e prestiti. Dicono dal governo: dovranno essere le banche a dare i soldi e in tal senso faremo una convenzione. Convenzionino quel che credono, ma le banche non vogliono e non possono dare soldi in compensazione di cassa bruciata. Basta farsi spiegare Basilea. Ridicono: ma la Bce ha messo a disposizione i soldi. No, sono finalizzati agli investimenti, non alle partite di giro per i regali governativi. Senza contare che gli interessi di mercato, pagati alle banche, sono superiori a quelli assicurati dal Tfr (1,5% più il 75% dell’inflazione, che non c’è). Se la Cdp garantisce il buco, invece, ci guadagna, perché pagherebbe il denaro meno di quel che le aziende e l’Inps sono già predisposte a retribuirlo.

Sono pronto a scommettere che alla Cdp storcono la bocca, perché pensano di usare i denari per crescere in potere e partecipazioni azionarie. S’appassionarono al romanzo: “Piccole Iri crescono”. Ergo, se il governo ha la forza di farsi valere, in effetti può assestare un colpo con il Tfr, restituendo ai lavoratori la libertà di consumare o risparmiare; se non ha questa forza, però, la pianti di pasticciare, perché fa la fine del gatto con il gomitolo: ruzza che è una bellezza, finché non rimane prigioniero della matassa. Il tutto ripetendo che bruciare risparmio per consumi, e non per investimenti, è un modo per diventare poveri.

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

La scommessa (sul futuro) del trf in busta paga

Roberto Sommella – Europa

C’è una fiducia molto più importante di quella posta al senato dal governo per la riforma del lavoro: è la sicurezza del futuro che milioni di italiani chiedono dopo anni di crisi.I lavoratori sono davvero pronti a trasformarsi in cicale dopo essere passati alla storia come laboriose formiche, capaci di mettere da parte ancora oggi ben 8.000 miliardi di euro? Sta tutto nella soluzione di questo rebus il senso della mossa dell’esecutivo di Matteo Renzi di mettere in busta paga il Tfr. Una scelta che, previo assenso dei protagonisti, ha il sapore della scommessa.

Come sempre in questi casi, vanno calcolati i costi per le imprese e le famiglie e i benefici per l’economia italiana. Tenendo presente però almeno tre elementi che stanno trasformando la nostra società: l’abbattimento della propensione ai consumi, il calo del Pil che comporta minori pensioni future e di conseguenza maggiori tutele integrative, e il costante aumento dei depositi. Proprio quest’ultimo punto, fotografato di recente, è quello che maggiormente sorprende: il cavallo non solo non beve ma sembra diventato un cammello. Nonostante i tentativi della Bce (che si è detta favorevole all’operazione Tfr in busta paga) i 23 miliardi di euro andati alle banche italiane dall’ultima iniezione di liquidità di Francoforte non si stanno tramutando in maggiori prestiti. Tutt’altro. I nostri concittadini, evidentemente chi può, tengono a mantenersi molto liquidi, in banca o addirittura a casa.

Prova ne è che dal 2007 ad oggi l’ammontare complessivo dei depositi bancari e dei contanti sia aumentato del 9,2% per un totale di 234 miliardi di euro. Una montagna, se paragonata alle cifre che potrebbero essere mobilitate dallo sblocco parziale del Trattamento di fine rapporto, che quest’anno ammonterà in 26,9 miliardi di euro (9,8 parcheggiati presso le imprese, 11,8 nelle casse dell’Inps a titolo pubblico e privato, 5,3 confluiti verso i fondi pensione). Il governo – sempre se le piccole e medie imprese saranno d’accordo, visto che sono quelle che avrebbero più da rimetterci perdendo il capitale costituito dal salario differito dei propri dipendenti – spera in un effetto benefico di circa 100 euro medi in busta paga al mese. E se così non fosse? Qui si tratta della vita delle persone, non solo di utilizzare un bonus come gli 80 euro. Hanno più paura del presente o del futuro? Alcuni dati vanno analizzati con grande attenzione.

A fronte di una crescente incertezza, la tentazione di preferire i risparmi ai consumi è sempre più alta. Per il 2014 il coefficiente di rivalutazione del Tfr si è attestato da gennaio ad agosto all’1,28% per cui sarà poco sopra l’1,5% a dicembre, a causa della deflazione. Con questo rendimento deve quindi confrontarsi chi vuole usare il Tfr per fare un altro tipo d’investimento. C’è qualcosa che può rendere di più, rinunciando alla pensione integrativa o alla liquidazione finale? Dall’inizio del 2001, ha calcolato Milano Finanza, da quando i comparti di previdenza complementare hanno cominciato a prendere piede in Italia, alla fine del 2013 i fondi negoziali hanno offerto un rendimento medio netto del 45%, superando la rivalutazione netta del Tfr mantenuto in azienda, che nello stesso arco temporale è stata pari al 41,1%. Ma nonostante questo le adesioni non sono mai decollate e oggi solo un quarto degli occupati è iscritto a un fondo pensione. Gli aderenti sono pochi, soprattutto tra i giovani e le donne, proprio quelli più bisognosi di un’integrazione e più colpiti da disoccupazione e precarietà. Di una copertura privata ci sarà sempre più bisogno, visto che quella pubblica è destinata a restringersi. E il perché è presto detto.

L’attuale sistema pensionistico si poggia su previsioni statistiche che calcolano l’assegno previdenziale in base anche al coefficiente di rivalutazione del Pil. Se quest’ultimo arranca o addirittura cala, come in questi anni, si avrà una rendita minore. Qualche esempio: lavoratori trentenni, dipendenti ed autonomi, che lasceranno l’attività a 68 anni e 9 mesi, avranno una pensione pari, rispettivamente al 64% e al 46% dell’ultimo stipendio se il Pil crescerà dell’1,5%; percentuale che si ridurrà bruscamente al 53% e al 38% dell’ultima busta paga se il Pil si fermerà al +0,5% (più o meno quanto viene stimato nel 2015). Non solo. Con più soldi in busta scenderanno, per chi li ha, anche le pensioni di scorta fino al 20% in meno se l’operazione durerà tre anni, perché i contributi cesseranno.

La fotografia dell’Italia di oggi è questa: meno crescita, meno consumi, meno pensioni future. La risposta, con un mese di stipendio in più a disposizione, sarà più spese famigliari o più previdenza integrativa? È una scelta, anche patriottica, quella che gli italiani si troverebbero a dover fare se andrà in porto, con tutte le precauzioni e le garanzie bancarie per le Pmi, il progetto Tfr: destinare al proprio benessere e quindi all’Italia una quota del salario, facendo ripartire l’economia, oppure richiudersi ancora di più nel formicaio in attesa di tempi migliori. Questi calcoli, che sembrano complicati, gli italiani sanno farli molto bene. Il governo ha avuto coraggio, bisogna vedere se l’avranno anche i governati.

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Si fa presto a dire “Tfr in busta”

Massimo Calvi – Avvenire

L’anticipo della liquidazione in busta paga, secondo l’ipotesi più generosa allo studio del governo, dovrebbe portare nelle tasche dei lavoratori 100 euro netti in più al mese, se la media sono i redditi da 23mila euro lordi. Una retribuzione più “ricca”, tuttavia, può produrre un effetto poco simpatico per le famiglie con figli, come ha messo in evidenza un dossier di “Repubblica”: il rischio è perdere una parte di detrazioni e poi finire anche in una fascia Isee più alta, e dover dunque pagare rette più care per asili nido, mense scolastiche o tasse universitarie, fino a vanificare il beneficio dell’aumento, quando non a renderlo sconsigliabile.

Non è un problema del Tfr, è una questione antica che si ripropone. In sostanza il combinato tra un fisco modellato sul reddito individuale, che non valuta adeguatamente i carichi familiari, e la struttura delle tariffe dei servizi per i minori legate ai redditi, finisce per generare situazioni paradossali. È come se il sistema “spingesse” i cittadini ad accontentarsi di uno stipendio contenuto, ad avere pochi figli e a non darsi molto da fare per migliorare la propria condizione di lavoro: tanto poi scattano gli aumenti di tasse e tariffe. Un’incoerenza che dovrebbe spingere chi si interroga sulle ragioni della mancata crescita dell’Italia a concentrarsi anche sulle responsabilità del sistema fiscale.

Il vero punto critico resta in ogni caso il deficit strutturale di attenzione alle famiglie, in particolare a quelle numerose, e ai bambini in generale. A tutti i livelli. Il peso delle rette di nidi e mense, con i rincari diffusi, rappresenta oggi una delle voci più importanti nei bilanci delle famiglie. Oltretutto, l’uso improprio dell’indicatore Isee non per agevolare le fasce deboli, ma per “tassare” quelle medie, finisce per penalizzare chi paga già le tasse e contribuisce in modo progressivo al finanziamento dei servizi pubblici. L’anticipo del Tfr nelle buste paga dei lavoratori può forse servire a rilanciare i consumi. Ma è difficile che questo si verifichi – l’esperienza del bonus da 80 euro insegna – in assenza di altri interventi, considerato che ogni misura che non tiene conto dei carichi familiari finisce per configurarsi come una palese ingiustizia.

Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Tfr, nessuno ha detto quale sarebbe l’aliquota Irpef da applicare

Giuseppe Marini – Il Tempo

La ricetta data da più parti per tentare di risanare la nostra economia è stata, come è noto, quella di un alleggerimento della pressione fiscale sulle imprese finalizzata ad agevolare nuove assunzioni e, soprattutto, nuovi investimenti. Il Governo, fedele al principio che i consigli gratuiti non devono essere seguiti, nel mezzo di un acceso (e in buona parte inutile) dibattito sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori tira fuori dal cilindro l’ennesima trovata che è quella di mettere in busta paga tutto o parte del Tfr. E ciò, sembra di capire, per rafforzare il potere di acquisto immediato dei lavoratori.

Come sempre accade, non si dice come ed in quali tempi tale “sconvolgente” innovazione possa essere attuata. Ad esempio, non è stato chiarito quale sarebbe l’aliquota d’imposta che dovrebbe scontare il Tfr pagato in busta paga. Al riguardo, occorre ricordare che la tassazione agevolata del Tfr risponde all’esigenza di evitare che il relativo importo, venendo incassato una tantum pur derivando da un processo produttivo pluriennale, determini un prelievo fiscale ingiustamente gravoso per l’effetto dell’aumento progressivo delle aliquote Irpef. Ma se il Tfr viene incassato in tante soluzioni spalmate nel tempo, tale effetto distorsivo non si realizza in capo al contribuente e sarebbe ragionevole una tassazione ordinaria per chi, liberamente, scegliesse di ricevere il Tfr in busta paga. Inoltre, non si dice come la misura in parola possa essere attuata senza incidere (e in modo devastante) sulla liquidità delle piccole e medie imprese e senza dover fare l’ennesimo “regalo” al Fisco. È vero che le imprese dovrebbero accantonare il Tfr dovuto ai dipendenti e che, pertanto, nessuna incidenza sulla loro liquidità dovrebbe avere il “passaggio” del Tfr nella busta paga dei loro dipendenti.

Ma quanto precede vale solo in teoria ed è invece meno vero o niente affatto vero per quelle imprese, e sono ormai un numero fuori controllo, che proprio per la mancanza di liquidità economica seguono la triste via del fallimento. E la mancanza di liquidità dovrebbe essere, tra l’altro, ben conosciuta dallo Stato essendo in notevole misura imputabile allo Stato che non paga i suoi debiti. È comprensibile, pertanto, come la proposta del Tfr in busta paga abbia raggiunto l’invidiabile risultato di mettere d’accordo Sindacati del lavoratori e Confindustria e contribuire in tal modo alla realizzazione della pace sociale tra lavoratori e imprese. Anche se, una pace siffatta riflette soltanto, come si è tentato di dimostrare, l’inadeguatezza e il carattere improvvisato di certe proposte riformatrici.