carlo cottarelli

Deregulation, strada obbligata

Deregulation, strada obbligata

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore

La norma sulla deregulation inserita ieri a sorpresa nel decreto competitività può ridare fiato a un tema altalenante della politica italiana, eppure decisivo per riprendere la strada della crescita: le liberalizzazioni. Non bastano, ovviamente, singole norme, per quanto promettenti, come quella approvata ieri al Senato, per produrre effetti concreti sull’economia. Occorre invece una politica costante e determinata che si esplichi, da subito e nel tempo, su entrambi i fronti delle liberalizzazioni: la cancellazione brutale di norme e barriere che permettono oggi alla burocrazia di frenare ogni attività economica; la rottura dei monopoli di società pubbliche che, soprattutto in ambito locale, alimentano sprechi e inefficienze, impediscono lo sviluppo di una imprenditorialità competitiva, mantengono i servizi al pubblico e alle imprese a un livello di mediocre qualità.
La realtà non corrisponde, finora, a questi auspici: sul primo versante, quello delle semplificazioni, si è andati avanti, da anni, sempre con una politica dei piccoli passi che ha allontanato, anziché avvicinare, il “dividendo” di liberazione dalla burocrazia cui avrebbero diritto imprese e cittadini.
Anche i sondaggi recentemente fatti dal dipartimento della Funzione pubblica dicono che su fisco ed edilizia la presenza dello Stato resta soffocante e fortemente dannosa per lo sviluppo. Qui un doppio banco di prova il governo ce l’ha: la delega fiscale, ammesso che si superino le timidezze dimostrate finora, e il decreto “sblocca-Italia” di fine mese. Ma servono spallate, non piccoli passi e altre promesse.

E spallate servono anche sul fronte delle società pubbliche. Ci sta lavorando il commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e il suo obiettivo – quando parla di riduzione del 90% delle 10mila aziende municipalizzate – è corretto. Incentivi? Gare per aprire quei mercati dominati dall’in house? Chiusure tout court di aziende decotte? Il mix delle soluzioni può essere ampio e tutte le strade vanno percorse. Certamente, però, queste misure devono uscire dalla sfera degli studi e delle proposte tecniche e diventare atti concreti della politica.
P.S.: Non mancano, ancora una volta, le contraddizioni nel passaggio parlamentare del decreto competitività che oggi dovrebbe avere l’approvazione del Senato. Nello stesso testo che riapre il capitolo deregulation è entrato un emendamento, proposto dai relatori e avallato dal Governo, con cui venivano sottratti 410 milioni al fondo per i pagamenti dei debiti della Pa con le imprese. Una norma francamente incomprensibile, a due giorni dalla firma del protocollo tra ministero dell’Economia e imprese scritto per garantire il pagamento di tutti gli arretrati entro il 21 settembre, come ha ribadito ieri anche il premier.

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Municipalizzate, obiettivo privatizzazione

Luca Cifoni – Il Messaggero

Tagliare, razionalizzare, fondere. Ed alla fine anche privatizzare, portando le aziende fuori dal controllo pubblico. È questa la direttrice di marcia del governo per il dossier società partecipate: categoria omnicomprensiva che comprende anche le utilities, quelle che si occupano cioè dei servizi pubblici locali come acqua, elettricità, rifiuti. Il cantiere è aperto ed è anche piuttosto ampio, visto che sono vari i provvedimenti annunciati sul tema: le prime indicazioni concrete dovrebbero arrivare entro questo mese con le proposte elaborate da Carlo Cottarelli, commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, sul capitolo specifico delle partecipazioni di Regioni e Comuni. Lo sbocco sarebbe poi la legge di stabilità.

L’argomento è stato inserito anche nella versione finale del disegno di legge di riforma della pubblica amministrazione, approvato dal Consiglio dei ministri di venerdì 11 e tuttora atteso in Parlamento. Per la precisione si tratta di due articoli, nell’ambito del processo di semplificazione normativa, dedicati rispettivamente alle partecipazioni azionarie delle amministrazioni pubbliche e ai servizi pubblici locali. Sono in entrambi i casi deleghe, per cui al momento vengono fissate le linee guida di provvedimenti che poi dovranno essere specificati nel dettaglio dallo stesso governo.

I criteri indicati per quel che riguarda le società partecipate sono in linea con quelli a cui – seppur in forma discorsiva – ha già accennato lo stesso Cottarelli nei suoi interventi pubblici: distinzione delle società in base all’attività svolta; possibile reinternalizzazione di quelle che si occupano di servizi strumentali o di funzioni amministrative; definizione di strumenti che evitino effetti distorsivi sulla concorrenza nel caso di attività di interesse economico generale; introduzione di obiettivi di efficienze e di economicità; utlizzo per acquisti e personale delle stesse modalità operative (e quindi dei vincoli) delle amministrazioni pubbliche; eliminazione di sovrapposte.

I particolare per i servizi pubblici locali si punta a definire «ambiti territoriali ottimali», a rafforzare la trasparenza delle procedure di affidamento e a disciplinare i regimi di proprietà e di gestione delle reti. Dunque per una parte consistente delle attuali società (sono circa 10mila solo quelle degli enti territoriali) il destino è la chiusura o il ritorno all’interno della pubblica amministrazione propriamente detta. Proprio Cottarelli ha recentemente ricordato che secondo i dati Cerved ne esistono 2.671 in cui il numero degli amministratori supera quello dei dipendenti: veri e propri poltronifici insomma. Altre aziende saranno accorpate con un programma di fusioni su base territoriale. Ma per le aziende che rimarranno ed in particolare per quelle che erogano servizi pubblici il governo pensa anche ad una soluzione più estrema: la cessione del controllo ai privati. Questa possibilità è menzionata in un recentissimo documento in inglese del ministero dell’Economia: le utilities vengono inserite nel programma di privatizzazioni accanto a Poste, Eni, Enel e Ferrovie ed alle altre società pubbliche; per loro si parla di «apertura del controllo ai privati». Privati che attualmente sono presenti ma come soci di minoranza rispetto agli enti locali.

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Si impenna la spesa pubblica: in un anno 25 miliardi in più

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

Monti, Letta e Renzi ha fatto flop. La spending review è stato un completo fallimento. È quanto certifica il centro studi di Unimpresa analizzando i dati della Banca d’Italia sul fabbisogno dello Stato nei primi cinque mesi del 2014. Se, infatti, ci si limita ai dati del Tesoro, si nota solamente il miglioramento dello sbilancio dei conti negli ultimi 12 mesi (il saldo era migliorato di 8 miliardi a maggio, valore ridottosi a un miliardo a giugno). Se, invece, si analizzano i dati di Bankitalia si nota un andamento alquanto preoccupante delle finanze pubbliche. Soprattutto perché Palazzo Koch analizza le voci “spesa corrente” senza tenere conto delle uscite degli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni) né di quelle per gli interessi sul debito pubblico. La spesa dello Stato nel periodo gennaio-maggio 2014 si è pertanto attesta a 206,7 miliardi di euro, circa 25 miliardi in più (+13,6%) rispetto ai 181,9 miliardi dell’analogo periodo dell’anno scorso. A fronte di questo incremento delle uscite non ha fatto seguito un coerente incremento delle entrate, aumentate dello 0,1% a 157,8 miliardi.

Premesso che tra le rilevazioni di Bankitalia e quelle del Tesoro vi sono sempre delle discrepanze legate sia al ritardo fisiologico nel disporre di alcuni dati sia alle differenti metodologie utilizzate, non si può non restare sorpresi dall’andamento fuori controllo della spesa statale. Nel 2014, infatti, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione non sembra aver fatto particolari passi in avanti. Il monitoraggio di via XX Settembre si è fermato alla fine dello scorso marzo, quindi è difficile pensare che i 22 miliardi stanziati per il 2014 siano stati già erogati (maggiori prelievi dai conti di tesoreria sono stati effettuati a giugno e, quindi, non computati in questa analisi). Analogamente, il bonus da 80 euro il cui costo è di circa 900 milioni al mese è partito alla fine di maggio, quindi la sua incidenza è minima. Tenuto conto che gli sgravi fiscali previsti dalla legge di Stabilità si iscrivono come minori entrate, ne consegue che quei 25 miliardi in più sono per la maggior parte spesa corrente.

Tra il 2012 e il 2013, prosegue Unimpresa, era già stata registrata una analoga situazione. L’anno scorso le uscite complessive dalle casse dello Stato sono state pari a 548,6 miliardi di euro, ben 38,5 miliardi in più (+7,56%) rispetto ai 510,09 miliardi totali del 2012. Nel 2013 le entrate tributarie sono state pari a 464,8 miliardi, in salita di 11,8 miliardi (+2,64%) rispetto ai 452,9 miliardi dell’anno precedente. L’aumento delle tasse, come si vede, non ha prodotto gli effetti sperati perché, con un’economia in contrazione, l’aumento della pressione fiscale non produce maggior gettito. Al contrario, lo Stato ha continuato a spendere e spandere.

Lecito, perciò, domandarsi che fine abbia fatto la spending review. Premesso che il lavoro di Carlo Cottarelli, iniziato a ottobre, sta giungendo solo ora a maturazione (primo step: sfoltire la giungle delle municipalizzate che costa 26 miliardi), c’è da registrare l’inefficacia dei governi Monti e Letta e la scarsa attenzione da parte del loro successore Matteo Renzi. Il presidente di Unimpresa Dario Longobardi però si scaglia contro Mister spending: «Il suo mandato è un bluff perché non ha portato a nessun risultato, mentre la politica del rigore è insufficiente: occorre abbassare la pressione fiscale sulle Pmi».

Un premio ai comuni “virtuosi”

Un premio ai comuni “virtuosi”

Marco Rogari – Il Sole 24 Ore

C’è un filo rosso che unisce il “vecchio” federalismo fiscale con la “nuova ” spending review. È quello dei fabbisogni standard degli enti locali. Pensati nel 2009 per mandare in soffitta la spesa storica i nuovi indicatori sulle uscite di Comuni e Province si materializzano sotto forma di banca dati unica e accessibile da subito per le amministrazioni pubbliche e, da ottobre, per tutti i cittadini. Con una precisa mission: identificare in tempo reale le aree di spreco nelle uscite locali. E con un doppio ambizioso obiettivo: riformare a partire dal 2015 il sistema di perequazione portando dal 10% attuale (rimasto però sulla carta) al 40% la quota del fondo di solidarietà ripartito sulla base dei fabbisogni standard e delle capacità fiscali dei diversi territori; superare nel giro di due-tre anni il patto di stabilità interno dopo un anno di sperimentazione nel 2015 mantenendo fermo il pareggio di bilancio obbligatorio dal 2016. Un’operazione che dovrebbe essere avviata con la prossima legge di stabilità. E che, come evidenzia il sottosegretario alla presidenza, Graziano Delrio, dovrebbe anche consentire di abbandonare l’antica prassi dei tagli lineari.

Il punto di partenza è rappresentato dalla nuova banca dati OpenCivitas presentata al ministero dell’Economia, che è stata elaborata dalla società Sose in collaborazione con il dipartimento delle Finanze, guidato da Fabrizia Lapecorella. Banca dati che contiene le spese relative al 2010 dei Comuni delle Regioni a statuto ordinario e che viene proposta dal Mef come uno strumento tecnico a disposizione delle amministrazioni comunali e provinciali per confrontare le performance di tutti gli enti locali e gli scostamenti rispetto ai fabbisogni standard. Ma il presidente dell’Anci, Piero Fassino, fa subito notare che i dati non sono freschissimi e non tengono conto della stretta patita dai Comuni per le manovre dell’ultimo triennio.
Dalla fotografia, seppure un po’ datata, di OpenCivitas emergono dati inaspettati anche per la mancata comparazione del diversi impegno di risorse da parte dei Comuni per i singoli servizi (dall’istruzione al trasporto pubblico locale). Andrebbe ad esempio a Perugia la “palma” del Comune con il più ampio scostamento negativo nel 2010 tra i fabbisogni standard per abitante e la spesa storica (-31%), seguita da Brindisi (-29%), Taranto e Potenza. Il Comune più virtuoso sarebbe Lamezia Terme (+41%) mentre tra i capoluoghi di Provincia è Torino a guidare la classifica degli scostamenti positivi (7%) preceduta da Campobasso (+15%) ma seguita da Milano (+1%). Segno negativo per Roma (-7%), Firenze (-10%), Bologna (-5%) e Napoli (-4%).
A far capire che il Governo intende accelerare il più possibile sui fabbisogni standard, attivando entro l’autunno l’ingranaggio ancora mancante del meccanismo, ovvero quello della capacità fiscale standard, è il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta: «L’operazione che abbiamo in mente è quella di superare il patto di stabilità interno». Con l’entrata in vigore del pareggio di bilancio obbligatorio per tutti gli enti «dobbiamo studiare sanzioni per chi non lo rispetta ma – aggiunge Baretta – mantenere anche il patto di stabilità interno sarebbe una cappa inutile». Per Delrio con la banca dati parte «un’operazione di grande trasparenza che concretizza un pezzo importante di federalismo amministrativo». Il commissario alla spending, Carlo Cottarelli, definisce OpenCivitas «un esempio di best practice che molti Paesi ci invidieranno» e sottolinea che i fabbisogni standard «servono per un’operazione di efficientamento della spesa». Cottarelli conferma gli obiettivi minimi di risparmio delle sue proposte (5-800 milioni nel 2015 e 2 miliardi nel 2016) ma aggiunge che i dati possono essere aggiornati sulla base di nuove informazioni. Per Fassino il calcolo dei fabbisogni standard «è un esercizio prezioso, ma solo uno strumento tecnico che deve fare i conti necessariamente con la volontà politica».

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Benvenuti al festival della spesa pubblica

Marco Cobianchi – Panorama

Secondo gli esperti un eccesso di informazioni può provocare ipertensione, vertigini, ansia, inappetenza. Le stesse sindromi dalle quali è affetto Carlo Cottarelli, commissario straordinario alla spending review, l’uomo chiamato a contribuire con un taglio alla spesa di almeno 14 miliardi di euro nella prossima imminente stesura della legge di stabilità 2015. Ebbene Cottarelli, si diceva, passa diverse ore al giorno sul sito del Siope, un software inventato e gestito dalla Banca d’Italia che raccoglie tutte le spese di tutti gli enti pubblici giorno per giorno. Bum! Il sogno di ogni italiano si è avverato: controllare quotidianamente come le amministrazioni pubbliche spendono i soldi delle sue tasse. L’ipertensione è garantita, ma la soddisfazione raggiunge il climax. Basta cliccare a caso e il web scodella tutte le uscite di quel giorno. Proviamo.

Il 12 marzo 2014 il premier annuncia la vendita su eBay delle auto blu, peraltro un flop con poco più di 20 vetture passate ai privati. Il giorno dopo lo Stato ha speso 5.170 euro in carburanti saliti a 6.200 il giorno dopo. Poco? A marzo in benzina se ne sono andati 4,2 milioni di euro. Sempre il 14 marzo lavanderia e pulizia sono costati 536mila euro, le armi leggere 65mila euro, i mobili per ufficio 180mila, la cancelleria 163mila e (tenersi forte) il vestiario addirittura 12,2 milioni.

Continuiamo, anche se l’ipertensione sale. Uno dei pezzi forti della spesa pubblica sono le consulenze. Secondo la Uil i professionisti dei quali si avvale lo Stato sono 545mila. Lo ha detto il 16 dicembre 2013 e, proprio quel giorno, se ne vanno 9.700 euro in consulenze giuridiche, 125mila per consulenze tecnico-scientifiche, 1,1 milioni in consulenze informatiche e 767mila in «altre consulenze». Il giorno dopo per consulenze giuridiche sono stati pagati 130mila euro, 228mila per quelle tecniche, 4 milioni per quelle informatiche e 1,1 milioni per «altre consulenze». Sempre quel 16 marzo 2013 Matteo Renzi dà del «buffone» a Beppe Grillo perché il leader del Movimento 5 Stelle non vuole votare le riforme istituzionali e intanto dalle casse dello Stato escono 9,2 miliardi tra cui: 40,8 milioni per aerei da guerra, 22 milioni per navi da guerra, 1,6 milioni per mezzi terrestri da guerra, 562mila per armi pesanti e 877mila per armi leggere. Sembrerebbe che l’Italia si stesse preparando a un’invasione e invece tutti i giorni lo Stato spende queste cifre in armi. Per esempio: il 2 maggio 2013, mentre Berlusconi e Renzi litigano sull’Imu, lo Stato paga 5,1 milioni per la manutenzione delle caserme oltre a 3 milioni per contenziosi verso i fornitori e perfino 103 euro per «Iscrizione ordine professionale», che dovrebbe pagare chi si iscrive, non lo Stato.

Ma il bello deve ancora venire. Vogliamo parlare dei sussidi alle imprese? Il 16 agosto 2013 debutta il redditometro che permette di incrociare le spese di ogni italiano e scovare gli evasori, ed esattamente quel giorno lo Stato versa alle imprese 5 milioni in sussidi, altri 2,4 due giorni dopo, 1,8 arrivano il 22 agosto e così via per tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni. Il totale è impressionante: nel 2013 i sussidi andati alle imprese sono stati 15,7 miliardi, e per fortuna che non c’erano i 25 milioni versati l’anno prima alla società Grandi stazioni che è controllata al 60 per cento dalle Fs ma il 40 è di soci privati (Benetton, Pirelli e Caltagirone).

Basta aggirarsi per qualche minuto per scoprire spese incredibili. Il 23 agosto l’allora ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni avverte che non ci sono i soldi per abolire l’Imu e proprio quel giorno lo Stato non solo spende 1 milione per i fabbricati militari ma soprattutto 128mila euro per «animali» che ci sono costati più di 1 milione in tutto il 2013 e sempre l’anno scorso un altro milione se n’è andato in «strumenti musicali»; 104 milioni in «vestiario»; 1,6 in assistenza «psicologica, sociale e religiosa»; 197 milioni in affitti; 51 milioni in bollette dei cellulari; 409 in pulizia e lavanderia; 127 milioni in traslochi e, soprattutto, 418 milioni sono serviti a pagare i premi del gioco del Lotto. Poi ci sono le bollette: uno si aspetta che la più alta sia quella per la fornitura di elettricità e invece è quella per l’acqua: 3,4 miliardi di euro nel 2013.

Tagli? Quali tagli? Risparmi? Quali risparmi? Stando al Siope, il Quirinale è costato esattamente la stessa cifra – 228,2 milioni l’anno – dal 2009 al 2013. E tale rimarrà fino al 2016 perché il presidente Napolitano ha rifiutato un adeguamento all’inflazione da 10 milioni di euro. Come dire, un risparmio percepito.

Meglio scendere dal Colle. Il 14 aprile di quest’anno il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio annuncia che quando sarà il momento di nominare i dirigenti delle aziende pubbliche il governo punterà alla parità tra uomini e donne e, proprio quel giorno, lo Stato stacca un assegno da 422mila euro per affitti di immobili. L’8 aprile Matteo Renzi presenta il Def (che prevede una crescita dello 0,8 per cento nel 2014: pura fiction) e quel giorno lo Stato paga 347mila euro in benzina, trasferisce 33 milioni alla presidenza del Consiglio (cioè a Renzi stesso) e compra 3,6 milioni in francobolli. Il 17 febbraio del 2012 l’Istat rivela che in 9 mesi si sono persi 90mila posti di lavoro e quel giorno lo Stato spende 44mila euro in «accessori per uffici». Il primo giugno 2012 il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, dice che in Italia le tasse sono troppo alte e mente lo dice lo Stato versa 316 milioni alle imprese pubbliche. Il 29 marzo del 2013 si scopre che le fatture non pagate dallo Stato alle imprese private valgono 90 miliardi e intanto 2,5 milioni se ne vanno in traslochi dei dipendenti statali, 900mila in affitti e 27 milioni alle «unioni di Comuni».

Ma più dei carri armati, del vestiario e delle bollette, ciò che pesa sul bilancio pubblico è l’Europa, i cui versamenti seguono un crescendo rossiniano: 15,4 miliardi nel 2008, 15,8 nel 2009, 15,5 miliardi nel 2010, 16,7 miliardi nel 2011, 16,4 miliardi nel 2012 e (record) 17,6 miliardi nel 2013. Per avere un’idea di cosa si sta parlando basta dire che sempre nel 2013 i trasferimenti alle famiglie sono stati appena 2,5 miliardi. E il 2012? Anno da incorniciare: oltre alle spese (diciamo) normali, abbiamo pagato 5,7 miliardi per garantire la «stabilità finanziaria dell’area euro» e 1,1 miliardi per salvare la Grecia ma abbiamo anche speso 93 milioni a favore dei «soggetti danneggiati da complicanze dovute a vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni» e 66 milioni per lo smantellamento di sommergibili nucleari, mentre per altri 82 milioni «non si dispone di sufficienti informazioni». Tradotto: nessuno sa dove siano finiti.

Poi ci sono le spese dei Comuni e qui c’è da perdersi, anzi, da svenire, soprattutto se si pensa che nell’era di Internet il Comune che si autopromuove il più moderno d’Italia, Milano, è riuscito in sei anni a raddoppiare le spese postali, passate da 14 milioni nel 2008 a 31 nel 2013. Certo, le spese per convegni sono passate da 22,2 a 3 milioni ma la spesa pro capite per i consumi intermedi (quelli che servono a far funzionare la macchina pubblica) sono, a Milano, non solo più alti della media delle grandi città italiane, 1.300 euro rispetto a 955, ma anche di Roma (1.089), Napoli (1.088) e Palermo (587). Poi c’è il capitolo tasse. Chi vive nei grandi Comuni paga mediamente 750 euro ma i milanesi versano 785 euro, i torinesi 766, i romani 729, i catanesi 655 e i fiorentini 847. A proposito: tra il 2009 e il 2013 Firenze è stata una delle pochissime città che ha aumentato il proprio budget, passato da 746 a 840 milioni. Il premier che ora vorrebbe tagliare la spesa pubblica è quello che a Firenze ha aumentato le spese correnti da 485 a 593 milioni riuscendo anche nell’impresa di triplicare le uscite per liti giudiziarie, che sono passate 493mila del 2009 a 1,4 milioni nel 2013 mente le sentenze avverse al Comune sono costate 866mila euro dagli 8.600 del 2009: sono centuplicate. Nel 2013 Renzi ha anche speso 3mila euro per animali, 165mila euro per vestiario e oltre 4 milioni in francobolli (oltre 5,5 milioni di lettere ai 350mila fiorentini?). Stando alle fatture pagate, i dipendenti pubblici di Bologna sono i più eleganti d’Italia: 430mila euro, anche se il budget è calato da 641 a 590 milioni. Un bilancio ridicolo di fronte a uscite per l’incredibile cifra di 6,3 miliardi di Roma, che nel 2013 ha speso 98 milioni in consulenze; 11 milioni in convegni, 56 milioni di francobolli (erano 11 nel 2012) e 115 milioni in affitti (107 nel 2012).

Probabilmente Cottarelli sarà iperteso, ansioso e inappetente e soffrirà di vertigini. Perché si è reso che per tagliare la spesa pubblica non bastano le forbici. Ci vuole una motosega.

I documenti svaniti sui costi della politica

I documenti svaniti sui costi della politica

Riccardo Puglisi – Corriere della Sera

Dove sono finiti i 25 documenti Pdf che contengono le relazioni finali dei gruppi di lavoro della spending review di Cottarelli? Questi file sono stati consegnati all’inizio di marzo, ma sembra che siano rimasti chiusi in qualche (virtuale) cassetto. Esperienza personale: io stesso ho fatto parte di uno dei gruppi di lavoro – quello dedicato all’analisi dei costi della politica – e ricordo la data d consegna. Eppure posso leggere il documento solo andando a ripescarlo dal mio computer. Né io, né nessun altro, può leggerlo nel sito internet dedicato alla revisione della spesa.

Facciamo un passo indietro. Ho il sospetto che la famosa frase di Margaret Thatcher, premier britannico dal ’79 al ’90 – «Non esiste il denaro pubblico, esiste solo il denaro dei contribuenti» – trovi sempre più consensi in Italia, a motivo dell’asfissiante livello di pressione fiscale raggiunto. Il denaro dei contribuenti finanzia nel nostro Paese una spesa pubblica che sembra difficile da domare, specialmente nella sua parte corrente, cioè al netto degli investimenti. Con un anglicismo forse superfluo, il processo di revisione della spesa pubblica è noto dalle nostre parti come spending review. Esso viene delegato a commissioni tecniche, le quali devono identificare i capitoli di spesa meno giustificabili dal punto di vista sociale, e le sacche di inefficienza che non hanno alcuna giustificazione. Lo scopo finale è naturalmente quello di creare gli spazi per una riduzione consistente della pressione fiscale di cui sopra.

L’ultima esperienza di revisione della spesa è quella guidata da Carlo Cottarelli, su incarico del governo Letta. Sul sito revisionedellaspesa.gov.it esiste una sezione apposita chiamata Revisione aperta, all’interno della quale «[…] verranno inseriti progressivamente tutti i dati e le informazioni disponibili sulla spesa e sui dati raggiunti dall’attività di Revisione della spesa». Il dato di fatto è che i 25 gruppi di lavoro costituiti da Cottarelli hanno consegnato le proprie relazioni finali nel mese di marzo, ma la sezione è e resta desolatamente vuota. Il governo Renzi ha dichiarato di avere recepito molti dei suggerimenti forniti dai gruppi di Cottarelli, ma al momento non è possibile sapere con esattezza che cosa non è stato recepito.

Su questo tema, come accennavo, posso aggiungere qualche dettaglio proveniente dalla mia esperienza personale. Insieme ad altri economisti ho fatto parte del gruppo di lavoro – presieduto da Massimo Bordignon dell’Università Cattolica – a cui Cottarelli aveva affidato il compito di analizzare i cosiddetti costi della politica, sia a livello statale che a livello locale. I numeri sono importanti: ai primi di marzo abbiamo consegnato un file Pdf di 106 pagine, il quale riassume i risultati della nostra analisi. Con uno spericolato esercizio di estrapolazione posso immaginare che gli altri 24 gruppi di lavoro abbiano prodotto documenti simili al nostro. La domanda sorge spontanea: come mai questi documenti non sono liberamente consultabili all’interno della suddetta sezione del sito apposito?

Intendiamoci: sono ben lungi dal pensare che il governo debba passivamente recepire tutti i suggerimenti provenienti dai gruppi di lavoro della spending review. Evidentemente governo e parlamento hanno l’ultima parola sui tagli da farsi. La questione è un’altra, ed è di carattere procedurale: ritengo che i cittadini-contribuenti abbiano il diritto di sapere quali suggerimenti siano contenuti nei documenti della spending review, in modo tale da poter verificare che cosa è stato recepito dal governo, e che cosa non lo è stato. Il governo potrebbe anche spiegare le ragioni politiche o tecniche per cui ha deciso di non recepire questo suggerimento o quell’altro.

Nel novembre 2012 – durante la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico – Matteo Renzi aveva rimarcato la necessità di un Freedom of Information Act (Foia), cioè di un’assoluta trasparenza su documenti e informazioni della Pubblica amministrazione, per «combattere corruzione e inefficienze». Per quali strane ragioni il Renzi premier del 2014 deve «cambiare verso» rispetto al Renzi del 2012, lasciando chiusi nel cassetto i 25 documenti Pdf della spending review?

Tagli, ritagli e frattaglie

Tagli, ritagli e frattaglie

Davide Giacalone – Libero

Da una parte il governo nega, su questo formalmente unanime, la necessità di una correzione dei conti 2014, dall’altra si ricorda di Carlo Cottarelli e gli chiede di predisporre tagli per 17 miliardi (già inseriti nei conti del Documento di economia e finanza, ma ancora non realizzati). A quelli se ne dovrebbero aggiungere altri 10, se si vogliono stabilizzare maggiori spese e minori entrate già decisi e propagandati (mitici 80 euro compresi). Ciò fornisce un punto di riferimento circa lo spessore non della manovra da farsi, ma di quella già in corso: 27 miliardi. Siccome i tagli, per giunta in questa quantità, stanno passando da favola a leggenda, il pericolo concreto è che scattino le clausole di salvaguardia. Che, tradotto in linguaggio prosaico significa: tasse.

Se il governo riuscirà a evitarlo, se cioè l’aggiustamento avverrà con tagli e non con ulteriore fisco, sarà un bene. Andrà riconosciuto, con piacere. Dovrà accadere, però, al netto dei trucchi. Prendiamo, per esempio, il pagamento dei debiti pubblici verso fornitori privati: spostarli al 2015 è, al tempo stesso, una sconfitta e un trucco. Sconfitta perché il governo viene meno a quanto garantito. Trucco perché si sposta contabilmente una partita e non si risolve alcun problema. Un tempo la chiamavano “finanza creativa”, ora è solo cosmesi tardiva.

I tagli, per avere una caratteristica positiva, non recessiva e risolutiva devono essere stabili nel tempo e relativi a funzioni pubbliche che si cancellano. Occorre distinguere, quindi, fra i risparmi e i tagli. I primi si possono ottenere, anche in misura assai significativa, ottimizzando le procedure e rendendo trasparente la spesa. I secondi, invece, richiedono non una momentanea apnea, ma il soffocamento di interi comparti dello Stato apparato, nelle sue varie articolazioni societarie e locali. Quando la Corte dei conti (che già di suo è un organismo in gran parte disfunzionale) certifica la perdita annua di 26 miliardi nella gestione di 7500 aziende partecipate dal pubblico, occorre stabilire a quale numero guardare con maggiore preoccupazione: gli sciocchi guardano il 26, i saggi il 7500. Non solo quelle società sono troppe, non solo perdono, ma il loro costo reale non è dato dal saldo finale, negativo, bensì dal trombo crescente che rende difficile la circolazione produttiva. Limitarsi a risparmiare 26 miliardi significa adottare una terapia che porta alla trombosi. Più che di un medico sarebbe opera di una chiromante. Lavorare nello sfoltimento delle società e delle funzioni significa praticare tagli promettenti. Concentrarsi sul mero sbilancio significa accontentarsi dei ritagli, lasciando al loro posto le frattaglie.

Ma si può fare di peggio: lasciare lo Stato a occupare grassamente e inefficientemente il mercato, salvo portare in quotazione alcune sue società. In qualche caso delle perle, che vanno liberate dal guscio, in altri dei gusci che contengono roba incompatibile con il mercato, ovvero economia sussidiata. Non contenti di questo si completa l’opera prendendo quei soldi e mettendoli al servizio della spesa pubblica, magari mascherata da “investimenti”. Una delle cose che dovrebbero essere chiare, un punto sul quale varrebbe la pena di misurare la trasparente convergenza di ciascuna forza politica, è: quando si vende patrimonio si deve far scendere il debito. Altrimenti ci si ritrova con meno patrimonio, un debito crescente e una spesa fuori controllo.

Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.

La bestia affamata delle Spa locali

La bestia affamata delle Spa locali

Massimo Giannini – La Repubblica

Tra i tanti capitoli del romanzo gotico della spending review, dimenticati o stralciati da Palazzo Chigi, ce n’è uno che inquieta più degli altri. È quello che riguarda le società partecipate degli enti locali. Una giungla di clientele, sperperi e corruzione. Il premier aveva tuonato contro quelle “8 mila Spa” che mungono la generosa mammella statale e municipale senza vantaggi per il cittadino contribuente. Ora lo scomodo commissario Carlo Cottarelli, che ogni tanto almeno in qualche convegno riesce ad uscir fuori dalla “clandestinità” alla quale lo obbliga il premier, ci informa che le cose stanno peggio di come le immaginavamo.
«Le società pubbliche – annuncia il responsabile della task force taglia-spese al quale hanno momentaneamente sottratto le forbici – sono almeno 10 mila, e non le 8 mila censite finora, e perdono 1,2 miliardi». A questo falò di denaro pubblico vanno aggiunti «i costi nascosti da contratti di servizio gonfiati e quelli a carico dei cittadini per tariffe eccessive». Uno scandalo nello scandalo. Non si capisce perché il capo del governo non ci metta mano, come per altro aveva annunciato fin dalle prime slide-conference. O meglio, si capisce benissimo. Basta ascoltare ancora Cottarelli: «Quello delle partecipazioni locali è un mondo molto differenziato. Ci sono le “strumentali”, spesso a rischio abuso perché costituite solo per creare occupazione, e ci sono quelle che gestiscono i servizi pubblici locali, che rappresentano il 20% delle partecipate ma raccolgono il 60% del fatturato». Dunque, almeno l’80% delle 10 mila aziende pubbliche partecipate dagli enti locali, oltre a generare ricavi irrisori, non servono a produrre alcunché, ma solo ad occupare gente. Bisognerebbe chiuderle: ma poi dove mandi le madri e i padri di famiglia che ci lavorano, e che magari ti votano pure? Bel problema. Com’è un problema la gestione di quel 20% delle partecipate che gestiscono i servizi pubblici, dall’energia al gas, dall’acqua ai rifiuti. Hanno un fatturato da 40 miliardi, ma staccano un dividendo annuo di appena 604 milioni agli enti locali, e soprattutto sono la bellezza di 1.100. Troppe anche queste, e soprattutto poco efficienti e non redditizie come dovrebbero e potrebbero essere. Ora, in un impeto nietzschiano di “volontà di potenza”, Cottarelli si sbilancia e promette che entro luglio scatterà il piano di “disboscamento” delle Spa locali. Speriamo che non sia l’ennesima fuga in avanti, e che almeno stavolta il presidente del Consiglio – al contrario di quello che è avvenuto con la manovra del bonus Irpef da 80 euro copra politicamente le indicazioni di razionalizzazione della spesa formulate dal suo commissario. Spiace citarlo, perché è stato lo slogan dei conservatori americani di Bush, ma soprattutto in quello zoo mangiasoldi c’è davvero bisogno di “affamare la bestia”.

La spending review inciampa sui comuni. Le centrali d’acquisto sono ferme al palo

La spending review inciampa sui comuni. Le centrali d’acquisto sono ferme al palo

Lorenzo Salvia – Corriere della Sera

È uno dei simboli della spending review. Ed è un progetto partito quando quelle due paroline inglesi erano ancora roba da convegno di esperti e non linguaggio (quasi) comune. Ma la sempre invocata riduzione delle centrali d’acquisto rischia di essere rinviata ancora una volta. Dal primo luglio, tra due giorni appena, dovrebbe riguardare più di 8mila Comuni, tutti tranne i capoluoghi di provincia. Ma – complice una norma con qualche buco – rischia di paralizzare l’attività di tutte le amministrazioni. E per questo il governo si rigira tra le mani l’ipotesi di una proroga, tutt’altro che semplice.

L’idea delle cosiddette centrali uniche di committenza nasce da un principio di buon senso: se cinque Comuni comprano le loro penne e loro matite ognuno per conto proprio le pagheranno 100; se gli stessi Comuni si mettono insieme per comprare le stesse penne e le stesse matite probabilmente le pagheranno 90. Il gruppo spunta un prezzo migliore del singolo, regola antica che applicata al bilancio dello Stato significa un certo risparmio di denaro pubblico. Per questo già il governo Monti – con il decreto Salva Italia del dicembre 2011 – introdusse la regola degli appalti di gruppo per i Comuni più piccoli, quelli al di sotto dei 5 mila abitanti. L’obbligo doveva partire dal primo aprile del 2012 ma è stato rinviato più volte e non è ancora operativo. Poi è arrivato il commissario straordinario alla spending review Carlo Cottarelli, con il suo progetto di ridurre le centrali d’acquisto di tutta la pubblica amministrazione dalle 32mila di oggi a 30/40. Il governo Renzi accelera e nel decreto legge sul bonus da 80 euro infila una norma che obbliga all’acquisto di gruppo non solo i paesini sotto i 5mila abitanti ma tutti i Comuni, con l’eccezione dei soli capoluoghi di provincia. Nel frattempo è stata eliminata anche la deroga per i piccoli appalti, che consentiva ai Comuni di muoversi da soli per le spese al di sotto dei 40mila euro. L’Anci – l’associazione dei Comuni – dice che così si rischia il blocco totale degli appalti. La solita resistenza ad ogni cambiamento? Insomma.

La norma che allarga l’obbligo ai Comuni sopra ai 5mila abitanti ha qualche contraddizione. I Comuni dovrebbero creare dei consorzi di acquisto, ma anche questo richiede un minimo di preparazione e il decreto è stato convertito in legge appena 10 giorni fa. Nell’immediato ci sono due alternative, ma entrambe zoppicanti. La prima è rivolgersi alla Consip, la società per gli acquisti della pubblica amministrazione, che però nel suo catalogo non ha tutti i prodotti che servono ai Comuni. Mancano gli appalti di lavori pubblici, ad esempio, i più importanti. La seconda è rivolgersi alle “nuove province”, gli organi senza più politici che funzionano come centro di coordinamento del territorio. Solo che al momento sono commissariate, di fatto paralizzate, e torneranno operative nella loro nuova veste dal primo ottobre. «Il risultato – spiega Mario Guerra, deputato del Pd che ha seguito la vicenda fin dall’inizio – è che un Comune grande come Sesto San Giovanni, 80mila abitanti, rischia di non poter muovere foglia. Mentre quattro paesini da 800 abitanti si mettono insieme e aggirano il blocco». Consapevole del problema, il governo studia l’ipotesi di un rinvio che, in caso, andrebbe deciso per decreto legge con il Consiglio dei ministri di domani. Ma ci sono moltissimi dubbi. Non solo perché un altro decreto rischierebbe di non trovare posto in un calendario parlamentare già al limite della capienza. Ma perché l’ennesimo rinvio potrebbe dare un colpo alla credibilità generale della spending review. Già quest’anno dalla revisione della spesa il governo ha ricavato “solo” 3,5 miliardi, un miliardo in meno di quanto previsto. L’anno prossimo ne sono previsti 17, quello dopo addirittura 32. Una salita ripidissima. L’ennesima proroga sugli appalti di gruppo, e quelle che per imitazione potrebbero seguire su altre materie, non aiuterebbero la pedalata.