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La responsabilità flessibile

La responsabilità flessibile

Piero Ignazi – La Repubblica

Un primo ministro in maniche di camicia che, dalla sede del governo, polemizza aspramente con una importante organizzazione degli interessi; e anche, il segretario del partito di sinistra che attacca frontalmente il proprio sindacato di riferimento. La durezza dello scontro è inedita per le forme; quanto ai contenuti nel passato s’era visto anche di peggio, ma si trattava di partiti moderati e conservatori, non di partiti aderenti alla famiglia socialista. Entrambi i contendenti hanno perso la misura, la segretaria della Cgil paragonando il capo del governo alla Thatcher, e Renzi accusando il sindacato di non aver fatto nulla per i più disagiati in questi anni. Ed entrambi i contendenti hanno ragioni e torti.

Le ragioni del capo del governo, e il merito del suo intervento, stanno nella natura “provocatoria” del messaggio, cioè nel provocare il maggiore sindacato italiano a maggiore disponibilità e maggiore inventiva. Senza un cambio di passo anche la Cgil come tutti gli altri sindacati italiani ed europei rischia l’irrilevanza. La parabola dei sindacati americani, un tempo potentissimi, rappresenta un monito per quelli europei. Persino in Scandinavia stanno perdendo terreno tanto in adesioni quanto nella stima e nella considerazione dell’opinione pubblica. Per il semplice fatto che tutti sono stati presi in contropiede dalle trasformazioni economiche post-fordiste. Non hanno avuto la flessibilità di adattarsi ai diversi rapporti di lavoro che proliferano dovunque (e ai nuovi rapporti di forza tra capitale e lavoro). Non hanno saputo reagire per tempo e con efficacia alla miriade di nuove forme di occupazione. E di conseguenza si sono, quasi inevitabilmente, rinserrati nel territorio che meglio conoscevano e più facilmente difendevano.

È però del tutto fuori misura tacciare i sindacati di indifferenza per gli “ultimi”. Chiunque conosca dall’interno quelle organizzazioni sa quanta generosità e dedizione vi circoli. Ma non è questione di cuore o di buona volontà. Si tratta di attuare un cambio di marcia e guardare al mondo del lavoro in un’ottica più ampia, individuando quali innovazioni siano necessarie e quali residui debbano essere abbandonati (e cosa debba essere difeso con le unghie e con i denti). Perché, quando tutto cambia, e la crisi non ha fatto altro che accelerare drammaticamente processi già in atto, le vecchie conquiste rischiano di essere zavorre che impediscono di acciuffare quelle nuove. Se ha ragione il capo del governo ad insistere nell’innovazione — il suo marchio di fabbrica, peraltro — ha ragione anche il sindacato nel chiedere che si tenga conto delle tante protezioni sociali che mancano ai lavoratori a incominciare dal sussidio di disoccupazione o salario di cittadinanza che sia. Il sindacato si poneva come rappresentante di diritti universali perché il proletariato di un tempo si percepiva, ed era visto, come il terzo stato della rivoluzione francese: “tutto” come diceva l’abate Sieyès. Contrariamente a coloro che li hanno inviati ad occuparsi solo dei loro associati (quante ditini alzati a riprovarli per invadenze nel passato), i sindacati devono sentire di nuovo una responsabilità generale per il “mondo del lavoro” includendo, ovviamente, in questo campo anche chi il lavoro non ce l’ha, l’ha perso, non l’ha mai trovato e rischia di non averlo per molto.

Quando Renzi racconta delle vite spezzate dei non-occupati sentirà certo il dovere etico di rimboccarsi ancora di più le maniche per trovare soluzione a quelle disperazioni. Ma è sicuro che la via più efficace sia quella di alzare al calor bianco la polemica con il sindacato più importante? Vero è che il capo del governo non ha mostrato alcuna deferenza nei confronti dei salotti buoni e delle gerarchie confindustriali (del resto è quello che ci si aspetta da un leader di sinistra). Per decenni l’Italia ha adottato una sua modalità di concertazione che ha prodotto risultati importanti. Per perseguire un obiettivo di carattere generale, ma in certa misura contrario agli interessi della sua organizzazione, un leader di grande prestigio ed autorevolezza come Bruno Trentin, dopo aver firmato l’accordo del ‘93, si dimise. La concertazione si è ossificata ed ha perso valore. Non per questo deve essere sostituita da duelli rusticani, anzi. La crisi drammatica che viviamo non necessita di capri espiatori (e semmai, ben altri ce ne sarebbero pensando a quanto ancora prosperano i tanti topi nel formaggio, come diceva Paolo Sylos Labini). Necessita semmai di una nuova modalità di relazioni tra governo e rappresentanti di interessi nella quale ciascuno contribuisca alle necessarie innovazioni. Esibizioni gladiatorie dall’una e dall’altra parte rendono tutto più difficile.

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Una tutela (e un sindacato) che non convince più

Paolo Natale – Europa

I più attempati tra noi ricorderanno certamente il vecchio slogan degli anni settanta: Lama non l’ama nessuno. Quando il segretario della Cgil si presentava ai comizi, quando faceva capolino nelle università occupate, quando andava nelle fabbriche per calmare gli operai più bellicosi, si sentiva apostrofare così dai gruppi di contestatori più creativi. Allora il sindacato pareva essere, peraltro, una delle poche realtà cui fare riferimento per cambiare il mondo, per cambiare la politica, per riannodare le lotte di fabbrica con il territorio.

Oggi, si sa, non è più così. Ed il sindacato, nelle sue diverse sigle oppure nella sua totalità, non sembra essere apprezzato che da pochi. Se i partiti godono di una fiducia, da parte degli italiani, poco superiore al 10 per cento, le confederazioni sindacali non stanno molto meglio, con giudizi positivi che si fermano intorno a 20-21 punti percentuali. Se gli iscritti, tra lavoratori e pensionati, sono circa 15-16 milioni, pari al 30 per cento dei maggiorenni, questo significa che, paradossalmente, molte delle valutazioni negative arrivano addirittura tra chi aderisce ad uno dei sindacati. E non sono soltanto gli elettori di centro, di destra o non schierati (come molti dei pentastellati) a valutarli male, ma anche quelli che si definiscono di centrosinistra o di sinistra: chi dichiara che voterà Rifondazione o Sel fornisce valutazioni sufficienti ai sindacati soltanto per il 30 per cento, chi voterà Pd per il 25 per cento. Mentre tra gli astensionisti la fiducia è simile a quella per i partiti, un ridotto 5-6 per cento. Una specie di disastro li accomuna nella percezione diffusa della popolazione.

Il giudizio di fondo è evidente: i sindacati si occupano solamente dei propri iscritti, di chi il lavoro ce l’ha ed è occupato nelle aziende medio-grandi. Per tutti gli altri, per chi non ha lavoro, per chi è precario, per chi è in nero e cerca qualcosa di meno provvisorio, le loro azioni paiono inesistenti. Se non contro-producenti. Inutile dire cosa ne pensa la popolazione italiana della strenua difesa dell’articolo 18. Non che piaccia venir licenziati senza giusta causa, è ovvio, ma la percezione generale è che le disposizioni contenute in quell’articolo siano qualcosa di talmente antiquato che oggi non se ne vedono più le ragioni, che allora apparivano al contrario fondamentali per la salvaguardia del proprio impiego.

La stragrande maggioranza dei cittadini è d’accordo che venga dunque riformulato, alla luce delle mutate condizioni di lavoro, dell’attuale stato dell’occupazione, della mobilità reale che sempre più spesso appartiene alla storia personale della vita lavorativa. Quando c’è. Certo non è vero che la colpa della crisi occupazionale è dell’articolo 18, ma è vero che il dibattito che ruota intorno a quell’articolo appare oggi svuotato di senso, tra gli italiani. E anche tra gli stessi elettori del Pd, che ne vedrebbero volentieri un superamento alla luce delle mutate condizioni di lavoro. Una quota vicina al 70 per cento dei votanti Pd vorrebbe una nuova legge sul lavoro, che dopo aver fatto il punto sullo stato attuale, cerchi di diventare un nuovo punto di riferimento per gli anni futuri. Tra la flessibilità e la sicurezza, al passo con i tempi così diversi dagli anni settanta.