Non salveremo il welfare (solo) con gli immigrati

di Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Nel presentare alla Camera la Relazione Annuale dell’Inps, il presidente Tito Boeri ha sostenuto che chiudere le frontiere agli stranieri comporterebbe uno sbilancio dei conti del nostro welfare tale da richiedere «una manovrina ogni anno per ventidue anni», con un totale di 38 miliardi di euro di buco da coprire da qui al 2040. Il numero eclatante, frutto di una simulazione a cui l’Inps ha dedicato un’intera sezione del suo rapporto, rischia di creare però più confusione che altro nel più ampio dibattito in corso su accoglienza e integrazione degli immigrati.

In primo luogo, non va confuso il tema con quello degli sbarchi dal Mediterraneo e dei relativi costi dell’accoglienza, che secondo le ultime stime di ImpresaLavoro potrebbero avvicinarsi nel corso del 2017 alla quota dei 5 miliardi di euro, a tutto carico della fiscalità generale. Anzi, la relazione dell’Inps sottolinea in più punti i benefici ottenuti dalla regolarizzazione dei rapporti di lavoro, promossa anche con gli interventi normativi del 2002 e del 2012: il punto allora non sarebbe l’apertura o chiusura delle frontiere, ma la possibilità di incanalare concretamente il flusso di migranti sui binari della regolarità lavorativa in luogo della clandestinità e del sommerso. La stima dei 38 miliardi si fonda infatti esclusivamente sul rapporto tra i contributi che i lavoratori regolari versano all’ente negli anni di attività e le prestazioni che dallo stesso riscuotono in un secondo momento, ovvero negli anni di quiescenza, con particolare riferimento agli assegni pensionistici.

Proprio per le dinamiche previdenziali del nostro sistema, a ripartizione e orientato al contributivo, bisogna sempre tenere a mente che i versamenti dei lavoratori rivestono una duplice funzione: nel breve periodo quella di garantire, mese per mese, il pagamento degli assegni agli attuali pensionati, e nel lungo quella di costituire il montante che fungerà da base di calcolo per la pensione propria.

Se ci riferissimo al ciclo di vita intero dei contribuenti stranieri, persino il 2040 risulterebbe un orizzonte troppo ravvicinato: è la stessa Inps che ammette che al di là di quella data i numeri andrebbero aggiustati per considerare il progressivo incremento delle prestazioni, ovvero del sempre maggior numero di pensioni che verrebbero liquidate agli stranieri. A meno che non si ipotizzi che il flusso di giovani lavoratori stranieri continui a ritmo incessante e che la speranza di vita di quelli residenti risulti inferiore a quella media degli italiani su cui si calcolano le pensioni. È pur vero che la popolazione straniera residente in Italia, secondo gli ultimi dati Istat (2016), è arrivata all’8,3 per cento e dunque è cresciuta di oltre quattro volte rispetto a ciò che risultava a inizio millennio.

Tra le principali economie dell’Europa, l’Italia è quella che ha visto crescere il dato in misura maggiore, superando nel contempo la Francia (poco più del 6 per cento) e arrivando a un passo dal 10 per cento della Germania e della Spagna. Risulta ancora più evidente, dunque, che ancora per molti lustri il numero di pensionati stranieri dovrebbe essere di gran lunga inferiore a quello dei rispettivi contribuenti. Secondo i numeri ufficiali, da noi ci sono oltre due milioni di lavoratori migranti, in larga parte dipendenti (82 per cento), con un trend stabilizzatosi negli ultimi dieci anni; in costante aumento figurano invece gli autonomi (che hanno quasi raggiunto la quota di 400mila unità), mentre in lieve riduzione da tre anni, dopo un primo boom, risultano i lavoratori domestici. Prevalgono comunque in ogni categoria gli extracomunitari, per una quota di circa 1,6 milioni di lavoratori ovvero il 70 per cento del totale.

Il reddito medio pro-capite dichiarato è considerevolmente inferiore a quello degli italiani (circa un terzo in meno) ed è condizionato inizialmente anche da un numero minore di ore lavorate. Le entrate che garantiscono ogni anno alle casse dell’Erario corrispondono tuttavia a quasi 11 miliardi di contributi previdenziali e a 7 miliardi di Irpef, secondo quanto risulta nell’ultimo Rapporto sull’immigrazione della Fondazione Moressa. Molto più incerte sono invece le stime sulle uscite di spesa pubblica al netto delle pensioni che, come ribadito, al momento sono limitate.

Approfondendo le dinamiche degli iscritti all’Inps, si scopre che ogni anno una quota vicina al 6 per cento dei lavoratori stranieri (oltre 100mila l’anno) abbandona il posto di lavoro in Italia ed è rimpiazzata da nuovi “entranti”, a un ritmo che negli ultimi anni si è però ridotto, complice con ogni probabilità la crisi e la conseguente ridotta appetibilità della nostra economia rispetto ad altre dell’Unione Europea.

L’età invece risulta sempre più bassa tra i nuovi entranti (con un aumento sensibile degli under 25), ma complessivamente in aumento tra i residenti, ed è legata – si legge nel rapporto – alle normali dinamiche di invecchiamento della popolazione. In altre parole, continuiamo a importare forza lavoro in prevalenza giovane, mentre nel contempo gli stranieri residenti iniziano (lentamente) a maturare una propria anzianità contributiva. Tutti quanti però ancora per un bel pezzo contribuiranno a pagare gli assegni agli italiani prima di incassare quelli di propria competenza.

A quel punto, però, il pericolo dei mancati incassi contributivi dagli stranieri dovrebbe corrispondere a una riflessione di stampo più puramente demografico nonché occupazionale. Il problema infatti si porrebbe nel solo caso in cui gli italiani non riuscissero a sopperire al “gap” di forza lavoro mancante nelle ipotesi di mancato afflusso di stranieri, che l’Inps ha quantificato in 140mila nuove unità all’anno: una cifra non spaventosa se rapportata, ad esempio, ai livelli attuali di disoccupazione del nostro paese.

Sotto questo punto di vista, dunque, appaiono ben più pertinenti le riflessioni sulle tematiche che coinvolgono il potenziamento delle politiche per la famiglia e per la natalità, la crescita e l’occupazione, possibilmente senza dimenticare il fattore di equità intergenerazionale che dovrebbe guidare l’ampio settore della previdenza pubblica: tematiche peraltro trasversali rispetto alla nazionalità del contribuente.

LO “SBILANCIO” PREVIDENZIALE

di Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

L’affermazione di Boeri che a salvare i conti in perdita dell’Inps con i loro versamenti contributivi siano gli stranieri è fuorviante. Il tema centrale​ è semmai quello dei contributi silenti, che colpisce in egual misura lavoratori italiani e non. Si tratta infatti di versamenti che non sono sufficienti a maturare alcun trattamento previdenziale se versati per un periodo inferiore ai 20 anni di lavoro e che l’Istituto si guarda bene dal restituire. Se Boeri ne rendesse noto l’ammontare emergerebbe un paradosso intollerabile. Quello per cui ad alcuni capita di versare “a vuoto” i contributi senza maturare alcun diritto alla pensione mentre moltissimi altri, come è noto, incassano ogni mese un assegno previdenziale largamente superiore ai contributi versati nel corso della propria attività lavorativa: un frutto avvelenato lasciatoci in eredità da chi ha applicato in maniera generosa e irresponsabile il sistema retributivo, mettendo a rischio la tenuta del sistema previdenziale.