crescita

Oltre il feticcio del 3 per cento

Oltre il feticcio del 3 per cento

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Perché il deficit dovrebbe essere inferiore al 3 per cento? Perché non l’1, il 2, il 4 o anche il 10 per cento? Da dove è stato tirato fuori questo numero? L’Italia aveva un deficit basso prima della crisi, eppure il rapporto debito/Pil ha continuato a crescere. Questo dovrebbe farci capire che il problema non è il deficit in sé e per sé. Eppure oggi tutta l’attenzione è su quel numero magico, quasi un feticcio. Non conta quanto è grande il deficit, ma come è composto: e la verità è che gran parte del deficit è prodotto da fattori che non hanno nulla di strategico.

Qui non si tratta di uno Stato che vuole «espandersi» spendendo di più, ma di una reazione automatica a quello che sta succedendo sul versante della crescita. Quando crescita e occupazione stentano, come è il caso dell’Italia negli ultimi vent’anni, il deficit cresce automaticamente a causa del costo di cose come la cassa integrazione e i minori introiti fiscali. La verità, quindi, è che il deficit è il sintomo del problema. Il problema è la crescita bassa e la disoccupazione, che porta per definizione a un aumento del rapporto debito/Pil. Non il contrario, co- me vuole la logica che continua a orientare le misure della trojka e a tenere in ginocchio Paesi prigionieri di un circolo vizioso di assenza di crescita.

Il deficit, pertanto, è una conseguenza automatica della mancanza di crescita. Solo quando l’Eurozona smetterà di aggrapparsi a cifre feticcio come il 3 per cento e sposterà l’attenzione su quelle tipologie di investimenti e riforme in grado di aumentare occupazione, produttività e crescita, si riuscirà a tenere il deficit sotto controllo, e soprattutto a consentire agli Stati di avere qualche speranza di veder crescere il denominatore del rapporto debito/ Pil e non solo il numeratore.

Ma che cosa sappiamo della crescita? È ovvio che avere le giuste condizioni «generali » (meno burocrazia, più flessibilità del mercato del lavoro, meno corruzione ecc.) è indispensabile. Ma senza i necessari investimenti pubblici e privati che incrementano la produttività nel lungo termine, la crescita è semplicemente impossibile. Sfortunatamente i commentatori, sia di destra che di sinistra, continuano a ignorarlo. Sentiamo dire spesso, per esempio, che il miracolo dell’export tedesco è merito delle riforme di Schröder che alla fine degli anni 90 tennero a freno i salari, con l’ovvio corollario che l’Italia e gli altri Paesi della «periferia» dovrebbero anche loro ridurre i salari e accrescere la flessibilità del mercato del lavoro.

Quello di cui non tiene conto questa analisi, però, è che (1) a tenere temporaneamente a freno i salari in Germania fu un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l’unificazione tedesca, che altrimenti avrebbe provocato disoccupazione di massa, specialmente nel Länder occidentali, e (2) che questo accordo fu stipulato in cambio non solo del mantenimento dei livelli occupazionali, ma anche di una riduzione dell’orario di lavoro (35 ore) e di investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione, che creano più posti di lavoro e posti di lavoro migliori in futuro. E sono proprio questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri Paesi come l’Italia sul versante della produttività.

Il vero disastro della «periferia» non è il costo del lavoro, ma la produttività. L’indicatore solitamente usato per la competitività è il costo unitario del lavoro, che può essere diviso in due componenti: (a) il costo del lavoro e (b) la produttività. La cosa evidente è che la differenza più marcata tra Paesi non è tanto nel costo del lavoro (in sé e per sé, specialmente se includiamo i contributi sociali, che in Germania sono più alti), ma nel rapporto con la produttività. L’Italia, per esempio, negli ultimi quindici anni ha avuto una crescita della produttività pari a zero (o addirittura negativa).

E come si ottiene produttività? Pagando meno i lavoratori? No. Si ottiene produttività consentendo ai lavoratori di lavorare in modo più efficiente, con una formazione all’avanguardia, macchine tecnologicamente avanzate, una divisione del lavoro innovativa e rapporti armoniosi tra capitale e lavoro. Si ottiene produttività anche avendo una percezione strategica della direzione in cui si vuole che vada l’economia. Quando la Germania decise di imboccare la strada della grüne strategie ( la strategia verde), sindacati, governo e imprese si sedettero a un tavolo e si mossero in modo concertato per trasformare i modelli di produzione, distribuzione e consumo in tutta l’economia e per disegnare nuove forme di istruzione in grado di preparare tecnici e ingegneri alla «rivoluzione verde». Fu il prodotto di una visione, non di un decreto ministeriale!

È tempo di riconoscere, in modo forte e chiaro, che il vero problema dell’Italia non è che i lavoratori guadagnano troppo, ma che i salari non crescono allo stesso ritmo della produttività, perché quest’ultima risente della stagnazione degli investimenti, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, e della costante conflittualità, sia tra partiti politici che tra capitale e lavoro. Le aziende private italiane continuano a spendere meno della media in settori come la ricerca e sviluppo (cruciale per la produttività) e la formazione del capitale umano, e il settore pubblico italiano continua a preferire «sovvenzionare» e «incentivare», invece di investire strategicamente in aree a forte crescita. Si può liberalizzare, privatizzare, sottoporre a riforma strutturale qualsiasi cosa, ma non ci sarà crescita fintanto che non ci saranno investimenti dinamici e trasformazioni istituzionali di questo tipo. È questa la parte «strategica» (non automatica) del deficit che viene completamente ignorata. È chiaro che si devono ridurre gli sprechi, riformare i sistemi pensionistici europei in modo da renderli più uniformi ed eliminare la burocrazia non necessaria. Ma a meno che queste riforme non siano accompagnate da massicci investimenti (di dimensioni simili a quelle del Piano Marshall, ossia il 2,5 per cento del Pil dell’Unione europea), con nuove tipologie di collaborazione tra pubblico e privato che consentano un incremento della produttività e garantiscano posti di lavoro e opportunità per le nuove generazioni, rimarremo impantanati nella «stagnazione secolare». E non è un destino ineluttabile: è una nostra scelta, figlia di una totale mancanza di visione.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

Un Pil di troppo

Un Pil di troppo

Davide Giacalone – Libero

All’inizio se ne parlava con aria cospirativa: con i nuovi criteri per calcolare il prodotto interno lordo risolveremo lo sforamento del deficit. In realtà, come vedremo, il deficit lo allarghiamo. Poi si è passati alla versione criminale: il pil crescerà grazie a puttane e spacciatori. Il rischio è, se mi passate il paradosso, che la criminalità cattiva scacci la buona. Questa faccenda del ricalcolo è piena di trappole ed equivoci. Per capirlo se ne devono vedere tre aspetti: 1. i criteri; 2. le quantità stimabili; 3. gli effetti.

1. Il pil è una somma, diversi dei cui addendi sono stimati. Solitamente l’indice lo si legge in percentuale, intendendosi di crescita o decrescita rispetto al passato. È evidente che più la stima si attiene alla realtà e più quel numero non è campato in aria. È evidente una seconda cosa: se si mettono a paragone pil di diversi paesi, si dovrebbe misurarli tutti allo stesso modo. Invece non accade. Prendiamo la prostituzione (questo non è un dibattito nel merito, ma, giusto per non scantonare, sono favorevole alla sua legalizzazione, mentre sono contrario per quel che riguarda la droga): in Germania è legale, in Italia no; in Germania pagano le tasse, in Italia no. Quando paragoniamo i due pil, quindi, misuriamo cose diverse. Eurostat (l’Istat dell’Unione europea), giustamente, chiede l’introduzione di criteri omogenei, con il che entra nel conto quel che magari, in un determinato Paese, è illecito. Ma c’è un limite. Tanto per capirsi: l’estorsione non entra nel conto mai. Diciamo che l’idea è quella di contabilizzare quel che da qualche parte è consentito, sicché si tratta di criminalità accettata e consensuale (fra le due parti, chi paga e chi incassa). Ciò pone un problema per l’induzione in schiavitù, che è risolto dove la cosa è legalizzata, mentre resta oscuro dove non lo è. Attenzione: dove l’economia sommersa è fatta di fuga dal fisco, quindi di attività lecite, ma in evasione, queste, che hanno un dna sano, non entreranno nel conto. Per questo dico che la criminalità cattiva (droga) scaccia la buona (pescatore che vende sulla banchina, senza scontrino).

2. Nell’immaginare quanto potrà crescere il pil, dati questi criteri, si entra nel cuore del problema. In Germania le prostitute non porteranno nulla, perché già portano, da noi sì. Ma è intuitivo che quel tipo di economia è maggiormente florida laddove c’è più ricchezza. Quindi, puttane a parte, il pil crescerà di più dove è già più alto. È difficile credere che il Paese senza limiti nella circolazione del denaro contante sia quello con meno economia sommersa, semmai il contrario. E quel Paese, con relativa evasione fiscale, è la Germania. Introdurre nel conteggio la spesa per ricerca è cosa buona, ma quella italiana sarà bassa, perché la gran parte, da noi, si fa nei capannoni e nei laboratori di piccole e medie imprese. Introdurre la spesa militare non significa che il pil aumenterà di quanto spendiamo nella difesa, perché, giusto per esempio, quel che paghiamo a Finmeccanica è già contabilizzato, dal lato dell’impresa italiana, quindi crescerà solo di quel che spendiamo comprando all’estero. Non è proprio il massimo e, comunque, non è molto. Alla fine, quindi, scopriremo che il nostro pil cresce meno di quelli con cui ci paragoniamo. Né vale la furbata, ad uso interno, di vendersi l’aumento come una conquista, dato che verranno ricontabilizzati anche gli anni precedenti.

3. Gli effetti sono da ridere. O da piangere. L’anno prossimo la pressione fiscale diminuirà, ma noi pagheremo quanto e più di prima. Magia? No, imbroglio: il pil cresce perché si contabilizza anche (in parte) quel che non è legale, quindi non paga tasse, ciò fa scendere l’indice della pressione sulla ricchezza prodotta, ma quelli che pagano non vedranno ridursi un accidente. C’è di più: i contributi che ciascuno Stato versa al bilancio Ue sono in proporzione al pil, quindi aumentano aumentandolo, ma siccome quel di più che si dovrà versare non sarà accompagnato da gettito fiscale, ne deriva che il deficit ne risente negativamente. L’illusione ottica dura qualche settimana.

Riassumendo: omogenizzare i criteri di contabilità è giusto, ma prima di trarne conclusioni su effetti miracolistica sarebbe bene studiare le carte. Se qualcuno pensava fosse, o si potesse farne una mandrakata, del cavallo più che la febbre ha la follia. Diverso sarebbe se (posto che la ricetta principale consiste nell’abbattimento del debito mediante dismissioni) usassimo il fisco per far emergere l’economia nera che abbiamo (un ipotetico 18%). Ma questo comporta abbassare drasticamente le pretese dello Stato e consentire, come fanno i tedeschi, che ciascuno faccia quel che vuole con i propri soldi (aumentando il gettito iva). Anche leccandosi il pollice. Qui, invece, vedo sguardi languidi verso le lucciole. Ma non per le ragioni tradizionali, quanto per tassare i proventi delle loro fatiche.

Non è più tempo di alibi

Non è più tempo di alibi

Massimo Gaggi – Corriere della Sera

Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, non parla di «bazooka», di armi monetarie straordinarie per evitare la deflazione e battere le tendenze recessive che riemergono anche nelle economie europee più solide. Non lo fa perché non è una parola del suo vocabolario, ma, soprattutto, perché un’arma simile non esiste. Ci fosse, sarebbe il momento di usarla perché la situazione è veramente difficile. E la Banca centrale europea promette che, per quello che potrà fare, non si tirerà indietro: stretta tra crescente disoccupazione strutturale, economie che non crescono e vincoli di bilancio, l’Europa ha bisogno di interventi simultanei e massicci sia dal lato del sostegno alla domanda da attivare con le politiche monetarie e fiscali, sia da quello delle riforme strutturali.
È il momento di fare: in fretta e rischiando anche molto. È questo il cuore del messaggio che il capo della Bce trasmette ai colleghi banchieri centrali che lo ascoltano al simposio annuale di Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose, ma anche ai policymakers europei e ai mercati: «Il rischio di fare troppo è ormai nettamente inferiore a quello di fare troppo poco». Fare di più esponendo maggiormente la Bce, ma anche attuando politiche fiscali più coraggiose, coi governi chiamati a investire il loro capitale politico in strategie di riduzione delle tasse (soprattutto il cuneo fiscale) e della spesa pubblica, ma anche in riforme radicali del mercato del lavoro nei Paesi che oggi soffrono di maggiore rigidità: Draghi non cita mai l’Italia ma il riferimento è implicito, visto che l’esempio sul quale si sofferma è un confronto tra Spagna e Irlanda, con quest’ultima che si è ripresa più rapidamente dalla crisi anche grazie all’elevata flessibilità della manodopera che ha consentito alle imprese, nei momenti più difficili, di risparmiare sul costo del lavoro. La Spagna, rimasta troppo a lungo rigida, ha pagato l’incomprimibilità delle retribuzioni con un forte taglio degli occupati. Fino al 2012, quando Madrid ha cambiato rotta: oggi sta cogliendo i primi frutti della maggiore flessibilità.
L’Italia no. Draghi non lo dice e non solo per evitare nuove polemiche a Roma: a Jackson Hole è andato per parlare delle difficoltà di un’area, l’Europa, che rappresenta il più grande mercato mondiale e che fatica a difendere un modello sociale tanto prezioso quanto fragile. Il capo della Bce era atteso al varco anche da analisti non del tutto benevoli che imputano alla Bce alcuni errori di previsione e l’adozione di misure monetarie meno efficaci di quelle messe in campo dalla Federal Reserve.
Secondo questi critici proprio il confronto ravvicinato con Janet Yellen, l’economista succeduta pochi mesi fa a Ben Bernanke alla guida della Fed (ha parlato a Jackson Hole qualche ora prima di Draghi), avrebbe dovuto far emergere il contrasto stridente tra le due situazioni: l’America in ripresa e con l’occupazione in crescita ormai da cinque anni consecutivi che sta per azzerare i sostegni straordinari offerti all’economia sotto forma di acquisto di titoli pubblici e obbligazioni private sul mercato. E che si prepara ad aumentare, nel 2015, il costo del denaro, pressoché azzerato ormai da sei anni.
In realtà la Yellen, pur confermando le scelte di fondo della Banca centrale Usa e riconoscendo che i numeri ufficiali del mercato del lavoro cominciano a muoversi verso uno scenario di piena occupazione, ha dato un’interpretazione della realtà economica americana molto più problematica e allarmata: i 19 indicatori sui quali la Fed basa le sue valutazioni dicono che il calo della disoccupazione è sovrastimato e che il mercato del lavoro è ancora molto problematico. Chi si aspettava che la Fed potesse accelerare il percorso verso l’aumento del costo del denaro è rimasto deluso. La Yellen non intende anticipare gli interventi in questo campo: se ne parlerà, pare di capire, a metà dell’anno prossimo, non prima.
Da un punto di vista strettamente monetario la cosa non è molto positiva per la Ue visto che potrebbe attenuare la corsa al rafforzamento del dollaro che indebolisce l’euro e rende le nostre merci più competitive. Ma con la sua analisi la Yellen ha anche dimostrato che, pur essendosi mossa meglio, l’America si dibatte tuttora negli stessi problemi che affliggono l’Europa. Niente mal comune mezzo gaudio, ma in questo contesto è più facile per Draghi spiegare perché in Europa tutto è stato molto più difficile: dalle impostazioni divergenti dei vari governi al fatto che il primo choc, quello del sistema creditizio nel 2008, è stato seguito da un secondo trauma, quello dei debiti sovrani dei Paesi più deboli, che ha «gelato» di nuovo l’occupazione europea quando ormai quella Usa era in pieno recupero. Ma, soprattutto, è stato più facile per Draghi concentrarsi sul pesante carnet delle cose da fare.
Il capo della Bce ha parlato molto più di politiche fiscali e del lavoro che di interventi monetari: un’occasione ghiotta per chi vuole alimentare polemiche fini a se stesse. In realtà Draghi ha ribadito quello che per anni Bernanke ha ripetuto davanti al Congresso di Washington: la politica monetaria può fare molto, ma non può sostituire gli interventi dei governi e le riforme strutturali indispensabili per affrontare le sfide di un mondo completamente cambiato sia per quanto riguarda la dislocazione geografica del reddito e delle capacità produttive, sia per il cambiamento di prodotti e tecnologie. La Bce farà la sua parte, ha promesso Draghi senza entrare in dettagli (acquistare obbligazioni sul mercato, ad esempio, è più difficile per l’Eurotower che per la Fed alla quale nessuno ha mai chiesto di non sottoscrivere troppi titoli della California o del Kansas). E l’indebolimento dell’euro indica che i primi risultati di questa politica già ci sono. Ma se si vuole davvero aggredire una disoccupazione strutturale che può diventare irreversibile dobbiamo tutti rischiare molto di più: governi, parlamenti, sindacalisti. E, inevitabilmente, anche noi cittadini.

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

La ricetta liberale anticrisi: meno tasse, più lavoro, crescita

Renato Brunetta – Il Giornale

Meno tasse; più consumi; più investimenti; più crescita; più lavoro; più gettito; più welfare; più benessere per tutti. È questa l’equazione del benessere: la ricetta liberale che l’agenda Berlusconi intende realizzare nel nostro paese. Agenda Berlusconi che, guarda caso, coincide con l’agenda Draghi, con le raccomandazioni della Commissione europea al governo Renzi e con quello che, da quando il debito pubblico italiano, cui fa da sfondo la lunga recessione, ha raggiunto livelli non più sostenibili, commentatori, economisti e opinion leader, da Alesina-Giavazzi a Guido Tabellini a Eugenio Scalfari, consigliano al governo: riforma del lavoro, da cui derivererebbe recupero di competitività per il sistema-paese; e riforma fiscale, per ridurre il peso della tassazione su famiglie e imprese, che blocca lo sviluppo e la conseguente ripresa dell’occupazione.

C’è, poi, un terzo grande tema: l’Europa e la Banca centrale europea. La politica monetaria espansiva della Bce deve essere accompagnata da riforme strutturali in tutti gli Stati dell’area euro. In particolare, riforme fiscali sincroniche che, via riduzione del carico tributario, portino all’auspicato indebolimento della moneta unica. E per fare questo, deve essere proprio la locomotiva d’Europa, se ancora vuole essere tale, a cominciare. La Germania deve mettere più soldi nelle tasche dei tedeschi e far crescere la propria domanda interna, con il giusto e buon livello di inflazione che ne deriverà. Per dirla con termini tecnici: la Germania deve reflazionare. E l’impatto sarebbe immediato sulle economie di tutti i paesi dell’eurozona. Lo dice anche la rigorosissima Bundesbank, nonché il presidente del consiglio economico della Cdu tedesca, Kurt Lauk. Entrambi evidentemente inascoltati da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaüble.

Il compito di Matteo Renzi, se vuole riempire di significato questo semestre di presidenza italiana dell’Unione europea, così ricco di aspettative, ma ad oggi deludente nei risultati, è proprio quello di spiegare alla cancelliera Merkel l’importanza del ruolo della Germania e della reflazione tedesca in Europa. Ma non è solo di questo che si tratta: la Germania deve reflazionare anche per non incorrere nella procedura di infrazione per avanzo eccessivo della sua bilancia dei pagamenti, che tanti problemi ha creato a tutta l’eurozona. Squilibrio derivante da un euro tedesco sottovalutato rispetto ai fondamentali dell’economia tedesca, che ha reso le esportazioni di quel paese più competitive rispetto a quelle degli altri Stati dell’eurozona, senza alcun meccanismo redistributivo. La Germania colmi, quindi, questo gap di solidarietà rispetto agli altri partner europei, che significa anche rispetto dei Trattati, e tornerà a crescere a ritmi elevati e a trainare l’economia dell’intera area euro. Se davvero vuole che la moneta unica continui ad esistere.

Su questo tema, è stato il Fondo Monetario Internazionale il primo a lanciare la sfida alla Germania: lì il rapporto deficit/Pil oggi è pari a 0,1%. Se il governo tedesco aumentasse la spesa di mezzo punto di Pil, sarebbero 14 miliardi di euro all’anno in più in circolazione. E gli effetti si vedrebbero a cascata sull’intera area dell’euro. Ma si potrebbe andare anche ben oltre lo 0,5%. Prima che in Germania il deficit raggiunga il limite massimo del 3% ci sarebbe un margine fino a 75 miliardi. È questa la vera flessibilità di cui parlare. Piuttosto che chiedere sconti per l’Italia, Matteo Renzi, come abbiamo già detto, deve convincere la cancelliera Merkel a reflazionare l’economia tedesca, non solo a proprio vantaggio, ma anche, e soprattutto, per le ricadute positive su tutti i paesi dell’area euro.

In questa sfida, il presidente del Consiglio italiano avrebbe con sé non solo il Fondo Monetario Internazionale, che ha fatto i conti, ma anche la Commissione europea, e la fortissima sponda del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America.

L’euro tedesco, di fatto, contro ogni volontà e sogno, ha distrutto l’Europa, creando squilibri crescenti, appunto, nelle bilance dei pagamenti; e tassi di rendimento sui debiti sovrani divergenti, senza alcun meccanismo di redistribuzione e di riequilibrio. È questa la malattia mortale che ci affligge. Perché gli squilibri nei rapporti tra esportazioni e importazioni e nei flussi di capitali si riflettono sul deficit e sul debito pubblico degli Stati.

La soluzione, dunque, al di là di tutto quanto fatto (inutilmente) finora è una sola: i paesi che registrano un surplus nella bilancia dei pagamenti (che include sia i movimenti delle merci sia i flussi di capitali) hanno il dovere economico e morale non di prestare i soldi, non di “salvare” gli altri paesi, ma di reflazionare. Cioè aumentare la loro domanda interna.

A questo punto serve a poco il meccanismo di multe, elaborato ad hoc dalla Commissione europea e che fino ad oggi non ha funzionato, per i paesi che superano la soglia, troppo alta, quindi inefficiente, del 6% nel rapporto tra esportazioni e importazioni (alla Germania, che ha un surplus superiore al 7%, è stato fatto solo un semplice richiamo). La via da seguire è un’altra e più efficiente.

Le altre sfide del governo Renzi in campo economico sono, abbiamo detto, il mercato del lavoro (e se ne parliamo ancora vuol dire che il decreto Poletti, come avevamo previsto, è risultato insufficiente) e il fisco. Sul primo il dibattito è più che aperto e sembra andare nella direzione giusta se l’intenzione del governo è quella, auspicata tanto da Forza Italia quanto dal Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano, di una sospensione per 3 anni dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A cui aggiungere un maggiore spazio alla contrattazione aziendale rispetto alla contrattazione collettiva. Come chiesto all’Italia, tra l’altro, dalla Banca centrale europea nella famosa lettera del 5 agosto 2011, ove, tuttavia, si riconosceva l’importanza dell’accordo del 28 giugno 2011 tra l’allora ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e le principali sigle sindacali e le associazioni industriali in tema di riforma del sistema di contrattazione salariale collettiva.

Per quanto riguarda la riforma del fisco, infine, il governo ha la strada segnata: basta solo procedere con i decreti legislativi di attuazione della delega fiscale, approvata in via definitiva dal Parlamento già a febbraio, che non possono più aspettare. Meno tasse dunque in Italia, finanziate dalla riduzione della spesa corrente, ma anche in Europa. In totale e piena sincronia, per avere un New deal e più consumi, più investimenti produttivi e infrastrutturali, più competitività e più crescita.

Sono queste le cose da fare: tre (mercato del lavoro, fisco, Europa), semplici e definite, onde evitare quell’affanno operativo e quella caotica inconcludenza temuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e che Commissione europea e mercati finanziari non ci perdonerebbero. Tre scelte che sono da sempre nell’agenda Berlusconi oggi, come già erano anche nel programma della coalizione di centrodestra con cui sono state quasi vinte le elezioni di febbraio 2013, grazie ai voti di dieci milioni di italiani. E come erano nell’agenda liberale del 1994. È questo il programma da realizzare per porre rimedio ai troppi errori che negli anni della crisi sono stati fatti dall’Europa a trazione tedesca. E su questo il governo sarà chiamato a confrontarsi, dopo la pausa estiva, con il Parlamento e con il paese. Non servono all’Italia redistribuzioni furbesche del reddito per comprare consenso, come è avvenuto nel caso degli 80 euro, che tanti guasti e squilibri hanno creato nei conti pubblici italiani (se n’è accorto perfino il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Delrio), ma di una limpida visione. Meno tasse, più lavoro, più crescita, più Europa.

L’unica strada per competere

L’unica strada per competere

Mariana Mazzucato – La Repubblica

L’economia dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competitività tra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma se il presidente della Bce Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa «debole, fragile e disomogenea», il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria, nel 2007, i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è no: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso. Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito – soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero. L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi – risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” – e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita – salvataggio – misure di austerità – assenza di crescita – salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura – non il coraggio necessario per cambiare strada.

La nuova “i” di Piigs

La nuova “i” di Piigs

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Se non sono bastati sette anni di crisi per capirlo, almeno adesso c’è la controprova: le riforme economiche funzionano. L’Italia è l’unico paese tra i “Piigs” a non aver adattato il proprio sistema produttivo al nuovo scenario economico internazionale ed è anche, guarda caso, l’unico in recessione. Non è a sproposito, quindi, che Mario Draghi ha evocato “cessioni di sovranità” pur di superare “la generale incertezza che circonda le riforme economiche” nei paesi recalcitranti. Non ha nominato il nostro, ma è ovvio che stesse pensando all’Italia. Perché siamo tornati a essere il grande malato d’Europa. Anzi, l’unico. Ed è inutile incolpare i vincoli europei, la congiuntura internazionale o, peggio, prendersela con la Bce per (presunta) lesa maestà. Non è stata una gran mossa essere scesi in polemica con Draghi – cosa che neppure Berlusconi ebbe l’incoscienza di fare, mentre Tremonti ci provò senza dirlo – proprio mentre Moody’s prevede che noi si finisca l’anno con il meno davanti (vuol dire stare in recessione altri sei mesi) e quando altrove, a riforme fatte, le cose cominciano invece ad andare bene.

Dopo aver rischiato il default nel 2011, per esempio, la Spagna è tornata a crescere – aumenti congiunturali per i primi due trimestri dello 0,4 e dello 0,5 per cento – tanto che il Fondo monetario ha aggiornato al rialzo le stime sul pil, che dovrebbe segnare un solido +1,2 per cento a fine anno, un boom se paragonato al meno zero virgola qualcosa italico. Ma la Spagna vince anche nelle vendite al dettaglio (+0,5 contro -0,7 per cento), nelle esportazioni (+8,1 contro +3,3 per cento) e in quell’indicatore che è lo spread (25 punti in meno quello spagnolo, sia quando veleggia intorno ai 150 punti sia quando si avvicina ai 200). Questa ripartenza è stata possibile perché Madrid, a differenza nostra, ha accompagnato l’austerità con il taglio delle spese della Pubblica amministrazione sia dal lato degli stipendi (abolizione della tredicesima), che su quello dell’organizzazione, e ha riformato il sistema di welfare intervenendo anche sulle pensioni (unica misura che abbiamo introdotto pure noi, con Monti). Ma, soprattutto, ha reso flessibile il mercato del lavoro, puntando sulla contrattazione decentrata e consentendo il licenziamento senza indennizzo nel primo anno di contratto.

Nonostante le manifestazioni di protesta e le opposizioni corporative e settoriali, il governo Rajoy è andato avanti nell’introduzione delle riforme e ora, con l’economia che è ripartita, ha messo in cantiere una riforma fiscale per ridurre le tasse. E sta pure estinguendo il prestito di 40 miliardi che la Ue ha erogato nel 2012 per salvare le banche iberiche. Anche Portogallo e Irlanda sono usciti dalle procedure di salvataggio della Troika. Lisbona, dopo aver semplificato gli oneri burocratici per le imprese, tagliato i tempi della giustizia civile, aperto alla concorrenza i settori protetti, favorite la contrattazione decentrata e la flessibilità in uscita, crescerà dell’1,2 per cento nel 2014 e dell’1,5 per cento nel 2015, con la bilancia dei pagamenti in surplus e la disoccupazione in calo da cinque trimestri consecutivi. Dublino ha guadagnato l’1,7 per cento dal 2011, lo stesso numero che dovrebbe fare anche nel solo 2014, per poi raggiungere il 2,5 per cento nel 2015. Perfino la Grecia, tecnicamente già fallita e con oltre 26 punti di pil persi dal 2008, quest’anno dovrebbe segnare +0,6 per cento, con Moody‘s che ha appena alzato di due gradini il giudizio sul debito sovrano di Atene.

Dopo amare medicine, insomma, gli altri paesi stanno tornando in forma, applicando, pur tardivamente, la strategia tedesca, attuata prima della crisi, per adattare il sistema produttivo ai nuovi parametri internazionali. In Italia, invece, del declino non si vede la fine. Eppure la sera delle elezioni europee si guardava al governo di Roma come al prescelto per cambiare il destino del continente, perché l’unico esecutivo con la forza politica ed elettorale per modificare la strategia economica europea. Che effettivamente è da cambiare, ma avendo la credibilità acquisita avendo fatto i compiti a casa. Nemmeno due mesi e siamo tornati la pecora nera, proprio a causa delle riforme non fatte (Draghi dixit). Quello “comprato” dalla Bce è stato tempo inutile, come inutili sono state e saranno le misure convenzionali della nostra assai poco coraggiosa politica economica (ammesso e non concesso che si possa definire tale). Gli altri, i “Pigs”, hanno adattato il loro sistema produttivo, burocratico e fiscale alla realtà globale e alla moneta comune – anche perché vincolati dagli aiuti finanziari internazionali – mentre l’Italia, l’altra “i” dei “Piigs”, essendosi sempre rifiutata di prendere atto di appartenere al “club dei maiali” o quindi avendo sdegnosamente allontanato qualunque soccorso, adesso rischia di doverlo subire forzosamente, quell’aiuto “esterno”. Per fare le riforme che la politica nazionale non è stata e non sembra ancora in grado di fare. Piaccia o non piaccia all’inquilino di Palazzo Chigi.

Il paradosso del nostro benessere

Luca Ricolfi – La Stampa

Quel che mi colpisce, nei commenti degli ultimi giorni, è il modo in cui ci stiamo risvegliando dal nostro sogno di mezza estate. Di fronte agli ultimi dati negativi su crescita, consumi e spread, alcuni studiosi si limitano a riproporre le proprie ricette, come ad ammonire il premier: hai visto che, finché non fai quel che ti diciamo noi, le cose non possono cambiare? Accanto a questo filone un po’ ripetitivo, però, ce n’è anche un altro, tutto sommato più interessante. Alcuni commentatori, anziché insistere sulle omissioni del governo (soprattutto in materia economico-sociale), paiono suggerire che, in fondo, il problema siamo noi italiani. Un po’ per i soliti motivi, ovvero il fatto che quasi tutti hanno qualcosa da perdere da un vero cambiamento, ma un po’ anche in base a un ragionamento piuttosto sofisticato sul rilancio dell’economia. L’idea, detta in poche parole, è che nelle condizioni attuali non ci sia politica economica che possa trarre l’Italia fuori delle secche su cui si è arenata. Secondo questo modo di pensare una vera ripresa richiederebbe una ripartenza della domanda interna, e una tale ripartenza sarebbe impossibile senza un ritorno di ottimismo, fiducia, speranza, entusiasmo, coraggio morale. Per dirla con l’efficace formula di Mario Deaglio: «la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani», i quali «hanno le risorse per dare una forte spinta propulsiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere» (La Stampa, 7 agosto 2014).

Resto sempre un po’ perplesso quando, per risolvere un problema, vengono invocati atteggiamenti morali e stati d’animo, perché mi sembra un po’ una confessione di impotenza, come se dicessimo: abbiamo esaurito tutte le cartucce che avevamo, ora non ci resta che mobilitare la nostra forza di volontà. In questo caso, tuttavia, la mia diffidenza per i rimedi idealistici si basa anche su due osservazioni di fatto, entrambe legate in qualche modo al benessere raggiunto dagli italiani.

La prima osservazione è che, nonostante la crisi e nonostante una parte delle famiglie italiane (circa 1 su 5) versi in gravi difficoltà, sia il nostro tenore di vita sia la nostra ricchezza familiare accumulata (fra le maggiori al mondo), restano abbastanza elevate da tenere molto bassa l’offerta di lavoro degli italiani (non così quella degli immigrati, che sono l’unico gruppo sociale rilevante che continua a guadagnare posti di lavoro). Detto con le crude parole di un amico napoletano, «finché c’è pasta e vongole» difficile pensare che gli italiani si risveglino dal loro torpore, tanto più in una situazione in cui la rapacità del fisco erode inesorabilmente i guadagni di tutti.

La seconda osservazione è che la paura degli italiani, e la loro scarsa propensione a spendere, non sono campate per aria, ma hanno un fondamento abbastanza preciso. Quel fondamento è la politica della casa, forse l’unica cosa importante che accomuna gli ultimi tre governi (Monti, Letta e Renzi). Il valore dell’abitazione, infatti, non solo è un elemento di tranquillità economica, ma è una delle determinanti cruciali che sostengono i consumi e la propensione a indebitarsi per consumare (una stima della Banca d’Italia di qualche anno fa quantificava in 25 miliardi l’impatto sui consumi di una variazione di 1000 miliardi del valore del patrimonio immobiliare).

Ebbene, sulla casa, negli ultimi 4 anni, abbiamo sciaguratamente seguito il mantra europeo della iper-tassazione dei patrimoni, nella presunzione (a mio parere errata, almeno per l’Italia) che le imposte sulla ricchezza siano poco dannose per la crescita. Il risultato è che per raccogliere 10-15 miliardi di tasse in più abbiamo abbattuto il valore del patrimonio immobiliare degli italiani di un ammontare che è difficile da stimare con precisione, ma che certamente è di un altro ordine di grandezza, diciamo almeno 30 volte maggiore (ricordiamo, giusto per dare un’idea, che il patrimonio immobiliare degli italiani si aggirava sui 5 mila miliardi nel 2007, e da allora è diminuito di almeno 1000 miliardi).

È così che, grazie alla politica, nel giro di pochi anni ci siamo ritrovati molto meno ricchi, e soprattutto molto più timorosi per il futuro. Fino a pochi anni fa chi aveva una casa poteva pensare di avere una riserva di valore racchiusa in un forziere, e se riusciva ad affittarla poteva anche pensare di percepirne un reddito, sia pure modesto. Proprio per questo poteva permettersi di consumare, e qualche volta di indebitarsi per consumare. Oggi chi ha una casa, e la maggior parte degli italiani ne ha una, non la vive come un tesoro ma come un fardello. Non può venderla senza svenderla. Se aspetta a venderla non può escludere che fra 5-10 anni valga ancora di meno di oggi. Se l’affitta non sempre riesce a coprire i costi della manutenzione e delle tasse. Se non la affitta si dissangua grazie alle molteplici tasse che comunque deve pagare.

In una situazione del genere, come stupirsi dei dati comunicati dall’Istat nei giorni scorsi? Secondo una rilevazione iniziata oltre vent’anni fa (1993), la delusione degli italiani per la situazione economica non è mai stata forte come nell’ultimo anno (2013). Né sembra che il clima di fiducia stia migliorando, a giudicare dalla rilevazione di luglio sui consumatori. Quello di fronte a cui ci troviamo, temo, è una sorta di paradosso del benessere. Abbastanza ricchi per poterci permettere ancora qualche anno di inerzia, ci siamo tuttavia impoveriti così tanto e così bruscamente, fra il 2007 e oggi, da non osare più consumi avventati. Forse è per questo che gli appelli all’ottimismo, da chiunque provengano, non funzionano più.

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Caro premier, ecco cosa può fare lo Stato

Mariana Mazzucato – La Repubblica

Caro presidente, ho visto dai giornali che lei ha comprato il mio libro “Lo Stato Innovatore”, questo mi ha suggerito l’idea di scriverle una lettera. L’Italia a crescita bassa è tornata in prima pagina. Una delle tesi del libro è che per tirarsi fuori da questo marasma è indispensabile rendersi conto di dove sta il problema. Il problema non sta in un settore pubblico “burocratico” che in qualche modo ostacola la crescita di un settore privato altrimenti dinamico e innovativo. Il problema è che, in assenza di un settore pubblico dinamico e innovativo, la crescita nel settore privato è impossibile da ottenere.

Partiamo dal contesto: i problemi dell’Italia non derivano da un eccesso di dimensioni e di spesa riferito al settore pubblico, ma dal fatto che questo non è sufficientemente attivo e in realtà non spende quanto i suoi principali concorrenti in tutti gli ambiti fondamentali che determinano la crescita della produttività (e quindi la crescita a lungo termine del Pil), ossia capitale umano, istruzione, ricerca e tecnologia. Il deficit italiano prima della crisi si attestava sotto la media Ue. Ma se la produttività (e quindi il tasso di crescita del Pil) è quasi ferma da 20 anni per l’assenza di investimenti di questo genere, anche con un deficit relativamente basso il quoziente debito/ Pil può continuare ad avere una crescita esponenziale (perché il denominatore è statico).

Che fare? È proprio questo l’oggetto del libro. Cosa intendo per Stato Innovatore? Intendo uno Stato che sia disposto a pensare in grande e capace di farlo, che sappia attirare i migliori cervelli nelle sue varie branche, gettare per primo le basi in nuovi fondamentali comparti ad alto rischio, che solo successivamente attireranno il settore privato. Che sia capace anche di costruire un sano rapporto simbiotico, non parassitario, tra i settori pubblico e privato, così che la crescita conseguente non sia solo “intelligente”, ma anche più inclusiva.

Nel libro ricorro all’esempio dell’iPhone per sfatare i luoghi comuni sulla Silicon Valley. Tutte le tecnologie che rendono così “intelligente” quel telefono sono state finanziate negli Usa dal settore pubblico: Internet, Gps, touch screen e persino la nuova Siri a comando vocale. Lo stesso vale per le biotecnologie, le nanotecnologie e la frattura idraulica (per l’estrazione dello shale gas), tutti settori industriali frutto di decenni di investimenti pubblici che hanno preceduto gli investimenti privati. Steve Jobs era ovviamente un genio, ma al pari di altri imprenditori statunitensi, ha “surfato” le gigantesche onde create dallo Stato. In molti paesi europei oggi non sono i surfisti a mancare, ma l’onda. E l’onda serve non solo nei comparti ad alta tecnologia, ma anche in settori affamati di rinnovamento e trasformazione, come il tessile, l’industria automobilistica e l’agricoltura. Vale anche per l’arte, che diventerà un vero patrimonio nazionale solo quando sarà posta al centro di una strategia di crescita che utilizza i poteri della rivoluzione informatica per diffonderla e divulgarla a livello internazionale.

Il settore pubblico, ovviamente, non può fare da solo. Serve un settore privato altrettanto impegnato. Oltre ad avere uno dei tassi più bassi di spesa pubblica in R&S; (riferito al Pil) l’Italia registra anche uno dei livelli più bassi di spesa privata nel settore. La responsabilità non è imputabile alla “normativa”, ma all’assenza di una sana tensione tra Stato e imprese. Un valido esempio? La Fiat attualmente non investe in motori ibridi in Italia, ma lo fa negli Stati Uniti perché Obama lo ha posto come condizione per il salvataggio dell’industria automobilistica. Ecco un altro mito che va a farsi benedire: gli Stati Uniti, la patria del libero mercato, che impongono le politiche industriali al settore privato. E non è certo un caso unico. Il mitico Bell Labs, uno dei laboratori di ricerca privata più innovativi, al centro della rivoluzione informatica, nacque da un teso negoziato tra lo stato e At&t;, all’epoca un monopolio, in cui lo stato esigeva che gli utili privati fossero reinvestiti nell’economia “reale”, in aree che creassero beni pubblici.

Anche se il libro non si incentra sulle società a capitale pubblico, bensì sul rapporto tra i settori pubblico e privato, esamina con occhio critico il genere di strategie che portarono alla nascita dell’Eni e dell’Iri, che ebbero effettivamente un ruolo chiave negli anni d’oro dell’Italia, quando agivano in accordo con la loro missione e attiravano manager di massimo livello. Da pubbliche, ma indipendenti e guidate da esperti, furono un successo. Una volta divenute semplice appendice dei partiti politici smisero di funzionare – diventando il problema, non la soluzione. In realtà, ironicamente, fustigando lo Stato e spacciando la privatizzazione come panacea sarà estremamente difficile attrarre le competenze che queste istituzioni pubbliche richiedono, oggi come allora. A capo del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti poco tempo fa c’era un fisico premio Nobel, Steven Chu. Ha fondato Arpa-e a cui ha dato l’incarico di promuovere e finanziare la ricerca e lo sviluppo delle energie rinnovabili, come fece a suo tempo la Darpa per Internet. Anche la Germania oggi cresce non perché “tira la cinghia” ma perché ha una banca pubblica strategica, la KfW, che offre capitale paziente alle imprese e ai settori più innovativi- e di istituzioni finanziate dallo Stato come la Fraunhofer, che creano le connessioni tra scienza e industria mancanti in Italia.

Spero che queste riflessioni la incoraggino a cambiare il modo di parlare di politica economica in Italia, abbandonando i soliti discorsi che si trascinano pigri, come se il problema stesse solo nel togliere la burocrazia, nelle riforme del mercato del lavoro, e del fisco. Per arrivare invece a un dibattito nuovo che sproni i settori pubblico e privato ad un maggiore impegno mirato agli investimenti e alla crescita guidata dall’innovazione. Il bonus di 80 euro al mese è indubbiamente utile a molte famiglie in condizioni difficili, ma per una crescita a lungo termine dei redditi, che abbia effetti decisivi sulla domanda dei beni di consumo e sul tenore di vita, è necessaria una strategia di innovazione industriale che porti più posti di lavoro, e soprattutto ne migliori la qualità.