crisi

Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.  

E’ ora che lo stato torni a investire

E’ ora che lo stato torni a investire

Alessandro Zeli – Il Sole 24 Ore

Gli squilibri generati sui mercati esteri e quindi i disavanzi del settore privato si scaricano infatti, con l’acuirsi della crisi, sul bilancio pubblico. I canali attraverso i quali si innesca la crisi del debito sono da una parte la diminuzione delle entrate dovuta al calo delle attività e dall’altra l’aumento per la spesa per il sostegno alla disoccupazione e alle perdite bancarie. Il debito raggiunge via via traguardi sempre maggiori accelerando negli ultimi anni anche a causa della politica pro-ciclica dei tagli alla spesa e di aumento delle entrate raggiungendo e superando la soglia dei 2000 miliardi di euro. La crescita del debito deriva, naturalmente, dall’aumento dell’indebitamento (grafico 1) che nonostante le politiche deflattive del governo Monti tende a crescere anche negli ultimi anni a causa soprattutto della componente legata alla spesa per interessi.

Se si analizzano più in dettaglio le varie componenti delle uscite, escludendo dall’indebitamento le spese per interessi, le tendenze possono sottolineare aspetti diversi (grafico 2). Come si può notare dal grafico ormai il bilancio dello Stato si trova stabilmente in una situazione di avanzo primario con l’eccezione del 2009 dovuta all’approfondirsi della prima fase della crisi. Le politiche di contenimento della spesa sono, pertanto, sempre più finalizzate al servizio del debito creando un circuito redistributivo che va dal contribuente (o dal beneficiario dei trasferimenti statali) verso i creditori (nazionali ed esteri) dello Stato, ossia il sistema finanziario. È interessante notare come il governo Monti abbia garantito i creditori esteri facendo scendere la percentuale di titoli del debito in loro possesso da circa la metà a circa un terzo del totale.

Le dinamiche comparate della spesa primaria e della spesa per interessi mettono ancor più in evidenza il divaricamento in favore di queste ultime. La spesa primaria e, quindi, tutte le spese dello Stato per la sua organizzazione e le spese per i trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, welfare) per la prima volta, negli ultimi tre anni diminuiscono. Questo testimonia, ulteriormente, che la crescita del debito primario è stata messa sotto controllo. Gli interessi passivi registrano, invece, una dinamica accelerata rispetto al resto della spesa con una tendenza ad un’ulteriore crescita proprio negli anni del rigore montiano per effetto della manovre di tagli pro-ciclici che hanno diminuito la spesa e quindi anche il gettito creando una situazione di “sovraggiustamento”.

Il peso del servizio del debito tende ad aumentare per via della diminuita credibilità del Paese a restituirlo, tuttavia la credibilità è una medaglia che presenta due facce in sé contradditorie. Da un lato, in un’ottica di breve che si può definire finanziaria-speculativa, si esigono sempre maggiori tagli alla spesa primaria per poter avere maggiori disponibilità per il pagamento degli interessi con effetti depressivi sulla domanda interna, dall’altra, con un’ottica di lungo che si può definire di economia reale, lo spread, e quindi il livello tendenziale dei tassi sul debito, tende ad aumentare in assenza di prospettive di crescita, quest’ultima depressa, appunto, dal calo di domanda.

Il Paese si trova, pertanto, stretto tra le due braccia di una tenaglia: la prima data dalla perdita di capacità produttiva e quindi in prospettiva di piena ripresa e pieno utilizzo dei fattori produttivi dovuta alla perdita di competitività all’interno dell’area Euro e, l’altra, dal drenaggio di risorse sempre più cospicue verso i finanziatori del debito: interni ed esteri.

In conclusione manca un mix di politica economica a livello europeo tale da poter risolvere i reali problemi di competitività della nostra economia. La politica monetaria guidata dalla Bce ha svolto il compito di fermare la crescita dello spread (almeno per il momento) e di tenere i tassi a livelli molto bassi. La politica fiscale, da parte sua, non può avere come scopo solo i tagli di spesa (cui peraltro il nostro Paese ha ottemperato meglio e prima di altri, in possesso di ranking e credibilità anche superiore al nostro). È arrivato il momento di ricostituire un programma di investimenti pubblici per indirizzarli sia verso un reale recupero della competitività, sia verso un sostegno della domanda interna e della capacità di spesa di imprese e famiglie.

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Riforma del Senato, Draghi, Alitalia: tre fotografie della crisi

Stefano Folli – Il Sole 24 Ore

La riforma del Senato – la riforma Renzi – che supera, sia pure con affanno, il primo passaggio parlamentare. Mario Draghi che indica i ritardi nelle riforme strutturali dell’economia e accenna a “cessioni di sovranità”. I dipendenti Alitalia che si astengono in massa dal lavoro recapitando certificati medici di comodo. L’Italia di oggi è racchiusa drammaticamente in queste tre foto.

Nonostante le apparenze, c’è un filo che lega questi tre momenti diversi fra loro. La riforma del Senato, a cui Renzi ha legato fin troppo la sua immagine, simboleggia lo sforzo generoso di puntare sul riassetto istituzionale (insieme al Titolo V e alla giustizia) come biglietto da visita della nuova Italia giovane e dinamica. Ottimo proposito, magari anche vincente nel lungo periodo, ma dagli esiti pratici per adesso poco significativi. Anche perché il cammino di queste riforme non sarà breve.

Il premier ritiene giustamente che nel progetto innovatore ci sia un dividendo psicologico da incassare subito, trasmettendo agli italiani l’idea di una marcia inarrestabile. È vero, quasi sempre il messaggio efficace è quello che incrocia la psicologia di massa e Renzi nei suoi primi mesi si è rivelato un maestro nel suscitare speranza. Adesso però il quadro si è ribaltato e la stessa riforma del Senato arriva con qualche giorno di ritardo. Si è detto che i dati sulla recessione segnano la rivincita dei realisti sui sognatori. Se è così, Renzi non ha altra strada se non diventare ancora più sognatore e mostrarsi altrettanto determinato a procedere sulla via delle riforme. Ogni altra scelta apparirebbe una resa.

Il problema è che l’immagine del riformatore adesso è scalfita da un senso di impotenza, anche per la debolezza del disegno complessivo. Prendersela con il giovane premier sta diventando uno sport nazionale, secondo un costume molto italiano. Peraltro i fatti dicono che forse era sbagliata la scala delle priorità. E qui si inserisce l’intervento di Draghi, giudicato come uno spietato richiamo alla realtà, cioè alle vere riforme che dovrebbero essere al centro dell’azione di governo. Ieri sera alla “Sette” il premier è stato lesto a dichiararsi d’accordo con il presidente della Bce: è la mia linea, ha detto, anch’io voglio più riforme e più incisive. Reazione politica ovvia, ma dietro la quale s’intravede il secondo livello della crisi. Se l’Italia non riesce a sollevarsi da sola, l’Europa non permetterà che vada alla deriva e gli interventi potrebbero essere molto decisi. Certo, come osserva Renzi, Draghi non ha citato l’Italia quando ha evocato la «cessione di sovranità». Ma tutti quelli che dovevano capire hanno capito.

Infine c’è la terza istantanea: la più inquietante, se non la più tragica. Quei certificati di malattia presentati in massa dai dipendenti dell’Alitalia, grazie alla complicità di medici meritevoli di una rapida inchiesta, sono anch’essi un simbolo, al pari delle valigie abbandonate di chi non riesce a partire o arrivare. È il simbolo di un’Italia ottusa che si è già estraniata dal mondo.

Contro questa Italia chiusa nel suo micro-corporativismo non c’è argomento che tenga. Né il riformismo solitario e magari un po’ velleitario di Renzi, né il richiamo severo di Draghi alla dimensione europea. Non vale la politica-spettacolo che si attira tante critiche, ma almeno prova a comunicare con i cittadini, sia pure attraverso un codice populista. Tanto meno vale l’analisi delle cifre o l’appello alla verità austera dei numeri. Ai sanfedisti dell’Alitalia è inutile proporre la distinzione fra sognatori e realisti. Il loro disprezzo per le regole della vita civile è palese e coincide con il disprezzo verso i viaggiatori. È un segmento d’Italia che crede di essere più forte, come pensavano di esserlo i controllori di volo messi alla porta da Reagan.

Basta aspirine, costringiamo l’Ue a sostenerci

Basta aspirine, costringiamo l’Ue a sostenerci

Gaetano Pedullà – La Notizia

Sai che sorpresa il dato dell’Istat! Come se vedere un +0,2 o un -0,2% cambiasse la realtà dei fatti: siamo alla canna del gas! Troppi anni di tagli agli investimenti, di disoccupazione galoppante e di consumi al lumicino non potevano che portarci nel baratro in cui siamo. Adesso la sfida sta nel tirarci fuori dalla recessione. E qui le strade sono due, a meno che non vogliamo continuare a curarci con l’aspirina: o si esce dall’Eurosistema – con tutti i problemi che questo comporta, ma con la certezza che dopo un anno di immani sacrifici la nostra produzione industriale schizzerà alle stelle per effetto della svalutazione sulla nuova moneta – oppure si va prima possibile a Bruxelles per offrire uno scambio all’Europa. Noi mettiamo sul piatto una serie di riforme strutturali e l’Unione ci permette di mettere cento miliardi l’anno per almeno tre anni a disposizione della crescita, tagliando tasse e cuneo fiscale sul lavoro.

L’Europa e i tedeschi soprattutto faranno di tutto per mettersi di traverso, ma oggi in queste condizioni l’Italia per assurdo ha un argomento fortissimo con cui farsi sentire: il nostro mostruoso debito pubblico. Una cifra che, diciamo la verità, nelle attuali condizioni non potremo restituire mai. Allora piuttosto che perdere tutto o gran parte dei crediti è ora che la comunità – se è tale davvero – ci faccia scudo e aiuti la ripresa. Se invece comunità non è, tanto vale tornare presto alla lira. Perché una fine spaventosa è sempre meglio di uno spavento senza fine. E la prospettiva di decenni di manovre fiscali e austerità sono peggio di un film dell’orrore.

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

L’Italia tornerà ai livelli pre-crisi solo nel 2042

Come dimostra plasticamente il grafico qui sotto il passo indietro del Pil certificato ieri dall’ISTAT non è un’eccezione nell’accidentato percorso post-crisi del nostro paese ma la triste regola. Nelle ultime 12 rilevazioni trimestrali, solo in un caso (quarto trimestre 2013) l’Italia ha fatto registrare un segno positivo: ma la dimensione della crescita registrata (+0,1%) fa pensare più ad una casualità che ad un seppur timido segnale di inversione di tendenza.

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Il livello del nostro PIL in valori reali è oggi il più basso dal 2000 e mentre tutte le grandi economie europee hanno iniziato a dare segnali confortati di vitalità, il belpaese diventa sempre più – assieme al caso disperato della Grecia – il grande malato d’Europa. 

fonte grafico: Silvia Merler, http://smerler.wordpress.com/2014/08/07/italy-and-the-cycle-that-didnt-turn/

 

Questo grafico spiega la recessione italiana meglio di qualsiasi analisi tecnica: fatto 100 il Pil delle principali economie europee nel primo trimestre della crisi economica (il secondo del 2008) notiamo come tutti i paesi abbiano pagato la crisi con un arretramento del Prodotto Interno Lordo che inizia ad arrestarsi verso la fine del 2009, per ricominciare a crescere in tutto il continente. Francia, Germania e Regno Unito hanno tutti, in tempi diversi, riconquistato i livelli di Pil che avevano prima della crisi. La Spagna sembra avere finalmente invertito la tendenza mentre l’Italia rimane stancamente in coda, allontanandosi sempre più da quella linea rossa che rappresenta il Pil prima del terremoto dei mercati finanziari.

fonte grafico: Centro Studi Bruegel, http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1410-chart-the-uk-reaching-pre-crisis-gdp-levels

Quanto tempo ci servirà per tornare là dove eravamo? Difficile dirlo: continuando a non crescere, come è ovvio, non ci arriveremo mai. Ma anche immaginando di lasciarci andare al più sfrenato ottimismo tipico dei governi italiani c’è poco da stare allegri: volessimo rientrare ai livelli di ricchezza del 2008 in 6 anni avremmo bisogno di una crescita dell’1,5% che appare davvero poco plausibile mentre se crescessimo ai ritmi pre-crisi (+1,26% all’anno) ci torneremo nel 2021.
Tornando un po’ più con i piedi per terra, invece, e sperando di poter crescere nei prossimi anni con ritmi compresi in una forbice tra lo 0,1% e lo 0,5% l’obbiettivo non proprio esaltante di ritornare al 2008 sarebbe raggiungibile tra il 2031 con crescita allo 0,5%, il 2042 con crescita allo 0,3% e il 2096 se la nostra crescita dovesse dimostrarsi particolarmente debole (0,1%).  

Nota: Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat e Istat

Il confronto con i principali paesi europei e mondiali è impietoso. L’Italia è in ritardo tra i 21 e gli 86 anni rispetto a Svezia e Svizzera, tra i 20 e gli 85 rispetto a Usa, Francia e Germania e tra 17 e 81 rispetto al Regno Unito. Non c’è che dire: uno spread piuttosto alto.  
 Pil wp
Perché siamo gli ultimi della classe

Perché siamo gli ultimi della classe

Mario Deaglio – La Stampa

Perché mai quando il resto del mondo ricco si prende il raffreddore, l’Italia rischia la polmonite? Perché mai, gli altri Paesi fanno passi avanti, sia pure con fasi alterne, sulla via della ripresa mentre l’Italia si conferma sempre l’ultima della classe, pur avendo fatto molti sforzi negli ultimi anni? Questo interrogativo è riproposto con forza da una discesa superiore alle attese del prodotto lordo italiano. Indebolisce l’euro sui mercati finanziari, pone fine alla «luna di miele», breve oltre che tempestosa, tra governo e Paese, si riflette immediatamente sulle valutazioni che la finanza internazionale compie sul debito pubblico italiano, facendo aumentare il temutissimo «spread», vero termometro della nostra debolezza.

Per cercare un risposta occorre separare i dati dalla retorica dello sfascio. Tenendo anche conto dell’imprecisione delle misurazioni statistiche, i dati confermano un quadro di stagnazione assai più che denunciare un grave peggioramento; l’economia italiana non sta affondando. Si tratta però di un vecchio barcone che galleggia a fatica, pur presentando al suo interno segnali di ripresa, differenziati tra settori e regioni, che non riescono a rafforzarsi in maniera decisiva. La domanda interna ha tenuto e il rallentamento dell’economia deriva pressoché esclusivamente dal rallentamento delle esportazioni che ci hanno mantenuto a galla per tanto tempo. Non bisogna cedere a suggestioni troppo negative, alle reazioni a caldo di mercati finanziari che hanno sbagliato troppe volte. Tutto questo è corretto, ma sarebbe superficiale e anche irresponsabile cavarsela così. Ci sono alcune lezioni sgradevoli che il governo e l’opinione pubblica devono meditare.

La prima lezione è che la recessione passerà quando passerà la paura degli italiani. Le famiglie italiane – nel loro complesso e tenendo conto di situazioni di crescente disagio reale – hanno le risorse per dare una forte spinta positiva alla domanda interna effettuando i normali consumi che le loro finanze sono in grado di sostenere. Preferiscono invece aumentare i risparmi perché influenzate dal taglio negativo delle notizie economiche. Le riprese vere non avvengono per magia. Non si può pretendere che quelle riforme approvate dopo vent’anni di immobilismo agiscano in circa trenta settimane di un nuovo governo. Si tratta di un processo lungo e duro che oltre ai tecnicismi richiede l’ottimismo. Senza ottimismo, senza progettualità, senza piani aziendali e piani di vita personali è difficile che ci sia davvero una ripresa che vada al di là di un rimbalzo tecnico. Il governo deve prendere atto che, pur avendoci provato e pur godendo di un largo e sostanziale consenso, quest’ottimismo non è (ancora?) riuscito a suscitarlo.

La seconda lezione è che le cose non si cambiano con sforbiciate più o meno lineari sulla spesa pubblica e con la distribuzione a pioggia di piccoli benefici fiscali. Le cose cambiano davvero solo se esistono vere politiche di cambiamento: lo sapeva anche la signora Thatcher che, con tutto il suo iper liberismo, impostò con decisione alcune linee guida per lo sviluppo dell’economia britannica. Queste linee sono carenti nel programma del governo – che ha dato prova in questi giorni di voler tornare ad antiche abitudini di spesa che sono alla base del nostro debito pubblico – ma, quel che è peggio, sono pressoché totalmente assenti nel dibattito politico. Non possiamo rilanciare davvero l’economia se non abbiamo un’idea, per quanto approssimativa, del tipo di Paese che vorremmo che l’Italia diventasse tra dieci o vent’anni e se non la perseguiamo con coerenza e decisione.

La terza lezione è che questi cambiamenti sono intrinsecamente dolorosi, proprio perché sono dei cambiamenti. L’esperienza politica – e in particolare quella parlamentare – dell’ultimo anno mostra una grande diffusione della convinzione che i cambiamenti devono soprattutto riguardare gli «altri». Per non modificare la propria situazione – giusti o sbagliati che siano i cambiamenti proposti – piccole categorie di lavoratori sono disposte a bloccare tutto, come si è visto con un’importante prima teatrale e con il servizio bagagli dell’aeroporto di Fiumicino. Se non si è disposti a cambiare non si riparte. È questa la vera lezione dei brutti dati economici del secondo trimestre.

Le speranze (mal) riposte

Le speranze (mal) riposte

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Gli economisti che si erano detti favorevoli agli 80 euro e non a un maxi-taglio dell’Irap per le imprese avevano sostenuto il provvedimento confidando che i redditi medio-bassi, beneficiari del primo e significativo taglio delle tasse deciso da tempo, spendessero immediatamente i soldi in più trovati in busta paga. La domanda interna ne aveva e ne ha un bisogno enorme e ci si augurava che gli italiani cogliessero al volo l’occasione. Purtroppo dobbiamo constatare che non è andata così. Non c’è stata trasmissione di input tra la riduzione dell’Irpef e l’aumento dei consumi e il motivo prevalente della débacle è abbastanza chiaro: c’erano in parallelo troppe (altre) tasse da pagare e quindi il popolo degli 80 euro ha dovuto abbassare le penne, ha rinunciato a fare shopping e ha malinconicamente accantonato i soldi per ridarli allo Stato sotto forma di Tasi, Tares e quant’altro. Tassa entra e tassa esce. Una partita di giro, se non addirittura una beffa.

Con il senno di poi viene da dire che la trasmissione ai consumi che non si è avuta avrebbe potuto essere stimolata da qualche accorgimento in più, ci volevano politiche di accompagnamento. Se commercianti e albergatori avessero preso a modello il marketing aggressivo di Ikea – solo per fare un esempio – e avessero promosso sconti e offerte speciali qualcosa forse si sarebbe mosso ma arrivati a questo punto è inutile palleggiarsi le responsabilità e litigare, come è accaduto ieri tra Confcommercio e Palazzo Chigi.

A questo punto bisogna essere più pazienti e più determinati allo stesso tempo, non decretare con troppa fretta il fallimento di un’operazione che rimane giusta e da settembre tornare a batere il chiodo con maggiore convinzione e spirito di iniziativa. Gli 80 euro in più restano comunque in busta paga per tutto il 2014, piuttosto non si sa se saranno confermati il prossimo anno e se la platea dei beneficiari verrà allargata, come pure sarebbe giusto. Ben vengano, dunque, i tagli alle tasse anche se bisogna sapere che miracoli non se ne fanno. L’attesissima ripresa dell’economia italiana si è spostata più in là e dovremo aspettare il 2015 per intravedere un incremento del Pil degno di questo nome. Ma dobbiamo anche sapere che la Grande Crisi ci consegna un’economia diversa rispetto a sei anni fa, i cicli non saranno più durevoli come in passato e le imprese dovranno attrezzarsi a fare i conti con mercati in eterna fibrillazione e consumatori impauriti. Facciamoci gli auguri.

Tagli sbagliati se c’è la crisi

Tagli sbagliati se c’è la crisi

Alberto Bagnai – Il Tempo

L’allarme di Confcommercio sulla pressione fiscale merita più di un commento. Certo, in Italia la pressione fiscale è elevata, e lo è anche perché ci sono molti evasori, che commettono reato e vanno perseguiti. Detta questa cosa, sacrosanta, forse banale ma ovvia, evitiamo due errori ideologici. Il primo consiste nel credere che la nostra sia una crisi di debito pubblico, causata dagli evasori, che non pagando le tasse avrebbero fatto lievitare il debito. Le cose non stanno così: i dati mostrano che prima della crisi il debito italiano diminuiva costantemente (-10 punti di Pil dal 1999 al 2007) eppure l’evasione c’era. Il vicepresidente della Bce ha ricordato nel maggio scorso che la crisi è stata causata dall’imprudenza delle banche private, che ora devono essere salvate coi soldi dei contribuenti. La crociata contro il barista che non fa lo scontrino è una delle tante armi di distrazione di massa che i governi stanno usando per nascondere le cause della crisi (un’altra è la «riforma» del Senato).

Il secondo errore consiste nell’affermare che i problemi si risolverebbero tagliando la spesa per tagliare le tasse. Intanto, la spesa pubblica italiana in proporzione al Pil storicamente è in media con quella europea: gli sprechi vanno combattuti, ma non c’è alcuna evidenza seria di spesa «eccessiva». Poi, la spesa pubblica si rivolge comunque all’acquisto di beni privati, quindi è reddito privato. Qualsiasi manuale di economia spiega che in recessione i tagli, pur se accompagnati da diminuzioni di tasse, sono nefasti, perché riducono il denaro in circolazione. Insomma, chiedendo di tagliare la spesa pubblica, Sangalli di Confcommercio chiede anche di ridurre gli incassi dei commercianti. Gli auguriamo di fare sul tema una riflessione più approfondita, prima che la facciano i suoi associati.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Le “piccole” che battono la crisi

Le “piccole” che battono la crisi

Andrea Biondi Il Sole 24 Ore

La Nuceria Adesivi (55 milioni di euro ), nata a metà degli anni 80 con sede a Nocera Superiore e attiva nel settore delle etichette e dei nastri adesivi è una delle aziende (che si contano sulle dita di una mano) autorizzate a produrre i bollini ottici farmaceutici. «Abbiamo creato un software che ci permette di dialogare in real time con i programmi dei clienti, che in genere sono multinazionali della cosmesi e della detergenza», spiega il direttore generale Guido Iannone, 30 anni. 

Ma fra chi ha legato il suo core business a innovazione e digitale un testimonial d’eccellenza è anche la Sigma, attiva nell’automazione industriale, 44 milioni di ricavi, con sede ad Altidona (Fermo), di cui tutti hanno inconsapevolmente contezza quando si avvicinano a bancomat o biglietterie self service (che produce). Altro caso è quello di EidosMedia, numero uno mondiale nel settore dei sistemi editoriali, con sede a Milano che ha fra i maggiori clienti «anche Newscorp », dice Gabriella Franzini, amministratore delegato di questa azienda da 40 milioni di euro di fatturato e 220 dipendenti «a oggi». 
Sono solo tre dei casi di cui si è parlato ieri a Milano durante la presentazione dei risultati dell’Osservatorio Pmi di Global Strategy. “Pmi italiane fra tradizione e innovazione” era il titolo del convegno – organizzato a Milano in collaborazione con Borsa italiana, con il supporto di Schroeders Wealth management e dello studio Negri-Clementi e cui hanno partecipato anche Fabio Vaccarono (Google Italia) e Alberto Baban (Piccola industria di Confindustria) – durante il quale sono stati presentati i dati. «Siamo onorati – dichiara Ugo Formenton, Head of Business Development di Schroders Wealth Management – di sostenere questa iniziativa che mettere in luce le storie di imprenditori che, nonostante le difficoltà, hanno saputo dimostrare di eccellere». La ricerca , spiega Antonella Negri Clementi, presidente e ad di Global Strategy «evidenzia come in Italia esista un gruppo di aziende che, nonostante operi in settori maturi, ha scelto di puntare su innovazione e internazionalizzazione». 
A questa passerella di positività hanno contribuito anche i casi di Elemaster (apparati elettronici), Foscarini (apparecchiature per illuminazione di design), Fabiana Filippi (tessile), per quelle che lo studio ha catalogato come Pmi “eccellenti”: aziende che crescono a un ritmo 3 volte superiore alla media del settore e a dispetto della crisi hanno raddoppiato il loro reddito operativo negli ultimi 5 anni, rafforzando la propria solidità solidità finanziaria, all’interno di un universo di 8mila aziende con fatturaro fra 20 e 250 milioni di euro. 
Nel dettaglio, si tratta di 327 Pmi “eroiche” con tassi di crescita medi annui del fatturato tre volte superiori rispetto all’universo di riferimento (+10% contro +3%) e un reddito operativo che è cresciuto nel periodo 2008-2012 del 19% medio annuo (contro una diminuzione media del 3% da parte delle Pmi “normali”). Si tratta di imprese che operano in settori maturi (oltre il 30% appartiene alla meccanica e alla metallurgia), anche se si assiste a una progressiva affermazione di quelle di servizi principalmente attive nello sviluppo software. In secondo luogo, tre su quattro sono situate nel Nord Italia (73%); solo il 7% in Sud e Isole. E ancora, si tratta di aziende dalla forte vocazione globale: realizzano infatti quasi il 40% del loro fatturato all’estero, e prevedono di incrementare tale quota nei prossimi tre anni mediamente del 9 per cento
L’ospite d’onore ieri è stata però soprattutto l’innovazione digitale. In effetti, le Pmi eccellenti sono fortemente orientate all’innovazione: investono ben il 5% del loro fatturato in ricerca e sviluppo. In particolare, è interessante notare che la maggior parte di questo budget (53%) è ancora destinato al miglioramento del prodotto, mentre gli investimenti in digitalizzazione sono pari al 15 per cento. Il 73% degli imprenditori ritiene poi che l’uso e lo sviluppo di piattaforme digitali potrebbe rappresentare un valido sviluppo alla crescita internazionale.
Se queste sono opportunità da cogliere, ancora ieri da Bruxelles, con un report della commissione Ue, arrivava un richiamo “sulla terra”. Solo per dare un numero: la copertura della banda larga fissa da 144 Kbps in Italia è del 98,5% (media Ue: 97,1%), ma la copertura Nga è del 20,8% (pur se in crescita del 48%), contro una media Ue del 61,8 per cento.