davide giacalone

Gettito casa

Gettito casa

Davide Giacalone – Libero

Ci sono le premesse per una nuova tregenda fiscale sulla casa. Solo che i demoni tributari non si danno convegno di notte, come quando ancora si celavano, ma sfilano in pieno giorno, esibendosi e pretendendo di passare per giulive innovazioni. Nella riforma del catasto trovo un concetto, quello dell’“invarianza di gettito”, che tradisce presenze stregonesche.

Il catasto è vecchio e va riformato. Giusto. I valori catastali vanno aggiornati e portati verso quelli di mercato. Bene. Il governo, con un decreto legislativo, ha varato la riforma, subito rilanciata dai giornali. No, questo è esagerato: ha riattivato le commissioni censuarie, che ci vorrà molto tempo perché si compongano e inizino a lavorare (uno o due anni), e ancor di più perché finiscano di censire e valutare (cinque anni). Il tempo per correggere gli errori c’è, dunque. Il rischio è che aumentando le rendite catastali si possano raddoppiare e triplicare le tasse sulla casa facendo finta di lasciarle invariate. Perché cresce la base imponibile. L’antidoto a questa macumba dovrebbe essere l’invarianza di gettito, prevista nella legge. Ma non mi convince. Per due ragioni.

La prima è che se i valori fiscalizzati tendono a seguire quelli di mercato non si vede perché si debba stabilire l’invarianza, laddove, invece, il gettito fiscale dovrebbe diminuire al decrescere del valore di mercato di un immobile. Se non varia il gettito non si capisce perché far variare il valore. È bene che si voglia evitare il rischio prima ricordato, del raddoppio e della triplicazione, ma allora si deve scrivere che il gettito non deve crescere, non che deve restare fisso.

La seconda ragione per cui non mi convince è che due sono i tratti distintivi della riforma: a. l’imposizione sarà (almeno in parte) stabilita dai Comuni; b. la rivalutazione degli estimi porterà alcuni a pagare di più, ma altri a pagare di meno. Domanda: se le aliquote vengono fissate da 8.000 comuni e se sappiamo in partenza che ciascuno potrà vedere cambiare quel che deve al fisco, come si fa a sapere prima che il gettito sarà invariato? Risposta: non si può, è impossibile. Lo sapremo solo dopo, a tasse esatte. Ma siccome esiste un preciso vincolo di legge, che sarà quasi impossibile non violare, ciò metterà in moto la più rodata macchina nazionale, quella del ricorso: i singoli proprietari di casa potranno attivarsi, in autotutela, contestando le nuove rendite presso gli uffici delle entrate, salvo, ove si sentano dare torto, fare ricorso alle commissioni tributarie, e senza escludere il ricorso al Tar, per gli aspetti di legittimità. Se parte un tale inferno altro che cinque, ci metteremo cinquanta anni, per venirne a capo.

Sarebbe saggio dribblare fin da subito l’accusa di volontaria e consapevole violazione della legge, da parte dello stesso Stato che la emana, stabilendo che potendo sapere solo l’anno successivo se il gettito è cresciuto, l’eccedenza sarà restituita, per quota parte, a tutti quei contribuenti che si sono trovati a pagare più dell’anno precedente. Anzi: autorizzandoli a calcolare la differenza e detrarla dai tributi futuri. Questo sempre che si stia giocano un’onesta partita di riforma del catasto e non una disonesta trappola per spremere più soldi dalle case. Anche perché rappresentano la grande parte del patrimonio degli italiani, il cui valore ci rende esemplari nel rapporto con l’indebitamento aggregato (pubblico più privato). Continuare a farlo scendere, mediante fisco mefistofelico, è da sciocchi, ma assatanati di liquidi altrui.

Conti al Colle

Conti al Colle

Davide Giacalone – Libero

Se i conti pubblici italiani fossero in equilibrio non si starebbe parlando delle dimissioni del presidente della Repubblica nei termini in cui se ne parla. Il tema dominante, che ha spinto il Colle a calendarizzare l’uscita di scena, non è quello delle riforme costituzionali o elettorali, ma i conti. Siccome non tornano, e siccome questo avrà conseguenze notevoli nei mesi a venire, è come se il Quirinale dicesse: se siete capaci di sistemarli, fatelo subito, così poi si passa a discutere di Costituzione e sistema elettorale, ma se scantonate e rinviate scordatevi che da qui vi si copra, quando il nodo verrà al pettine. Non ci sarà copertura nei confronti delle istituzioni Ue, da dove giungono rumori inquietanti, altro che scricchiolii. Né ci sarà copertura relativa alla procedure istituzionali interne, elezioni anticipate comprese. Se volete quella roba, allora eleggete un altro presidente, sperando che ne sia capace. Auguri.

Che il settennato non sarebbe stato di sette anni Napolitano lo disse in occasione del suo secondo giuramento. Lo fece dando dell’irresponsabile a una platea parlamentare che lo applaudì con trasporto. La novità, raccolta da un ottimo Stefano Folli, non è che si dimetterà prima della scadenza, ma che ha fissato il riferimento alla fine dell’anno. E senza che sia passato nulla di quel che allora chiese, per poi potersene andare. Qui, negli anni, non ho risparmiato critiche a Napolitano, e le confermo tutte. Ma è corretto che il presidente ponga la questione: non può rinunciare al potere di scioglimento anticipato, perché questa sarebbe una menomazione della Costituzione, ma neanche vuole sciogliere dopo avere creato due governi senza maggioranza elettorale e non avere ottenuto nulla, quindi, se l’irresponsabilità continua si dimetterà in tempo utile perché si elegga il successore e quello possa, ove ne ricorrano le condizioni, sciogliere il Parlamento e portare l’Italia al voto entro primavera. Se non avesse preso l’iniziativa adesso, se si fosse lasciato trascinare dalle dilazioni, si sarebbe poi trovato in una condizione insostenibile: non sciogliere le Camere, pur in presenza della loro incapacità a legiferare e far governare, sarebbe stato come attentare alla Costituzione, scioglierle, però, sarebbe equivalso a darla vinta proprio a chi non aveva voluto tenere conto né di come la legislatura era iniziata né della realtà economica del Paese. Per evitare la trappola, Napolitano si sfila prima.

Tutta la legge di stabilità poggia sul presupposto che il 2015 veda crescere il prodotto interno lordo italiano dello 0.6%. Ad oggi non se ne vedono i presupposti. L’Ocse stima lo 0.2, ovvero un terzo. Moody’s ci vede inchiodati fra -0.5 e + 0.5. Il nulla. In queste condizioni i conti sono sballati. Siccome lo sappiamo già ora, prima che la legge sia discussa in Parlamento, va corretta. E va fatto senza appoggiarsi retoricamente alla dannazione dei vincoli europei, perché così facendo si alimenta un mostro. Semmai è l’opposto: l’incapacità di tagliare la spesa pubblica porta a clausole di salvaguardia capaci di garantire la recessione per altri anni ancora, a cominciare dall’aumento dell’iva. Siccome chi governa preferisce discorrere di regali agli elettori e far finta che la pressione fiscale cali, mentre invece cresce, salvo poi far precipitare tutto con la sceneggiata nazarena, allora il Colle fa sapere che non reggerà il moccolo.

Agli italiani si fa credere che tutto questo sia un balletto di palazzo, anche grazie ai soliti retori perditempo che furoreggiano in politichese invocando concretezza e adesione alla realtà di cui sono privi. Ma questo non è un gioco di palazzo, semmai sui palazzi dove abitiamo, perché più tardi si farà la correzione dei conti più saranno solo nuove tasse, fino alla patrimoniale, tradizionalmente a predilezione abitativa. E se le elezioni si saranno fatte prima potrà cambiare solo l’indirizzo della rabbia collettiva. O dal governo si renderanno complici nel deviare la rabbia verso l’Ue, in un tripudio di follia e populismo stracciamutande.

Sono questi i termini della partita in corso. Il centro della disputa non sono le elezioni anticipate in sé, ma il loro ipotetico uso per non intestarsi la correzione dei conti. Noi lo ripetiamo da mesi: o il nazareno indossa una veste anche economica, o è disallineato rispetto ai tempi dei conti. L’orologio del Colle scandisce quella nostra convinzione. Potrei osservare che si sarebbe dovuto farlo prima. Preferisco annotare che è un bene non si consenta l’incoscienza di abbandonarsi a un indefinito e limaccioso dopo.

Fisco in concorrenza

Fisco in concorrenza

Davide Giacalone – Libero

All’interno dell’Unione europea il fisco è oggetto di concorrenza. Poteva andare bene fino alla fine del secolo scorso, meno avendo in tasca una moneta comune. Il bello della concorrenza è che da qualche parte si paga meno. La concorrenza diventa nociva quando è sleale. Ed è questo che deve essere rimproverato al Lussemburgo, e per esso a chi lo ha lungamente governato e che ora è capo della Commissione europea: Jean Claude Juncker.

Vantaggi fiscali comparati si trovano in molti paesi europei. Mi dispiace che non se ne trovino in Italia. Ne avevamo uno piccolino, relativo al risparmio, e lo abbiamo cancellato. Se vogliamo chiamarli “paradisi fiscali” facciamolo pure, ma ricordiamoci che ce ne sono elementi non solo in Lussemburgo, ma anche in Olanda, Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Austria, Malta, Cipro. E non è un elenco completo. Si è indotti a credere che i vantaggi fiscali esistano solo per i ricchi e per le società grosse, ma non è così: il Portogallo offre un vantaggio fiscale (tasse zero) ai pensionati non portoghesi che vanno a vivere colà; nel Regno Unito i fondi accumulati per la pensione, fino ad un tetto, sono totalmente esentasse; in Austria le agevolazioni valgono anche per le piccole aziende che vi traslocano; nelle istituzioni finanziarie che amministrano i vostri fondi pensioni e i vostri risparmi è garantito che ci siano società lussemburghesi, delle quali indirettamente profittate. E così via. Sul lato “ricchi” la Francia non fece a tempo a introdurre una demenziale tassa che già un folto drappello prese residenza in Belgio. Tutti questi paesi sono membri dell’Ue e, naturalmente, concorrono a determinare e popolare le istituzioni dell’Unione. Commissione compresa.

Si devono tenere fermi due concetti: a. lo spazio comune, con libera circolazione di persone, beni e soldi (con prevalenza di valuta unica), comporta una armonizzazione fiscale; b. questo non deve avvenire allineandosi ai peggiori, il paradiso è preferibile all’inferno. Tutto bene, quindi, in capo al Lussemburgo ed a Juncker? No, ma non perché debbano uniformarsi all’inferno, bensì perché lo creano, sotto forma di caos e opacità.

Vediamo perché, senza introdurre complicazioni tecniche. I punti delicati sono due, posto che sui redditi delle persone fisiche si pagano tasse alte (ma è bassa l’Iva): il fatturato interno a un gruppo e gli accordi fiscali preventivi. Immaginiamo un gruppo (ce ne sono centinaia) che ha società italiane e lussemburghesi, siccome in quel Paese si pagano tasse minime, o nulle, sui profitti, scelgono di tenere tutti i costi sui conti italiani e tutti gli utili su quelli lussemburghesi. È una truffa, se riesci a dimostrarlo. Sarebbe folle criminalizzare quelli che hanno società lussemburghesi, ma non è facile dimostrare la falsa fatturazione infragruppo. Specie se le autorità del Granducato non collaborano. E quelle non collaborano perché approfittano di un gettito fiscale altrimenti, per loro, inesistente. Tanto che offrono la possibilità di trattare in anticipo condizioni personalizzate: l’interessato si reca, accompagnato da un buon professionista, presso l’ufficio preposto, espone il tipo di società che vuole trasferire e quanto pensa di volere pagare, quelli considerano e negoziano, raggiungendo un accordo di “tax ruling”. Poi collaborano certo nel metterlo in difficoltà. E questa è concorrenza sleale. Tanto che la Commissione europea ha contestato proprio i vantaggi selettivi, ovvero le regole non scritte ma pattuite, non per tutti ma per alcuni. E chi c’è oggi, a capo della Commissione? Un signore, Juncker, che quel sistema ha lungamente accudito, se proprio non creato.

In tutti i paesi dell’Ue ci sono interessati a lasciare le cose come stanno. In tutti ci sono società che, ove cacciate dal Lussemburgo, non tornerebbero in patria, ma si cercherebbero casa in altri paradisi fiscali. Ciò, però, non può consentire un trucco per ottenere il Paese con il più alto reddito pro capite e il più basso debito pubblico. È difficile non che guidi gli altri, ma che anche solo ci conviva. Questo è il gigantesco problema. Preesisteva alla presidenza Juncker e non è limitato al solo Lussemburgo. Qui lo scriviamo da anni, sia con riferimento a quel Paese (si pensi alla scalata di Telecom Italia) che ad altri (avvertimmo all’epoca del default delle banche cipriote). È divenuto lampante. Bene, ma sempre a patto che si vada verso la diffusione del paradiso, non verso la socializzazione dell’inferno.

Dragare i conti

Dragare i conti

Davide Giacalone – Libero

È in atto una doppia perversione: lo scontro politico più interessante e serio si svolge fra le mura della Banca centrale europea, che non ha, né deve o potrebbe avere, legittimità democratica; come se non bastasse, e in modo grottesco, a rendere più difficile la politica espansiva della Bce sono proprio i paesi che ne avrebbero più bisogno. La cancelliera tedesca non ostacola la Bce, ma neanche muove un dito per fermare la Bundesbank, che ha organizzato un drappello di governatori centrali (Lussemburgo, Olanda, Estonia e Lettonia) in modo da gestire la guerriglia contro Mario Draghi. I capi dei governi francese e italiano, che per primi dovrebbero sostenere i programmi della Bce, s’industriano, invece, per trovare buoni argomenti da fornire alla Bundesbank. Questa è la doppia perversione. Ieri affrontata al meglio, ma che non smette di proiettarsi nel futuro.

L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel suo Economic Outlook (previsioni economiche), preparato per il G-20 del prossimo 15 novembre, porta acqua al mulino di Draghi e di quanti ritengono necessaria una politica monetaria espansionistica: senza quella e senza riforme la crescita europea si fermerà, creando un problema globale. Il board della Bce, dal canto suo, come illustrato dal presidente in una conferenza stampa, è stato unanime nel vedere nero.

Intendiamoci: siamo i soli, nell’Unione europea, a essere ancora in recessione e in deflazione, talché le previsioni Ocse sulla nostra crescita sono ferme all’asfissia: +0,2 nel 2015, contro il +0,6 su cui si reggono (si fa per dire) i conti del governo. Ma Germania, Francia e Italia sono la parte largamente preponderante della ricchezza e della produzione europee, e, sommate, non corrono proprio per niente. A fronte di ciò Draghi ha detto e ridetto che non basta la politica monetaria, per sentire nuovamente il rombo dei motori, ma è necessario che quella sia accompagnata da riforme interne, che aumentino la competitività, la produttività e l’elasticità economica di ciascuno. Tradotto in modo brutale: meno garanzie e più opportunità; meno pensioni sicure e più rispetto per il risparmio; meno spesa pubblica corrente e più investimenti; meno pressione fiscale, senza nessun “più” ad accompagnarla.

Francia e Italia, inchiodate dall’incapacità delle loro classi dirigenti, rese tremule dal crescere di movimenti politici di rifiuto e di protesta (alimentati dall’incapacità di cui sopra), indebolite da una crisi che si allunga anche per i ritardi nel contrastarla, altro non hanno saputo fare che il contrario del necessario, reclamando maggiore deficit e maggiore debito pubblico. Come un dogato che reclami più droga, supponendo sia la migliore ricetta per disintossicarsi. Nell’anno in cui si sarebbe dovuto porre come ineludibile il tema del debito federale, restiamo appiccicati all’incapacità di gestire quello nazionale.

Accanto a questi grandi paesi, che la paura rende miniature, ci sono quelli cui la crisi è stata fatta pagare con il sangue (Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda) e che ora, magari dimenticando che la loro crescita è frutto dei soldi ricevuti (e che noi italiani abbiamo dato), sono alfieri del rigore perché non vogliono che ad altri sia evitato quel che a loro è stato imposto. Oltre la Manica c’è un Regno che ha seriamente rischiato d’essere disunito e la cui guida politica non solo non sa spiegare i danni dell’allontanamento dall’Ue, ma neanche sa presentare i conti dell’immigrazione interna europea: dalla quale guadagnano supponendo di perderci. In questo caos la Germania ancora approfitta d’essersi trovata nella posizione di chi trae vantaggio dalla difesa letterale dei trattati, accrescendo un ruolo egemonico che non ha mai portato fortuna a lei e men che meno all’Europa.

Il solo contrappeso comparso sulla scena è la Bce. Chi sa come e perché il mercato economico comune figliò la moneta unica sa anche il perché: possono esserci paesi forti, non possono esserci paesi che esercitano guida politica. La tragedia è che s’è trasferito dentro la Bce uno scontro politico che doveva trovarsi al Consiglio dei capi di Stato e di governo. Ieri l’esposizione della linea che si seguirà, positiva, ma per tutti impegnativa. La riassumo in cinque punti: 1. restano fermi, al minimo possibile, i tassi d’interesse; 2. il bilancio della Bce crescerà fino ai limiti della sua massima espansione, raggiunti nel 2012, il che significa che circa mille miliardi saranno pompati nel mercato; 3. sono allo studio tutte le possibili misure non convenzionali, compreso l’acquisto di titoli dal mercato (ai riluttanti è stato concesso il concetto di “studio” e l’uso del modo futuro nel coniugare i verbi); 4. i paesi membri devono curare il risanamento dei loro conti pubblici; 5. il patto di stabilità resta la credenziale di credibilità. Inutile sperare nei primi tre punti facendo i furbi sugli ultimi due. Ciò comporta che la legge di stabilità o la riscriviamo subito, o la riscriviamo, in emergenza e debolezza, fra sei mesi.

Vicolo cieco

Vicolo cieco

Davide Giacalone – Libero

Ci siamo infilati in un vicolo cieco. Lo percorriamo con baldanza, ma sempre budello ostruito è. Per rendersene conto si leggano, con attenzione e senza inutili polemiche, le cose dette dal ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, in Parlamento: la pressione fiscale diminuirà nel 2015, ma tornerà a crescere dal 2016. La diminuzione, come si legge nella legge di stabilità, è prevista in appena lo 0,1%. Non solo ci vorrà il microscopio, per vederla, ma sarà annullata dalla crescita delle addizionali locali. Se anche così non fosse, comunque è previsto che cresca dello 0,4 nel 2016. E il cielo non voglia che scattino le clausole di salvaguardia, altrimenti sarà uno schizzo poderoso. Posto che la disoccupazione non è prevista mai in discesa sotto il 12% e il prodotto interno lordo non è previsto mai in crescita più dell’1% (considerato già meta da sogno, comunque insufficiente), se ne trae la conclusione che siamo in un vicolo cieco.

Supporre di servire il debito pubblico, che intanto cresce, usando solo gli avanzi primari, in un’economia che non cresce, non è neanche un vicolo cieco, ma un nodo scorsoio. Di operazioni straordinarie non se ne vedono all’orizzonte. I dossier Cottarelli restano chiusi nel cassetto. Anzi, se Enrico Letta disse di volere usare il cacciavite, non essendo riuscito a trovare l’impanatura, Matteo Renzi ha promesso il caterpillar, ma fin qui siamo alle pinzette per la depilazione.

Sarebbe sciocco, oltre che inutile, attribuire tutte le responsabilità agli attuali governanti. Ma è non meno sciocco, e ancor più inutile, pretendere di negare la realtà. Nella legge di stabilità non solo mancano i tagli profondi della spesa pubblica, ma si opera in deficit senza che questo favorisca la ripresa. Non solo mancano le vendite di patrimonio per abbattere il debito, ma si consentono porcherie come la quotazione di Rai Way, che dismette patrimonio per foraggiare spesa corrente. Dov’è, allora, il punto di rottura oltre il quale si dovrebbe cambiare andazzo, o verso? Rispondere che consiste nelle riforme in cantiere, posto che su quelle (dal lavoro alla giustizia) c’è gran clangore di spade politiciste, gran vociare di pupi avversi, ma opacità profonda circa le concrete misure e i loro effetti nella realtà, è propagandismo spicciolo. Tanto non ha senso, una risposta di quel tipo, che ora si puntano gli occhi sulle manovre europee, a cominciare dai 300 miliardi di cui parla il presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.

Ammesso (e non concesso) che quei soldi esistano, noi e i francesi stiamo facendo di tutto per dare scuse a chi non vuole utilizzarli. Non è tanto la polemica sui burocrati, che di suo è insensata (piuttosto: nelle istituzioni europee c’è certamente troppa burocrazia, spesso ottusa, come tutte le burocrazie, ma noi italiani manchiamo di alti burocrati capaci e influenti, da quelle parti, avendo continuato a spedirci gli altrimenti non collocabili). Quanto l’ostinarsi a non capire che le politiche espansive, che siano monetarie o frutto d’investimenti pubblici, richiedono rigore nell’amministrazione della spesa pubblica, altrimenti ci si indebita per niente. Tecnica che noi conosciamo bene. Se non si stoppa la spesa corrente improduttiva l’espansione monetaria somiglia alle trasfusioni fatte a un signore con la giugulare aperta: più pompi e più svasi. Vedo medici pazzi che corrono dicendo: più sangue, altrimenti muore. Ne serve uno che sappia cucire, in modo da rendere sensato il sangue trasfuso.

I numeri che il governo stesso mette nero su bianco descrivono una cartella clinica da morte celebrale. Il paziente non reagisce. Poi, per carità, facciamo un regalo all’imminente vedova, con 80 euro al mese, e uno alla figlia, con 80 euro per l’allattamento, ma non si riprende un accidente, dato che prendiamo 81 euro allo zio che ha comprato un appartamento e 82 al cugino che ha dei risparmi. Fatti i conti: a quella famiglia freghiamo i soldi. Fa rabbia, perché una tale sorte non è affatto ineluttabile. Gli strumenti per cambiare direzione di marcia ci sono eccome. Ma qui ci si trastulla litigando, sperando che le mazzate nascondano il vuoto retrostante.

Sulla cattiva way

Sulla cattiva way

Davide Giacalone – Libero

La quotazione di Rai Way è depauperazione di patrimonio pubblico e incentivo allo spreco. L’esatto contrario di quel che il governo dovrebbe fare e consentire che si faccia. L’azionista è la Rai, quindi lo Stato, che avrebbe il dovere di fermarla. Invece non solo è prevista per il prossimo 19 novembre, ma i mezzi di comunicazioni pubblicano le veline dei dati finanziari senza capire quel che significa l’operazione. O, dopo averlo capito, tacendolo.

Fra i tanti taglietti di spesa pubblica, che non sono una strategia di riduzione ma solo il tentativo (inadeguato) di far quadrare i conti, ci sono anche 150 milioni in meno di trasferimenti dallo Stato alla Rai. In un Paese in cui si volesse far scendere la spesa pubblica la conseguenza di quel taglio dovrebbe essere un taglio, almeno pari, delle spese della televisione pubblica. Invece no, perché i vertici Rai rimediano andando a prendere circa 300 milioni, il doppio, dal mercato, vendendo poco più del 30% della società che ha in pancia gli impianti di trasmissione. Non a caso il presidente di Rai Way altri non è che il Cfo, il responsabile della finanza, di Rai.

Al mercato raccontano che l’operazione sarà coronata dal successo, perché gli investitori affronteranno un rischio molto basso. Come mai? Perché Rai Way ha una redditività pari al 50% del fatturato e un fatturato che discende per l’83% dalla Rai. A questo si aggiunga che non è escluso, anzi esplicitamente considerato, che ai futuri azionisti sarà distribuito il 100% dell’utile. In altre parole: gli azionisti avranno una redditività dell’investimento che dipende dai soldi che la Rai (dello Stato) continuerà a spendere, senza che nulla resti alla società stessa. Ciò vuol dire che si quota un pezzo di una società che è dello Stato, allo scopo di rimediare a un taglio di trasferimenti operato dallo Stato, sistemando così un paio di bilanci (non andranno oltre uno e mezzo, perché i soldi che ci sono si spendono con gran facilità), talché, fra due anni, saranno con lo stesso problema e con meno patrimonio. Non stiamo parlando di una società privata, governata da viziosi, ma di una società dello Stato, di un patrimonio collettivo, affidata a galleggiatori temporanei.

Non è finita, perché inebriati dall’imminente sbarco in Borsa i vertici della società già annunciano che potrebbero comprare gli impianti di Wind. Mirabile capolavoro, tenuto presente che lo Stato (s)vendette gli impianti di Telecom Italia, con la peggiore privatizzazione della storia universale, per poi avere un’impresa di Stato, l’Enel, che tornò nel mercato delle telecomunicazioni, da cui lo Stato era appena uscito. Dettaglio: per tornarci, in posizione marginale, spese più di quello che si era incassato vendendo l’operatore dominante. Dopo di che, comunque, l’operazione fu un fallimento, quindi ri(s)venduta a privati. E ora l’idea è quella di ricomprare gli impianti che furono comprati e (s)venduti. Possibile che nessuno salti sulla sedia e si metta a urlare?

Non è escluso, dicono, che in futuro si comprino anche gli impianti di Ei Towers, vale a dire quelli che servono le reti Mediaset. Operazione da macchina del tempo, perché aveva un senso farla trenta anni addietro. Ma non si fece, perché era contraria la Rai. Credo fossero contrari anche quelli di Fininvest (il nome di allora), ma non ebbero neanche bisogno di dirlo. Oggi a cosa serve, la santa alleanza, a fermare i concorrenti? Tranquilli: entrano dalla voragine digitale. Perché certi costumi no, ma il resto del mondo è cambiato.

Infine, sapete da cosa deriva la forte posizione di Rai Way, nel mercato degli impianti di trasmissione? Certamente dagli investimenti Rai e dall’alto valore dei suoi tecnici. Ma anche dal fatto che la Rai ha costantemente violato le regole nazionali ed europee relative all’uso e all’occupazione delle frequenze. Compreso il fatto che interi settori, come la radio digitale (Dab), non sono mai decollati dato che continuava ad occupare spazi che il piano di ripartizione destinava ad altri usi e ad altre imprese.

È largamente probabile che alcuni degli attuali governanti neanche conoscano la metà di queste storie. Come è probabile che qualcuno, nel 2017, dirà che la quotazione fu una scemenza distruttiva di valore, capace solo di rendere meno interessante l’operazione che andrebbe, invece, fatta: la vendita della Rai. Mi limito ad avvertire che sarà un filino tardi.

Risparmio e povertà

Risparmio e povertà

Davide Giacalone – Libero

Gli italiani che hanno aumentato la loro capacità di risparmio e quelli che, all’opposto, sono a rischio di povertà, si equivalgono: il 33% i primi e il 28.4 i secondi. C’è di buono che i primi, misurati da Ipsos, crescono (di 4 punti dal 2013 al 2014), mentre i secondi, contati da Istat, diminuiscono (di 1.5 punti dal 2012 al 2013). L’accostamento dei due dati può indurre a credere che quello italiano sia un problema redistributivo: togliamo ai primi per dare ai secondi. Ricetta suicida. Sarebbe uno schiaffo all’onestà. Il nostro problema è produttivo, ovvero riprendere la via che fa crescere la ricchezza, non il prelievo fiscale e la redistribuzione della miseria.

Fa un certo effetto sentir celebrare la “giornata del risparmio” in un Paese che tende ad eliminarlo anche dal vocabolario: adesso le chiamano “rendite finanziarie” così riescono a tassarle maggiormente. Satanismo fiscale che colpisce anche il risparmio obbligatorio, come il Tfr. Rendita finanziaria è un concetto che invita a immaginare lo speculare, il profittare, l’ingrassare a scapito altrui. E’ appena il caso di ricordare che il risparmio delle famiglie consiste in redditi su cui già si sono pagate le tasse. Accantonamenti per il futuro, rinunce a consumi immediati. Un tempo si diceva che era un comportamento encomiabile. Ora solo tassabile.

Se si guarda la curva del risparmio, ci si accorge di un fenomeno istruttivo. All’alba del secolo gli italiani che riuscivano a risparmiare erano decisamente più numerosi, il 48%. Sono andati costantemente diminuendo e il calo è cominciato ben prima della grave crisi finanziaria. Leggo così il dato: l’Italia era già in perdita di competitività, il reddito disponibile diminuiva, ma i tassi d’interesse scendevano, grazie all’euro (ogni tanto vale la pena ricordarlo), la fiducia nel futuro era notevole, quindi si è risparmiato un po’ meno, lasciando stabile il proprio tenore di vita. Oggi continuo a consumare, domani tornerò a risparmiare, perché le cose andranno meglio. Dal 2008 al 2010 la crisi finanziaria era un titolo del telegiornale. Dopo, con il 2011, s’è sentita la botta nella vita reale. Nel 2012 il sabba tributario a rischiarato le notti. A quel punto si poteva immaginare che sempre meno persone si sarebbero dedicate al risparmio, invece è avvenuto il contrario: dal 2012 si risparmia di più. E’ cresciuto il reddito? No, è cresciuta la paura: smetto di consumare come prima, accetto che il mio tenore di vita scenda, perché temo che il futuro sia peggiore del presente e, quindi, è necessario mettere da parte qualche cosa.

Andare dagli impauriti e spiegare loro che sono i ricchi mantenuti dalle rendite finanziarie, talché si può e si deve tassarli maggiormente, è una politica di diffusione del terrore. Anche perché i risparmi dei quali stiamo parlando sono quelli delle persone normali, in quantità unitarie contenute. Se fossero davvero ricchi, liquidi e in grado d’investire molto … non sarebbero qui loro, in ogni caso non sarebbero qui i loro capitali. Per la stessa ragione per cui una donna libera ed evoluta, che voglia vivere in totale autodeterminazione la propria vita sentimentale e sessuale, non va a vivere dove governa l’Isis. Quelli costretti a pagare più tasse sono i presi per il collo. Mentre i 17 milioni di italiani a rischio di povertà li si prende per i fondelli, se si fa credere loro che si possa risolvere il problema con la redistribuzione.

Qui si deve andare a lavorare, il che comporta che si sia potuto investire in attività produttive e che il fisco non si mangi la gran parte del profitto. Sono i più poveri ad avere interesse a che la ricchezza produca ricchezza, mentre solo gli agiati possono accettare che la ricchezza propizi solo sicurezza (ammesso che sia possibile, e non lo è). Eppure sento sempre dire: chi ha di più deve dare a chi ha di meno; si mandino in pensione i lavoratori più anziani, così si trova lavoro per i giovani. Teorie stupefacenti, nel senso che sono droghe che inibiscono il ragionare: dobbiamo lavorare di più, più numerosi, per più tempo, senza che il frutto del lavoro venga depredato a favore della spesa corrente improduttiva.