davide giacalone

Il divieto di importare Ogm è un suicidio

Il divieto di importare Ogm è un suicidio

Davide Giacalone – Libero

Dopo il suicidio Ogm, agricolo e scientifico, si prepara quello degli allevamenti. L’Italia del pregiudizio s’appresta a pregiudicare una vitale catena produttiva. L’alternativa al suicidio consiste nella più ridicola delle incoerenze. Alla fine di questa storia ci ritroveremo ad avere geneticamente modificato, e cancellato, la ragionevolezza.

Il trionfo della paura irrazionale e della regressione antiscientifica si ebbe durante la presidenza italiana dell’Unione europea, quando i nostri ministri dell’agricoltura, della sanità e dell’ambiente tornarono felici e annunciarono di avere affondato, in un sol colpo, sia l’idea stessa di Ue che la nostra ricerca scientifica e produzione agricola. Risultato che avevano colto suggerendo e ottenendo che ciascuno Stato potesse continuare a proibire (sebbene in via temporanea) la coltivazione degli Ogm (organismi geneticamente modificati) nei propri campi. A quel punto andava a farsi benedire il pilastro giuridico del mercato comune, ovvero che ciascun cittadino europeo può competere con gli altri, a parità di diritti.

Da noi è proibito quel che altrove è consentito. La proibizione in sé è totalmente illegittima, quindi passibile di condanna davanti alla Corte di giustizia. La sua temporaneità è il trucco per renderla possibile. Ricordo che: a. Buona parte della ricerca scientifica Ogm è made in Italy, sicché l’ordalia superstiziosa costringe i migliori cervelli a emigrare; b. i nostri allevamenti consumano, al 90%, soia e mais Ogm, ma d’importazione. Risultato: mangiamo Ogm ogni giorno, ma non possiamo produrli e non è conveniente neanche tenere in Italia i laboratori di ricerca, visto che non c’è mercato.

Ora la Commissione europea s’appresta a un passo avanti, verso il baratro: così come ciascun Paese può proibire la coltivazione potrà anche proibirne l’importazione. E qui si apre un bivio, che sarebbe ridicolo se non fosse tragico: o, coerentemente, proibiamo anche l’importazione, nel qual caso non ci saranno più mangimi nei nostri allevamenti, o dovremo importarne di così costosi da mettere le nostre produzioni fuori mercato; oppure, incoerentemente, stabiliremo che si può importare quel che non si può produrre, continuando a prendere in giro noi stessi e a far finta che, così, non si mettano gli Ogm nel piatto degli italiani.

Del resto, perché mai abbiamo proibito la coltivazione? Perché pericolosa? In questo caso non dovremmo certo agevolare chi quel pericolo lo pratica in 73 milioni di ettari statunitensi, 42 brasiliani, 24 argentini e 12 indiani (solo per’citare le più diffuse coltivazioni). Né possiamo consentire che, mangiando quella roba, le carni che poi commerciamo riconsegnino il pericolo ai consumatori. Siccome, però, non sapremmo come altro fare, ecco che siamo prossimi alla fine della filiera degli allevamenti. Se, invece, proibiamo la cosa solo perché non abbiamo l’onestà e il coraggio di dire l’ovvio, ovvero che gli Ogm non solo sono diffusi ovunque, non solo li consumiamo massicciamente, ma non presentano alcun pericolo, se proibiamo solo per seguire la gnagnera insulsa del falso biologico e del falso naturale (non c’è nulla, fra le cose che mangiamo, che sia tale e quale la natura creò, nulla), allora dovremo sopravvivere grazie all’incoerenza.

Alternativa piuttosto triste, cui si giunge dopo il festival dell’ignoranza e della superstizione. Gran risultato per chi, come noi, nell’innovazione e nella qualità alimentare dovrebbe avere fonti di orgoglio e ricchezza. Non di risibile miseria culturale ed economica.

Pensionando

Pensionando

Davide Giacalone – Libero

Il governo non intende intervenire sulle pensioni. Parola di Yoram Gutgeld, nuovo commissario alla spending review e parlamentare del Pd. Il governo interverrà sulle pensioni, con la prossima legge di stabilità. Parola di Giuliano Poletti, ministro del lavoro. La contraddizione, come vedremo, è più apparente che reale. Quel che fa pensare è la convergenza: le ingiustizie del sistema pensionistico sono considerate non eliminabili.

Posto che le pensioni dovrebbero avere una struttura, una legislazione e una fiscalità stabile nei decenni (perché riguardano la programmazione del proprio futuro lontano), mentre lo sport nazionale è cambiarle di continuo, Gutgeld esclude interventi di taglio, mentre Poletti annuncia interventi relativamente all’elasticità in uscita. Il problema è che, in questo modo, si stabilizza la certezza che a parità di capitale versato ci saranno trattamenti diversi. Un monumento all’ingiustizia.

La legge Fornero accelerò il passaggio al sistema contributivo, in base al quale ciascuno avrà sulla base di quanto ha versato. Nel sistema retributivo, prima vigente, si riscuoteva sulla base di quanto guadagnato (e versato) negli ultimi tre anni, quindi si sarebbe avuto più di quanto dato. Quella legge fu l’urgente (e frettoloso) completamento di un iter riformatore iniziato con la legge Dini, poi continuato con quella Maroni (con la sinistra, governo Prodi in testa, che periodicamente smontava il lavoro fatto). Fornero ebbe il merito di mettere in equilibrio i conti previdenziali a venire. Ebbe il demerito di aprire delle piaghe, come gli esodati.

Una volta passati al contributivo non ha senso porre dei limiti temporali prima dei quali ciascuno non può scegliere se andare in pensione: visto che mi ridate quel che avevo prima versato, sono affari miei quando e quanto credo mi serva per vivere. Se il prelievo previdenziale cessa di essere vissuto come una tassa (tale la vivo, ancora oggi) e diventa un accantonamento di roba che resta propria, deve anche essere possibile quel che già si fa nel Regno Unito e che vogliono introdurre in Francia: il lavoratore può chiedere d’incassare, in tutto o in parte, il capitale. È roba sua. Se il governo intende eliminare le soglie di tempo ed età, quindi, fa bene. Il fatto è che chi versa (contributi e tasse) oggi paga anche per il mantenimento di quanti prendono pensioni per niente legate al capitale versato, mentre non potrà godere di analogo beneficio. Il governo esclude d’intervenire su questa ingiustizia. E sbaglia. Mentre, invece, ha ragione il presidente dell’Inps, Tito Boeri, a metterla in evidenza. Ma come?

Se si accetta il principio dei “diritti acquisiti”, altrimenti detto “chi ha avuto ha avuto e chi ha dato continui a dare”, non si può toccare nulla. Sono favorevole a infrangerlo, ma si deve farlo con principi altrettanto generali, altrimenti si crea caos e illegittimità. Il principio è: dove il capitale versato non è commisurato alla prestazione erogata, lo Stato ha diritto d’intervenire. In tutti i casi e al fine di non generare altri squilibri, a danno dei più giovani. Si può graduare l’intervento fiscale, progressivo, sulla base dello scostamento fra versato e percepito e sulla base della pensione lorda così generata. Ed è meno ingiusto di fare quel che hanno già fatto: aumentare la tassazione sulle pensioni integrative, rese necessarie dal solo contributivo. È meno ingiusto di taglieggiare chi ha bisogno di prendere anticipatamente i soldi della liquidazione, come si sta facendo.

Resta doloroso, lo so. Ma lo è di più avere nonni ricchi e nipoti spiantati. Proprio perché è doloroso occorre quello che un tempo si chiamava il “buon esempio”, cominciando dalla classe dirigente in pensione, parlamentari in testa. E cominciando da chi è amministratore pubblico e ottiene dall’erario il versamento dei propri contributi, magari proporzionati a ruoli e lavori che non ha mai fatto (vero, Matteo Renzi?). Il che non è demagogico (come tante sparate antiparlamentariste), ma la dimostrazione che ancora sopravvive il buon senso.

Def e amuleti

Def e amuleti

Davide Giacalone – Libero

Siate di buon umore e tirate fuori gli amuleti. Martedì scorso il Consiglio dei ministri avrebbe dovuto approvare il Def (Documento di economia e finanza), ma lo hanno rinviato ad oggi, venerdì. Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan, però, ne hanno illustrato i contenuti. Da allora a oggi abbiamo fatto conti ed elaborato opinioni su quelle loro parole. Ieri Piero Fassino ha riferito: il presidente del Consiglio dice che non c’è un testo pronto, quelle in giro sono solo bozze. Di che discutiamo, da martedì? Divertente. Fassino ha aggiunto: ci ha garantito che nel Def non ci saranno tagli nei trasferimenti agli enti locali. Certo che non ci saranno, perché quello è un documento d’indirizzo. Se ne riparlerà a settembre, dovendo preparare la legge di stabilità.

Gli amuleti servono dopo avere letto quel che ha detto Padoan, da Singapore: la crescita italiana potrà essere del 2% nel lungo periodo. John Maynard Keynes (il più influente economista del secolo scorso), a chi gli chiedeva cosa sarebbe successo nel lungo periodo, rispose: saremo tutti morti. Oso supporre che Padoan si riferisca a un orizzonte più prossimo, ma i conti non tornano: se l’Italia cresce la metà della media dell’eurozona, proprio nel momento in cui esce dalla più profonda recessione ed è attiva la spinta monetaria della Banca centrale europea, cosa mai dovrebbe accelerarne lo sviluppo, quando le migliori condizioni immaginabili saranno alle spalle? Questo è l’andazzo: rinviare e tirare a campare. Servirebbe, invece, un’operazione shock, capace di dimostrare che l’Italia ha capito il pericolo della crescita rallentata. Della spesa pubblica, della pressione fiscale e del deficit (quindi del debito) che aumentano anziché diminuire.

Sostiene Padoan che la Commissione europea promuoverà il nostro Def. Certo che lo farà, ma continuare a pensare all’Europa come ad un vincolo conduce a commettere un cumulo di errori. Supporre che i conti pubblici di Roma debbano convincere Bruxelles distrae dalla questione più importante: dovrebbero convincere gli italiani. Il punto non è che il Def sventi aggravi dell’Iva, sicuramente depressivi. Il punto è che si approfitta di una ripresina indotta dalle politiche espansive europee (altro che eurorigore!) per continuare a non fare quello che da anni è urgente: tagliare la spesa pubblica. Ci stiamo prendendo in giro da soli, immaginando che le non scelte siano buone cose se solo si riesce a farle deglutire alla Commissione.

Vedrete che tutta la discussione finirà con l’incentrarsi sullo scattare o meno delle clausole di salvaguardia. Se saranno sventate, il governo griderà vittoria. Se scatteranno, gli oppositori strilleranno. Modo bislacco di vedere le cose. L’Iva è solo l’imposta messa (da questo governo) ad automatica difesa dei saldi. Che vanno rispettati non perché “ce lo chiede l’Europa”, ma perché, altrimenti, sale il prezzo del debito, superando il valore di ogni furbata. Se i saldi si difendono in altro modo, ad esempio facendo crescere l’imposizione su altro (la casa è l’oggetto più gettonato: +178% in tre anni), l’Iva non sale automaticamente, ma noi stiamo ugualmente dandoci la zappa sui piedi. Porsi come obiettivo il non far scattare l’Iva significa avere già perso la partita, concentrandosi sulle conseguenze.

Se non vogliamo svegliarci, nell’autunno 2016 (quando si fermerà la Bce), avendo accresciuto il nostro svantaggio competitivo, la pressione fiscale deve diminuire. Altro che non aumentare. Tale risultato, favorito dalla discesa dei tassi d’interesse, può essere agguantato se si taglia la spesa pubblica. Che, invece, come l’Istat ha documentato e qui abbiamo raccontato, continua a crescere. Né si pensi di cavarsela premendo sul deficit, per il quale s’invoca la corda “elastica”. Cui impiccarsi. Noi continuiamo a cumulare deficit più alti di quelli programmati, con il risultato di far crescere il debito. Significa che il nostro problema s’aggrava. Si fa credere a quattro beoti propagandisti che la spesa pubblica sarebbe anticiclica e pro sviluppo, scomodando l’anima di Keynes. Ma nessuna spesa improduttiva ha mai prodotto sviluppo. Semmai produce debito e tasse. I veleni che uccidono la crescita. Forse propiziano voti, ma poi devi portarli in qualche santuario, invocando miracoli impossibili e immeritati. Fin qui il miracolo l’ha fatto l’Italia che produce ed esporta. Quella che ancora si munge.

Ci indigniamo per gli 8mila evasori totali ma sono gli stessi del 2013

Ci indigniamo per gli 8mila evasori totali ma sono gli stessi del 2013

Davide Giacalone – Libero

Quando le fiamme gialle scoprono evasori e malfattori i contribuenti e le persone oneste gioiscono. Se fanno due conti e mettono in moto la memoria, poi un po’ s’ammosciano e indignano. Nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza si legge che nel 2014 sono stati scoperti 8mila evasori totali, 17.802 reati tributari e 13.062 denunciati (146 arrestati). Il dato relativo agli evasori totali è in linea con quello degli anni scorsi (ad agosto del 2013 comunicarono di averne trovati 4.933, da gennaio). Ci sarà pure una fabbrica di evasori totali, ma al ritmo di 8mila l’anno dovrebbero pur diminuire. Invece no. A integrare il plotone è probabile ci siano molti casi di piccola taglia, che fanno numero, ma non promettono gettito. Guardiamo quello.

Nel 2013 l’Agenzia delle entrate rese noto che dal 2000 al 2012 si erano accumulati 807,7 miliardi sottratti al fisco. Da quella montagna, però, si dovevano togliere 193,1 miliardi, perché i contribuenti interessati avevano già dimostrato di non doverli; 69,1 erano stati pagati; 20,8 erano ancora in contestazione. Già si scende da 807,7 a 524,7. Si tolgano altri 107 miliardi, perché dovuti da soggetti falliti, quindi a decidere sarebbero dovuti essere i giudici fallimentari, escludendosi le normali procedure di recupero. 19 miliardi erano già stati rateizzati, quindi in corso di riscossione. Da 807,7 si passava a 398,7. Che non è la stessa cosa. È un conto della serva, ma utile a capire che una cosa è l’evasione contestata, altra quella accertata. Una cosa è l’evasione accertata (con sentenza), altra quella recuperata.

L’effettivamente recuperato è il solo dato decisivo, giacché il resto è supposizione o mal funzionamento della macchina pubblica. Veniamo, ad esempio, al Matteo Renzi che dice: non ci saranno nuove tasse. Nei documenti del suo governo (spero li abbia letti), in approvazione domani, c’è scritto che la pressione fiscale crescerà. Nel 2014 è arrivata al 43,5% del prodotto interno lordo; nel 2015 resterà al 43,5, nel 2016 arriverà al 44,1. Il tutto, meglio non dimenticarlo, calcolato su un Pil crescente. Bene, cioè: male. Ma potrebbe anche essere una buona notizia, se l’aumento della pressione fosse dovuto a recupero dell’evasione. Così non è, però, e ciò a causa del meccanismo prima sbozzato: cifre altissime nelle contestazioni, ridotte assai nelle riscossioni. Crescenti sono solo i soldi presi alle persone per bene: +93% dai fondi pensione (i nostri risparmi), 1,1 miliardi nei primi due mesi del 2015.

Torniamo al Rapporto, per averne conferma. I militi contabilizzano in 4,1 miliardi (2014) frodi e sprechi ai danni dello Stato. Fra le frodi vanno inclusi i contributi illecitamente percepiti, per 666 milioni da fonte europea e per 618 da fonte nazionale. Nel corso delle indagini sono stati posti sotto sequestro 161 dei primi e 164 dei secondi. Queste cifre, già nettamente inferiori al teoricamente contestato, non possono essere incamerate dall’erario, perché in attesa che si sappia se ha ragione la Guardia di Finanza o il contribuente. Nel caso sia il secondo, non è escluso che sia schiantato, prima di saperlo. Stesso discorso per gli appalti in odor d’irregolarità: hanno controllato contratti per un ammontare di 4,6 miliardi e ne hanno denunciati per 1,8. Questi sono reati penali, la cui notizia emerge nel 2014, sicché ci rivediamo attorno al 2020 (se va bene), per sapere come è andata a finire. Nel frattempo gli innocenti vivranno l’inferno e i colpevoli si daranno da fare, per mettere al sicuro il maltolto.

Una cosa, però, la si ottiene subito: questi numeri verranno presi come oro colato da quelli che hanno interesse a descriverci come un popolo di zozzoni delinquenti. Eccolo, il ritratto di un Paese in cui tutti denunciano, tutti s’indignano e tutti sono certi che italiani siano solo gli altri. Gli onesti sono la gran maggioranza, ma non hanno diritto di parola, altrimenti tacciati di volere negare il dilagare del crimine, quindi d’esserne complici. Avessero la forza di contare esigerebbero una riformina, banale e decisiva: giustizia funzionante. In quanto al Fisco, gli onesti sanno che la pressione che subiscono è superiore alla media ufficiale, visto che gli altri continuano a non pagare.

Terno perso

Terno perso

Davide Giacalone – Libero

La pressione fiscale sarebbe dovuta scendere, sia per promesse fatte che per convenienza, invece è salita. La spesa pubblica sarebbe dovuta diminuire, invece è cresciuta. Il deficit avrebbe dovuto ridursi, invece è aumentato. Sono questi i tre dati che se ne infischiano delle chiacchiere. I tre numeri con cui fare i conti. Anche perché, se si fa finta di niente, sono tre piaghe già infette, ma destinate a peggiorare.

Della pressione fiscale, salita dal 43,4 del 2014 al 43,5 del 2015, hanno parlato in tanti. Con animo mesto. Molti, però, hanno dimenticato due dettagli: a. l’indice misura la pressione totale sulla ricchezza prodotta, ma non tutti pagano tutte le imposte e tasse, il che vuol dire una pressione che supera il 50% in capo al parco dei paganti; b. per far tornare i saldi, fra gettito e spesa pubblica, il governo ha promesso di aumentarle ancora. Di quanto? Presto detto: il differenziale fra gli interessi da pagare (grazie alla Banca centrale europea in netto calo), sul debito pubblico, e la crescita del prodotto interno lordo, che il governo ora stima allo 0,7%, con un tasso d’inflazione che, se va bene, si collocherà all’1% (ma al momento siamo ancora in deflazione, quindi è ottimistico), quel differenziale è di circa 3 punti di pil. E si tratta di un calcolo ottimistico. Fin troppo. Quei 3 punti o sono tagli della spesa o sono coperti da gettito fiscale.

Veniamo alla spesa, dunque. Sono anni che ci rintontoniamo con i tagli. Li abbiamo definiti lineari o mirati, considerandoli macelleria o chirurgia, poi li abbiamo chiamati in inglese (spending review), che fa più fico, infine abbiano nominato cinque successivi commissari, incaricati di programmarli e praticarli. A esito di questa interminabile ammuina, la spesa cresce. Un tempo si dava tutta la colpa agli oneri del debito, che da venti anni bruciano gli avanzi primari. Ma da un paio d’anni quegli oneri diminuiscono, pur restando enormi (figli dell’enorme debito). Allora, dove se ne va tutta questa spesa, crescente? Scorre nei canali della spesa corrente, sommando interessi sul debito, pensioni, stipendi e consumi intermedi della pubblica amministrazione. Del debito si è detto (abbatterlo con le dismissioni di patrimonio pubblico sarebbe saggio, ma qui vediamo solo vendite destinate a coprire la spesa!). Sulle pensioni si è già tagliata la spesa, ma futura, di quelli che ancora non la prendono, mentre su quella presente si attende che Tito Boeri, dall’Inps, presenti qualche idea. Gli stipendi aumenteranno, sia perché aumentano le assunzioni, sia perché anche gli scatti automatici sono fermi da anni. In quanto ai consumi della pubblica amministrazione, non ricordo più da quanti anni sento dire che le stazioni appaltanti dovrebbero diminuire drasticamente, gli acquisti debbano essere centralizzati e così via annunciando. Effetti reali: tanti convegni. E anche tanti numeri dati a caso, perché dietro molti risparmi sbandierati si nasconde uno spostamento delle voci di spesa.

A tutto questo aggiungete che i mitici 80 euro in busta paga altro non sono che una spesa. Il governo se ne lamenta, perché vorrebbe contabilizzarli fra gli sgravi fiscali. Gema pure con comodo, ma le regole della contabilità sono chiare: una roba che non è permanente e che non è oggettiva e generale (un autonomo che guadagna meno di un dipendente non ha visto e non vedrà gli 80 euro), non è uno sgravio, ma un regalo. Il governo ha scelto un preciso pezzo della società e gli ha regalato dei soldi, il che comporta, ogni anno, una copertura pari a 10 miliardi. Sicché non si stabilizzano, non si allargano e la spesa cresce. Così anche il deficit. Che forse è il punto più delicato, sicché qui lo scrivo e che nessuno lo legga: non solo è cresciuto al 3%, segnando un +0,1 rispetto al 2013, ma nel 2014 sarebbe dovuto scendere al 2,6. Quindi, rispetto al programmato, è cresciuto dello 0,4. E che sia veramente al 3% è un articolo di fede cui tutti hanno convenienza a credere, perché l’Unione europea sa bene che avviare una procedura d’infrazione può avere effetti disastrosi, ma cui nessuno crede.

La settimana prossima vedremo i conti del Def (documento di economia e finanza), ma già immagino quel che si dirà: il deficit non cresce. Peccato che dovrebbe quasi dimezzarsi, scendendo all’1,7. Il deficit è la contabilizzazione, in corso d’anno, del maggior debito l’anno successivo. E un Paese con un debito mostruoso dovrebbe farlo scendere, non salire. Sappiamo tutti cosa è stato detto alla Commissione europea: se le cose dovessero andare storte compenseremo, con nuovo gettito fiscale (Iva, in primis). Ebbene: le cose sono storte. È incosciente un governo che prova a negare l’evidenza e continua a far propaganda a tre palle un soldo (naturalmente a debito). È sciocco supporre che si possa risolvere la faccenda dando tutte le colpe al governo (80 euro e assunzioni sì, però). Ma è perso un Paese che supponga di scansare la realtà producendosi nella tarantella delle polemicuzze da cortile.

Hera, Peppone va in borsa

Hera, Peppone va in borsa

Davide Giacalone – Libero

Vendere patrimonio per alimentare la spesa è una scelta dissoluta, che conduce alla rovina. Vale per singoli e famiglie, come vale per la collettività. Più 200 comuni si apprestano a farlo, speculando sui beni accumulati dai predecessori e impoverendo i successori. Attenti, dunque, a quel che sta capitando in Hera. Imponente conglomerato di municipalizzate quotata in Borsa. Tipico animale misto del socialismo capitalizzato. Non è una faccenda di campanili, ma un campanello d’allarme.

Hera ha 8.500 dipendenti, serve 3.5 milioni di cittadini, è al primo posto nella gestione dei rifiuti, al secondo per le forniture d’acqua, al terzo per il gas ed è il quinto operatore nazionale nella vendita di energia elettrica. Il fatturato supera i 4.5 miliardi. Decisamente grande. Nasce dall’aggregazione di diverse municipalizzate, fra l’Emilia Romagna, il Friuli Venezia Giulia, le Marche e la Toscana, attorno al nucleo forte di quelle bolognesi. Tale processo è positivo, dato che il problema italiano non sono tanto i municipi, ma le municipalizzate. Dovrebbe portare a delle economie e alla diminuzione della spesa pubblica, inoltre contribuisce a diminuire il numero di consigli e consiglieri l’amministrazione. Peccato, però, che Hera abbia generato (fra possedute, controllate e partecipate) la bellezza di altre 44 società. Gli azionisti, che dovrebbero stare con il fiato sul collo degli amministratori, del resto, sono in gran maggioranza politici, sicché poco inclini a limitare le capanne sotto ai cui tetti ripararsi in caso di mancata rielezione, né favorevoli a diminuire i posti da assegnare ai più devoti sostenitori. E sono gli azionisti, infatti, il problema.

Il 26 giugno del 2003 la società fece il suo ingresso in Borsa, assegnando al flottante il 44,5% del capitale. I soldi incassati finirono nelle rispettive casse comunali. Ad oggi non se ne ritrovano più neanche le tracce fossili. Siccome i soldi sono come le ciliege, che più ne hai e più ne mangi, i Comuni, ovvero gli azionisti di controllo, hanno avviato le procedure per vendere un’altra parte del capitale, stipulando un patto di sindacato che passi dal 57,4 al 38,5% delle azioni. Vi invito a leggere quanto dichiarato dal sindaco (Paolo Lucchi) e dal vice (Carlo Battistini) di Cesena (tutto cattocomunismo alla Peppone e Don Camillo): “Il governo pubblico resta garantito ed Hera non sarà privatizzabile. La garanzia è contenuta nelle modifiche statutarie che prevedono il voto maggiorato legato alle azioni vincolate e la maggioranza del 75% necessaria per cambiare lo statuto”. Lasciate perdere che i due sono convinti essere pubblica una società quotata in Borsa, talché non si possa privatizzarla (ed è il solo punto su cui mi sento di convenire con la scuola sovietica: non si può privatizzare quel che è già privato), il loro eloquio, degno di un film titolato “Peppone va in Borsa”, chiarisce l’intento: vendiamo un pezzo consistente del nostro patrimonio, sì da potere spendere i soldi subito, ma non molliamo un pelo del nostro potere. Programma che ha il pregio della chiarezza. Ne discendono alcune conseguenze.

I compagni di un tempo consideravano i patti di sindacato con disprezzo, essendo uno strumento per mantenere il potere in poche mani, senza neanche impegnarle a scucire quattrini. C’era del vero, anche se, nel “sistema Cuccia”, era anche il modo per mantenere la politica fuori da un capitalismo asfittico. Comunque, ora si sono convertiti, al punto che i proprietari i soldi non solo non li mettono, ma li pigliano. Il patto attuale, però, mette al sicuro da ogni possibile scalata, perché raccoglie più della metà del capitale. Quello in preparazione no. Ecco la trovata del voto maggiorato, in modo che la minoranza sia maggioranza.

In queste condizioni, perché il mercato dovrebbe investire in azioni vendute da sindaci e assessori che vogliono conservare il potere, in capo a una società i cui amministratori sono da loro designati? Risposta: perché rendono bene. Non incorporano il valore della contendibilità, altrimenti varrebbero di più, ma scontano quello della rendita. E chi garantisce la rendita? Oh bella: quei 3.5 milioni di cittadini che pagano le bollette. Sono loro che attirano i compratori, pagando più di quel che potrebbero altrimenti pagare. Ed è qui che Peppone può rilassarsi. Oramai non più meccanico e contadino, ma professionista. Senza il mezzo sigaro, ma con il narghilè. Non più con il vino rosso, ma con lo spritz. Sempre, però, con l’idea fissa che il socialismo consista nel potere del partito e negli affari delle sue cooperative, mentre il capitalismo non è la macchina che produce ricchezza, ma il fenomenale giocarello di finanza che consente di prendersela e portarsela via. Che la collettività s’impoverisca è dettaglio laterale.

Falso in falso in bilancio

Falso in falso in bilancio

Davide Giacalone – Libero

Regolare il falso in bilancio in una legge intitolata alla corruzione è un po’ come regolare l’aborto in una legge sulla violenza carnale. Non che fra le due cose non ci sia o passa esserci una relazione, ma tradisce una visione singolare della vita societaria e di quella collettiva. Il bilancio falso, del resto, è il tradimento del bilancio vero, le cui regole sono parte vivente del diritto societario, nonché anima onnipresente nel mercato. Supporre che la patologia possa essere individuata e colpita in luogo distante da quello in cui si definisce e regola la fisiologia è supposizione più vicina all’opera di una macumbeira, piuttosto che a quella di un medico.

L’idea politica che presiede all’operazione si può così riassumere: puniamo severamente il falso in bilancio, superando una legge che lo aveva depenalizzato, se non addirittura abrogato, favorendo la formazione dei fondi neri con cui si pagano le tangenti. Tanto che qualcuno ha titolato: reintrodotto il falso in bilancio. Sono favorevole a punirlo, severamente. Però non è mai stato abrogato, sicché sarà meglio guardare nelle pieghe. Mentre i fondi neri sono esistiti prima della riforma precedente, come anche dopo. Ed esistono in ogni parte del mondo, talché sarà opportuno ragionarne con meno frettolosità.

Il falso in bilancio non ha mai cessato di essere un reato. Solo che, naturalmente per le società non quotate in Borsa, se ne esclude la punibilità nel caso in cui il falso o l’omissione non alteri sensibilmente la rappresentazione economica, patrimoniale o finanziaria della società. Non si è punibili se le alterazioni non determinano una variazione del risultato d’esercizio, al lordo delle imposte, fino al 5% o una variazione del patrimonio fino all’1. Né lo si è se le voci dipendenti da stime (molte voci dei bilanci non sono somme, ma stime) differiscono fino al 10% della valutazione corretta. Questi sono i limiti ancora vigenti. A me non piacquero, perché da una parte introducono l’idea che ci sia un falso accettabile (una cosa è l’errore, compreso quello di stima, altra il falso), dall’altra lasciano un margine largo d’imprecisione su cosa sia rilevante e cosa no. Le soglie percentuali erano precise, invece. Larghe, ma precise. Fuori da queste ipotesi, si subisce una pena, che va dall’ammenda alla galera. Troppo basse le pene? Questo è un discorso inutile e fuorviante, perché l’aumento delle pene è una truffa ai danni di un Paese in cui la giustizia non funziona. Le pene esistenti sarebbero efficaci e severe, se solo fossero reali. Non lo sono, però. Sorte che agguanta anche quelle in discussione.

Ora si cambia? Nel testo approvato dal Senato c’è scritto che sono puniti i “fatti materiali rilevanti”. Esclusa l’esistenza dei “fatti immateriali”, suppongo significhi che i fatti non rilevanti non sono puniti. Ecco, appunto. L’ottimo Luigi Ferrarella (Corriere della Sera) c’informa che si tratta di una cattiva traduzione dall’inglese. Peggio. Resta che il testo afferma doversi punire il falso (sempre per le non quotate), con pene da 1 a 5 anni di reclusione. Ma si scende a 6 mesi nei casi di “lieve entità”. La pena massima di 8 anni è prevista solo per le società quotate.

Con il che si ritorna da dove si era partiti: se si intende un falso, concepito come tale, ma “lieve”, si ammette la sostanziale impunità del concetto, se, invece, vi si ricomprende l’errore, allora esiste già la regola generale. In ogni caso siamo a definizioni imprecise e prive di riferimenti oggettivi, lasciando tutto alla discrezionalità del giudice. Tanto più che il reato potrà essere punito “tenuto conto della natura e della dimensione della società e delle modalità o degli effetti della condotta”. Vi sembra così diversa dalla legge vigente? Aumenta le pene massime di 2 anni e perde le soglie, regalando spazi al giudice. Vale a dire che li toglie al legislatore. In ogni caso queste regole penali non si applicano alle società piccole, già fuori dalla portata della legge fallimentare.

In quanto ai fondi neri, si creano mediante spese regolarmente contabilizzate. Il falso non lo vai a cercare nel bilancio, ma nel rapporto professionale o nel servizio per cui è stata emessa fattura. O nelle pezze d’appoggio di costi gonfiati. Il che si riflette nel bilancio, ma non ci arrivi da quello. Spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che i cambiamenti sono declamazioni. Salvo il fatto che oltre al fisco ora anche il giudice penale può accasarsi nel bilancio di qualsiasi società. E non è poco.

L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

L’aumento dei disoccupati fa saltare il bluff dell’illusionista Renzi

Davide Giacalone – Libero

Il problema non è che cresce la disoccupazione, ma che diminuisce l’occupazione. Già patologicamente bassa. Non è un gioco di parole, semmai un invito a piantarla di giocare con i numeri. Nessuno dovrebbe, oggi, rimproverare al governo i dati sulla disoccupazione, se non fosse che il governo, ieri, sparava numeri propagandistici. Ed è semplicemente demenziale continuare a misurarsi solo con se stessi: da noi la disoccupazione cresce, mentre diminuisce sia nell’Eurozona che nella Ue (28 paesi). Si cerchi di essere seri, quando si parla di cose serie. Invece se n’è vista poca, negli ultimi giorni, di serietà. Nell’eurozona la disoccupazione si attesta all’11,3%, scendendo dello 0,1 in un mese (febbraio rispetto a gennaio) e dello 0,5 in un anno (2015 rispetto al 2014). Nella Ue le cose vanno meglio: 9,8 i disoccupati, ­0,1 in un mese e ­0,7 in un anno. In Italia i disoccupati sono il 12,7 a febbraio, in crescita dello 0,1 in un mese, +2,1 nei 12 mesi. Matteo Renzi ama parlare dei nuovi contratti in termini assoluti, invitando a considerarli vite ritrovate. Bella suggestione, ma qui abbiamo 67mila disoccupati in più. Vite complicate.

Attenzione, però, perché il tasso di disoccupazione è certamente un problema, ma la sua crescita non necessariamente un male: se più persone nutrono fiducia e più numerosi cercano lavoro, quel tasso sale. Ma qui il segno è controverso, perché gli inattivi, quanti un lavoro non ce l’hanno e non lo cercano, sono il 36% a febbraio: +0,1 rispetto a gennaio, ­1,4 su base annua. Luci ed ombre. Per una lunga stagione, fra il 2003 e il 2012, il tasso di disoccupazione italiano è stato inferiore alla media europea. Siccome ci sforziamo di ragionare e proporre, senza tifare e imbrogliare, scrivevamo che era drogato dalla cassa integrazione. Se avessimo contabilizzato fra i disoccupati quelli che pur non lavoravano per nulla, non saremmo più stati sotto la media europea. I governanti di allora (centrodestra) si arrabbiavano. Ora, però, siamo da un pezzo sopra la media. E la distanza si allarga. Unica consolazione è il calo della cassa integrazione. Consolazione misera se si giunge al dato decisivo.

Quel che conta è la partecipazione al lavoro. Ciò che classifica un Paese (ove non si viva di rendite petrolifere) è la percentuale di popolazione attiva effettivamente impegnata nella produzione. E qui son dolori seri, perché siamo solo al 55,7%. Che non è solo nettamente sotto la media europea e ancor più sotto quella dei concorrenti (Germania in testa), ma è anche in diminuzione (­0,2 in un mese, 44mila persone in meno al lavoro). La partecipazione maschile al lavoro si attesta al 64,7%, bassa, ma non con un distacco drammatico rispetto agli altri. Mentre quella femminile è al 46,8. Roba da fondamentalisti islamici. Ma il nostro non è un problema religioso, bensì ideologico e patologico: donne e giovani (42,6% di disoccupati, in crescita, mentre i giovani occupati scendono del 3,8 in un mese e dello 0,6 in un anno) fuori dal lavoro. Ovvio che con così scarsa partecipazione al lavoro l’Italia segni tassi di crescita inferiori a quelli che, altrimenti, la manovra espansiva della Bce consentirebbe. Il che aggrava i nostri problemi e aumenta lo svantaggio competitivo. Biascicare frasette sul ritrovato segno positivo è, dunque, patetico. Questa è la foto, se la piantiamo di prenderci in giro. Ed è un’immagine che somiglia molto a quella della Germania di 15 anni fa. Prima delle riforme. Loro le hanno fatte, noi no. Discusso, tanto. Fatto, poco.

Il ministro del Lavoro, Poletti, ha detto che il governo si sforzerà di prorogare gli incentivi per le nuove assunzioni. Strada sbagliata, perché qui abbiamo uno spaventoso svantaggio strutturale, non un inciampo congiunturale. Spostando risorse si sposta improduttività, gravando sulla fiscalità. A noi serve chiamare masse di inattivi e disoccupati al lavoro, specie donne e giovani. E un risultato di quel tipo non lo si ottiene con gli incentivi, ma con le defiscalizzazioni e deregolamentazioni. Germania docet. La cosa curiosa è che il governo dice di averlo già fatto, con il Jobs Act (che ancora deve cominciare a funzionare, Landini su questo, ha ragione). Ma poi non ci crede, puntando sugli incentivi. La realtà è che quanto c’è di buono, in quella legge, è, al momento, solo propaganda. Mentre quel che manca è realtà, a cominciare dai soldi per modificare gli ammortizzatori sociali. Peccato che le chiacchiere non producano ricchezza, altrimenti vivremmo da nababbi.