davide giacalone

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.

La privatizzazione “sicula” del sale

La privatizzazione “sicula” del sale

Davide Giacalone – Libero

La Sicilia è terra di sale. Ma non nella zucca di chi l’amministra. Quella che segue è la storia brutta di come quel che si sarebbe dovuto privatizzare, la Italkali, si rischia di perderlo, incassando 3 milioni al posto di 20. Sembra la trasposizione demenziale di una poesia (L’omu di sali) di Renzino Barbera: «Sali, poi sali e poi sali / E sulu muntagni di sali / (…)/ di picciuli… un pizzicu sulu». La Italkali gestisce l’estrazione e la commercializzazione del sale minerale siciliano. Ogni anno totalizza ricavi per 90 milioni. Le azioni sono intestate in maggioranza (51%) alla Regione siciliana e per la rimanente parte a un socio privato. Nel 1999, come riporta il giornale online Live Sicilia, se ne decide, saggiamente, la dismissione. Non c’è ragione per cui la Regione debba fare quel mestiere. Ce ne sono molte per privatizzare. Ma vendere non deve significare regalare, come, invece, sta accadendo. Capita, difatti, che il processo di vendita, avviato allora, non è mai stato portato a compimento.

Si fece tura gara per scegliere l’advisor, e la vinse Meliorbanca. ll lavoro di valutazione e vendita s’interrompe più volte, tanto: che fretta c’è? Ma dal 2012 sembra essere in dirittura finale. Solo che, a novembre, Rosario Crocetta è eletto presidente della Regione, promettendo una stagione di radicali rinnovamenti e, manco a dirlo, di trionfi anti­maliosi. Invece si ferma tutto. Siccome corre l’anno 2015, e sono scaduti tutti i tennini di legge, il socio privato sostiene che quello pubblico è “decaduto”, quindi può essere liquidato al valore nominale delle azioni che ancora gli sono intestate.

Con una perdita, per l’erario siculo, di poco meno del 90% del valore. Mettiamo pure, per benevola concessione logica, che tutto questo si debba a semplice incuria, inettitudine e dimenticanza. Mettiamolo pure. Se ne dedurrebbe che la corruzione è assai più conveniente della scimunitaggine. Che se la cosa fosse stato un affare losco si sarebbe potuto immaginare di pagare un prezzo corruttivo, che so?, fino al 10%. Mentre ora il 10% è il totale dell’incasso. Morale immorale, ovviamente, ma pur sempre meno irrazionale di quel che accade.

La cosa è talmente macroscopica che pure da dentro il Partito democratico si levano voci di aperto dissenso, con Antonello Cracolici (vecchio giovane comunista isolano), consigliere regionale (anzi no, scusate, in Trinacria si chiamano “onorevoli”), che presenta un’interrogazione per bloccare la “svendita”. Che, però, manco una svendita è: trattasi di regalo. Prova a sostenere: l’avvio della vendita non aveva valore, i termini previsti dalla legge nazionale non si applicano in Sicilia, che è autonoma, e, comunque, vanno intesi come ordinatori, cioè privi di valore effettivo. E si tonra a Barbera: «Restu tra ‘u suli e lu sali». E ci resto all’infinito. Dice Cracolici: sono favorevole alle dismissioni, ma al valore reale, di mercato, dando íl diritto di prelazione al socio privato, ma mica facendosi scippare. Giusto. Ma si cominciò nel secolo scorso.

La cosa curiosa è che la notizia è rimbalzata anche sui quotidiani nazionali, senza che mai si capisse come fa un socio a “decadere”. Il dettaglio è che se effettivamente decade, e a quelle condizioni, il danno erariale imputabile ai decadenti è dato dalla differenza fra il valore e il liquidabile. Frai 16 e i 17 milioni. Come se abbondassero, in quelle casse. Alla prossima manifestazione di precari da blandire e prendere in giro, provino a spiegare loro perché i soldi si buttano dalla finestra. Con in cortile, a raccoglierli, tutto fuorché un bisognoso. Storie di ordinaria follia, nell’isola disperata e dimentica di sé. Dove in cima ai cortei contro il pizzo ci stanno quelli che prendono il pizzo. A guidare quelli contro la mafia, ci stanno quelli che avversarono Borsellino e Falcone. A capeggiare gli industriali contro l’onorata società ci sono quelli inquisiti per connivenza con i disonorati associati. E nessuno s’azzardi a citare Pirandello, o l’abusato Gattopardo (Tomasi di Lampedusa), perché queste non sono storie di verità indistinguibili o di cambiamenti conservativi. Qui è la principessa incapacità che convola a nozze con il re Furto. Semmai, ancora Barbera; «Chi vita scipita, ‘nto sale».

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Per abbattere Silvio ci siamo giocati la sovranità nazionale

Davide Giacalone – Libero

Imbrogliare e mentire sulla storia nazionale è un antico vizio italiano. Piuttosto che fare i conti con la realtà dei fatti si è ripetutamente preferito travisarli. Prima che José Luis Rodriguez Zapatero, ex capo del governo spagnolo, venga in Italia a raccontarci quel che ci siamo già detti, quindi, vale la pena rimettere in funzione la bussola della storia. Possibilmente senza usare i magneti delle tifoserie per truccarla. La sorte dei governi italiani è stata determinata da influenze o decisioni prese al di là dei nostri confini? Si può rispondere oscillando da un irragionevole «no», a un ecumenico «sì, ma è normale che sia così», fino a un estremo «sì, fu un colpo di Stato». Esercizio inutile. Il nostro dovere è prima di tutto sapere, poi capire. Anche per leggere meglio quel che accadde dopo.

Nella seconda metà del primo decennio del secolo appena iniziato, l’Italia è finita due volte nel mirino di interessi a noi contrapposti. La prima è la più istruttiva e dice molto della seconda: il gas russo. Un pezzo dei governi europei e quello statunitense non hanno mai digerito il rapporto con i russi per la fornitura di gas. Troppo lungo approfondirne qui i passaggi, sta di fatto che i più esposti eravamo noi e i tedeschi. Con una enorme differenza: quando Gerhard Schroder prende la guida del gasdotto Nord Stream AG, designato dai russi di Gazprom, si accendono polemiche in varie parti del mondo occidentale ma l’argomento non viene utilizzato come arma di polemica politica interna tedesca. Anzi: Angela Merkel inaugurerà l’opera. Da noi accadde l’esatto contrario.

Ci torno, prima però è bene ricordare un dettaglio: coincide con quel periodo la pubblicazione della prima foto di Berlusconi con sulle ginocchia una squinzia, ritratti nella casa di Sardegna. Nel 2011, passaggio cui si riferisce Zapatero, molte cose precipitano. Veniamo trascinati (marzo) in una dissennata guerra di Libia, voluta da francesi e inglesi. Poi si scatena la speculazione contro i debiti sovrani (estate). E qui, scusate, ma Zapatero non ci può rivelare altro che succosi particolari, perché la sostanza noi la scrivemmo durante, non dopo: la polemica degli spread, intesi come indici di inaffidabilità governativa, era da trogloditi o da imbroglioni. Lo documentammo e i fatti confermarono.

Ma mentre si usava quell’artiglieria per colpire il governo, è arrivata la bomba. Tale fu la costituzione del fondo salva Stati (luglio). Cosa giusta, salvo che francesi e tedeschi vollero e ottennero che ciascuno partecipasse in percentuale del proprio Pil, mentre gli italiani chiesero e non ottennero che si partecipasse in ragione dell’esposizione delle proprie banche con il debito greco. Era chiaro che la prima formula ci avrebbe portato a pagare per salvare le banche francesi e tedesche. Era ragionevole, quindi, che altri volessero fiaccare la forza del governo italiano. Ma non sarebbe stato possibile se in Italia non vi fosse stato un berniniano schieramento di quinte colonne.

Così nacque il governo Monti (novembre). Ciò va ricordato per evitare di supporre che la partita fosse d’antipatia personale, o di supposta impresentabilità. Per questo va anche ricordato che il governo in carica (Berlusconi) era già gravemente crepato. Va ricordato che il centro destra ha votato a favore di tutti i passaggi governativi successivi (salvo poi dissociarsi). Producendosi poi la situazione odierna, con una coalizione di governo che nessuno ha mai votato (spaccato il centro destra e destituito Bersani). E va anche ricordato che se le serate gaudenti non furono la causa di quella crisi, ben altrimenti ricca d’interessi, furono comunque lo strumento utilizzabile. Quindi una colpa.

Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Le figuracce sulle grandi opere ci allontanano dalla ripresa

Davide Giacalone – Libero

Il rito è sempre lo stesso: condannare alcuni senza processo per non doversi interrogare sulle responsabilità diffuse. Parlare dei funzionari come portentosi ministri ombra, per non doversi domandare come mai i titolari non sono l’ombra di ministri. E mentre si celebra il rito inutile dell’irresponsabilità collettiva si perde di vista il cuore del problema, che non è criminale, ma economico: la ripresa non può essere innescata solo da politiche monetarie e l’Unione europea s’industria a liberare investimenti, pubblici e privati, in quelle che noi chiamiamo «grandi opere».

Da noi ci sono due possibilità: che ad averne la gestione siano costantemente dei lestofanti, o che chiunque le gestisca è passibile di finire in galera, perché è discrezionale e deresponsabilizzante la gestione degli appalti quanto quella delle inchieste. Il che ci mette nelle peggiori condizioni per agguantare la parte strutturale e permanente degli investimenti e della ripresa. Questo è il problema.

Alcuni funzionari, fra i più capaci, diventano potenti e inamovibili perché i ministri sono incapaci  e di passaggio. I secondi creano o accettano meccanismi che non possono funzionare, sicché tocca ai primi trovare il modo di raggiungere comunque il risultato. All’inizio è genialità e arcana furbizia, sì che qualche binario s’imbullona e qualche trave si poggia. Con il tempo diventa abitudine alla deroga e alla scorciatoia, imboccata con una discrezionalità patologica quanto l’irrealistica regolarità.

Vedo che molti di quelli che ne scrivono non hanno idea di come funzioni una gara o un appalto pubblici: un’orgia per amministrativisti, una palestra del ricorso, una fucina ch’emana vapori e clangori, ma non batte un chiodo. E quando s’accorcia pericolosamente la distanza temporale fra il lavoro da farsi realizzare e la procedura che non ha mai cominciato a camminare, ecco che si deve derogare o prorogare. Ma non è finita, perché anche derogando l’ipocrisia vuole che si racconti al volgo l’acuta capacità dell’ottusità ministeriale, capace di risparmiare operando. Così le gare diventano bische e i prezzi fantasie ribassiste. In quelle condizioni si chiude la procedura, ma certo non si realizza il lavoro, E allora ecco che partono le revisioni dei prezzi. Tante lievitazioni dei costi sono, in realtà, conseguenza di progetti irrealistici e preventivi farlocchi. Ma, anche qui, una volta che ci prendi la mano ci metti anche il resto, regali e consulenze compresi.

Anziché rimediare cambiando radicalmente la procedura, che diventerà razionale solo il giorno in cui si accetterà il principio che dal mondo non si bandiscono il vizio e l’interesse, ma se ne attribuisce il merito e la responsabilità a chi ha il potere (da noi alleviamo impotenti  irresponsabili, sicché prodighi nel vizio e proni all’interesse), preferiamo lo spettacolo dell’inchiesta. Sempre uguale e sempre nuovo, conferma ripetitiva di un costume che Manzoni vide con impareggiabile lucidità: «Servo encomio e codardo oltraggio». Ecco, dunque, il pubblico ministero che fa la conferenza stampa ed espone l’accusa sotto l’egida della giustizia, sicché il tribunale, che arriverà dopo anni, si troverà non a curare un malato, ma a farne l’autopsia. Ecco i vignettisti che raffigurano in galera gli arrestati, dimentichi che si tratta d’innocenti e i comici specializzati nel bastonare il cane che affoga. Ecco gli indignati in servizio permanente effettivo. Ed ecco quelli che leggendo queste righe diranno «garantismo peloso», ove spero che comprendano l’aggettivo meglio del sostantivo.

A tutti sfugge un dettaglio: che siano ladri agguantati o vittime in ceppi (senza che una cosa escluda necessariamente l’altra), a noi restano i cocci di una macchina pubblica intrisa di cieca ipocrisia, incapace di gestire quello che in questo momento sarebbe vitale: la ripartenza delle grandi opere. L’esito del derby fra colpevolisti e innocentisti, tifoserie comunemente avverse al diritto, lo conosceremo quando non gliene fregherà più niente a nessuno. Già da oggi conosciamo il risultato nazionale: meno di zero.

Con le pene più alte la corruzione aumenta

Con le pene più alte la corruzione aumenta

Davide Giacalone – Libero

La corruzione avvelena la vita collettiva e inceppa il mercato. Anche la gnagnera dell’anticorruzione, però, non scherza. Se il contrasto alla corruzione ha così miseri risultati è proprio perché alla prevenzione e alla repressione si preferisce l’esposizione e la deprecazione. Un po’ come s’è visto nella mia Sicilia: cortei e indignazione, per poi passare all’intrallazzo e alla riscossione.

Si cambia legge contro la corruzione con più frequenza degli abiti, ma ne usciamo sempre dicendo che il fenomeno è crescente. L’anticorruzione parolaia ha bisogno di esagerare, per sentirsi al sicuro nel perpetuarsi della propria ciarliera inutilità. Ogni anno ci ripetiamo che il valore della corruzione ammonta a 60 miliardi di euro. Neanche sente la crisi, si riproduce uguale. Nel 2011 l’Onu calcolò quella mondiale in 1000 miliardi (di dollari), varrebbe a dire che deteniamo, a seconda del cambio, fra il 6,5 e l’8% della corruzione globale. Delirio. Se poi andiamo a vedere quanta corruzione si recupera, sotto forma di danno erariale, scopriamo che sono spiccioli. Dal che deduco che sono irreali entrambe: sia quella proclamata che quella perseguita. La soluzione di moda è sempre la stessa: rendiamo più severe le pene. Non serve a nulla, se la giustizia non funziona. Anzi, più si alzano le pene, più si allunga la prescrizione, più durano i processi, più cresce l’arretrato e meno la giustizia funziona. Esattamente quel che accade.

Volendo far finta d’essere severi, inoltre, mica si punta a far funzionare la macchina repressiva, ovvero la giustizia, ma a presidiare il campo produttivo con controlli invasivi. Si crede che il crimine possa essere cancellato, invece va solo punito. Ma noi alimentiamo le cronache con le retate, le coloriamo descrivendo l’evidente natura criminale degli arrestati, declassiamo la presunzione d’innocenza a carta per usi intimi, poi cambiamo capitolo e ci dimentichiamo tutto. Sicché i colpevoli sgattaiolano via e gli innocenti subiscono il martirio. E se osi dire che questa commedia è una pagliacciata c’è sempre il fesso (o il corrotto) che si alza e ti apostrofa: vuoi salvare i corrotti. Mi basterebbe salvarmi da quanti sono riusciti nel miracolo di corrompere la corruzione.

Il miglior rimedio all’oscurità non è il gatto, che nel buio fa i suoi comodi, rubando il salame mentre i topi portano via il formaggio, il miglior antidoto è la luce. La pubblica amministrazione dovrebbe essere tutta online, dacché non c’è riservatezza da tutelare nel disporre e nell’incassare denari pubblici. Il male non sta nell’appaltare, ma nel non consentire di guardare. Trasparente deve essere anche l’esito dell’azione penale, deve essere visibile non solo quanto dura la carcerazione degli odierni irretiti, ma anche quanto durano le indagini, quanto il tempo necessario per il rinvio a giudizio e per i processi, nonché il loro esito. E ove venissimo a scoprire che si prese un granchio, o ci si fece scappare la volpe, sapremmo meglio qual è la ragione di tanta impunità: la malagiustizia.

La corruzione finalizzata a ottenere vantaggi indebiti è un male grave. Ma la corruzione tesa a far marciare una macchina (autorizzazioni, revisioni, adempimenti, etc.) altrimenti inchiodata non è un male, sono due. I retori dell’anticorruzione non fanno che creare nuove macchine, capaci d’inchiodarsi e inchiodare. La cultura del proclama, al posto di quella dei risultati, è corruttiva. Avvelena tutti. Ditegli di smettere.

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Il premier rifà la Rai di Fanfani, gli mancano solo le Kessler

Davide Giacalone – Libero

Back to Mammì. Che sarebbe anche una buona cosa, se non fosse fuori tempo massimo e fuori dalla realtà. In verità il film che Matteo Renzi vorrebbe far trasmettere alla Rai, a reti unificate, è: Back to Fanfani.

Quella che a Renzi sembra una novità è la proposta che il ministro Mammì (il mio amico Oscar, con cui ho lavorato, in una stagione di cui conservo un orgoglioso ricordo) fece nel 1987: sottrarre la Rai all’«ossessione dell’audience» (così la definì) e far sì che una delle tre reti fosse senza pubblicità. Fininvest, che era il nome di allora di Mediaset, avrebbe dovuto rinunciare a una delle sue tre reti. Tale proposta venne bocciata subito. Non dai sostenitori di Fininvest, ma da quelli della Rai. Non dagli amici di Silvio Berlusconi, ma da quelli di Biagio Agnes. In prima fila c’era lui, Uolter Veltroni, che disse: una televisione senza pubblicità non è una televisione. Sì, è lo stesso Uolter che poi sostenne non dovesse «interrompersi un’emozione», cioè non dovesse esserci la pubblicità nei film. Ma che volete, della coerenza ha sempre coltivato la variante africana.

Fu bocciata, dicevo. Poi fu approvata un’elaborazione successiva, che lasciava ai duopolisti tre reti (aprendo il mercato ad altri, però), tutte con pubblicità. E fu approvata con il consenso anche della sinistra democristiana e del Partito comunista (senza offesa, si chiamava così). Quando Mammì fece la sua prima mossa, comunque, la cosa aveva un senso. Intanto perché la Rai aveva tre reti, mentre oggi ne ha quindici. Poi perché non esistevano ancora né Tele+ né Stream, successivamente confluite in Sky. Soprattutto perché eravamo in epoca analogica, mentre oggi c’è il digitale. La domanda è: allora perché, oggi, il grande innovatore recupera un reperto archeologico? Risposta: perché punta ancora più indietro, alla Rai di Amintore Fanfani ed Ettore Bernabei. Alla Rai di governo. Si preparino le gemelle Kessler.

Renzi conta di arrivare al monocolore Rai cambiando il meccanismo di nomina dei consiglieri d’amministrazione. L’idea è che i consiglieri restino sette, come oggi, ma quattro siano eletti dal Parlamento, in seduta congiunta, due dal governo e uno dai dipendenti della Rai. Peccato che: a. le occasioni per le sedute congiunte sono regolate dalla Costituzione, sicché si dovrebbe modificarla (anche in questo), o scimmiottarla puerilmente; b. il Parlamento di cui parla Renzi è quello che stanno riformando, quindi al Senato ci sarebbero i rappresentanti delle Regioni, ma pochi, mentre la Camera sarebbe abitata da tanti di un solo partito, che è anche lo stesso al governo. Detta in modo più chiaro: chi vince le elezioni elegge sei consiglieri su sette. In più il governo nomina il direttore generale (mentre oggi lo elegge il consiglio d’amministrazione). Il potere assoluto. Manco Fanfani ci aveva pensato. Con un tocco di cogestione jugoslava, incarnata dal consigliere delle maestranze, in larga parte reclutate mediante accurata selezione partitica, quindi a vasta presenza di nostalgici a pugno chiuso e bocca aperta. Il maresciallo Tito ne sarebbe compiaciuto.

Renzi è una volpe. Conosce i suoi polli e per questo se li pappa. Infatti veste la sua proposta in questo modo: basta con la Rai dei partiti. Evviva, applausi, tripudio. Peccato che la lottizzazione (copyright Alberto Ronchey) nasce nel 1975, con la riforma che segnò la nascita della sinistra catodica, nonché la fine dell’era censoria e democristianocentrica. In quella in cui i figliuoli di Amintore guidano la sinistra si arriva a tali forme di simpatico sincretismo.

E che si deve fare, allora, conservare la lottizzazione come strumento di pluralismo? Il cielo me ne guardi. Il fatto è che siamo nel mondo digitale, quello che alla Leopolda si ricordava agli altri, salvo scordarsene in proprio. In questo mondo l’offerta è infinita. Il palinsesto te lo costruisci da solo. I più giovani neanche sanno cos’è il consumo televisivo dei propri avi. Dirigere la Rai, quindi, vuol dire controllare quel pezzo di opinione pubblica che s’è assopito davanti alle televisioni generaliste e commerciali, quali la Rai è. Significa puntare alla manipolazione del consenso di quel pezzo arretrato. Lo schermo, e torno a citare il piccolo grande Oscar, concepito come «balcone di piazza Venezia». La soluzione c’è, per non finire a quel modo: venderli. La Rai e il balcone.

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.