debito pubblico

Ragioni e incubi tedeschi

Ragioni e incubi tedeschi

Davide Giacalone – Libero

C’è un problema tedesco, in Europa. Ma ci sono anche paesi con i conti e le politiche in disordine, che pensano di potersela cavare dando la colpa alla Germania. Ci sono cittadini europei che temono di essere fregati, ritrovandosi a pagare debiti contratti da altri. E ci sono loro concittadini che temono di finire sottomessi a una (altrui) logica di potenza nazionale. E’ normale che queste paure suscitino reazione elettorali colorite, per quanto inutili. Non è normale che molti politici e governanti sfuggano al misurarsi con questi problemi, preferendo strizzare l’occhio agli elettori presi dal panico. Per questo trovo molto interessanti le tesi esposte da Jeans Weidmann, presidente della banca centrale tedesca, la Bundesbank, in una intervista a Repubblica. Sono parole serie. Che vanno prese sul serio. Dico subito che le condivido nella quasi totalità, ma con un distinguo decisivo, su un punto fulcro del presente e del futuro europeo.

Riassumo, per punti, il pensiero di Weidmann, chiosando in parentesi. 1. Per recuperare competitività è del tutto inutile immaginare il ritorno a monete nazionali, puntando sulla loro svalutazione, perché i benefici da quella indotti sono passeggeri e instabili (giusto, senza contare i malefici e tenendo presente che la Banca centrale europea sta conducendo una politica di graduale deprezzamento dell’euro). 2. La strada saggia consiste nell’abbattere le barriere per l’accesso al lavoro (che significa meno garanzie) e nel favorire le privatizzazioni (quindi meno Stato nel mercato). 3. Il tasso d’inflazione deve salire, ma non c’è motivo di affrettarsi, secondo i calcoli Bundesbank crescerà, di poco, a fine 2016 (giusto che salga, ma la fretta c’è, perché in deflazione il peso dei debiti cresce, fino a soffocare). 4. E’ sbagliato paragonare l’Ue ad aree monetarie come gli Stati Uniti o il Giappone, perché quelle sono entità politiche unitarie, mentre noi siamo 18 stati con politiche indipendenti, debiti diversi e diversi rating (vero, ci torno subito). 5. Lo sviluppo demografico europeo, ovvero la contrazione delle nascite, suggerisce di non spostare nel futuro il peso del debito (giusto). 6. Quando i debiti sono alti non si deve reclamare spesa pubblica anticongiunturale basata sull’aumento del debito, perché questo aumenta il male anziché curarlo, semmai si deve modificare la struttura della spesa pubblica, indirizzandola allo sviluppo anziché al trasferimento (leggi spreco) di ricchezza (giusto).

E qui veniamo a due aspetti delicati. Due tasti politicamente decisivi. Il primo si ricollega al punto 4.: siccome l’Ue non è uno Stato unitario, o federale, delle due l’una: o ci muoviamo in quella direzione, cedendo ciascuno sovranità fiscale; oppure non c’è alternativa al rispetto dei vincoli previsti dai trattati. Ha ragione. Ed è questo il pericoloso errore commesso da alcuni governi europei, il nostro compreso: l’avere puntato sull’elasticità nell’interpretazione dei vincoli anziché nel porre subito il tema della cessione di sovranità. Con il risultato che non avendo ottenuto nulla sul primo aspetto si finisce con il perdere sovranità propria, perché troppo indebitati, senza accedere a una comune. I francesi hanno compiuto questa scelta (sbagliata) consapevolmente, perché soggiogati da quel che resta della perduta grandeur (ma fra quel che resta c’è l’arma atomica). Noi abbiamo perso l’occasione del semestre italiano, per nulla. C’è, però, una seconda faccia della medaglia: noi (con altri) eccediamo nel debito, ma posto che anche quello tedesco è oltre i parametri consentiti, e che è cresciuto più del nostro, il loro surplus commerciale è a sua volta una grave violazione. Se parametri devono essere che siano, ma per tutti. Quell’avanzo (enorme) è continua sottrazione e concentrazione di ricchezza. Intollerabile quanto la crescita del debito.

E se il debito crescente induce il timore che si voglia farlo pagare ad altri (senza dimenticare che abbiamo già pagato per aiutare le banche tedesche e francesi), il surplus permanente, unito al vantaggio di tassi d’interesse bassissimi, quando non negativi, induce la paura che qualcuno covi il ricorrente incubo della potenza nazionale, puntando anche all’indebolimento dei competitori, asfissiati dal credito e dal fisco. Una logica di dominio che ha già ripetutamente prodotto la sua sola possibile conseguenza: la rovina. Questo è il nodo decisivo. Entrambe i timori hanno fondamento. Entrambe devono essere fugati. Ma non uno prima dell’altro, perché ne deriverebbe uno squilibrio ingestibile. Per questo le parole di Weidmann sono importanti e largamente condivisibili. Per questo è insensato supporre di condurre un presunto scontro filo o anti-tedesco. Ma sempre per questo quel nodo va affrontato, nei suoi due aspetti. Chi provasse a fare il furbo sarebbe pazzo.

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Debito, tasse e statali: le tre mosse per far ripartire il Paese

Carlo Pelanda – Libero

Nei prossimi 3 anni l’Italia galleggerà a pelo d’acqua. Tutte le proiezioni correnti prevedono una crescita attorno allo 0,5% nel 2015 e a cavallo dell’1%, più sotto che sopra, nel 2016-17. Meglio che affondare? Attenti, stagnazione prolungata significa impoverimento sistemico: figli che migrano, figlie costrette ad umiliarsi. Possibile? Il governo non sta alleggerendo i pesi che soffocano la crescita. Infatti l’uscita dalla recessione nel secondo trimestre 2015 non sarà spinta dalla politica economica, ma da fattori diversi: (a) la svalutazione dell’euro che facilita l’export e l’importazione di turismo; (b) un minimo aumento dei consumi dovuto al fatto che tante famiglie, pur con poca fiducia nel futuro, dovranno comprare una nuova auto o il guardaroba del bimbo che cresce, ecc., cioè il fenomeno della «ripresa passiva»; (c) un leggero miglioramento del credito grazie alla stimolazione monetaria della Bce; (d) una riduzione (temporanea) dei costi dell’energia importata. L’insieme di questi fattori potrebbe dare una spinta ben maggiore alla crescita, ma il mantenimento di pesi fiscali eccessivi farà continuare la caduta recessiva di parte del mercato interno. Pertanto la somma tra fattori di spinta e caduta mostra come risultato un misero 0,5% nel 2015, cioè il galleggiamento, poi seguito dalla «stabilizzazione destabilizzante» della stagnazione.

La stimolazione
Un’analisi simile ha portato S&P a declassare l’affidabilità di lungo termine del debito italiano, nell’ambito di una previsione di non peggioramento nel medio termine. Significa che l’Italia in mero galleggiamento potrà ripagare il debito nei prossimi due o tre anni, ma che poi, senza cambiamenti, potrebbe non riuscirci più perché dopo recessioni e stagnazioni prolungate è probabile, senza discontinuità di modello, una spirale depressiva. Mi spiace considerare di efficacia nulla l’azione del governo Renzi che sta rompendo tanti tabù, ma la verità è che il suo progetto di stimolazione economica è e sarà insufficiente: sposta le tasse senza ridurle, modifica in modo irrilevante le norme protezioniste sul lavoro e, soprattutto, mostra poca reattività concreta alla crisi. Ed è ovvio: una maggioranza di sinistra, anche se guidata da un pragmatico, non vorrà mai ridurre le tasse in quanto i suoi elettori in stragrande maggioranza vivono di denaro pubblico. Il punto: senza detassazione stimolativa, cioè senza trasferire una gran massa di capitale dall’intermediazione burocratica al mercato, non sarà possibile invertire la stagnazione-declino. Italia condannata? Non necessariamente, perché la maggioranza degli italiani vive di mercato e se fosse possibile condensare in forma politica la rappresentanza dei loro interessi vi sarebbe il consenso per un’operazione mega-stimolativa: (1) abbattimento della spesa pubblica di circa 100 miliardi; (2) riduzione delle tasse di 70, lasciandone 30 di margine al servizio dell’equilibrio di bilancio; (3) abbattimento di circa 500 miliardi del debito pubblico (2.100 miliardi, circa) con una operazione «patrimonio contro debito» (ripagare parzialmente con obbligazioni basate sul rendimento del patrimonio pubblico i possessori di titoli invece di emettere nuovo debito) allo scopo di portarlo vicino e poi sotto al 100% del Pil, così risparmiando ¼ della spesa annua per interessi nonché altri soldi per il rifinanziamento del debito residuo grazie ad un aumento del rating.

La simulazione
Questi numeri sono usciti da una simulazione, continuamente aggiornata dal 2010, fatta dal mio gruppo di ricerca con l’obiettivo di trovare le quantità allo stesso tempo utili e possibili per invertire il destino dell’Italia, in costanza dei vincoli europei. Semplificando, con tale operazione l’Italia volerebbe rapidamente verso una crescita prolungata oltre il 3% annuo perché la tassazione (totale) sulle imprese andrebbe al 20% e quella sulle famiglie sarebbe ridotta di almeno 1/5. Non dovrebbe essere fatta tutto e subito, ma basterebbe renderla credibile per far scontare al mercato immediatamente il buon esito futuro, bilanciando così con un effetto fiducia – che scongela il risparmio – l’impatto deflattivo momentaneo del taglio di spesa. Il dissenso da parte degli statalisti sarà violento. Ma dobbiamo dirci la verità: senza una tale operazione, che per altro non riduce la socialità dello Stato, l’Italia è finita. Suggerisco, infatti, di chiamare l’operazione tecnica detta sopra «operazione verità», luce che spero illumini il popolo del mercato affinché si compatti e salvi se stesso e la nazione sostenendo l’unica soluzione veramente efficace.

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Quel disastro statalista che suona da lezione per l’economia europea

Carlo Lottieri – Il Giornale

Le notizie (preoccupanti) riguardanti l’economia giapponese hanno fatto crollare l’indice della Borsa di Tokio e aperto una fase politica nuova. È possibile che per il premier Abe non ci siano più molte chance e che presto il Giappone volti pagina. Sono però vent’anni che quella che era la seconda economia globale è in difficoltà. Il Paese del Sol Levante adotta da tempo tassi di interesse bassissimi, talora anche nulli, e utilizza il ricorso al debito pubblico con spregiudicatezza. Lo sfascio giapponese è allora interessante perché noi ci troviamo in una situazione simile, con la Bce che adotta una strategia di espansione monetaria (tassi egualmente vicini a zero) e un debito nazionale che ormai è pari al 134% del Pil.

In questo quadro, quanto ci viene da Tokio conferma le tesi di studiosi come Mises e Hayek, e spiega in che modo una società di successo, che negli Anni ’70 sembrava minacciare il primato americano (fino a innescare spinte protezioniste negli Usa), debba fare i conti con un processo di impoverimento. La spesa pubblica abnorme, che ha generato un debito folle, e un troppo facile accesso al credito indirizzano chiunque verso cattivi investimenti: ciò produce fasi di espansione artificiosa, a cui fanno seguito aggiustamenti talora assai dolorosi. In qualche modo, l’interventismo che genera deficit e la politica monetaria espansiva sono due pilastri del keynesismo: e le difficoltà del Giappone sono la conseguenza di un’economia in cui il ruolo del privato si restringe e la moneta è manipolata dalla Banca centrale.

Ma la situazione dell’Europa e in particolare dell’Italia è simile, così che sul disastro di quella che era un’ economia potentissima bisognerebbe riflettere attentamente. Ogni società cresce se quanti producono ricevono indicazioni corrette dall’ambiente in cui operano. Per ragioni diverse ma convergenti, la dilazione del settore pubblico estranea a logiche economiche e tassi che non riflettono le vere esigenze dell’economia, finiscono per indurre anche i soggetti privati a comportamenti poco responsabili. Esaltato dagli economisti della sinistra nostrana, il Giappone è allora oggi in ginocchio perché i suoi responsabili politici hanno intralciato il libero mercato e hanno distorto i prezzi. Le conseguenze le vediamo. In effetti, lo statalismo impedisce ai prezzi di trasmettere le informazioni corrette: come constatammo bene quando, in assenza di ticket, i farmaci erano gratuiti e assistemmo a un sovraconsumo irragionevole. Lo si è visto anche nella crisi Usa dei sub-prime, quando interessi artificiosamente bassi hanno spinto ad acquistare una casa pure quanti erano privi di adeguati redditi. La crisi giapponese mostra dove conduce lo statalismo. C’è da sperare che qualcuno, da noi, apprenda la lezione.

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

La via stretta di Renzi tra crescita e debito

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

Non varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto. Convincere l’Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi – nell’ambito delle regole date, ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la maggiore flessibilità possibile. Evitare l’apertura di una procedura d’infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano stoppati.

Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania nell’Eurozona, ma anche terzo Paese – questa volta nel mondo dietro Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato.

L’Italia ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da vent’anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito.

D’altra parte, se non corregge la traiettoria del debito, l’Italia non rischia solo a Bruxelles (che al momento plaude all’Irlanda e alla Grecia e bolla come «creativa» e inaccettabile anche l’ipotesi avanzata da Renzi di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l’innovazione) ma sui mercati. Sulla sostenibilità del debito non c’è un numero-soglia esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E l’Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile all’evoluzione, incerta, dei tassi d’interesse. Quando l’Ocse prevede che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese – con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche l’anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una prospettiva non tranquillizzante.

La stessa lettura si ricava dall’ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta unica: l’Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli italiani che ritengono l’euro una “cosa cattiva” è oggi il paese più euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale: non è possibile per il governo alzare l’orizzonte della politica economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare, la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire.

Naturalmente sarebbe facile addossare ogni responsabilità all’Europa e all’euro, tralasciando il particolare che l’Italia non cresce da vent’anni e che il terzo debito pubblico del mondo non l’ha creato la moneta unica ma ce lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni. La “terza via” in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che quest’Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti necessiterebbe di una revisione radicale.

Invece, è più larga in Italia l’unica strada percorribile, quella dell’attuazione delle riforme: qui, dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla creazione di un ambiente favorevole all’attività d’impresa e all’attrazione di investimenti esteri. Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell’Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti.

Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Il circolo (vizioso) degli interessi, un macigno da 80 miliardi l’anno

Sergio Bocconi – Corriere della Sera

Peccato originale, Moloch, Dna. In qualsiasi modo lo si voglia definire il debito pubblico italiano nasce e cresce con il Paese: quando il ministro delle Finanze Pietro Bastogi parla alla Camera il 29 aprile 1861 dice parole che oggi potrebbero essere definite di «stringente attualità»: «Perché l’Italia meriti il credito di tutta l’Europa deve cominciare a rispettare i debiti contratti…». Inizia così la lunga marcia del debito pubblico italiano che Quintino Sella riporta in sostanziale pareggio nel 1876.

Cent’anni dopo siamo ancora «virtuosi»: nel 1975 il debito ha già fatto un primo balzo ma è ancora pari al 56% del Pil. A pagare in parte le «spese» è chi incassa interessi reali negativi di sette punti. Ed è il caso di sottolineare il costo del debito perché in futuro, cioè in questi ultimi dieci anni, sarà invece questo un autentico macigno per l’Italia, soprattutto in presenza di una crescita del Pil nominale pari a zero e negativa in termini reali. Circa 80 miliardi di media l’anno che contribuiscono a depotenziare qualsiasi politica economica.

Sono interessanti a questo proposito le analisi condotte da esperti come Roberto Artoni (che ha scritto «Il debito pubblico in Italia dall’unità ad oggi») professore ordinario di Scienza delle finanze alla Bocconi. Perché è nell’equilibrio fragile fra le varie componenti macroeconomiche che si viene formando il disequilibrio che farà esplodere il debito pubblico italiano. Nel 1970 la situazione della finanza pubblica è «normale»: la spesa è pari al 33% del Pil e il debito al 37,1%. Seguono dieci anni di governi Rumor, Colombo, Andreotti, Moro, Cossiga, Forlani, nei quali «turbolenze» sociali, rallentamento dell’economia, costituzione di un welfare in parte «elettorale» e alta inflazione conducono un primo ribaltamento della situazione. Nel 1980 la spesa è così aumentata di otto punti al 40,8% del Pil mentre le entrate, cioè il gettito fiscale, cresce della metà. Il debito è 56,1%, il peso degli interessi passa dall’1,3 al 4,4% ma con i prezzi che aumentano al 21,1% l’anno i tassi reali sono negativi del 5,8%.

Iniziano gli anni del craxismo e la spesa si impenna ulteriormente portandosi nel 1985 al 50% del Pil. Sono però anche anni caratterizzati da un’inversione di tendenza nelle politiche monetarie internazionali che si inaspriscono a partire dall’America reaganiana. Nell’85 in Italia, (nonostante il buon andamento dell’economia) il debito sul Pil «vola» all’80,5% ed è importante osservare che se il totale della spesa pubblica cresce di cinque punti, gli interessi raddoppiano all’8,4% del Pil con tassi reali che adesso favoriscono i sottoscrittori dei titoli di Stato perché sono positivi e pari al 4,5%. Il macigno pesa.

Il trend prosegue negli anni successivi e il debito che nel ‘90 è al 94% nel 1992 supera la soglia del 100%: siamo al 105%. Cambiano i governi, da Andreotti ad Amato e Ciampi, scatta l’adesione al trattato di Maastricht (che entra in vigore nel novembre del ‘93) e cadono anche i tassi e il loro peso relativo su spesa e Pil. Nel ‘92-93 cominciano anche le privatizzazioni che vedono Romano Prodi prima alla guida dell’Iri e poi nel ‘96 all’esecutivo. Le cessioni di banche e aziende di Stato con lo smantellamento delle partecipazioni statali «fruttano» complessivamente 127-130 miliardi. Grazie dunque al combinato disposto di aumento delle entrate, riduzione delle spese, ritorno all’avanzo primario e un forte calo del peso degli interessi (che passano dal 10,1% nel ‘95 al 3,2% nel Duemila) il rapporto fra debito e Prodotto interno lordo scende dal 121% del ‘94 al 108 del 2001. Per toccare il «minimo» nel 2007 al 103,3% quando al governo c’è di nuovo Prodi.

Ebbene: come e perché in meno di dieci anni si torna al 134%? L’avanzo primario è pari in media al 2%, la spesa, al netto delle cessioni pubbliche, resta intorno al 50% del Pil e anche le entrate non registrano rilevanti variazioni. Ma mentre il Pil cresce zero in termini nominali e ha segno meno in termini reali, gli interessi rappresentano in media sempre il 5% circa del Pil. Il debito, nonostante i tassi bassi e lo spread relativamente contenuto, costa. Tanto.

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Diciamoci la verità, sul debito pubblico ci eravamo distratti

Francesco Daveri – Corriere della Sera

Nelle 192 pagine delle sue previsioni autunnali la Commissione europea descrive per il 2015 uno scenario di crescita appena positiva e di inflazione quasi a zero per i Paesi della Unione nel suo complesso. È un quadro molto peggiorato rispetto a quello descritto solo sei mesi fa nei documenti di primavera della stessa Commissione. Per l’Italia c’è la conferma di dati negativi sul Prodotto interno lordo (Pil) che dovrebbe attestarsi su un meno 0,4 per cento nel 2014 per poi tornare a un piccolo segno più (0,6 per cento) nel 2015. Per il nostro Paese, però, a differenza che per altri partner europei, il rinvio al futuro di una ripresa più decisa ha implicazioni particolarmente pesanti per la finanza pubblica.

Senza una crescita più robusta peggiora il deficit, non casualmente proiettato dalla Commissione al 3 per cento per il 2014 e al 2,7 per cento per il 2015 nel caso in cui siano attuate le misure della legge di Stabilità annunciate dal governo. A preoccupare Bruxelles, non è però tanto il deficit italiano (Francia e Spagna sono messe peggio di noi), ma il dato sul debito pubblico. Nel 2013 – ricorda la Commissione – è solo grazie alla recente revisione dei conti nazionali che il debito italiano è sceso al 127,9 per cento del Pil. Già nel 2014, invece, senza la crescita e dovendo – finalmente – onorare parzialmente il rimborso dei debiti della Pubblica amministrazione, è previsto in risalita sopra al 130 per cento del Pil (al 132,2 per cento) per poi toccare il 133,8 per cento a fine 2015, e stabilizzarsi lì intorno negli anni successivi.

Le note preoccupate della Commissione ricordano una verità: se è vero che (vedi il Giappone) si può convivere senza andare in default con un grande debito pubblico, è però altrettanto vero che una grande massa di debito pubblico pesa sulle spalle di qualsiasi economia. Nel caso dell’Italia l’onere comincia con gli 80 miliardi di euro di interessi che ogni anno lo Stato deve versare ai suoi creditori. Rispetto a prima della crisi, oggi una gran parte di questo debito è nelle mani di italiani e di banche italiane. Ma il risultato (tasse più alte per pagare gli interessi di un debito che non scende mai e anzi continua a crescere) è una partita di giro di cui si fatica a vedere la ragione ultima se non l’estrema ratio di un Paese che vuole solo galleggiare senza pensare al futuro.

Il peso del debito pubblico va però oltre l’onere degli interessi sull’indebitamento passato e si estende alla necessità di trovare acquirenti ai tassi prevalenti sul mercato per un enorme ammontare delle quote in scadenza. Il conto è presto fatto: se la rapida ripresa dell’economia americana – ipotesi tutt’altro che campata per aria – portasse con sé un aumento di un punto percentuale dei tassi di mercato, nei prossimi 12 mesi lo Stato italiano dovrebbe pagare 3,2 miliardi di euro in più sui 323 miliardi di euro di debito in scadenza da rinnovare. L’analogo della risicata spending review di quest’anno. Sostenere un debito pubblico grande come quello italiano è una scommessa rischiosa sull’evoluzione dei tassi e delle condizioni del credito nel mondo su cui l’Italia è per ora assicurata dall’impegno della Bce a difendere l’euro. Fino a quando, rimane da vedere. Certo, il,peso del debito pubblico è oggi meno evidente. È meno evidente perché lo spread, la differenza nel costo del debito italiano rispetto al debito tedesco, oscilla intorno ai 150 punti, cioè 400 punti base in meno della fine del 2011. Ma – lo dice la Commissione nelle poche righe finali della sua scheda sull’Italia – il problema resta.

Sotto ai dati contabili, detta legge l’algebra impietosa del debito. Al di là delle occasionali revisioni contabili, un Paese può rientrare dal suo accumulo passato senza tirare la cinghia degli avanzi di bilancio solo se cresce rapidamente: lo hanno fatto la maggior parte dei Paesi europei nel secondo Dopoguerra e, negli anni Novanta, i Paesi scandinavi, ma godendo di favorevoli condizioni di ripresa globale. Per l’Italia di oggi diventa allora urgente affiancare al graduale riequilibrio di bilancio e alle riforme per promuovere la crescita, le privatizzazioni, già contabilizzate da Bruxelles per uno 0,5 per cento del Pil e per ora assenti dall’agenda politica. Privatizzazioni che – vale la pena di ricordarlo – potrebbero essere un’altra occasione per riattivare la crescita e non solo per fare cassa.

L’Italia ha dato 60 miliardi ai fondi europei

L’Italia ha dato 60 miliardi ai fondi europei

Libero

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.

In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. «Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma non si può ignorare il fatto che l’Italia stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

Rapporto Debito/Pil: sui nostri conti pesano i 60 miliardi di contributi dati all’Europa per la stabilità finanziaria degli altri Paesi

NOTA

L’Italia è contributore netto degli strumenti di stabilità finanziaria europei per ben 60 miliardi di euro. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” su dati Bankitalia. Negli ultimi 4 anni, infatti, il nostro Paese ha contribuito con 60 miliardi di euro alla creazione e all’avvio dell’EFSF (European Financial Stabilty Facilty) e dell’ESM (European Stability Mechanism): tutte iniziative di cui l’Italia non ha mai usufruito, pur essendo uno dei principali soggetti contributori.
In termini concreti questo ha un impatto rilevante sui nostri conti pubblici: al netto di quei contributi, infatti, il nostro Paese avrebbe oggi un debito di 60 miliardi più basso, con ovvie conseguenze per la finanza pubblica. Innanzitutto un miglior rapporto tra Debito e Pil, che passerebbe dal 131.6% al 127.9% e in secondo luogo un miglioramento del rapporto tra Deficit e Pil che si assesterebbe al 2.9% allontanandosi dalla soglia limite del 3%.
Non si tratta di un mero esercizio contabile perché gli investitori e gli osservatori internazionali guardano il dato numerico del nostro debito e dei suoi rapporti con il Prodotto Interno Lordo e non analizzano la “bontà” di quel debito e la natura che lo ha generato. Senza considerare che, volendo lasciare invariato l’equilibrio tra disavanzo e prodotto interno lordo, si libererebbero 2,16 miliardi di risorse disponibili derivanti da minore spesa per interessi da destinare ad altre finalità.
«Oggi l’Europa è chiamata a validare i nostri conti pubblici – osserva il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – ma sarebbe altrettanto importante che, al rigore necessario, si applicasse una buona dose di buonsenso: non si può ignorare il fatto che l’Italia, con un debito pubblico consistente e una ripresa difficile da agganciare, stia contribuendo più che proporzionalmente rispetto alle sue possibilità a strumenti di solidarietà economica tra Paesi da cui non ricava nessun beneficio».

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Rassegna Stampa:
Libero
L’arte sbagliata del fiscal compact

L’arte sbagliata del fiscal compact

Leonardo Becchetti – Il Fatto Quotidiano

Per qualche sfortunata congiunzione astrale ci è toccato di nascere nel regno del Fiscal Compact, nel cono d’ombra ideologico del rigorismo e del sadomonetarismo. In altre aree del pianeta la risposta alla crisi finanziaria globale è stata molto più appropriata. Se non ci mobiliteremo firmando il referendum per l’abolizione del pareggio di bilancio (referendumstopausterita.it) non usciremo mai dall’incantesimo di una regola dissennata che si propone di ridurre di un ventesimo il rapporto debito/Pil che eccede il 60 per cento e sulla quale ci siamo autoimposti l’ulteriore cilicio del pareggio di bilancio in costituzione. Violando un principio fondamentale per il quale la costituzione deve occuparsi dei fini e mai dei mezzi per raggiungerli. Come se, invece di mettere nella propria “carta costituzionale” l’aspirazione alla vittoria, una squadra di calcio scrivesse che bisogna sempre giocare con il modulo del 4-4-2.

In altre parti del mondo è diverso e tutti capiscono la regola elementare per la quale la sostenibilità del rapporto debito/Pil si realizza stimolando la ripresa del denominatore con poli- tiche fiscali e monetarie espansive e non cercando di comprimere il numeratore con misure che deprimono più che proporzionalmente quello che sta sotto (il Pil) peggiorando il rapporto. Negli Stati Uniti la risposta è stata una banca centrale che ha messo al centro la riduzione della disoccupazione e in 76 mesi l’ha riportata ai livelli pre-crisi mentre nella Unione europea è ancora oggi del 4 per cento superiore. Fiscal compact? Pareggio di bilancio? Tutto il contrario. Politiche fiscali rooseveltiane che hanno rilanciato gli investimenti pubblici e privati e la domanda interna assieme all’espansione monetaria. Per non parlare della risposta giapponese e del Regno Unito, altri due paesi che hanno fatto scelte simili e se ne infischiano della regola del 3 per cento, figuriamoci del pareggio di bilancio. Il regno del Fiscal Compact e un po’ come gli Stati Uniti dopo la crisi del ’29 se Roosevelt e le sue politiche keynesiane non fossero mai arrivate.

Posto che la prima preoccupazione dei rigoristi dominati dalla lobby dei creditori è quella della sostenibilità del debito, il rigore di bilancio è almeno riuscito a migliorare la situazione dei debiti pubblici? Niente affatto, perché le ricette rigoriste hanno prostrato i Paesi che le hanno praticate. La Grecia in primis in deflazione e con un rapporto debito/Pil oltre il 177 per cento anche con un tasso d`interesse sul debito calmierato al 3 per cento non ce la farà mai a ridurre di un ventesimo il proprio debito oltre il 60 per cento (dovrebbe crescere oltre il 5-6 per cento all’anno). E ha pagato il rigore con il crollo di un quarto del Pil e due ristrutturazioni del debito. Il Portogallo si trova in analoghe condizioni di difficoltà. Ha un avanzo primario dello 0,4 per cento, un tasso d’inflazione leggermente negativo, una crescita prevista dell’1,2 per cento e un rapporto debito/Pil al 129 per cento. In queste condizioni il rapporto debito/Pil non si riduce ma cresce, per ridursi come previsto dal Fiscal Compact la crescita dovrebbe viaggiare al 5 per cento. E l’Italia? A bocce ferme (crescita e inflazione zero o debolmente negative, costo del debito sopra il 3 per cento e avanzo primario attorno al 2) il nostro rapporto debito/Pil cresce del 2-3 per cento all’anno. Uno scenario ben di- verso da quello delle nostre previsioni alla “Lucio Dalla” nelle quali l’anno che verrà è sempre quello dell’inversione di tendenza.

La battaglia referendaria è importante perché può aiutare i passeggeri della nave Italia a concentrarsi sul problema dell’iceberg e non sulla musica dell’orchestrina. Possiamo parlare di mercato del lavoro, riforma degli ammortizzatori sociali, riduzione delle tasse su cittadini e imprese, investimenti sulla banda larga, riforma della scuola ma le risorse per tutto questo non ci sono se restiamo sotto l’incantesimo del pareggio di bilancio. Nell’eurozona dove la Germania da anni sfora i limiti del surplus senza alcun intervento correttivo, la Francia si “prende” la flessibilità sul deficit, la Bce viene meno al suo impegno statutario di combattere la deflazione che peggiora i debiti pubblici portando la crescita dei prezzi vicina al livello del 2 per cento, è arrivato il momento di non essere gli unici a rispettare regole che nessuno rispetta per sedersi al tavolo e ridiscutere tutto. O l’eurozona diventa un sistema di obblighi simmetrici, di politiche fiscali e monetarie europee coraggiose in grado di sfruttare la leva e il peso specifico sovranazionale, o la rotta di collisione sulla quale ci troviamo, che ha prodotto il “miracolo” di rinfocolare rancori e nazionalismi, ci porterà presto alla rottura con conseguenze difficilmente calcolabili.

Il referendum è pertanto il primo passo necessario per superare la rimozione e discutere del vero problema che abbiamo di fronte, democraticamente e alla luce del sole. Perché la storia recente e le “cronache del Regno del Fiscal Compact” ci hanno ampiamente dimostrato che non è il caso di fidarsi e di affidarsi in toto all’intellighentia dei suoi funzionari e delle sue élite.