disoccupazione

Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Le aziende cercano 30mila posti. Se sei straniero è più facile lavorare

Francesco De Dominicis – Libero

L’Italia dei paradossi. Con migliaia di posti di lavoro «vacanti», perché non ci sono figure professionali all’altezza, e l’occupazione sempre meno «tricolore». Sono gli effetti della crisi e pure di un Paese che non è capace di formare i giovani secondo le effettive esigenze delle aziende né di mettere gli imprenditori di offrire «posti» con condizioni allettanti (o almeno ragionevoli) agli italiani, spesso superati dagli stranieri, più portati ad accettare condizioni, mansioni e salari snobbate dai «locali». Tuttora in piena crisi e forse non ancora completamente fuori dalla più dura recessione della storia, l’Italia si mette davanti allo specchio e scopre di non essere capace di far lavorare i suoi cittadini. Una fotografia piena di ombre che viene fuori mettendo insieme i risultati di due recenti ricerche.

Quella del Centro studi ImpresaLavoro rivela che l’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. I dettagli: la Penisola sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59.5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. E il nostro Paese, come accennato, è uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Il dato, peraltro, è in controtendenza con tutti i maggiori paesi Ue: confrontando il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%), si scopre che i locali sono in vantaggio del 4,7%; in Germania i tedeschi (78.7%) sono in vantaggio del 13,7% sugli stranieri (65,0%). E ancora: in Spagna i locali sono avanti del 6,7%, in Gran Bretagna del 5%, in Grecia del 3,1%. Insomma, o l’Italia è troppo generosa o qualcosa non va.

Che il motore sia inceppato, in ogni caso, lo dimostra pure la ricerca della Cgia di Mestre: su ben 29mila nuovi posti di lavoro, quasi 8.500 corrono il rischio di non essere coperti perché non reperibili sul mercato del lavoro. C’è da dire che si tratta di un dato, quest’ultimo, molto inferiore a quello riferito al 2009 che, in termini assoluti, era pari a quasi 17.600. In buona sostanza, negli ultimi sei anni i «lavoratori introvabili» sono pressoché dimezzati. Di là dal calo, gioco forza cagionato dalla bufera finanziaria e dalla crisi, esiste una lunga lista di professioni poco «coperte», dove la difficoltà di trovare personale è molto elevata: si tratta di analisti e progettisti di software, tecnici programmatori, ingegneri energetici e meccanici, tecnici della sicurezza sui lavoro ed esperti in applicazioni informatiche. In questi ultimi sei anni, secondo l’analisi Cgia che ha messo a confronto i dari di quest’anno con quelli riferibili all’inizio della crisi, c’è stata una profonda trasformazione del mercato del lavoro, sia per la domanda sia per l’offerta. La geografia delle professioni – e con essa anche la graduatoria dei lavoratori più difficili da reperire – è mutata profondamente. Se all’inizio della crisi non si trovava oltre la metà degli infermieri e ostetriche, dei falegnami e degli acconciatori, nel 2014 le professionalità più difficili da trovare (per numero o per caratteristiche personali o di competenza) risultano gli analisti e i progettisti di software (37,7%), i programmatori (31,2%), ingegneri energetici e meccanici (28,1%), i tecnici della sicurezza sul lavoro (27,7%) ed i tecnici esperti in applicazioni informatiche (27,/1%), figure con alta specializzazione e competenza.

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Conferma Ocse: Italia sempre più giù

Tommaso Montesano – Libero

Peggio dell’Italia, che può vantare il poco lusinghiero sorpasso sull’Irlanda, hanno fatto solo Grecia, Spagna, Portogallo e Slovacchia. Un tasso che è destinato a salire al 12,9% nel quarto trimestre del 2014 per poi scendere al 12,2% nel quarto trimestre del 2015. In sei anni, inoltre, i giovani senza lavoro sono raddoppiati: dal 20,3% del 2007, sono passati al 40% del 2013. E ancora: l’Italia è il quarto paese dell’area Ocse per diffusione di false partite Iva, ovvero lavoratori che sulla carta sono liberi professionisti, ma che di fatto offrono prestazioni subordinate. Per non parlare dei guasti provocati dalla riforma del lavoro targata Elsa Fornero durante il governo di Mario Monti, che ha reso «decisamente meno conveniente» per le aziende assumere lavoratori con contratti di collaborazione. Più in generale, oltre il 70% dei lavoratori vive una «sfasatura» tra l’occupazione attuale e il percorso formativo. Nel senso che le qualifiche o sono troppo elevate, o sono troppo basse per il lavoro svolto.

È impietoso per l’Italia il quadro che emerge dal rapporto «Employment Outlook 2014» dell’Ocse. I numeri dei vari indici relegano l’Italia al 49esimo posto dell’indice di competitività, il Global competitiveness index. Il nostro Paese è preceduto, nella graduatoria guidata dalla Svizzera, perfino da Lettonia, Lituania, Azerbaijan ed Estonia. In Italia, nel confronto con gli altri Paesi avanzati, «non è solo elevata la quota di disoccupati, ma anche quella di occupati con un lavoro di scarsa qualità», sostiene l’Ocse.

Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, prova a difendersi: «Conosco bene la drammatica situazione dell’occupazione nel nostro Paese, figlia di una crisi che ci sta colpendo da oltre 7 anni e aggravata dalle attuali tensioni del contesto europeo e internazionale e da cattive politiche del passato». Maurizio Sacconi, capogruppo del Nuovo centrodestra al Senato ed ex ministro del Lavoro, incalza: «Ormai è evidente a tutti che le istituzioni sovranazionali, dall’Ocse al Fondo monetario, dalla Commissione europea alla Bce, considerano la riforma del mercato del lavoro come il passaggio più emblematico dalla vecchia alla nuova dimensione della vita istituzionale, economica e sociale italiana». La Lega, invece, affonda il coltello sul governo. «Altro che cambia verso, il Pd ha messo il Paese nel verso del baratro», attacca il capogruppo alla Camera, Massimiliano Fedriga.

Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Travolti dalla messe di notizie economiche negative, deflazione per la prima volta dal 1959, recessione, rialzo della disoccupazione, calo delle entrate fiscali, diminuzione della produzione industriale, gli italiani e il dibattito che ne accompagna la giornata hanno perso di vista la principale criticità della loro non soddisfacente situazione. La stagnazione della produttività dei fattori produttivi, cioè la cartina di tornasole della scarsa competitività globale del Belpaese. Ed è curioso che, pur discettando quasi quotidianamente di Jobs Act e di riforma del mercato del lavoro, mai o quasi viene sottolineato il fatto che si tratta di una riforma che dovrebbe favorire, prima di tutto, la crescita della produttività. Perché l’Italia abbia il tasso di produttività tra i peggiori dei paesi Ocse è cosa nota: la rigidità in uscita dal mercato del lavoro disincentiva gli investimenti in nuove tecnologie perché troppo costosa è la riconversione a queste da parte del capitale umano più anziano; la rigidità in uscita dal mercato del lavoro produce un effetto «ClubMed», soprattutto nelle organizzazioni più sindacalizzate e pubbliche, col quale la rilassatezza derivata dalla sicurezza occupazionale prevale sulla necessità di dover fare ogni giorno meglio per garantirsi il lavoro; la rigidità del mercato del lavoro rende, poi, nei fatti impossibili le ristrutturazioni e le riorganizzazioni radicali finalizzate, quasi sempre, a recuperare competitività e produttività.

L’Italia ha scelto una disciplina dei contratti di lavoro che poco si sposa con l’anima più profonda del capitalismo, quella che spinge verso la crescita e il continuo miglioramento della produttività. Un mercato deve essere rischioso e anche un po’ ingiusto, nel senso che non deve offrire polizze assicurative implicite totali a chi vi lavora e non deve mirare a conseguire utopistiche situazioni di giustizia sociale. Utopistiche perché è ingiusto comunque condannare le coorti più giovani alla disoccupazione di massa per garantire diritti antiproduttività a quelle più anziane. Nella globalizzazione il mercato del lavoro è stato standardizzato nella propensione al rischio e nel livello di giustizia ritenuto ottimale soprattutto dalle decisioni del partito comunista cinese. Pechino è il principale motore della trasformazione in corso e i comunisti asiatici non amano eccessi di protezione dei lavoratori. In Cina il mantra è la crescita e nessun dirigente si sogna, pur dichiarandosi ancora marxista-leninista, di proporre un mercato del lavoro all’italiana. Perché per crescere nella contemporaneità servono moderate protezioni e un qualche livello di potenziale ingiustizia a danno dei lavoratori. Lo dicono i comunisti, cioè quelli che governano nell’esclusivo interesse dei lavoratori, non sono i Chicago boys a fare questa predica.

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

L’art. 18 è come un pallone di pezza per i bambini la sera d’estate

Pierluigi Magnaschi – Italia Oggi

L’articolo 18 (che garantisce l’inamovibilità dal posto di lavoro di qualsiasi dipendente privato che non sia dirigente) risale allo Statuto dei lavoratori che, concepito in pieno ’68, venne poi approvato il 20 maggio 1970. Esso quindi rappresenta un mondo che, piaccia o no, non esiste più. Per dare, sinteticamente, l’idea di che mondo era, basti ricordare che, allora, era proibito importare in Italia persino un’auto giapponese. I confini nazionali erano impermeabili e le guardie di frontiera li vigilavano in armi. L’euro era ancora da venire. La Cina era un paese dove la gente moriva di fame a milioni. Il Medio Oriente (salvo periodiche tensioni con Israele) era presidiato stabilmente da feroci satrapie ossequienti al potere delle multinazionali anglo-americane del petrolio. Il mondo, nel suo complesso, era poi diviso a mezzadria fra gli Stati Uniti e l’Urss che si neutralizzavano a vicenda con l’equilibrio del terrore.

Oggi l’articolo 18, espressivo di quel mondo, è sopravvissuto a quel mondo che non c’è più. È rimasto un tabù. Che infatti raggiunge un doppio obiettivo negativo. Da una parte non difende i lavoratori e, dall’altra, allontana gli investimenti. Se l’articolo 18 difendesse i lavoratori ma, nel contempo, tenesse lontani gli investimenti, ci potrebbe essere un dibattito fra i vantaggi e gli svantaggi della sua sopravvivenza. Ma, visto che non difende i posti di lavoro esistenti, e, nel contempo, con il suo puro valore simbolico di carattere dissuasivo, compromette quegli investimenti che potrebbero contribuire a creare nuovi posti di lavoro, si capisce che il dibattito sulla sopravvivenza o meno dell’articolo 18 è puramente ideologico e non è più basato sull’analisi del dare e dell’avere.

Perché l’art.18 non difende il posto di lavoro? Primo, perché quasi metà degli occupati nel settore privato, lavorando in società che hanno meno di 15 dipendenti, non godono dalla sua protezione. Questi ultimi infatti (nell’indifferenza di tutti, sindacati in primis) sono licenziabili immediatamente, senza sostanziose indennità e senza giusta causa. Poi ci sono i dipendenti delle aziende più grosse, nei quali l’art. 18 dovrebbe operare ma che, a causa della crisi, hanno delocalizzato in altri paesi la produzione oppure hanno semplicemente chiuso l’azienda. Anche questi dipendenti, che sono centinaia di migliaia, art. 18 o no, hanno perso il posto di lavoro. Poi ci sono i giovani al di sotto dei 40 anni per i quali l’art.18 non opera perché essi sono stati assunti in base a forme contrattuali contorte che hanno salvato le capre dei sindacati con i cavoli degli imprenditori. Infatti queste assunzioni sono avvenute solo a condizione che si accettasse, per questa categorie di persone, la non copertura dell’art.18, confermando così che sindacati e parte della sinistra, che fingono di essere stretti in difesa dell’art.18, sono disposti, nei fatti, pur di tenere in vita il tabù dell’art. 18 (e sperando che i giovani non se ne accorgano), a far pagare le conseguenze della flessibilità più estrema solo alle classe giovanili per le quali, sempre per lo stesso motivo, si sta preparando anche un avvenire pensionistico miserrimo.

La difesa ad oltranza dell’art. 18 è quindi puramente formale perché la sua protezione, come si è visto, agisce solo su una larga minoranza dei dipendenti privati. Una minoranza, inoltre, che si sta restringendo a vista d’occhio con il passare del tempo, creando disparità di trattamento socialmente e politicamente inaccettabili. In compenso, l’art.18 è diventato come il pallone di pezza che i bambini di un tempo si contendevano nelle partite nel cortile durante le sere d’estate. Viene periodicamente gettato in campo, e politici, sindacalisti, opinionisti, incapaci di risolvere i problemi, si accapigliano fra di loro secondo schemi e ragionamenti arrugginiti perché sono di mezzo secolo fa. L’art. 18 infatti non è più un problema da analizzare lucidamente nei pro e nei contro ma solo una bandiera da strappare all’avversario.

Visto che l’art. 18 tutela oggi solo una minoranza di lavoratori privati (perchè la mondializzazione non consente di ingessare nessuna impresa) bisognerebbe pensare di garantire, a tutti, il diritto di essere indennizzati automaticamente, con somme e parametri contrattualmente prestabiliti, in caso di perdita del posto di lavoro. In tal modo, da una parte, il lavoratore dispone di una somma per far fronte alle necessità insorgenti fra un’occupazione e la successiva e, dall’altra, si rende costosa per gli imprenditori la decisione di interrompere un rapporto di lavoro, introducendo, a loro danno, un’onerosità che penalizza l’eventuale soggettività che, non bisogna nascondercelo, è sempre possibile. Non solo, per evitare di fare un salto nel buio (anche se non è questo il problema) si potrebbe introdurre questa nuova normativa in un’area abbastanza ampia (chessò l’Italia settentrionale) e per un periodo di tempo significativo (tre anni). Dopo, a esperimento concluso, si potrebbe decidere definitivamente, con ragione di causa. Purtroppo nessuno degli attuali difensori (putativi) dell’art. 18, vuol rischiare di vedere come andrebbe a finire. Perché, se si scoprisse che l’art. 18 punisce, più che avvantaggiare, tutti i lavoratori privati, verrebbe meno una bandiera che, fin che c’è, si può agitare con più risultati demagogici che non con un ragionamento.

Il labirinto dei bonus per favorire l’occupazione

Il labirinto dei bonus per favorire l’occupazione

Alessandro Rota Porta – Il Sole 24 Ore

In periodi di crisi economica come quello attuale abbattere il costo del lavoro diventa un`esigenza primaria: riuscire a cogliere incentivi sulle assunzioni è pero una strada impervia. Non solo non esiste un contenitore normativo organico a cui far riferimento (più volte le deleghe a riordinare la materia, demandate dal legislatore al governo sono cadute nel vuoto), ma gli stessi meccanismi operativi si presentano piuttosto complessi: intanto, perché quasi mai i bonus – così come vengono licenziati a livello legislativo – sono immediatamente fruibili, necessitando di disposizioni attuative emanate a distanza; poi, perché occorre far riferimento alle condizioni generali di fruizione e a quelle specificatamente richieste dai singoli incentivi. 

Scorrendo il panorama delle misure disponibili, i datori di lavoro che vogliano accaparrarsi uno sconto contributivo o fiscale, in fase di inquadramento di nuovo personale, devono ricercare lavoratori che possano portare in dote i bonus, vagliando il loro status occupazionale al momento dell’assunzione. Gli strumenti più recenti sono stati licenziati con il Dl 91/2014 (decreto competitività) e riguardano le aziende agricole: chi assume giovani a tempo indeterminato (o a termine con durata almeno triennale e occupazione minima garantita) può godere di un incentivo sulla contribuzione pari a 1/ 3 della retribuzione lorda imponibile ai fini previdenziali. Le domande vanno presentate all’Inps e il bonus è riconosciuto in base all’ordine cronologico delle domande: sul punto è però necessario attendere le istruzioni dell’istituto. 

Sempre legato alla categoria dei “giovani”, c’è l’incentivo del Dl 76/2013, riservato a soggetti “svantaggiati” e correlato ad assunzioni a tempo indeterminato o alla stabilizzazione di lavoratori assunti con contratto a termine: la misura corrisponde a un terzo dello stipendio mensile lordo imponibile ai fini previdenziali, con un tetto di 650 euro al mese, per 18 mesi al massimo (che scendono a 12 in caso di trasformazione del rapporto a tempo indeterminato). 

Esaminando le altre agevolazioni, ve ne sono alcune che puntano a favorire la ricollocazione di lavoratori over 50 disoccupati da oltre 12 mesi e donne di qualsiasi età, prive di un impiego retribuito da almeno 24 mesi (0 da 6 mesi con riferimento alle donne rientranti in settori o residenti in aree geografiche ad elevato tasso di disoccupazione): queste prevedono l’abbattimento del 50% dei contributi Inps e Inail, per 18 mesi in caso di assunzioni a tempo indeterminato e lino a 12 per i contratti a termine. 

Con riguardo ai lavoratori disoccupati o iscritti alle liste di mobilità si segnalano altresì gli incentivi derivanti dalla loro riassunzione, rispettivamente ai sensi delle leggi 407/90 e 223/91: in alcune ipotesi si può ottenere l’abbattimento totale della contribuzione Inps, per 36 mesi. Da ricordare altresì lo sgravio riservato ai titolari di Aspi, che portano in dote al datore che li ricolloca il 50% dell`indennità che sarebbe loro spettata, per il residuo periodo di trattamento. Infine, sono stati sbloccati dal provvedimento attuativo del Mise (decreto 28 luglio 2014) le agevolazioni legate all’assunzione di personale qualificato nella ricerca. 

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Italia nella doppia morsa di deflazione e recessione. E i disoccupati salgono ancora

Lucio Cillis – La Repubblica

Lo spettro che si aggirava sul Paese, ieri si è materializzato. L’Italia è caduta in deflazione. Come non accadeva da esattamente 55 anni. Era infatti il settembre del 1959 quando fu registrato un segno negativo dell’1,1% sull’andamento tendenziale dei prezzi. Ma quella era la vigilia del boom economico. Mentre oggi la tenaglia della crisi stringe anche sulla recessione accompagnata da una disoccupazione che arriva al 12,6% con quasi mille posti di lavoro bruciati ogni giorno a luglio.

Ma non basta: il tasso di disoccupazione della fascia compresa tra i 15 e i 24 anni, resta il più duro da digerire e risolvere in breve tempo, visto che la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro in questa forbice di età sfiora ormai il 43%.

Sono dati pesantissimi e molto preoccupanti sui quali, secondo il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. «Occorre – dice riflettere per trovare la capacità di ricreare lavoro. E questo può venire solo dalle imprese…». L’inflazione vira verso una contrazione dei prezzi che rispetto all’agosto del 2013, sono diminuiti dello 0,1%. I dati dell’Istat certificano che l’indice al lordo dei tabacchi, è cresciuto rispetto al mese di luglio dello 0,2% e mette per la prima volta il segno meno dal 1959. Il crollo dei listini, secondo la stima provvisoria, è dovuta alla flessione anno su anno dei prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli non regolamentati che dal più 0,4% di luglio passano al segno meno (dell’1,2%), e al parallelo rallentamento della crescita tendenziale dei prezzi dei servizi. Andamenti, questi, solo in parte controbilanciati da una frenata nella discesa dei prezzi degli alimentari non lavorati passati a meno 1,7% dal meno 2,9% messo a segno a luglio.

Da notare che anche la cosiddetta inflazione core, o “di fondo”, ritenuta un termometro efficace dello stato dell’economia e delle prospettive, calcolata al netto degli alimentari non lavorati e dei beni energetici, scende anch’essa: dallo 0,6% di luglio allo 0,5%. Ma nel corso dei prossimi mesi, secondo quanto lo stesso istituto di statistica anticipa nelle sue analisi, i dati macroeconomici non potranno che peggiorare: con ogni probabilità, la ripresa non arriverà nemmeno nel corso del terzo trimestre. Anzi, le previsioni dell’Istat sottolineano addirittura il rischio di un ulteriore arretramento dello 0,2% del Prodotto interno lordo o, comunque, di una sostanziale stagnazione del quadro macroeconomico.

Sono dati questi, che fanno riflettere per le conseguenze in Italia ma che dovrebbero aprire un nuovo scontro in Europa dove, però, si è levata per prima la voce del ministro delle Finanze tedesco, il falco Wolfgang Schauble secondo cui «la Bce non ha più munizioni per combattere la deflazione». E questo nonostante il dato sull’inflazione, reso noto a livello europeo ieri, si sia collocato a quota +0,3%. Un livello pericolosamente vicino al baratro della deflazione e molto lontano dal target europeo fissato al 2%. La parola, ora passerà alla riunione di metà settimana della Bce e alle mosse di Mario Draghi.

La scossa degli investimenti

La scossa degli investimenti

Roberto Napoletano – Il Sole 24 Ore

Il bonus da 80 euro non ha portato la scossa auspicata all’economia italiana, ma vendite al dettaglio in caduta del 2,6% rispetto all’anno scorso, nuovo balzo della disoccupazione (12,6%) e l’Italia in deflazione dopo oltre mezzo secolo. Non eravamo d’accordo con quella scelta e lo abbiamo detto subito. Il Paese esige serietà: la stessa somma poteva, da sola, consentire di cancellare il conto dell’Irap sul costo del lavoro privato. Un segnale così forte avrebbe tutelato gli investimenti in essere nazionali e esteri, probabilmente ne avrebbe attratti di nuovi, di certo avrebbe segnalato al mondo che stavamo cambiando per davvero.

La fiducia delle famiglie italiane non si “ricostruisce” con 80 euro in più in busta paga, ma dando un lavoro a chi l’ha perso e una prospettiva ai nostri giovani. Il mondo “brucia”, l’Europa ha le sue colpe gravi, ma noi non ci dobbiamo mettere del nostro e dobbiamo fare in casa le cose giuste. In gioco ci sono il futuro del Paese e la dignità delle persone, guai a dimenticarcelo.

Incentivi aleatori non portano lavoro

Incentivi aleatori non portano lavoro

Il Sole 24 Ore

Incentivi alle assunzioni: mosso dall’emergenza occupazione oppure dalla necessità di rinnovare il sistema produttivo, il legislatore spesso concede aiuti ai datori di lavoro. Peccato che le buone intenzioni spesso si scontrino con le lungaggini e gli ostacoli della burocrazia. Un caso esemplare è quello della legge 83/2012 che ha previsto un credito d’imposta per le assunzioni, in azienda, di personale altamente qualificato. Il regolamento dell’agevolazione, però, è arivato solo qualche settimana fa e solo a settembre, da lunedì 15, con una gara telematica le imprese che hanno assunto nel 2012 potranno sapere se avranno o meno diritto al premio fiscale. Nel frattempo, tanto era la convinzione sulla bontà della scelta, i fondi per gli anni successivi sono stati diminuiti.

Con queste premesse – i ritardi nello stanziamento delle risorse e l’incertezza sulla possibilità di beneficiarne – sembra davvero difficile che un imprenditore possa ragionevolmente pianificare un’assunzione sulla scorta di un incentivo aleatorio.   

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.