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La mazzata dell’Istat alle politica  economica di Renzi

La mazzata dell’Istat alle politica economica di Renzi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Per una mera coincidenza, la mattina del 20 maggio è stato presentato il Rapporto annuale 2015 sull’economia italiana dell’Istat e il pomeriggio il Centro di ricerche e studi Luigi Einaudi, l’Istituto affari internazionali e Ubi Banca hanno organizzato un convegno per presentare il Rapporto Einaudi sull’economia italiana e globale, che ha come titolo “Un disperato bisogno di crescita”. Due documenti molto differenti: il primo è una radiografia statistica dell’economia, e della società italiana, nel 2014 con qualche previsione per i prossimi 24 mesi effettuate con il modello econometrico dell’Istat, in sigla MeMo-It, mentre il secondo intende forgiare un consenso su politiche di crescita a medio e lungo termine per l’intera economia europea, non solamente per l’Italia. Tuttavia, il “bisogno di crescita” è elemento centrale di ambedue. E delle numerose discussioni in atto in queste settimane.

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La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

La folle guerra dell’Europa ai paradisi fiscali

Carlo Lottieri

Da qualche tempo una commissione appositamente costituita da parte del Parlamento europeo sta conducendo indagini al fine di valutare in che modo taluni Paesi europei (Lussemburgo, Belgio, Regno Unito, Svizzera e altri ancora) stiano violando le regole comunitarie, sottoscritte anche da chi – come la federazione elvetica – ha firmato accordi bilaterali. L’idea di fondo è che talune normative tributarie di questo o quel Paese europeo sarebbero state elaborate al fine di attirare capitali e investimenti.
Sembra, insomma, che si debba considerare “sleale” il comportamento di cerca di mantenere entro ben precisi limiti l’entità della tassazione, rendendo difficile la vita agli Stati più esosi. Buona parte di questa agitazione è conseguente allo scandalo che ha visto coinvolto Jean-Claude Juncker, attuale presidente della Commissione europea e per molti anni figura cruciale del piccolo principato lussemburghese. Al di là delle circostanze del momento è comunque un segno dei tempi che buona parte della classe politica del Vecchio Continente sembri ossessionata dalla volontà di alzare le imposte là dove sono basse, invece che preoccuparsi di ridurle dove sono divenute ormai insopportabili.
Una quota significativa (sicuramente maggioritaria) del ceto dirigente europeo ritiene che non vi siano limiti alle pretese del potere pubblico, determinato a spremere quanto più sia possibile le imprese e le famiglie. Per questo vengono messe sotto accusa, allora, quelle multinazionali che dislocano nei diversi Paesi le attività e i profitti tenendo in grande considerazione i diversi regimi tributari. Esattamente come ognuno di noi compra un prodotto nel negozio A e un altro nel negozio B, molte corporation con attività in varie aree del mondo valutano i loro progetti di crescita e insediamento anche sulla base del principio che collega tra loro i costi e le opportunità. Se non facessero così, i prezzi dei prodotti e servizi che esse offrono sarebbero molto più alti.
È comunque interessante come la lotta ai paradisi fiscali, e a difesa degli inferni fiscali, si basi in larga misura su una manipolazione del linguaggio. Poiché il mainstream statalista ritiene che ogni euro sia potenzialmente del potere pubblico e che questi abbia il diritto di rivendicarlo, la riduzione delle imposte è presentata come un “aiuto di Stato”, come “concorrenza sleale”, come collaborazione in un’attività sostanzialmente criminale che è orientata a “evadere l’obbligo della contribuzione fiscale”.
Tutto questo è molto preoccupante, dal momento che il chiaro disegno politico di chi combatte le politiche fiscali attrattive – e che negli scorsi, ad esempio, mise sotto processo la crescita impetuosa dell’Irlanda, un tempo terra di povertà ed emigrazione – è arrivare a un’armonizzazione crescente delle politiche fiscali. Su “La Repubblica”, ad esempio, Nicola Acocella ha sostenuto la necessità “di maggiore uniformità nella conduzione delle politiche fiscali, oltre che in materia di regolamentazione finanziaria, politiche industriali e del lavoro e di progetti comuni”. D’altra parte, se adottare una tassazione inferiore significa essere sleale verso chi chiede di più (e attrarre capitali e imprese) è chiaro che l’unica maniera per uscire da questa situazione consiste nell’avere – prima o poi – un regime fiscale identico in ogni parte d’Europa. Ovviamente non si tratterebbe di estendere all’intero continente la fiscalità della Svizzera o del Lussemburgo, ma invece di innalzare tutti i regimi tributari al livello dei più esigenti.
Già oggi molti dicono che non è possibile avere una politica monetaria comune, grazie all’euro, e poi avere differenti politiche fiscali, regole del lavoro disomogenee, sistemi previdenziali differenziati. Ma la battaglia condotta contro i paradisi fiscali – a difesa del socialismo europeo di destra e sinistra – è allora solo una componente (tra le altre) di una più generale battaglia contro le libertà individuali e contro le logiche dell’autogoverno.
Un’Europa che declina a causa dello statalismo (della pressione fiscale, della regolazione asfissiante, dell’intreccio tra politica ed economia) chiede oggi sempre più stato e sempre più dirigismo, provando a soffocare le ultime aree di resistenza e gli ultimi spazi di libertà. Per questa ragione, quanti sono fedeli alle ragioni del liberalismo classico dovrebbero battersi a difesa della concorrenza istituzionale e fiscale tra governi, guardando ai paradisi fiscali non già come a realtà da combattere, ma modelli da imitare.

 

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

NOTA

Altro che crescita: per il quattordicesimo trimestre di fila, il Pil italiano fa segnare un andamento peggiore di quello della media dell’Unione Europea. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro (condotta analizzando le rilevazioni che misurano lo scostamento rispetto al trimestre precedente) rivela infatti che dall’insediamento del Governo Monti ad oggi il nostro Prodotto interno lordo è sempre andato peggio della media dei nostri partner europei.
Il +0,3% fatto segnare nel primo trimestre del 2015 non deve trarre in inganno. Se guardato in chiave comparata si tratta di un dato tutt’altro che esaltante: la media dell’Europa a 28 cresce dello 0,4%, la Spagna dello 0,9%, la Francia dello 0,6%. Come noi crescono sia Germania che Regno Unito, ma con una piccola differenza: questi Paesi hanno sempre fatto sensibilmente meglio di noi in tutti i 13 precedenti trimestri. E solo in un trimestre su quattordici non siamo risultati gli ultimi in assoluto tra i grandi Paesi europei: è accaduto nel terzo trimestre del 2012, quando la Spagna ha fatto leggermente peggio di noi (-0,30% contro -0,20%).
Concretamente questo significa che – fatto 100 il Pil nel terzo trimestre 2011 – quello italiano vale oggi in termini reali 95,4 contro una media europea di 101,8. Ci battono praticamente tutti i Paesi: negli ultimi 14 trimestre il Regno Unito ha visto crescere il suo Pil del 6%, la Germania del 3,8%, la Francia dell’1,1%, la Spagna dello 0,5%. Il reddito prodotto in Italia è invece sceso del 4,6%.
tabella1
grafico modificato
tabella 2
Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Il governo festeggia il rating sul ciglio del burrone

Davide Giacalone – Libero

Chi si contenta gode, ma chi s’illude implode. È stato accolto e rilanciato come positivo un pessimo giudizio di Standard&Poor’s. L’agenzia di rating conferma che l’Italia resta a un solo gradino dalla spazzatura, ci basta scendere un pelo sotto il confermato BBB­, cui siamo stati declassati all’inizio dell’anno, perché i titoli del nostro debito pubblico sprofondino all’inferno della non negoziabilità. Ed è stato festeggiato come promettente l’outlook, ovvero la previsione, “stabile”. Come se la stabilità di quel giudizio fosse l’opposto dell’instabilità, quindi di una condizione precaria. È vero il contrario: prevedono che noi si resti esattamente dove ci troviamo, senza peggiorare (cadendo nel baratro), ma anche senza migliorare. Mi è ignoto cosa ci sia da festeggiare.

Siamo stati collocati sul ciglio del burrone, progressivamente degradando il giudizio sulla nostra affidabilità, quando gli spread crescevano all’inverosimile. Considerai quella valutazione ingiusta e troppo punitiva, perché il divaricarsi dei tassi d’interesse, relativi ai debiti pubblici, non andava attribuito a una nostra colpa, ma ai difetti strutturali dell’euro, all’incompiutezza istituzionale della moneta unica e all’inerzia della Banca centrale europea. Ma da allora a oggi le cose sono cambiate, la Bce ha preso ripetutamente (e con successo) l’iniziativa, tanto che, immutate tutte le altre condizioni, gli spread si sono molto ridotti (anche se il nostro rimane costantemente e negativamente più alto di quello spagnolo). Perché, allora, siamo considerati ancora sul ciglio del burrone?

Perché tutto quel che di buono è accaduto non è dipeso da noi. La spesa pubblica per interessi si riduce, ma solo grazie alla Bce. Il prodotto interno lordo sarà positivo, quest’anno, dopo tre anni di recessione, ma la nostra crescita è inchiodata alla metà della media dell’eurozona (S&P prevede, per noi, un +0,4, quindi meno di quel che immagina il governo, sicché a una distanza ancora più marcata dagli altri europei). La svalutazione dell’euro è una buona cosa, per un Paese esportatore, ma, anche questo, un effetto di scelte fatte altrove. Per non dire del prezzo del petrolio. I tagli alla spesa pubblica restano una litania inconcludente.

La pressione fiscale cresce e crescerà, anche secondo le previsioni del governo, che a chiacchiere dice il contrario, quindi farà ancora da ostacolo alla ripresa. La Corte costituzionale ci ha messo anche la ciliegina, che poi è un cocomero capace di schiacciare la torta che il pasticcere governativo confezionò togliendo ai pensionati quel che la legge garantiva loro. Insomma, tutto quel che dentro al cortile italico fa titolare sul ritorno del segno positivo e sulla svolta economica cambia significato, visto da una prospettiva comparata: continuiamo a perdere competitività. Tutte cose che qui abbiamo avvertito per tempo, sebbene parlando al muro. In quanto alla filastrocca delle riforme, presentate come rivoluzioni, quel che ci viene detto è: fateci vedere come funzionano e quali benefici portano, altrimenti, sulla parola, restano solo parole.

Non cambio opinione con il cambio delle stagioni, né climatiche né politiche: le agenzie di rating restano l’incarnazione di un colossale conflitto d’interessi, e resta pericoloso far dipendere i mercati dal loro giudizio. Così come ribadisco che quello sull’Italia è ingeneroso. Ma osservo che quel che prima veniva letto come una bocciatura senza appello, adesso lo si legge come una promozione con lode e incoraggiamento. Non è chiaro quale sia il confine fra propaganda e illusione. Lo è, invece, il capovolgimento della realtà. Che porta male.

Le minacce di una “nuova guerra fredda”

Le minacce di una “nuova guerra fredda”

Giuseppe Pennisi – Formiche Oeconomicus

Ci sono segni di miglioramento dell’economia internazionale, una cui ripresa potrebbe far da traino al continente vecchio e soprattutto alla malconcia eurozona. A fine marzo una conferenza internazionale a Sendal, la città più vicina all’epicentro del terremoto che devastò il Giappone nel 2011, ha portato ad un’intesa su parametri ambientali per ridurre i rischi di disastro più realistici (e più fattibili) di quelli di Kyoto. In settembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite verrà dedicata alo sviluppo; le diplomazie stanno negoziando Sustainable Development Goals più concreto dei Millennium Development Goals definiti nel 2000. Prima di allora, in luglio, ad Addis Ababa un assise di organismi internazionali e di grandi banche esaminerà come mobilizzare risparmi e flussi privati di capitale per lo sviluppo. In dicembre, infine, a Parigi dovrebbe venire firmato un nuovo trattato sui cambiamenti climatici. Anche se gli obiettivi di queste riunioni rischiano di accavallarsi, se ben gestite , potranno contribuire ad un nuovo percorso di sviluppo. E potrebbero anche essere la premessa per più vasti accordi in materia monetaria e finanziaria. Non si pensi ad una Nuova Bretton Woods , il miraggio lanciato una decina di anni fa. Ma se i temi a più vasto raggio di ambiente e sviluppo verranno incanalati verso targets realisti tramite percorsi concreti, si potrebbero aprire più facilmente negoziati tra grandi mercati comuni ed eventualmente grandi accordi monetari in gestazione su base geografica.

Questo quadro sostanzialmente ottimista non tiene però conto del riaccendersi (e riscaldarsi) di una nuova guerra fredda di cui quasi ogni giorno si vedono i segnali. In un primo momento, il tema sembrava che restasse nei confini dei contrasti tra Stati emersi dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche di un tempo. Le stesse cruenti vicende dell’Ucraina sono parse liti tra ex-amanti non più nello stesso letto. Tuttavia, i nodi che riguardano le forniture di oli minerali (principalmente gas) all’Unione Europea tramite l’Ucraina mostrano come le ramificazioni siano molto più vaste e più profonde. Si è sorriso quando la Repubblica di Cipro, travolta da una crisi bancaria senza precedenti, si è rivolta a Mosca: sembra il ruggito del topo per ricordare il titolo di un film d’epoca di satira politica. Molto più preoccupante, l’abbraccio con Mosca del Presidente del Consiglio Greco Alexis Tsipras quando il negoziato con la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea ed il Fondo Monetario Internazionale sembrava sull’orlo del fallimento. Preoccupanti anche se poco notate al di fuori della Norvegia le manovre militare russe al circolo polare artico su cui Mosca considera di avere privilegi. Per non parlare delle tensioni tra le vaste regioni russe in Asia ed i Paesi confinanti.

Dato che gli obiettivi di una rubrica mensile sono quelli di andare al di là del contingente e del congiunturale, vale la pena chiedersi se una nuova guerra fredda potrebbe avere effetti sull’economia internazionale. Da un lato la Russia di oggi è un Paese in cui l’aspettativa di vita alla nascita diminuisce, l’industria (tranne quella militare) è obsoleta, le generazioni più giovani sono allo sbando, e attorno al Cremlino sono in corso lotte di potere di cui è difficile anche solo azzardare un percorso. Da un altro, gode di enormi risorse naturali, specialmente in campo energetico, e può diventare una polveriera.

Lo sanno bene non solo in Norvegia ma anche nei Länder tedeschi più prossimi al confine con la Federazione Russia dove – lo mostrano eloquentemente film che non trovano distributori italiani – il timore dell’immigrazione dall’Est sta provocando , tra le giovani generazioni, aggregazioni di tipo nazista. Non certo una buona promessa. Né per la politica né per l’economia.

Le liberalizzazioni timide

Le liberalizzazioni timide

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 2015, definito Anno Felix, dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, dovrebbe essere caratterizzato da una crescita economica ben superiore allo 0,1% segnato nel primo trimestre e sorretta da un programma aggressivo di riduzione del debito pubblico (tramite privatizzazioni) e di aumento della produttività (tramite crescente concorrenza derivante da liberalizzazioni).

Di privatizzazioni ci occuperemo quando il programma e la sua attuazione saranno meglio definite. Il disegno di legge (ddl) sulla concorrenza, e quindi sulle liberalizzazioni, è stato varato a fine febbraio; quando questa mensile arriva in edicola, sarà all’esame del Parlamento. Al carattere del Presidente del Consiglio si possono attribuire tanti tratti ma non certo la timidezza. Tuttavia, il ddl in questione è più ‘timido’ delle ‘lenzuolate’ di bersaniana memoria di una diecina di anni, nonostante l’aggravarsi della situazione in questo lasso di tempo. Principalmente se la situazione italiana è comparata con quella dei nostri competitors europei (non parliamo di quelli dell’Emisfero Occidentale o dell’Asia).

Non ci riferiamo neanche ad inchini come quelli alla lobby dei taxi. E’ sufficiente pensare che nel campo dei servizi pubblici locali lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico (non certo un covo di liberisti) aveva chiesto che non ci fossero più enti (come le autorità portuali) al tempo stesso regolatori e fornitori di servizi (da loro stessi regolari) . In materia sanitaria, il Ministero della Salute (non affiliato a nessuna istituzione liberale) aveva proposto accreditamento periodico, e concorsuale, delle strutture sanitarie private e la liberalizzazione della vendita dei medicinali di fascia C. Piccoli passi verso una maggiore concorrenza, ma tali da imbarazzare il timido Presidente del Consiglio.

Non si può che suggerirgli la lettura di un’analisi condotta da dieci centri studi europei e coordinata dal piccolo ma dinamico centro studi italiano ‘ImpresaLavoro’ e di organizzare un seminario del Partito Democratico (pare sia prassi) al fine di preparare un maxi-emendamento prima della conclusione dell’iter parlamentare del ddl. Lo studio riguarda principalmente la libertà fiscale, che sintetizza il complesso delle altre libertà economiche  he agevolano o frenano l’impresa (e quindi l’occupazione).

Gli istituti hanno lavorato seguendo la medesima metodologia ed hanno computato un Indice della libertà fiscale sulla basa di quattro distinti indicatori: le dimensioni della tassazione complessiva rispetto alla produzione annuale; il modo in cui il prelievo fiscale colpisce lavoro, capitale e consumi; la complessità degli ordinamenti e, di conseguenza, il tempo e le risorse che imprese e famiglie devono destinare all’assolvimento degli obblighi di legge; la decentralizzazione del prelievo e, al tempo stesso, l’autonomia dei vari livelli di governo. La liberalizzazione (oppure la mancanza di liberalizzazione) e sottointesa in ciascuno dei quattro indici. L’Italia non esce affatto bene : con un total tax rate del 65,4% siamo alle prese con un moderno Leviatano, cui pare persino difficile opporsi e con cui l’opinione pubblica sembra ormai rassegnata a convivere. Si potrebbe rispondere che la delega fiscale a cui Governo e Parlamento stanno lavorando potrebbe curare questi problemi tributari. Tuttavia, chiunque abbia compiuto un minimo di studi economici sa che la liberalizzazione e la concorrenza sono gli unici strumenti per quella crescita che sola può permettere la riduzione dell’oppressione fiscale.

Un quarto di secolo fa, l’allora Vice Direttore Generale della Banca d’Italia Pier Luigi Ciocca , sempre culturalmente contiguo al centro sinistra , nella prefazione alla raccolta di saggi ‘Disoccupazione di Fine Secolo’ (Bollati Boringhieri,1997 documentava che in mondo in cui il Nord America ha un carico tributario attorno al 30% del Pil ed i Paesi asiatici emergenti del 20% del Pil, con il nostro 46% di allora rischiava un declino sempre più grave e la disoccupazione di massa sempre più lunga.

Neanche i suoi amici con responsabilità di governo lo hanno ascoltato.

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Occultati i dati Confindustria su Pil: nascondono la mancanza d’ossigeno

Davide Giacalone – Libero

I numeri non mentono mai. Tutto sta a non truccarli, non darli a vanvera e non fraintenderli. Non interessa, qui, far polemica sulle previsioni sbagliate, né è saggio usare i problemi reali come randelli per risse politiche. Ma la realtà va conosciuta e da quella si deve partire per proporre soluzioni. Ebbene: dai giornali è sparita la previsione di crescita, elaborata dal Centro studi Confindustria, per il primo trimestre 2015: +0,2%. Cancellata. Il quotidiano degli industriali, Il Sole 24 Ore, la riporta in modo surreale: «si consolida la ripresa nel primo trimestre». Ci stiamo nascondendo la realtà, o proviamo a mistificarla. Ed è grave.

Il 28 gennaio scorso, quindi appena ieri, lo stesso Centro studi prende una crescita del prodotto interno lordo, nell’anno in corso, al 2,1. Magari! Cuor contento il ciel l’aiuta, ma quel numero ci sembrò stupefacente. In tutti i sensi. ll Centro insisteva, anche perché, sostenevano, per il primo trimestre è “acquisita” una crescita della produzione industriale dello 0,5%. Dunque: se quella la si considerava una fondata speranza, ora si deve parlare di sicura delusione, visto che a gennaio la produzione ha fatto ­0,7 e si spera che febbraio segni un +0,4, che non compensa. E, come abbiamo già documentato, le proiezioni più serie ci danno sì con il pil in crescita, ma sempre meno della metà dell’Eurozona. Il problema è grosso, quindi.

Guardando dentro quella, pur millimetrica, crescita ci si accorge che discende tutta dalle esportazioni. E, fra quelle, deriva dalla crescita delle esportazioni verso gli Stati Uniti (+49,3 in un anno, calcolato a febbraio). Ergo: a determinare la (troppo piccola) crescita è la capacità dei nostri esportatori, ma quella c’era anche prima, c’era anche mentre restavamo in recessione, a far la differenza è la svalutazione dell’euro sul dollaro e la diminuzione dei costi energetici. Tutta roba che non dipende da noi.

Ripeto: lasciamo da parte le polemiche di cortile, inutili, ciò che conta è che qui non è ancora successo niente che possa smentire una previsione di crescita annua che non solo è troppo bassa, ma è destinata ad aumentare il nostro svantaggio competitivo rispetto ad altri paesi europei, Germania in primis. Gerhard Schroeder, che di quelle riforme tedesche fu l’autore politico, oggi punta il dito su quel che ripetiamo da tempo: il problema non è la Grecia, ma la Francia e l’Italia.

Si chiede: «cosa può succedere se queste due importanti nazioni non aumentano la loro capacità produttiva e non sanno migliorare la loro competitività?». Lascia in sospeso l’interrogativo, ma è chiaro che teme il risorgere di tensioni ingovernabili, fin qui anestetizzate dall’opera della Bce. Ebbene, i dati che sono stati nascosti dimostrano proprio quello: non stiamo aumentando e non stiamo migliorando. Per riuscirci dobbiamo approfittare dei bassi tassi d’interesse, che aiutano a lenire il dolore sociale di riforme che tolgano sicurezze e diritti acquisiti, aprendo a meritocrazia e competizione. Ma è una parentesi breve. Approfittarne significa tagliare la spesa pubblica corrente e aumentare quella per investimenti. Il contrario di quel che si è fin qui fatto, visto che si sono tagliati i secondi. E il contrario di quel che ci si propone di fare, assumendo nuovi dipendenti pubblici senza concorso e selezione.

Significa usare la vendita di patrimonio pubblico per abbattere il debito, mentre oggi se ne usano i proventi per tenere sotto controllo il deficit. Significa restringere il perimetro dello Stato, laddove ancora lo si allarga. Significa diminuire stabilmente la pressione fiscale e stabilizzare la normativa, mentre ancora cresce e il satanismo erariale raggiunge vette inimmaginabili, con il contribuente minacciato di indagini se solo osa mettere nella dichiarazione le spese mediche. Questa, e altra, è la roba che ci tiene inchiodati. E non serve a un accidente occultare i numeri sgraditi, o limitarsi a commentare: finalmente si rivede il segno positivo. In un’afosa giornata d’agosto anche chi precipita da un grattacielo sente un po’ d’aria circolare. Meglio che se la goda in fretta.