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L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

L’economia «000»: inflazione, tassi e crescita ferma

Giuliana Ferraino – Corriere della Sera

Zero crescita, zero inflazione, zero interessi: se viviamo nel tempo zero, è venuta l’ora di ripartire da zero. Gli indicatori economici segnalano che la nostra produzione industriale scende (-2,9% a settembre), l’export è in affanno, la nostra competitività declina. Il Pil continua a restringersi: -0,2% nel secondo trimestre, e le previsioni sono poco ottimistiche sul futuro, come ci ricorda Moody’s. Aumentano soltanto il debito pubblico (salirà al 133,896 nel 2015 stima la Commissione Ue) e la disoccupazione (12,6% a settembre). In sintesi: l’Italia non solo non sa più creare ricchezza, ma ha accumulato una zavorra che paralizza il Paese. E se il denaro a costo zero garantito dalla Bce dovrebbe favorire il credito e promuovere gli investimenti produttivi, di fatto per ora erode risparmi e pensioni. Questa situazione ha impoverito le famiglie e aumentato le disuguaglianze.

Nel tempo zero gli aggiustamenti non bastano più: dobbiamo liberarci delle incrostazioni che ingabbiano il nostro modo di pensare e di agire, retaggio di un mondo che è stato spazzato via da 7 anni di crisi durissima. Per tornare a crescere, creare posti di lavoro e ridare speranza e sogni ai giovani, fermando la fuga dei talenti, serve una nuova cultura. In tutti i settori e per tutte le categoria, che porti liberalizzazioni vere. Basta con corporazioni e club. Tassisti e avvocati non possono fare eccezione. Anche la flessibilità del mercato del lavoro, invocata per attirare investimenti, rilanciare la crescita e favorire le assunzioni, rischia di alimentare nuove disuguaglianze, se non sarà accompagnata da concorrenza reale sul mercato dei beni e dei servizi e le scelte non saranno guidate dalla meritocrazia.

La crisi non è finita, va cambiato il passo

La crisi non è finita, va cambiato il passo

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Stiamo per archiviare il 2014 come il settimo anno di crisi. Se, come sembra, la ca- duta del pil sarà a consuntivo di quattro decimi di punto, dal 2008 – con 19 trimestri su 28 di pil in rosso – avremo perso 10,1 punti di ricchezza nazionale, circa 160 miliardi. Se poi si considera il pil potenziale (che misura non quanto si cresce ma quanto si potrebbe crescere in base alle proprie potenzialità) rispetto alle dinamiche pre-crisi è più basso del 12,6%. Un disa- stro che, Grecia a parte, non è toccato a nessun’altro paese. Pensate che si tratta del periodo più lungo di crisi economica che l’Italia abbia mai avuto, considerato che persino durante la seconda guerra mondiale il periodo di contrazione del pil è durato 4 anni (certo, la perdita di ricchezza è stata 4 volte tanto, ma vorrei vedere…) e altrettanti anni ci sono voluti per tornare ai valori antecedenti al crollo.

Ora si calcola che dovremo arrivare al 2026 per recuperare la ricchezza perduta. E speriamo che siano previsioni giuste, visto che, per esempio, l’anno scorso di questi tempi il Fondo Monetario prevedeva per il 2014 una crescita dello 0,6% (l’errore è di un punto, visto che perdiamo lo 0,4%, e non è poco) e per il 2015 un rincuorante +1,1%, mentre a ottobre ha corretto a +0,8% la stima per l’anno prossimo. Peccato che la più recente valutazione sia quella dell’Ocse che non ci concede niente di più che due decimi di punto di crescita, quattro in meno di quel +0,6% su cui si reggono i conti del governo.

Siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che ci costringerà a vivere in modo diverso da quanto è stato fin qui. Non dico peggio, dico diverso. Non potremo trovare più i livelli di consumo di prima – ben al di sopra delle nostre possibilità, come certifica il livello del debito pubblico – gli stili di vita, le dinamiche sociali, i sistemi di welfare, i comportamenti e le abitudini personali e collettive dovranno per forza cambiare. Ci piaccia o meno, sarà così. Con una differenza fondamentale, però, a seconda del nostro grado consapevolezza. Cioè, se capiremo ciò che è avvenuto, sta avvenendo e avverrà e ci organizzeremo per rimodularci di conseguenza – perdendo ogni velleità di voler difendere ciò che non c’è già più o che comunque non potrà più esserci – allora sarà dura lo stesso ma il passaggio risulterà molto, molto meno doloroso. Anche perché spazi per reinventarci ci sono, volendo. Se, al contrario, faticheremo a renderci conto o, peggio, punteremo i piedi per tentare di fermare il corso delle cose, allora il prezzo da pagare sarà davvero alto. Finora, purtroppo, abbiamo battuto la seconda strada. Per colpa di una classe dirigente (non solo politica) che invece di dire la verità al Paese – per ignavia, ma anche per vasta ignoranza – ha raccontato frottole. Ora basta.

L’Europa deve cambiare rotta

L’Europa deve cambiare rotta

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Venticinque anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l’entusiasmo di allora si è trasformato in un senso di declino che ridicolizza l’ingenuità del nostro ottimismo. L’Europa si confronta con un impoverimento demografico e una stagnazione economica che paiono così inattaccabili da valicare il nostro campo visivo ed essere infatti definiti “secolari”. Anno dopo anno, previsioni economiche come quelle pubblicate ieri da Bruxelles si degradano drasticamente, mentre la fiducia dei cittadini si inaridisce. Il fatto che anche democrazie ben ordinate ed economie solide come Germania e Francia si arrestino svela l’illusione che “fare i propri compiti di casa” sia sufficiente. Se le economie sono interdipendenti, le politiche non possono restare rinchiuse dentro i confini del consenso nazionale.

L’intero Occidente, Giappone e Stati Uniti compresi, è preda di un senso di incertezza ingigantito dal confronto con i modelli asiatici del capitalismo statale. Il contratto sociale delle democrazie liberali sembra superato. Un collega di Brookings descrive il vecchio contratto in questi termini: «Lavorando con burocrazie d’alto livello, governi democratici garantivano crescita, una costante riduzione della povertà, sicurezza fisica ed economica, nonché migliore sanità verso il sogno di Cartesio di sconfiggere la morte con la scienza». L’ottimismo economico si identificava con le finalità individuali e addirittura con il senso dell’esistenza. Non ci si può sorprendere se la disillusione di oggi è altrettanto esistenziale.

Il dramma della disoccupazione dei giovani, spesso istruiti, aperti al mondo o critici della società, evidenzia i limiti del vecchio contratto. Il calo dei redditi da lavoro sta erodendo consumi e crescita, producendo una fase senza precedenti di bassa inflazione e di alti debiti. Le aspettative di inflazione proiettano un calo dei prezzi non più su pochi mesi, ma su dieci anni. L’esempio giapponese non è isolato, negli Stati Uniti la quota del reddito che va in salari e stipendi è al livello più basso da 50 anni, le imprese accrescono la produzione senza assumere nuovi lavoratori nella fascia dei redditi medi, centrale alla tenuta del contratto sociale.

Ma mentre gli Usa hanno ritrovato un passo di crescita che pur squilibrato compra tempo alle speranze dei cittadini, l’Europa non ha alternativa che cambiare rotta. Affidarsi alla sola politica monetaria non basta. Le banche avevano un ruolo critico nel contratto, servendo l’economia secondo logiche che non erano solo di massimizzazione del profitto, ma che poi si erano piegate a interessi di consenso politico. Negli ultimi venti anni il canale finanziario ha invece assunto vita propria. Il distacco è vistoso oggi quando l’iniezione di quantità inaudite di moneta manca di ravvivare la crescita, se non nell’unico paese per il quale l’industria bancaria ha un ruolo non di servizio all’economia reale ma di industria esportatrice, la Gran Bretagna.

Per almeno 30 anni, il debito pubblico ha assorbito il potenziale latente di instabilità politica. Se in Grecia, Spagna o Portogallo era servito a comprare consenso per le nuove democrazie emerse dalle dittature, in Italia e Germania aveva anche compensato le fratture geografiche interne ai due Paesi. La tenacia tedesca nel denunciare i pericoli dei debiti pubblici, che oggi sono politicamente meno giustificati, non va dunque sottovalutata. Ma globalizzazione e tecnologia hanno stravolto le coordinate, lo spazio e il tempo, del contratto sociale.

La bassa inflazione fa crescere il valore reale dei debiti in tutta l’euro area. Il richiamo all’austerità come valore in sé non è sufficiente. La scarsa comprensione del vuoto di investimenti in Europa è una denuncia dei limiti di visione politica. La caduta del Muro aveva catalizzato la risposta politica europea: individui coraggiosi avevano aperto i confini; l’Occidente aveva riconosciuto le ragioni di investire anche materialmente nel futuro comune; lanciando l’euro, la Ue aveva assecondato l’istinto degli individui, abbattendo i confini, ampliando il mercato e accrescendo la libera circolazione. Poi le paure e le marce indietro. Un quarto di secolo dopo, l’esistenza della Ue è sfidata da chi vuole, non solo a Londra, richiudere i confini. Sentimenti xenofobi stanno dilagando.

In Francia il Fronte nazionale è il primo partito; in Germania il 44% degli elettori ritiene che il partito anti-europeo Alternativa per la Germania rappresenti l’interesse dei tedeschi. La politica si è ritirata dall’ambizione di promuovere il bene pubblico di lungo termine. È tornato il riferimento dei confini nazionali, ne è responsabile anche la gestione della crisi europea in cui a ogni Stato è chiesto prima di tutto di essere autosufficiente: “Chacun sa merde”, a ciascuno il proprio lerciume, come disse nel 2008 a proposito delle banche europee Angela Merkel, proprio il primo leader tedesco che veniva dall’altro lato del Muro. Ora il lerciume è di tutti.

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Gli italiani vedono nero: ancora 5 anni di crisi

Rosaria Amato – La Repubblica

Più soddisfatti dei propri redditi ma solo perché hanno imparato ad accontentarsi di poco e a stringere la cinghia, fortemente delusi dall’euro ma europeisti perché prevale la sfiducia verso le istituzioni nazionali, più ottimisti ma solo perché si sono rassegnati: gli italiani ormai considerano la crisi economica come una situazione quasi stabile, si aspettano di venirne fuori almeno tra cinque anni.

Dall’indagine Ipsos-Acri, presentata come ogni anno alla vigilia della Giornata Mondiale del Risparmio, emergono diversi aspetti positivi, che farebbero quasi pensare alla “luce fuori dal tunnel” di cui nessuno negli ultimi mesi si azzarda più a parlare. Eppure, guardando meglio i dati del sondaggio, le percentuali positive in rialzo sembrano più frutto di adattamento a uno stile di vita decisamente peggiorato rispetto al passato che di un rinato ottimismo. Infatti l’87% degli italiani pensa che la crisi sia ancora “molto grave”. Però è in recupero la fiducia nelle prospettive personali: ottimista il 24% contro il 21% di sfiduciati, percentuali ribaltate rispetto al 2013. Gli italiani non se la prendono con l’Europa (rimane favorevole all’Unione il 51%), anche se il 74% si dichiara insoddisfatto dall’euro. Però le colpe della crisi sono attribuite ai politici di casa nostra: il 56% ritiene che la situazione attuale sia dovuta al malgoverno e alle mancate riforme, appena il 5% dà la colpa alla Ue. Inoltre gli italiani convinti che tra 20 anni essere nell’euro sarà un vantaggio salgono dal 47 al 52%. La sfiducia nella nostra classe dirigente è tale che la maggioranza degli intervistati dall’Ipsos, il 66%, è pronto a delegare la tutela del risparmio all’Unione Bancaria europea, anche se poi solo il 7% sa veramente di cosa si tratta.

Sulla gestione di consumi e risparmi le famiglie, così impoverite che una su quattro non riuscirebbe a far fronte a una spesa imprevista di 1000 euro, hanno da tempo attuato una strategia difensiva. Tutti, anche i più abbienti, hanno rivisto al ribasso i propri consumi: viaggi e vacanze sono stati ridotti dal 60% degli italiani, la frequenza dei ristoranti è calata per il 59%, quella agli spettacoli per il 55%, tagli anche nell’abbigliamento, solo la spesa per i farmaci è rimasta invariata.

Rispetto al 2013 è aumentata la percentuale di chi preferisce investire sulla qualità della vita attuale (42% contro il precedente 39%), anche se la maggioranza (54%) investe pensando al futuro. E infatti gli italiani continuano a risparmiare: il 46% dichiara di non dormire tranquillo se non mette qualcosa da parte, solo l’8% si dichiara allegramente cicala. Però l’utilizzo di questo risparmio è molto cambiato rispetto al passato: due intervistati su tre scelgono la liquidità, crescono i sottoscrittori di polizze assicurative e fondi pensione, risalgono lievemente titoli di Stato e anche le azioni. Ma soprattutto il mattone non ha mai avuto così poco appeal: se nel 2004 era la scelta preferita dal 70% degli italiani, adesso la percentuale è scesa al 24%, il minimo storico dall’inizio dell’indagine, il 2001.

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

L’aggiornamento del Def e le privatizzazioni

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Il Documento di Economia e Finanza (modificato in seguito a scambi di veduti con le autorità europee) è all’esame delle Camere. C’è stata, sulla stampa e nel dibattito pubblico, molta attenzione sugli aspetti macro-economici e una certa disattenzione su liberalizzazioni e privatizzazioni. In effetti da anni il programma che le prevede sembra bloccato. Il Governo Monti non riuscì a privatizzare neanche il Touring Club, pur avendoci provato: le Camere vennero sciolte e si andò al voto prima che l’iter parlamentare venisse espletato.
Un programma a breve termine (12-18 mesi) per l’Italia è stato delineato nel discorso dell’allora presidente del Consiglio Letta alle Camere, nel quale si precisava che nel 2014 la cessione di quote societarie avrebbe dovuto far entrare nelle Casse dello Stato una cifra complessiva tra i 10 e i 12 miliardi di euro. Le prime dismissioni avrebbero riguardato una partecipazione di controllo di Poste Italiane e Enav (deliberata il 24 gennaio 2014 dal Consiglio dei Ministri) a cui avrebbero fatto seguito quelle di Sace e Grandi Stazioni (partecipata al 59,99% dalle Ferrovie dello Stato Italiane) nonché di quote non di maggioranza di Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed Eni. A queste indicazioni, occorre aggiungere la privatizzazione per almeno 500 milioni l’anno di patrimonio immobiliare. Secondo un’analisi effettuata dall’Università Bocconi), l’ipotesi di ricavi dalla cessione di quote societarie dello Stato può potenzialmente raggiungere i 90 miliardi di euro (ovviamente su un arco pluriennale); ciò non tiene conto di circa 6000 Spa, Srl, Fondazioni ed altro partecipato da un numero analogo di enti locali.
Glocus e l’Istituto Bruno Leoni hanno tracciato un percorso possibile per attuare un programma di denazionalizzazioni più ambizioso di quello sino ad ora annunciato dal Governo. Dopo tre anni di virtuale stasi nel programma di privatizzazioni si stava creando il clima e ponendo le basi per un rilancio della nazionalizzazione del patrimonio pubblico – quanto meno di quello ‘statale’ – sia delle partecipazioni societarie sia delle proprietà immobiliari. La caduta del Governo Letta ha provocato una frenata se non un vero e proprio arresto del programma.
Nel Def si prevede la cessione delle quote di minoranza in Poste Italiane, Enav e l’intera cessione della quota di SHT, holding di controllo della società operativa STMicroelectronics. Gli advisors sono al lavoro. È presto per effettuare stime. In una prima versione, si sarebbero dovute cedere anche quote di Enel e di Eni – come dichiarato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze – ma lo stesso presidente del Consiglio ha precisato in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ che, per il momento, non se parla: Enel ed Eni apportano utili considerevoli alla pubblica amministrazione e i mercati sono tali che si potrebbe pensare ad una ‘svendita’. A mio avviso, anche il modesto programma delineato prende l’avvia da un’ottica ristretta ove non errata: fare cassa per ridurre lo stock di debito pubblico. Un obiettivo lodevole ma occorrerebbe uno schema molto più vasto (almeno 3-400 miliardi) di quanto preconizzato. Inoltre, lo scopo primario dovrebbe essere quello di ridurre la sfera pubblica e i lacci che comporta per l’economia italiana.
È uscito in questi giorni un saggio di un giovane professore aggregato della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma III. Si chiama Cosimo Magazzino e si è dato un compito difficile: studiare – non a chiacchiere, ma sulla base di dati quantitativi – il nesso tra le dimensioni della macchina pubblica e la crescita dell’economia italiana dalla nascita del Regno d’Italia alla vigilia della crisi più recente. Il lavoro, “Government Size and Economic Growth in Italy: an Empirical Analysis Based on new Data (1861-2008)”, è apparso sull’ultimo fascicolo dell’International Journal of Empirical Finance (pp.38-54) e ha suscitato notevole interesse presso la Commissione Europea, la Banca centrale europea, l’Ocse ed il Fondo monetario; ossia coloro che, per dovere più che per diletto, studiano le nostre politiche ed i nostri conti. La conclusione è che in Italia non c’è una relazione lineare tra la dimensione del settore pubblico (misurata in termini di spesa pubblica in percentuale del Pil) e la crescita economica. In generale, negli ultimi vent’anni dell’analisi il nesso è una “curva a U invertita”: ciò vuol dire, in parole povere, che “riduzioni delle spese possono sveltire la dinamica del Pil”. Dallo studio si evince anche che negli anni del Regno Sabaudo, il “pareggio di bilancio” raggiunto per breve periodo ha rallentato l’aumento del prodotto nazionale.
Occorre tenerne conto ed aprire un dibattito, non passarlo sotto silenzio come si è fatto con l’Appello Politico agli Italiani dell’Osservatorio Internazionale Cardinal Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa, pubblicato alcuni mesi fa dall’Editore Cantagallo. Pochi conoscono questo Osservatorio, intitolato all’expresidente del Pontificio Consiglio Justitia et Pax. Un’alta personalità ecclesiastica vietnamita che non lasciò i suoi fedeli alla caduta di Saigon e venne imprigionato in isolamento per diversi anni (nella sua cella un altoparlante suonava musica marziale 24 ore su 24). San Giovanni XXIII lo volle al suo fianco quando venne finalmente liberato perché contribuisse alla pace ed alla giustizia nelle aree più lontane del mondo. Il dicastero da lui diretto produsse, tra l’altro, il Catechismo sulla Dottrina Sociale della Chiesa. L’Osservatorio, composto da personalità di alto livello, ha redatto l’Appello perché vede nell’Italia un Paese smarrito, con un popolo alla ricerca di speranza. Le sue proposte sono articolate. Il volume (86 pagine) inizia con la visione di un popolo che ritorna a credere in sé stesso e delinea un nuovo patto costituzionale sostanziale. Contiene naturalmente proposte puntuali di politica istituzionale ed economica: da una legge elettorale per evitare un eccessivo premio di maggioranza a una riforma della giustizia che dia certezze a libertà di educazione, da un nuovo patto di solidarietà e di produzione a una politica di privatizzazioni che prenda l’avvio con quella della Rai.
Privatizzare la Rai vuol dire dare azioni Rai a tutti gli italiani. Seguendo quale metodo? Quello dell’età anagrafica: quanto più si è anziani tanto più si è pagato il canone (e ci si è sorbiti Santoro, Baudo, Carrà e quant’altro), avendo dunque titolo a un risarcimento con azioni da impiegare per la tarda età. Le azioni sarebbero vincolate per un lasso di tempo – ad esempio, cinque anni – a non essere poste sul mercato ma a essere destinate a un fondo pensione aperto (e ad ampia portabilità) a scelta dell’interessato, il quale però manterrebbe tutti i diritti (elezione degli organi di governo, vigilanza sul loro operato, definizione dei loro emolumenti) di un azionista (in base alle azioni di cui è titolare sin dal primo giorno). Gli azionisti deciderebbero se scorporare le reti. Unica regola: il pareggio di bilancio. Il management dell’intera Rai (o di una rete) che non ci riesce sarebbe passibile di azione di responsabilità e, ai sensi della normativa societaria in vigore, se l’indebitamento superasse certi parametri la liquidazione diventerebbe obbligatoria. E il “servizio pubblico”? Nell’età della rete delle reti, ci bada Internet: già adesso tutti i dicasteri, le Regioni, i Comuni, le Comunità Montane dispongono di siti interattivi. I siti di informazione e contro-informazione pullulano, tanto generalisti quanto specializzati.
Non siamo più ai tempi dell’Eiar, anche se il “Partito Rai” vorrebbe tornare a tempi leninisti, come la protagonista del film “Goodbye, Lenin” di una ventina d’anni fa. E la cultura? In primo luogo, pensiamo che gli italiani siano meno imbecilli di chi compila gli attuali palinsesti: una Rai che risponde al popolo azionista proporrà più cultura dell’attuale (come dimostrano gli abbonamenti a canali culturali digitali). In alternativa, si potrebbero prevedere agevolazioni tributarie per gli sponsor, quale che sia la rete (denazionalizzata o privata) che scelgono. Oppure ancora si potrebbero adottare forme di “tax credit” per chi produce prodotti televisivi culturali, come già avviene con successo nel settore del cinema.
Quella della Rai è ‘la madre di tutte le privatizzazioni’ per il ruolo che ha l’informazione nel mercato dei beni e dei servizi. Se un tempo la statalizzazione della Rai poteva essere giustificata come monopolio tecnico da forze politiche non democratiche, il passaggio dall’analogico al digitale terrestre ha reso questo argomento risibile. Lo ha ribadito lo stesso Romano Prodi in un convegno a Bologna nel corso del quale ha ricordato i tentativi fatti nel 1997, falliti a ragione dell’opposizione del “Partito Rai”. In nessun Paese, neanche nelle dittature dell’Asia centrale, esiste una radio-tv di Stato con 15 canali; la stessa BBC (che ha governance ben differente da quella della Rai ed un pubblico mondiale dato che opera in inglese) ha soltanto cinque canali e pochissima pubblicità.
Ecco chi siamo

Ecco chi siamo

Gino Gullace Raugei – Oggi

Cuori nella tempesta economico-finanziaria: i numeri dicono che (forse) il peggio è passato ma il meglio ancora non si vede. A raccontarci l’Italia al tempo della crisi è Giuseppe Roma, direttore generale del Censis (Centro studi investimenti sociali). «Da una parte il Paese appare con tutte le sue grandissime capacità, la sua cultura, la secolare creatività e l’antica inventiva che ci ha fatto essere in qualche modo protagonisti del futuro; dall’altra parte, invece, si vede un Paese sempre pronto a dividersi in una miriade di gruppetti litigiosi che pensano ai loro comodi e non all’interesse nazionale. La storia contemporanea è dominata da giganti, la Cina, il Brasile, l’India e noi ci ostiniamo a rimanere un topolino che rischia di essere schiacciato». La crisi ci ha ributtato agli Anni 50: dominano l’incertezza e la paura del domani. Le statistiche ci dicono però due cose: negli ultimi anni difficili ci ha salvato la vecchia, cara famiglia all’italiana e se la macchina dell’economia ricomincerà un bel giorno a girare sarà merito soprattutto delle donne.

Le grandezze della crisi
Dal 2008 ad oggi il nostro Pil (il Prodotto interno lordo, indice della ricchezza nazionale) è diminuito di circa l’8 per cento. «Vale a dire», spiega il professor Roma, «una somma di circa 119 miliardi di euro, più del Pil dell’Ungheria». Ogni italiano (siamo 60.782.668) ha perso in media 1.957 euro e 79 centesimi. Ma non per tutti è cosi. Già, incredibilmente, tra occupati che diminuiscono e tasse che aumentano, c’è anche chi ha trovato il sistema di diventare più ricco: i 10 uomini più facoltosi d’Italia dispongono infatti di un patrimonio di circa 75 miliardi di euro, equivalente a quello di quasi 500 mila famiglie di operai; e, dichiarazione dei redditi alla mano, i nostri 2 mila Paperoni, cioè lo 0,003 per cento della popolazione. posseggono oggi 169 miliardi (senza contare il valore degli immobili), pari alla ricchezza totale del 4,5 per cento degli italiani.

Famiglie paracadute
Fortunati a parte, la crisi ha reso tutti gli altri più poveri: il reddito degli operai è diminuito del 17,9 per cento, quello degli impiegati e dipendenti del 12, degli imprenditori del 3,7. Risultato: oggi il 72,8 per cento delle famiglie italiane considera insostenibile una spesa extra per un improvvisa malattia o per significative riparazioni della casa o dell’auto; il 24,3 per cento fa fatica a pagare tasse e tributi; il 22,6 per cento spesso non ha soldi per bollette e assicurazioni mentre il 6,8 per cento non riesce più a pagare le rate del mutuo. Il 14 per cento delle famiglie si è trovata nelle condizioni di svendere oro e argento di famiglia per pagare i debiti. Credevamo di esserci americanizzati, finendo con l’annacquare i tradizionali, forti legami parentali; le difficoltà economiche ci hanno invece fatto riscoprire la classica, numerosa famiglia all’italiana che credevamo ormai consegnata ai libri di storia sociale. «In questi anni c’è stato un fortissimo recupero dei valori di solidarietà tra genitori e i figli, nonni e nipoti, fratelli, cugini e persino suoceri» spiega Roma. La famiglia è stata il più efficace degli ammortizzatori sociali, il paracadute che ci ha salvato dalla rovinosa caduta economica. Per il 76 per cento degli italiani la rete familiare include da 6 a 15 persone: un piccolo clan. Solo negli ultimi dodici mesi sono 8 milioni le famiglie che hanno ricevuto qualche forma di aiuto economico dalle rispettive reti familiari.

Ripresa in rosa
Le famiglie sono il vero termometro della crisi: lo dicono i dati relativi al risparmio. Nel 2008 le famiglie italiane hanno depositato in banca poco più di 52 miliardi di euro; nel 2009 la somma si è ridotta a 56.7 miliardi: il 30 per cento di meno. Nel 2010 le famiglie italiane non solo non sono riuscite a risparmiare, ma hanno dovuto ritirare dai conti correnti ben l4,7 miliardi di euro; nel 2011 è andata anche peggio, coi prelievi che hanno sfiorato i 21 miliardi. L’anno successivo la tendenza si è però invertira: dall’agosto 2012 all’agosto 2013 le famiglie hanno depositato in banca 37,4 miliardi. Vuol dire che la crisi ha attenuato i suoi effetti reali? «Siamo effettivamente in una fase in cui il peggioramento degli indici economici tende a rallentare», spiega l’economista Francesco Extrafallaces, «ma questo non vuole dire che la crisi è passata. L’anda- mento del risparmio ci dice piuttosto che le famiglie italiane si sono adattate alle difficoltà». Come? Risparmiando sulla spesa e rinunciando a molte cose: se in casa si rompe qualcosa cerchiamo di ripararlo da soli, con le donne protagoniste assolute del ritorno al bricolage: il 29,3 per cento fa tutto da sola, il 15.2 guida e dirige il braccio dell’uomo di casa. Dal 2009 al 2013 1,6 milioni di imprese italiane hanno cessato di vivere. Secondo l’Ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza, la crisi ha assassinato anche moltissime aziende storiche, quelle con almeno 50 anni di attività: ne sono sparite 9mila, cioè una su quattro. In questo che sembra un drammatico bollettino di guerra c’è un clamoroso numero in controtendenza che rivela un’Italia che non t’aspetti: secondo Unioncamere, nel 2015 le imprese italiane la cui titolare è donna hanno fatto registrare un significativo saldo positivo, con circa 5mila unità in più. E le regioni in cui è più spiccato il processo di femminilizzazione del tessuto imprenditoriale sono quelle del Sud: Molise (dove sono il 29,7 per cento del totale), Abruzzo (27,8), Basilicata (27,7) e Campania (26,5). A livello nazionale le aziende rosa sono l.429.880, il 23,6 per cento del totale. Le imprenditrici giovani, che hanno cioè meno di 35 anni, sono ben 171.414, cioè il 12 per cento del totale. «Le donne rappresentano una grande speranza per il futuro», dice il professor Giuseppe Roma. «Sono più preparate dei loro colleghi maschi. più determinate ed hanno una qualità importantissima: riescono a fare squadra coi loro dipendenti e questo consente alle loro aziende di adattarsi meglio alla crisi, superando le diffìcoltà». Ricordate la nave albanese Vlona che arrivò nel porto di Bari stracarica di disperati in fuga dalla miseria? Era l’8 agosto del 1991: gli immigrati stranieri residenti in Italia erano allora 625 mila. Oggi sono oltre 5 milioni e parliamo di quelli con regolare permesso di soggiorno; i clandestini si presume invece che siano circa 500 mila.

Gli immigrati: la sfida più difficile
L’Italia è il quinto Paese europeo per numero complessivo di extracomunitari residenti. Le ondate migratorie che da 30 anni investono l’Italia sono il fenomeno sociale più importante della nostra storia recente», ci dice Anna Italia, ricercatrice del Censis. Nell’Italia di oggi, gli immigrati rappresentano una parte importante del tessuto sociale: abbiamo l.6 milioni di stranieri dediti ai servizi domestici un milione dei quali sono badanti che si occupano dell’assistenza agli anziani. Dei 180 mila ristoranti presenti nel nostro Paese, il 10 per cento, cioè 18 mila circa, sono etnici; di questi, uno su 4 è cinese e 1 su 8 arabo. Eppure quando si parla di extracomunitari ci balzano agli occhi le drammatiche immagini dei barconi stracarichi di disperati sulle rotte della morte nel Canale di Sicilia. «Arrivano in media 70 mila persone ogni anno», dice Anna Italia. «Sono quasi tutti in fuga dalle persecuzioni in atto nei loro Paesi d’origine e vengono in Italia per chiedere asilo. Perché, se hanno diritto all’assistenza che spetta agli stranieri perseguitati, scelgono un modo così rischioso per raggiungere l’Italia? «Perché la legge italiana prevede che un cittadino straniero possa chiedere asilo politico solo se si trova in Italia; non può farlo presso le nostre ambasciate o consolati che si trovano sul’altra sponda del Mediterraneo», spiega Anna Italia. I numeri dicono che nel nostro Paese oggi gli extracomunitari stanno occupando spazi importanti anche nei piani più alti del sistema economico. In alcuni settori la presenza di imprenditori stranieri è massiccia; è il caso delle costruzioni edili, dove il 21,2 per cento delle imprese ha proprietari stranieri (in gran parte rumeni); oppure del commercio al dettaglio (il 20 per cento). Mentre i negozianti italiani sono diminuiti del 3,3 per cento, quelli stranieri sono aumentati del 21,3 per cento. In città come Pisa, Caserta e Catanzaro. le botteghe di extracomunitari sono rispettivamente il 35,4, il 34,5 e il 52,7 per cento del totale.

Gli emigranti: giovani e arrabbiati
Siamo la terra promessa di moltissimi stranieri, ma nello stesso tempo molti giovani italiani lasciano il Paese per cercare fortuna altrove: il 54,1 per cento dei nostri emigranti ha meno di 55 anni. Fuggono all’estero soprattutto i giovani che hanno alle spalle famiglie con redditi medio alti: la percentuale di 5,6 per cento di nuclei familiari con un reddito mensile di mille euro che hanno almeno un componente fuori dai confini nazionali, diventa del 10.6 per cento nelle famiglie con un reddito di 4 mila euro. Come negli Anni 50, gli italiani emigrano in Australia; dal 2012 al 2013 c’è stato un aumento di partenze del 116 per cento e negli ultimi tre anni ben 32 mila giovani si sono stabiliti a Melbourne o Sydney. Il 72,7 per cento degli emigranti afferma che la scelta di partire è stata giusta e piena di soddisfazione. Tra tutte le ombre, questa è quella più cupa che si addensa sul futuro del nostro Paese.

La deflazione e il governo Renzi

La deflazione e il governo Renzi

Carlo Debenedetti – Il Foglio

Nella lettera che il governo italiano ha inviato a Bruxelles per correggere la legge di stabilità si riconosce finalmente la deflazione come un rischio grave per la nostra economia. Meglio tardi che mai. Ma per la verità la deflazione più che un rischio è ormai una drammatica realtà, in Italia e in una parte crescente dell’Eurozona. Eppure c’è stata in questi anni una sorta di negazione del problema. A me è sembrato evidente già da oltre un anno, e l’ho ripetutamente scritto, che l’Europa andasse in questa direzione. Ma non si è voluto vedere quello che era sotto gli occhi di tutti. La cultura economica continentale, formatasi sulla paura dell’inflazione, ha come rimosso la questione. L’ha negata finanche semanticamente.

In tutti i documenti ufficiali delle Banche centrali si è continuato a parlare di rischio di bassa inflazione, e in parte lo si fa ancora ora, mentre era evidente che l’Europa scivolava verso la deflazione. Chi ha visto prima e meglio sono stati gli economisti americani. Io stesso ho maturato per tempo le mie preoccupazioni attraverso i contatti con il mondo della Fed e dei think tank di Washington.

Istruttivo, in questo senso, l’ultimo rapporto al Congresso del Tesoro americano “International Economic and Exchange Rate Policies”. Ne consiglio a tutti un’approfondita lettura. C’è tutto, ed è detto con chiarezza. E’ spiegato, per esempio, come “l’Europa sia di fronte a una vera e propria deflazione”, che c’è la possibilità che questa venga esportata a tutto il mondo, che la “domanda europea è cronicamente troppo debole”. Gli errori della Germania sono individuati con una limpidezza che non trovo nella pubblicistica “ufficiale” al di qua dell’Atlantico: Berlino, dicono dal Tesoro americano, sta indebolendo l’economia europea portandola alla deflazione, perché non spinge sulla domanda interna, pur avendo i conti in sostanziale pareggio, e perché non permette una politica europea di bilancio più flessibile ed espansiva.

È anche così che l’Eurozona è diventata il buco nero della crescita mondiale. L’epicentro di un possibile terremoto deflattivo in grado di scuotere l’intera economia mondiale. Una minaccia tanto più consistente se pensiamo che gran parte delle Banche centrali del mondo sviluppato hanno già abbassato i tassi vicino allo zero. E, ciononostante, anche in America, nel Regno Unito, finanche in Cina l’inflazione è sotto il 2 per cento. Le aspettative sull’andamento dei prezzi sono calate ulteriormente quest’estate sia negli Stati Uniti, che in Europa o in Giappone. Di certo, quelle scosse hanno già colpito duramente il cuore del nostro continente. A settembre il dato medio dell’inflazione nell’eurozona è stato di 0,3 per cento (0,8 per cento depurato dall’andamento del prezzo del petrolio). Un’area che rappresenta un quinto dell’output mondiale sta cadendo nella deflazione e nella stagnazione. E i paesi cosiddetti periferici sono in una vera e propria trappola, stretti tra la moneta unica e la loro scarsa competitività: per guadagnare forza competitiva rispetto ai Paesi “core”, infatti, non potendo svalutare, devono tenere salari e prezzi a livelli molto bassi.

È da sette anni così che non riusciamo a uscire da una crisi economica che sta sfinendo il nostro tessuto sociale. Non muoviamo un passo. È una crisi che abbiamo importato proprio dagli Stati Uniti, ma loro hanno reagito subito e sono tornati a crescere, noi europei ci siamo invece avvitati in un dogmatismo di regole superate e nella storica paura tedesca dell’inflazione. Il Trattato di Maastricht risale ormai alla preistoria. Nel 1992 non esistevano Google, Facebook, Twitter. Era un altro mondo. Internet in Italia muoveva i primissimi passi. Ancora nel 2001, alla vigilia della circolazione monetaria dell’euro, Google fatturava 70 milioni, oggi fattura 60 miliardi. La Cina all’epoca di Maastricht era un paese dall’economia autarchica e conosceva i primissimi sviluppi industriali.

L’Europa era il centro del mercato mondiale e da poco, con fatica, aveva imparato a gestire lo spettro dell’inflazione. Uno spettro che veniva dai tempi di Weimar (ma andrebbe ricordato che il nazismo si afferma in realtà per effetto del diffondersi della disoccupazione in seguito alle rigide politiche deflazionistiche della Reichsbank tedesca all’indomani della crisi del 1929) e si era riaffacciato poi a più riprese nel Dopoguerra. I parametri adottati allora erano (forse) giusti per quel mondo dei primi anni Novanta, per quella cultura economica. Oggi sono semplicemente senza senso. Sono vecchi. Come vecchia è l’interpretazione fondamentalista che se ne dà. Perché vecchi sono gli occhiali attraverso cui in questi anni si è guardato in Europa alla dinamica dei prezzi e dell’economia. Non bisognava essere dei rabdomanti della moneta per capire da anni che la deflazione era un male incombente per l’Europa. Bastava guardare a quello che succedeva lì fuori, nel mondo reale, dove le merci si comprano e si vendono, dove i prezzi si formano.

Era evidente che il prezzo del petrolio sarebbe sceso in seguito alla scoperta dello shale gas, che ha trasformato gli Stati Uniti da importatore a esportatore di idrocarburi, e davanti al diffondersi delle buone pratiche di risparmio energetico. Era chiaro che la globalizzazione avrebbe abbassato i prezzi dei prodotti, dislocando le produzioni dove il costo del lavoro è 60 volte più basso che da noi. Era sotto gli occhi di tutti quanto Internet e il commercio elettronico spostassero verso il basso la concorrenza sui prezzi. Avremmo dovuto reagire da subito buttando via i modelli teorici su cui erano costruite le previsioni dei nostri Istituti centrali e introducendo il massimo della flessibilità in quei parametri ottusi che rischiano di impiccare una generazione di europei al patibolo del 3 per cento. Abbiamo risposto, invece, con l’austerità e il pareggio di bilancio. Scoprendo solo ora che così il peso del debito non poteva che aumentare, in una spirale drammatica tra recessione, deflazione e oneri degli interessi da pagare. La deflazione è una rovina per tutti. Ma per chi è molto indebitato lo è di più. Il costo di quel debito diventa un macigno, sempre più difficile da ripagare. Nel mondo il totale dei debiti privati e pubblici raggiunge il 272 per cento del pil.

Nessuno può permettersi la deflazione. Ma tanto meno può permettersela l’Europa che ha una popolazione uguale al 5 per cento di quella mondiale, un pil pari al 20 per cento e un debito pari al 50 per cento del debito pubblico mondiale. E ancor meno può permettersela l’Italia che ha l’1 per cento della popolazione mondiale, il 2.5 per cento del pil e il 20 per cento del debito mondiale.

Matteo Renzi ha dimostrato di essere un eccellente politico e quindi saprà fare la sua parte in Europa. Anche questa manovra è nel complesso positiva. Ma è proprio da un punto di vista tecnico che dico che la legge di stabilità appena approvata non serve a far uscire l’Italia dal suo declino o meglio dal suo degrado. Le misure adottate nella manovra, seppur positive, sono totalmente insufficienti a fare superare al paese la spirale recessione-deflazione. Lo sono per il semplice fatto che non modificano in modo netto la consumer behavior e le consumer expectations. Senza la fiducia in una svolta, e nella convinzione che i prezzi caleranno di mese in mese, gli italiani continueranno a rinviare le loro scelte di acquisto. Così non si va da nessuna parte. Anche perché, come ha ben spiegato Larry Summers, non c’è livello di tassi nominali che, ai tassi di inflazione di oggi, possa bilanciare investimenti e risparmi. Gran parte del lavoro allora dovrebbe farlo l’Europa. Dovrebbe farlo la Bce, comprando bond societari (un mercato di circa 9 mila miliardi complessivi, per intenderci), titoli di Stato europei e anche titoli del debito Usa.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.