edilizia

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Guerra aperta agli immobili: 20 miliardi di tasse in 4 anni – Il Giornale

Gian Maria De Francesco – Il Giornale

L’aggressione sulla casa ha due volti, entrambi mostruosi. Quello più noto è rappresentato dai 20 miliardi di tasse in più che gli italiani sono stati costretti a pagare negli ultimi quattro anni a causa dell’accanimento dei governi Monti, Letta e Renzi sulla proprietà immobiliare. A colpi di Imu, Tasi e Ici si è passati dai 9 miliardi di prelievo del 2010 ai 28 miliardi stimati da Confedilizia per quest’anno.

Il volto nascosto di questo raptus autopunitivo lo svela il Centro Studi ImpresaLavoro: il mercato italiano delle costruzioni sta segnando performance che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa. È chiaro che, in questo modo, si frustrano molte possibilità di agganciare la ripresa ove mai si presentasse. Ecco perché il presidente di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ancora ieri è ritornato sull’argomento. «La casa è colpita da tasse che tre governi non eletti dai cittadini hanno moltiplicato per tre», ha detto nel corso dell’intervento a La telefonata su Canale 5. «La casa per Forza Italia è sempre stata qualcosa di sacro: è un pilastro su cui ogni famiglia ha il diritto di costruire la sicurezza del suo futuro», ha aggiunto ricordando che «tagliare le tasse sulla casa non solo è possibile, ma è doveroso». Un segnale di battaglia in vista del No Tax Day azzurro del prossimo fine settimana che sarà incentrato su questo tema.

L’analisi del Centro Studi ImpresaLavoro, però, offre uno spaccato della propensione «suicida» del nostro Paese nei confronti dei competitor europei. L’aumento della tassazione, infatti, ha bloccato il settore e, dal 2011 a oggi, si è perso il 30% del valore della produzione. In Europa solo Cipro, Portogallo e Grecia hanno registrato andamenti peggiori di quello italiano e non è un caso che si tratti di Paesi profondamente segnati dalla crisi del debito sovrano. Se si guarda alle aree più sviluppate del Vecchio Continente, si osserva come la Francia, nello stesso periodo, abbia registrato un arretramento del 5,1%, il Regno Unito del 3,2%, mentre la Germania ha visto un lieve incremento (+0,6%). La performance della Spagna è la migliore tra le grandi economie europee: +18,9 per cento. L’Italia è ampiamente al di sotto della media dei 27 Paesi dell’Unione Europea poiché il -29,3% cumulato si confronta con una media del -5 per cento. Insomma, non solo si sono massacrati i contribuenti, ma si è resa l’intera nazione più debole.

Crollano, di conseguenza, anche le ore lavorate, l’indicatore che misura con maggior precisione l’andamento dell’occupazione di questo settore. In Italia nel 2014 si sono lavorate nel settore costruzioni un terzo delle ore in meno rispetto al 2011 (-28,9%). La Francia ha perso solo il 4,2%, mentre gli incrementi hanno interessato Regno Unito (+3,7%), Spagna (+1,4%) e Germania (+0,9%). Un effetto della perdita dei due terzi di permessi di costruzione (-63% nel triennio) a causa della recessione autoindotta nel comparto. Dunque, non bisogna con evidenti ripercussioni sull’occupazione e il numero di lavoratori lasciati a casa dalle aziende in crisi. «I governi Monti, Letta e Renzi hanno trasformato la casa da “bene rifugio” in “bene incubo”», commenta il presidente di ImpresaLavoro, Massimo Blasoni. I numeri non fanno che confermarlo.

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Troppe tasse, ecco la gara a demolire la propria casa

Filippo Caleri – Il Tempo

Dal valore del mattone al piccone per demolirlo. È il triste destino del patrimonio immobiliare italiano, vanto della classe media, tra le più ricche del mondo grazie all’amore, viscerale ma comunque contraccambiato per la proprietà edilizia. Un amore finito, distrutto e lacerato dalle tasse. Sì, ora per non pagare più il conto al fisco, che sulle case ha messo radici e deciso di finanziare senza pietà e a oltranza il deficit dello Stato, si ricorre alla distruzione delle abitazioni o, nell’ipotesi migliore, alla donazione allo Stato. Non è uno scherzo. Ma il risultato inatteso, o forse pianificato e inconfessabile, dei grandi economisti consiglieri dei governi che hanno puntato inopinatamente sull’equazione casa uguale ricchezza, colpendo al cuore e al portafoglio una nazione intera e il nervo portante della sua economia. Dunque la Tasi, ultima invenzione di una classe politica incapace di costruire il futuro e in cerca solo di risorse per tappare i buchi creati dai privilegi accordati nel passato, sta diventando un incubo per molte famiglie italiane. E il genio italico, che nel Dna ha la ricerca della scappatoia per fuggire alla gabella, si è messo già all’opera.

Per la Confedilizia, che rappresenta una buona parte dei proprietari di immobili, sono sempre più frequenti i casi di proprietari di case che, tartassati per case ricevute in eredità e posizionate in angoli remoti del Paese, pensano di lasciare allo Stato i loro «mattoni». Una facoltà prevista dall’articolo 827 del codice civile che recita testuale: «I beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato». In linea di principio dunque basterebbe l’abbandono di fatto di una casa e la comunicazione ufficiale al comune in cui è sito l’immobile per far scattare il passaggio del bene nella disponibilità dello Stato. E la liberazione dall’Imu. Un’ipotesi che è dibattuta però tra i giuristi interrogati dall’associazione. Sì perché lo Stato potrebbe opporre che il passaggio di proprietà, anche se a titolo gratuito, non è esente dal pagamento delle tasse. In particolare potrebbe essere richiesta, se avvalorata l’ipotesi di una donazione, una quota pari all’8% del valore catastale. Se invece passasse l’idea di un trasferimento contrattuale a costo zero allora le Entrate potrebbero esigere l’imposta di registro, il 9% del valore iscritto al catasto, e la tassa catastale che è determinata in cifra fissa. Insomma nemmeno lasciando l’immobile nelle mani dell’amministrazione lo Stato si accontenterebbe. Regalo sì, ma a pagamento, dunque. Questo potrebbe essere il destino di molti italiani stanchi di pagare balzelli su case ereditate dai nonni, luoghi della memoria e dei momenti felici dell’infanzia. Immobili che si trovano, però, nelle aree interne colpite dal calo demografico, sulle quali si pagano comunque Imu (seconda casa) e Tasi esagerate rispetto al valore di mercato vicino allo zero. Tra quelli interessati alla cosiddetta «rinuncia» ci sono anche molti lavoratori con reddito decurtato dalla crisi che non riescono a più mantenere, tra imposte e costi aggiuntivi, la casa delle vacanze. Per queste, infatti, le possibilità di rivendita sono nulle visto che la crisi le ha prese particolarmente di mira.

Fin qui le ipotesi di cessione. Ma ci sono anche ipotesi più estreme. Come sempre più spesso accade nei territori collinari e montani. Lo spopolamento di queste aree ha lasciato in eredità centinaia di case nate per l’agricoltura sulle quali, a partire dal governo Monti, si pagano imposte al pari di fabbricati civili. Così alle manutenzioni si aggiungono costi fiscali insostenibili per molti. Le soluzioni anche in questo caso sono amare e violente. Molti rendono inagibile l’edificio staccando le utenze ed eliminando alcune parti come finestre e porte. Così se la casa non è abitabile ma è facilmente riattabile e l’Imu è decurtata del 50% con semplice richiesta al Comune. Ma se l’inagibilità è totale, ovvero l’immobile è a un passo dall’essere un rudere, l’Imu non si paga più. Ed è così che molti stanno distruggendo i tetti per dimostrare la non utilizzabilità del bene. Un processo che è l’anticamera della demolizione. E cioè il completo annullamento della registrazione catastale. Le pratiche di cancellazione di questo genere, lo scorso anno, sono aumentate del 20% spiega Confedilizia. Ma così, in nome del fisco e della colpevolizzazione della proprietà, si distrugge la storia di un Paese.

I salti del gambero dell’Italia in crisi

I salti del gambero dell’Italia in crisi

Marco Biscella, Rossella Cadeo e Fabio Grattagliano – Il Sole 24 Ore

Si cominciano a contare i mille giorni del governo Renzi, si osserva con apprensione l’evolversi della situazione geopolitica mondiale e si scruta l’orizzonte in cerca dei primi segnali di ripresa. Ma, nonostante tutta questa proiezione in avanti, l’orologio della congiuntura economica in molti casi sembra andare all’indietro, e anche veloce- mente: nel “monopoli” dello sviluppo, dal reddito ai consumi, dal mattone alla produzione, dal risparmio al lavoro, l’Italia non solo risulta inchiodata a performance preoccupanti – conseguenza della crisi che l’ha investita a partire dalla fine del 2008 – ma ha decisamente innescato la retromarcia, e di parecchi anni. Un «indietro tutta» che Il Sole 24 Ore del lunedì in queste due pagine documenta con statistiche ufficiali, dopo aver esplorato – per una decina di indicatori- qual è la situazione attuale e a quale anno occorre riandare per incontrare un valore analogo.

Il record dell’inflazione
Il caso più eclatante è quello relativo al tasso d’inflazione, ambito nel quale l’Italia ha fatto addirittura un balzo (indietro) di 55 anni: dopo anni di crescita moderata, nel luglio 2014 l’Istat ha infatti diffuso il primo segno negativo (-0,1%) così come nel 1959 (-(0,4%). Allora però il Paese – superata la prova del dopoguerra – si avviava, pieno di energia, sulla strada del “miracolo economico”, tra consumi in ripresa, aumento di produttività e occupazione, sviluppo di grandi imprese. Strada interrotta bruscamente dallo shock petrolifero del 1973, quando per una dozzina d’anni il carovita inanellò tassi di crescita a due cifre.

L’edilizia in panne

Non va meglio per l’edilizia, ferma alla fine degli anni 60, periodo di boom economico, sviluppo urbano e infrastrutturale: gli investimenti nel 2014 non arriveranno a 60 miliardi (stime Ance), come nel 1967. Che il mattone sia in sofferenza lo confermano anche i dati sulle compravendite immobiliari, che nel 2013 (stime Nomisma) sono scese quasi a quota 4oomila, meno del volume totale registrato a metà dei favolosi “anni 80”, quando pe- rò ancora non c’erano cellulari e per le notizie si aspettava il telegiornale.

Le auto e la produzione
E anche le auto guardano nello specchietto retrovisore: le immatricolazioni nel 2013 (1,3 milioni) si sono collocate ai livelli del 1979 (1,4 milioni), anno in cui anche importazioni ed esportazioni peraltro segnavano risultati molto più brillanti degli attuali. Più o meno della stessa lunghezza (quasi trent’anni) i salti indietro compiuti dal reddito disponibile pro capite e dalla produzione industriale: il primo indicatore è bloccato a 17.200 euro, più o meno quanto nel 1986 (l’allarme è stato lanciato pochi giorni fa da Confcommercio), mentre il secondo indicatore – secondo l’indice elaborato da Centro Studi Promotor su dati Istat – è pari a 81,2, non lontano dall’8o, indice anche questo attribuibile al 1986.

Redditi e consumi
“Soltanto” di una ventina d’anni, fino al 1997-’98, arretra invece l’orologio che segna lo stato della ricchezza degli italiani, dei consumi privati, dell’occupazione e del turismo. Infatti la ricchezza netta per famiglia è bloccata sui 350mila euro (elaborazioni Banca d`Italia), i consumi privati finali (sempre per nu- cleo) sono scesi sotto i 2.600 euro al mese rilevati qualche anno prima dell’ingresso dell’euro (importo ricavabile dalle statistiche Istat a prezzi concatenati). È vero, infatti, che il consumatore si è evoluto, cosi come si è ampliata ed è migliorata l’offerta, ma è anche vero che le minori entrate, la pressione fiscale e le incertezze sul futuro lo convincono a non riempire troppo il proprio carrello.

L’Italia jobless
Quanto al lavoro – fonte principale d’incertezza in questi anni di crisi – il tasso di disoccupazione veleggia ormai stabilmente da più di un anno oltre il 12% e nel luglio scorso ha toccato un allarmante 12,6%, con livelli mai raggiunti dal 1977, e appena sfiorati nel 1998. Agli italiani, coscienti della recessione in atto, ma fiduciosi (stando agli ultimi sondaggi) di poterne uscire, non resta che attuare tutte le strategie possibili per adeguare le uscite ai sempre più precari redditi: non per nulla anche sulle vacanze sono disposti a tagliare, per esempio riducendo il numero di giorni in albergo o la durata media dei pernottamenti, mai così bassi da inizio secolo.

Insomma,i salti del gambero sono tanti, troppi. E la crisi in cui si dibatte l’Italia rischia di essere peggiore anche della Grande depressione degli anni 30, quando il Pil pro capite risalì la china in otto anni. Oggi, invece, come ha rilevato Nomisma,«nell’ottavo anno (il 2015) il Prodotto interno lordo pro capite reale sarà un buon 10% sotto il valore pre-crisi».

Norme edilizie, invincibile Babele

Norme edilizie, invincibile Babele

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?

Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’…

Dopo il gelato, l’aspirina

Dopo il gelato, l’aspirina

Fancesco Forte – Il Giornale

Il decreto legge sblocca cantieri che il premier Renzi aveva presentato come una misura per il rilancio della nostra economia, che è entrata in recessione nel secondo trimestre e che, secondo le stime Istat rimarrà allo stesso livello nel terzo, non serve per il rilancio del 2014 e costituisce una mera aspirina per gli anni successivi. I 10 miliardi di nuove spese di investimenti sbandierati dal premier, infatti, ammesso che il decreto si realizzi secondo le previsioni, come al solito, più ottimistiche che realistiche, non darà luogo a lavori nel 2014 e comporterà 3 miliardi di lavori fra il 2015, il 2016 e il 2017, da includere nella legge di stabilità. Gli altri vanno a finire dopo. Tanto che sono piovute critiche dal presidente dei costruttori edili (Ance) Paolo Buzzetti: «Sblocca Italia ha un’ottima impostazione, ma se non ci mettiamo i soldi e non facciamo ripartire le cose perché l’ Europa ci blocca, i problemi restano tutti lì». Insomma, «non si tratta di provvedimenti choc che facciano ripartire l’economia.13,8 miliardi so pochi, ci aspettavamo una botta maggiore su tutto, un impegno maiore».

Non c’è più in questo testo la parte migliore della sua bozza iniziale ossia la proroga e rivitalizzazione della legge obbiettivo, varata da Berlusconi nel 2001 per coinvolgere nel finanziamento delle grandi opere le iniziative private in modo efficiente. Il testo varato dal Consiglio dei ministri (ancora suscettibile di modifiche) è pensato e scritto in burocratese di vecchio stile dirigista. Esso consiste di semplificazioni del dirigismo, non in un nuovo modo di legiferare consono all’economia dei mercati globali. Ci sono due sezioni di questo decreto migliori della media, di ispirazione berlusconiana quella sulle concessioni perla banda larga, che deriva dai progetti di Berlusconi primi ostacolati da lobby monopolistiche nazionali e poi affossati insieme al resto del decreto sullo sviluppo del ministro Romani, dell’autunno 2011, bocciato per ragioni politiche e quella sull’asse ferroviario Napoli-Bari ispirata dalla Regione Campania guidata da Forza ltalia. Per la banda larga, gli investimenti nelle aree in cui occorre l’incentivo pubblico, ora (ci sono le gare per le concessioni alle grandi imprese private, e gli investimenti non inizieranno prima del 2016. 

Grazie al Pd, dunque l’Italia avrà la cablatura elettronica globale solo alla fine di questo decennio anziché all’inizio. Per la Napoli-Bari il governo nomina come Commissario l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato,di fatto in un regime di concessione ispirato alla Legge obbiettivo. Ma,pur con la connessa semplificazione e accelerazione di procedure, il programma sarà operativo solo alla fine del 2015. 

La parte sulla privatizzazione di imprese pubbliche è slittata al futuro, data la contrarietà di Regioni ed enti locali feudo delle sinistre. Sono rimaste le norme sulle nuove competenze della Cassa Depositi e Prestiti e sui «project bond», nuovo strumento finanziario per l`investimento privato/pubblico e sulla privatizzazione di immobili del Demanio militare tutte scritte in tortuoso burocratese.

C’è una parte sullo sblocco della burocrazia nell’edilizia pubblica, molto smagrita per le opposizioni di giustizialisti, ambientalisti, fanatici dell’intervento pubblico nel settore culturale e di fanatici delle regolamentazioni urbanistiche-edilizia. Tutti tabù della vecchia sinistra ex Pci, Pdup e via cantando. Per dare un’idea di questa zavorra basta un comma sulle regole edilizie: «La destinazione di uso di un fabbricato è quella prevalente in termine di superficie utile. Il mutamento di destinazione d’uso all’interno di essa è sempre consentito, salva diversa previsione delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici». Frase gattopardesca sembra che tutto cambi, ma c’è una clausola, (che ho messo in corsivo) per cui tutto resta come prima. Nel complesso, Renzi sino ad ora non ha fatto nulla per farci uscire dalla crisi con nuovi investimenti né per privatizzazioni onde ridurre debito e spesa pubblica, né per l’efficienza dei rapporti di lavoro: la sfida maggiore su cui lo richiamano le frasi recenti di Marchionne.

Il mattone cola a picco

Il mattone cola a picco

Simone Boiocchi – La Padania

C’era una volta il mattone. Bene rifugio per eccellenza dove i piccoli e medi risparmiatori del Paese deponevano non solo le loro speranze, ma anche il loro futuro. Costruire una casa per la propria famiglia era il sogno di tutti e l’obiettivo della vita per ogni genitore. C’era poi il mattone industriale. Quello che serviva ai capitani d’impresa per costruire aziende che davano lavoro al Paese. C’era una volta. Sì, perché la crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi.

Dal punto di vista geografico (come rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat) il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%). Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.

Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili per cui è stato richiesto il permesso di costruire, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna. Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste di permesso per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: -63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese.

«Oltre alla crisi – spiega il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni – sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari, storicamente considerati dagli italiani una forma d’investimento sicuro. Come ha rilevato Confartigianato, tra il 2011 e il 2013 la tassazione è aumentata del 102% e l’introduzione della Tasi potrebbe rappresentare un ulteriore aggravio stimato tra il 12 e il 60%. È chiaro che politiche fiscali di questo tipo finiscono per scoraggiare qualsiasi tipo di investimento nel mattone». Ma il danno rischia di essere ancora più grande. Il blocco del sistema delle costruzioni non rappresenta solo la situazione di stallo del Paese, ma va a ripercuotersi inevitabilmente sui dipendenti e sui lavoratori dell’indotto. Meno permessi per costruire vuol dire meno lavoro. Meno lavoro, meno entrate, più disoccupazione. Una situazione tutt’altro che rassicurante che Renzi e i suoi fanno finta di non vedere. Almeno fino a quando la crisi del settore diventerà l’ennesima crisi del Paese. A quel punto si darà la colpa alla difficile congiuntura economica. Ma intanto non ci sarà più nulla da fare. Come al solito.

Crisi, nessun settore sta pagando quanto l’edilizia

Crisi, nessun settore sta pagando quanto l’edilizia

Giovanna Tomaselli – La Notizia

La crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi. Lo rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat. Dal punto di vista geografico, il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%).
Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.
Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna.
Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: -63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese. Per il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni “oltre alla crisi, sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari”.

Il “miracolo” delle grandi opere

Il “miracolo” delle grandi opere

Valerio Castronovo – Il Sole 24 Ore

Particolari sconti fiscali per le infrastrutture figurano nel decreto legge “Sblocca Italia”, previsto nel Consiglio dei ministri di fine agosto. Le opere pubbliche, insieme all’edilizia, erano le leve su cui faceva affidamento anche lo “Schema” per lo sviluppo del reddito e dell’occupazione (a cui venne dato poi il nome di “Piano”) che il ministro del Bilancio, Ezio Vanoni, mise a punto insieme a Pasquale Saraceno, 60 anni fa, nell’agosto 1954, durante alcuni giorni di vacanza che essi passarono in Valtellina, a Morbegno e in Val Masino.
Ministro del Commercio estero nel 1947, Vanoni aveva svolto un ruolo di rilievo dal 1948 al 1953, quale titolare delle Finanze (a lui si dovevano, fra l’altro, la riforma tributaria e l’istituzione dell’Eni); Saraceno, un veterano dal 1933 dell’Iri (dove dirigeva il Servizio studi), era stato fra i promotori della Svimez e proprio nell’ambito dell’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno (un cenacolo di autorevoli meridionalisti e giovani studiosi di valore) s’era avviato – in coincidenza con la redazione di un documento presentato in aprile all’Oece sulla struttura dualistica dell’economia italiana – un progetto inteso a individuare e valutare quali avrebbero potuto essere i fattori propulsivi per una crescita dell’economia e del lavoro e per la riduzione del divario fra Nord e Sud.

L’annuncio da parte di De Gasperi, in giugno, al Congresso della Dc a Napoli, che Vanoni stava lavorando a un piano in grado di «assicurare a ciascuno un lavoro, una casa, una sussistenza degna di un uomo libero», suscitò naturalmente molte aspettative. Si era ormai esaurita la spinta impressa all’economia italiana dal recupero nel dopoguerra degli impianti non totalmente utilizzati, dalla ripresa fisiologica dell’agricoltura e dagli aiuti straordinari del Piano Marshall; inoltre s’era manifestato un disavanzo complessivo della bilancia commerciale, che registrava saldi attivi soltanto con la Svizzera e la Germania occidentale.
In pratica, lo “Schema” di sviluppo a cui lavorò, sotto la regìa di Vanoni, un gruppo di esperti della Svimez e di consulenti stranieri (tra i quali Paul Rosenstein Rodan e Jan Timbergen) era una sorta di “manifesto”, di disegno di programmazione, per una politica economica di lungo periodo, che assicurasse un efficace coordinamento dei provvedimenti dello Stato e un buon funzionamento del mercato. In sostanza, nell’arco di un decennio ci si proponeva di conseguire tre obiettivi: la creazione di quattro milioni di posti di lavoro nei settori industriale e terziario, che compensassero la riduzione dell’occupazione agricola (destinata a scendere, stando alle previsioni, dal 41 al 33% del totale); il superamento del divario Nord-Sud attraverso la promozione degli investimenti nel comparto industriale; il raggiungimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Affinché tutto ciò si realizzasse, si calcolava che ci sarebbero voluti un tasso di sviluppo medio annuo del 5%, un costante aumento della propensione al risparmio, e un mutamento della ripartizione settoriale e territoriale degli investimenti, sostenuti in particolare dallo Stato e dalle imprese pubbliche.

Approvato alla fine del 1954 dal Governo centrista presieduto da Mario Scelba, questo “Piano” raggiunse, alla fine del decennio, alcuni risultati di rilievo: come, l’aumento di 2,6 milioni di addetti nell’occupazione extra-agricola (sebbene l’esodo dalle campagne fosse stato superiore alle previsioni) e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Inoltre, il varo dello “Schema Vanoni” concorse alla decisione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo di incrementare i suoi prestiti, di cui venne a beneficiare la Cassa del Mezzogiorno.
Tuttavia, furono soprattutto l’aumento della produttività per unità di lavoro e gli effetti dei progressi tecnologici e organizzativi, con le relative economie di scala, nonché l’incipiente espansione della domanda di beni di consumo durevoli, a determinare un salto di qualità, nel giro di pochi anni, rispetto all’idea di un’evoluzione assai più graduale in cui s’imperniava il Piano Vanoni. D’altra parte, agì da acceleratore l’adesione dell’Italia nel marzo 1957 alla Comunità economica europea e, quindi, l’impegno per una progressiva liberalizzazione degli scambi. Sta di fatto che mano pubblica e mano privata posero, ognuna per la propria parte, le basi del “miracolo economico”.

Edilizia, la crisi ha dimezzato i permessi di costruire

Edilizia, la crisi ha dimezzato i permessi di costruire

SINTESI DEL PAPER

La crisi economica ha avuto sul settore dell’edilizia un impatto che non ha eguali in altri settori economici: lo dimostra il fatto che i permessi rilasciati nel Paese nel 2012 per la costruzione di nuovi edifici residenziali sono stati praticamente la metà di quelli del 2007, ultimo anno pre-crisi. Lo rivela uno studio di “ImpresaLavoro”, elaborato sulla base di dati Istat e disponibile online all’indirizzo http://impresalavoro.org/edilizia-crisi-dimezza-i-permessi-costruire/
Dal punto di vista geografico, il danno più contenuto l’ha fatto registrare il Trentino Alto Adige con un calo di “appena” il 18,3%. Molto negativi, al contrario, sono i dati registrati in Lombardia (-52,6%), nel Lazio (-53,9%), in Toscana (-60,2%) e soprattutto in Emilia-Romagna, dove i permessi rilasciati nel 2012 sono meno di un terzo di quelli utilizzati nei livelli pre-crisi (-67,2%).
Si tratta di un arretramento che non ha che fare soltanto con la difficoltà del settore immobiliare residenziale ma che è generato anche dalle complessive difficoltà economiche del sistema-Paese. A subire una contrazione decisa rispetto i livelli pre-crisi sono, infatti, anche i permessi di costruzione rilasciati per immobili non residenziali. Questi sono complessivamente diminuiti del -33,8%.
Analizzando i singoli settori di attività, desumibili attraverso la destinazione d’uso degli immobili per cui è stato richiesto il permesso di costruire, si osserva una sostanziale tenuta solo nel settore dell’agricoltura, nel quale i permessi di costruzione nel 2012 sono calati “soltanto” del -12,9% rispetto ai livelli pre-crisi, con le regioni del Nord che hanno fatto segnare un confortante segno positivo, trainate in particolare da Piemonte ed Emilia Romagna. Particolarmente negativo risulta invece il dato relativo alle richieste di permesso per la costruzione di immobili destinati all’industria e all’artigianato. Qui il calo rispetto al 2007 è stato addirittura più consistente del comparto residenziale: – 63,7%, con un’omogeneità territoriale che non risparmia le tradizionali locomotive produttive del Paese.
Il presidente di “ImpresaLavoro” Massimo Blasoni osserva che «oltre alla crisi, sul dato pesano anche fattori negativi esterni: su tutti una politica fiscale che in questi anni ha fortemente penalizzato gli investimenti immobiliari, storicamente considerati dagli italiani una forma di investimento sicuro. Come ha rilevato Confartigianato, tra il 2011 e il 2013 la tassazione è aumentata del 102% e l’introduzione della Tasi potrebbe rappresentare un ulteriore aggravio stimato tra il 12 e il 60%. È chiaro che politiche fiscali di questo tipo finiscono per scoraggiare qualsiasi tipo di investimento nel mattone».
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Edilizia, la crisi dimezza i permessi di costruire – Paper“.
Rassegna stampa:
La Padania
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