edoardo narduzzi

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Renzi liberi l’Inps dai sindacati e sblocchi 736 miliardi per fare il Pil

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Alla fine di settembre scade il mandato di Vittorio Conti, commissario dell’Inps a termine nominato da un già defunto governo Letta. Sei mesi di surplace sono però troppi per il più grande ente previdenziale dell’Unione europea che annualmente movimenta, tra entrate e uscite, flussi finanziari per 763 miliardi. L’Inps merita una strategia e una visione alta in un paese che ha perso il 10% del suo Pil e che registra mensilmente record negativi in serie nella sua disoccupazione. L’Inps non può permettersi di galleggiare o di avere poca ambizione. L’istituto ha il dovere di essere un motore dello sviluppo e della politica economica italiana gestendo e mobilitando al meglio le sue cospicue risorse. Non può permettersi di investire male e neppure di investire solo in Btp.

Archiviata la stagione della parole in libertà della gestione Mastrapasqua, quando si vagheggiava dell’Inps come nuova casa del welfare, adesso il governo Renzi è chiamato a cambiare passo. Non tanto e, soprattutto, non solo in materia di governance dell’ente. Fatto sicuramente importante, ma l’Inps non può più permettersi di essere solo oggetto di dibattito sui ruoli e sulle deleghe di chi lo gestisce. Un paese contestualmente in deflazione e in recessione è obbligato a chiedere molto di più alla strategia del suo più importante intermediario finanziario. Come? Innanzitutto il Premier deve affrontare il capitolo Inps con la stessa determinazione con la quale ha rifiutato di partecipare al congresso della Cgil e alla passerella di Cernobbio. Renzi, nel fare le nuove nomine all’Inps, deve prendere tutti in contropiede puntando a disboscare la foresta pietrificata sindacale che da sempre, di fatto, governa l’istituto. L’Inps deve rendere conto ai sindacati di come opera, ma non essere gestito dai delegati dei sindacati in ogni articolazione della sua organizzazione. Poi, Renzi deve scegliere per l’Inps un profilo tecnico effettivamente qualificato in materia previdenziale e pensionistica anche integrative. Non un ex ministro o un politico trombato ma una figura stimata nella materia in campo internazionale e a livello comunitario. In Italia qualche profilo appropriato ancora c’è, anche se, magari, non ha frequentato la Leopolda. Infine, serve qualcuno in grado di lavorare a stretto contatto con il ministro Padoan, che ne parli lo stesso linguaggio, visto che l’Inps rappresenta la componente più importante del bilancio pubblico.

La nomina del prossimo presidente dell’Inps è uno snodo chiave della strategia di politica economica di Renzi. Scegliendo la persona giusta può dare, contestualmente, tanti positivi segnali nella direzione giusta della rottamazione creativa e aiutare il Pil made in Italy a rimettersi in marcia.

Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Il mercato del lavoro per decollare ha bisogno di maggiore flessibilità

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Travolti dalla messe di notizie economiche negative, deflazione per la prima volta dal 1959, recessione, rialzo della disoccupazione, calo delle entrate fiscali, diminuzione della produzione industriale, gli italiani e il dibattito che ne accompagna la giornata hanno perso di vista la principale criticità della loro non soddisfacente situazione. La stagnazione della produttività dei fattori produttivi, cioè la cartina di tornasole della scarsa competitività globale del Belpaese. Ed è curioso che, pur discettando quasi quotidianamente di Jobs Act e di riforma del mercato del lavoro, mai o quasi viene sottolineato il fatto che si tratta di una riforma che dovrebbe favorire, prima di tutto, la crescita della produttività. Perché l’Italia abbia il tasso di produttività tra i peggiori dei paesi Ocse è cosa nota: la rigidità in uscita dal mercato del lavoro disincentiva gli investimenti in nuove tecnologie perché troppo costosa è la riconversione a queste da parte del capitale umano più anziano; la rigidità in uscita dal mercato del lavoro produce un effetto «ClubMed», soprattutto nelle organizzazioni più sindacalizzate e pubbliche, col quale la rilassatezza derivata dalla sicurezza occupazionale prevale sulla necessità di dover fare ogni giorno meglio per garantirsi il lavoro; la rigidità del mercato del lavoro rende, poi, nei fatti impossibili le ristrutturazioni e le riorganizzazioni radicali finalizzate, quasi sempre, a recuperare competitività e produttività.

L’Italia ha scelto una disciplina dei contratti di lavoro che poco si sposa con l’anima più profonda del capitalismo, quella che spinge verso la crescita e il continuo miglioramento della produttività. Un mercato deve essere rischioso e anche un po’ ingiusto, nel senso che non deve offrire polizze assicurative implicite totali a chi vi lavora e non deve mirare a conseguire utopistiche situazioni di giustizia sociale. Utopistiche perché è ingiusto comunque condannare le coorti più giovani alla disoccupazione di massa per garantire diritti antiproduttività a quelle più anziane. Nella globalizzazione il mercato del lavoro è stato standardizzato nella propensione al rischio e nel livello di giustizia ritenuto ottimale soprattutto dalle decisioni del partito comunista cinese. Pechino è il principale motore della trasformazione in corso e i comunisti asiatici non amano eccessi di protezione dei lavoratori. In Cina il mantra è la crescita e nessun dirigente si sogna, pur dichiarandosi ancora marxista-leninista, di proporre un mercato del lavoro all’italiana. Perché per crescere nella contemporaneità servono moderate protezioni e un qualche livello di potenziale ingiustizia a danno dei lavoratori. Lo dicono i comunisti, cioè quelli che governano nell’esclusivo interesse dei lavoratori, non sono i Chicago boys a fare questa predica.

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

La scure del Pil incombe sull’autunno dell’esecutivo

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

I fatti iniziano a farsi sempre più chiari. Le due anomalie che l’Italia rappresenta, quella di essere l’unico paese dell’eurozona in recessione e quella di incarnare l’unica economia che al terzo anno di tentate riforme non riesce in alcun modo a far ripartire la crescita e il pil, stanno per arrivare al pettine. Mario Draghi ha parlato da Jackson Hole e ha detto chiaramente che senza le riforme che l’Italia rinvia dal 2011, in primis quella per rendere più efficiente il mercato del lavoro, la Bce non potrà fare molto di più di quanto ha già fatto. Un messaggio chiaro a Matteo Renzi che continua a chiedere una flessibilità che nessuno può concedergli a priori. Anche perché il trimestre in corso sarà chiave per l’Italia. Se, anche in conseguenza di una pessima estate climatica e conseguentemente di una fiacca stagione turistica, il pil di luglio-settembre dovesse registrare un nuovo dato negativo, allora la faccenda per Renzi e per il Belpaese si farebbe davvero grave. Non tanto e non solo perché sarebbe già acquisito a quel punto per il 2014 un calo della ricchezza nazionale dello 0,4-0,5%, con tutto quello che significa in termini di occupazione ed entrate fiscali, ma perché l’Italia diventerebbe automaticamente portatrice di una ulteriore anomalia dell’eurozona: l’unica economia a subire l’ennesimo downgrade da parte della agenzie di rating mentre gli altri paesi registrano promozioni nei giudizi. Se, infatti, il pil scendesse ancora nel trimestre in corso per Moody’s&Co.diventerebbe normale capire se il rating dell’Italia possa essere o meno confermato. Un paese in recessione da tre trimestri, con una disoccupazione giovanile monstre e indebolito da una strisciante deflazione è oggettivamente a rischio di downgrade. Ma per l’Italia perdere un notch, questa volta, equivarrebbe a spalancare le porte di Roma all’arrivo della troika.

Lo spartiacque della crisi stavolta corre lungo gli effetti che i dati a consuntivo del pil del terzo trimestre potranno produrre. Un altro quarter a crescita negativa e la secchiata gelata potrebbe investire il governo Renzi e la sua autonomia di manovra.

Del resto, è stato Renzi a precipitarsi nella villa umbra di Draghi per un confronto sulla situazione e per capire che margini di manovra in assenza delle riforme non ne esistono più. Se è presumibile che la troika sia già a Bolzano, allora al Premier non rimane che un’ultima via di fuga dal commissariamento: scongiurare un nuovo trimestre di pil negativo. Ma la confusione nel dibattito politico italiano e l’assenza di un chiaro programma riformista e di un calendario per attuarlo, certamente non aiutano l’Italia a guadagnare punti con le agenzie di rating. E a Renzi di respingere oltre il Brennero la temuta troika.

La nostra burocrazia è già fallita

La nostra burocrazia è già fallita

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

Le recessioni non vanno mai sprecate perché sono una formidabile occasione per riformare. Ma le recessioni sono anche uno choc che mette a nudo le debolezze di un sistema. Nelle situazioni normali o tranquille, quando la barca galleggia, debolezze e criticità restano nascoste. Poi, quando il ciclo economico volge al brutto, tutto viene a galla. È quanto è successo al sistema Italia con la peggiore recessione dal secondo Dopoguerra. Una crisi profonda che ha fatto sparire il 10 per cento del Pil e azzerato le capacità di crescita di un Paese incatenato alle politiche economiche di sempre: più tasse, più imposte, più tributi. Perché non si vuole vedere negli occhi la verità della crisi italiana. E la verità è, invece, chiarissima: è bastata una recessione con la erre maiuscola per certificare quello che tutti sapevano della Pubblica amministrazione italiana. Che è un postificio costruito con decenni di lottizzazione a vantagio dei partiti e dei sindacati, sulla pelle delle imprese e dei cittadini che competono nel mercato globale. Una macchina senza alcuna produttività che è stata messa facilmente knock out dal iù lungo ciclo negativo dal 1929.

Sarebbero circa 800 le norme varate dagli esecutivi Monti e Letta ancora in attesa di attuazione da parte della Pa. Norme pensate per attirare politiche antcicliche, quindi pro sviluppo, che una amministrazione terzomondista, del tutto irresponsabile per quello che non fa e per i danni che arreca al Paese, ha lasciato marcire nei suoi cassetti ministeriali. Si possono fare decine di esempi di norme abbandonate sulla Gazzetta ufficiale e mai diventate operative. Mancano i decreti amministrativi di attuazioni o le circolari ministeriali. Le recessione vera ha messo alle corde la burocrazia italiana, il vero spread con il resto dell’Eurozona che condanna il Pil alla stagnazione. Il monopolio di una cultura giuridica formale totalmente sganciata dalla logica del risultato da conseguire è alla base di questo autentico default sistemico. Del resto, come poteva essere altrimenti. Per decenni la Pa è stata militarmente occupata dalla non-meritocrazia. Monopolizzata dalle assunzioni familiari, sindacali, politiche, particolari, così è diventata un abnorme strumento para-keynesiano per dare finta occupazione agli amici e ai protetti. I processi sono diventati una eventualità e la qualità dei servizi da erogare a cittadini e imprese un’estrazione del lotto.

Il sistema burocratico italiano era già fallito negli anni Novanta, ma la capacità dell’economia di produrre un minimo di crescita nascondeva questa realtà. L’ultima recessione ha tolto la maschera alla Pa: una truppa di giuristi fanatici dei bollini, dei timbri, delle firme e della carta. Una realtà migliaia di chilometri distante dalla Googleconomics, 45 giorni a far diventare operativa una piattaforma informatica che è stata partorita ben 26 mesi dopo la norma che la concepiva, il dl “Cresci Italia” del giugno 2012. Così nulla è salvabile, non esiste nessun eccezionalismo imprenditoriale italiano che può farsi carico di un tale fardello.

Cosa fare? In tempi non sospetti, negli ani Sessanta del boom economico, uno dei più formidabili matematici che l’Italia del Novecento ha avuto, Bruno de Finetti, proponeva di fare una bad company della Pubblica amministrazione per riformarla ex novo. Ed erano anni nei quali la burocrazia italiana, rispetto a quella contemporanea, era un gioiello. Nel suo scritto del 1962 intitolato “Sull’opportunità di perfezionamenti e di estensione di funzioni dei servizi anagrafici”, il padre delle tavole di mortalità ancora oggi utilizzate dall’Istat invitava a utilizzare le nuove tecnologie dell’epoca per rivoluzionare i processi burocratici.

«Gioverebbe ben poco dotare di mezzi migliori il servizio anagrafico se esso continuasse a essere concepito come fine a se stesso, capace di comunicare con altri solo tramite la fabbricazione di tonnellate di certificati, di cui ogni mentecatto burocrate o legislatore può obbligare i concittadini a munirsi per ogni futile motivo», e invitava a realizzare quella che oggi chiameremmo una Pubblica amministrazione orientata a erogare servizi in maniera univoca e da un unico punto per tutti.

Rottamare in toto la Pa direbbe Renzi oggi, per rifondarne una nuova su nuove regole e con una nuova cultura. Ora, inevitabilmente, servono decisioni mai viste prima. Il premier David Cameron nel Regno Unito ha avuto il coraggio di licenziare 500mila dipendenti pubblici e ora il suo Pil corre al più 3,1 per cento. In Italia nulla si taglia, nulla si riforma e il Pil resta fermo a zero. Del resto alternative non ce ne sono: o si rivoluziona la Pa oppure la burocrazia ci porta al default.

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

L’Italia è come l’URSS, solo un collasso potrà trasformarla

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Il premier si era illuso di poter sistemare il ciclo economico mettendo in tasca agli italiani con redditi medio-bassi 80 euro in più al mese. Ma, quando le aspettative volgono verso la deflazione, non sono gli stimoli di questo tipo, come insegna bene il Giappone, a fare la differenza. Se dopodomani o tra un mese, grazie alla deflazione, potrò comprare a prezzi migliori, allora non spendo oggi ma rinvio la decisione. Matteo Renzi con gli 80 euro ha vinto le elezioni europee ma ha anche, inconsapevolmente, attivato un pericoloso moltiplicatore della deflazione. E adesso con il pil inchiodato in area 0% di crescita e la Bce che non stamperà moneta per venire incontro al problema della deflazione italica, Renzi deve iniziare a occuparsi delle riforme che i mercati e gli investitori si attendono e a breve: mercato del lavoro e art.18; liberalizzazioni delle municipalizzate; abbattimento del cuneo fiscale per rilanciare l’occupazione; una vera e seria spending review; tagliadebito.

Ora l’Italia e i suoi Btp sono ancora una volta nel mirino della speculazione e delle tastiere dei trader internazionali, proprio come nell’estate del 2011. Con due differenze importanti: che stavolta sotto attacco ci sarà solo l’irriformabile Italia e che lo spread non dovrà più schizzare a quota 500 per metterci in ginocchio. Già in area 230/240 scatterà l’allarme rosso che segnalerà i 100 punti base di differenza tra i Bonos di Madrid e i Btp.

Insomma la situazione è molto critica. Soprattutto perché l’Italia dei governi a ripetizione, nessun paese dell’eurozona in crisi ha cambiato quattro governi dal luglio 2011 a oggi come il Belpaese, segnala al resto del mondo che non è riformabile. L’Italia, vista da Londra o da Singapore, appare come un clone dell’Urss. Un sistema pieno zeppo di rendite, più o meno privilegiate, che si sono divorate il bene comune e l’interesse nazionale e che sono più forti, nel loro essere lobby, di qualsiasi tentativo riformista. Le palesi e pubbliche contestazioni dei dipendenti della camera al loro presidente, reo di aver deciso un tetto di 240 mila euro lordi (più i contributi pensionistici dell’8,8%) alla retribuzione, sono l’immagine più plastica della resistenza delle rendite al cambiamento. Un burocrate che ha vinto un concorso e che già guadagna molto di più del governatore della Fed Usa, Janet Yellen, trova ingiustificato che il suo stipendio venga equiparato a quello del presidente della repubblica. Come ai tempi dell’Urss, quando la nomenklatura aveva ogni diritto sulle tasse e i beni altrui. E allora, al pari dell’Urss, solo un collasso sistemico, uno shock esterno definitivo, potrà far arrivare l’Italia nella terra promessa delle riforme. Il percorso poteva essere meno traumatico, ma adesso è bene prepararsi al terremoto.

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida «Al lupo! Al lupo!» per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili. L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari. Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda.

I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia e il motivo fiscale è solo uno dei tanti. Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di Dabid Cameron, che ha per ben due volte ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga. Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbero essere gestiti. Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con una macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti. La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue. Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore. In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione. L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business.

Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale. Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

P.A., il problema non è la corruzione. E’ che costa troppo e produce carta

Edoardo Narduzzi – Italia Oggi

Le denunce generiche dovrebbero essere sempre bandite dalle relazioni di chi occupa ruoli istituzionali. Non aiutano a migliorare i problemi e fanno calare una cappa di negatività sull’intero marchio Italia. Se poi il richiamo alla «corruzione che è ovunque» viene addirittura dal procuratore generale della Corte dei conti, allora c’è davvero da rimanere disorientati. Non perché la corruzione nella pubblica amministrazione non esista, peraltro non è certo un fenomeno originale degli ultimi tempi, o non sia il problema, ma perché, nonostante tutto quello che si possa pensare, non è questo il principale problema della Pa italica. Operando da anni nel libero mercato del Belpaese posso confessare che non ho mai ricevuto richieste non legali dai funzionari pubblici delle molte e diverse amministrazioni incrociate sul campo del fare. Perciò, sparare nel mucchio della corruzione generalizzata e sistematica equivale a dare dell’Italia una rappresentazione domestica e soprattutto internazionale ingiusta e non veritiera. Se poi la situazione fosse così sideralmente distante dall’Eurozona, rimane sempre da capire per quale strana ragione la Corte dei conti più costosa dell’Ue non abbia saputo far nulla nel corso degli anni per ridurre un fenomeno tanto abnorme. Poteri di azione e risorse per agire, ripetiamo si tratta della Corte dei conti che costa di più ai contribuenti che la mantengono, non dovrebbero mancare. Il principale problema della Pa italiana, quello che zavorra il nostro Pil e che culturalmente ci condanna a essere europei di serie B, è la sua incapacità di conseguire risultati operativi nei tempi e con gli stessi costi medi che ci sono a Vienna, Berlino o Bruxelles. Se per liquidare un progetto di ricerca il Mise e le imprese di cui si avvale impiegano temporalmente fino a dieci volte di più dell’analoga istituzione di Helsinki, il problema non è la corruzione ma il fatto che la macchina amministrativa agisce su un binario morto. Produce carta fine a se stessa. Dieci anni dopo la nascita dell’euro la Pa italiana rimane anni luce distante dai processi amministrativi tedeschi od olandesi. È una zavorra organizzativa incatenata nel fare da un monopolio giuridico-formale che nulla riesce a produrre nei tempi e nei modi che la globalizzazione richiede. Il burocrate non fa perché ha sempre pronta la scusa per bloccare tutto: «Se agisco in maniera diversa, magari più spedita poi la Corte dei conti potrebbe chiamarmi in giudizio». È lì, nel pericolo potenziale dell’azione della Corte dei conti, che si consuma il declino italiano: fatto di una Pa costosa e per nulla capace di assecondare la modernità del business. Magari fosse tutto riconducibile alla sola corruzione.