enrico cisnetto

La crisi non è finita, va cambiato il passo

La crisi non è finita, va cambiato il passo

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Stiamo per archiviare il 2014 come il settimo anno di crisi. Se, come sembra, la ca- duta del pil sarà a consuntivo di quattro decimi di punto, dal 2008 – con 19 trimestri su 28 di pil in rosso – avremo perso 10,1 punti di ricchezza nazionale, circa 160 miliardi. Se poi si considera il pil potenziale (che misura non quanto si cresce ma quanto si potrebbe crescere in base alle proprie potenzialità) rispetto alle dinamiche pre-crisi è più basso del 12,6%. Un disa- stro che, Grecia a parte, non è toccato a nessun’altro paese. Pensate che si tratta del periodo più lungo di crisi economica che l’Italia abbia mai avuto, considerato che persino durante la seconda guerra mondiale il periodo di contrazione del pil è durato 4 anni (certo, la perdita di ricchezza è stata 4 volte tanto, ma vorrei vedere…) e altrettanti anni ci sono voluti per tornare ai valori antecedenti al crollo.

Ora si calcola che dovremo arrivare al 2026 per recuperare la ricchezza perduta. E speriamo che siano previsioni giuste, visto che, per esempio, l’anno scorso di questi tempi il Fondo Monetario prevedeva per il 2014 una crescita dello 0,6% (l’errore è di un punto, visto che perdiamo lo 0,4%, e non è poco) e per il 2015 un rincuorante +1,1%, mentre a ottobre ha corretto a +0,8% la stima per l’anno prossimo. Peccato che la più recente valutazione sia quella dell’Ocse che non ci concede niente di più che due decimi di punto di crescita, quattro in meno di quel +0,6% su cui si reggono i conti del governo.

Siamo di fronte ad un cambiamento epocale, che ci costringerà a vivere in modo diverso da quanto è stato fin qui. Non dico peggio, dico diverso. Non potremo trovare più i livelli di consumo di prima – ben al di sopra delle nostre possibilità, come certifica il livello del debito pubblico – gli stili di vita, le dinamiche sociali, i sistemi di welfare, i comportamenti e le abitudini personali e collettive dovranno per forza cambiare. Ci piaccia o meno, sarà così. Con una differenza fondamentale, però, a seconda del nostro grado consapevolezza. Cioè, se capiremo ciò che è avvenuto, sta avvenendo e avverrà e ci organizzeremo per rimodularci di conseguenza – perdendo ogni velleità di voler difendere ciò che non c’è già più o che comunque non potrà più esserci – allora sarà dura lo stesso ma il passaggio risulterà molto, molto meno doloroso. Anche perché spazi per reinventarci ci sono, volendo. Se, al contrario, faticheremo a renderci conto o, peggio, punteremo i piedi per tentare di fermare il corso delle cose, allora il prezzo da pagare sarà davvero alto. Finora, purtroppo, abbiamo battuto la seconda strada. Per colpa di una classe dirigente (non solo politica) che invece di dire la verità al Paese – per ignavia, ma anche per vasta ignoranza – ha raccontato frottole. Ora basta.

Meno di due mesi

Meno di due mesi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Mancano meno di due mesi, anzi sei settimane tolte le feste di Natale, alla fine del semestre europeo a guida italiana. Il rischio è che il periodo si chiuda senza che abbia lasciato traccia alcuna. Nello stesso tempo, lo scontro che si è aperto con la Commissione europea – esplicito quello con Juncker, sotterraneo ma non meno duro quello con altri commissari, cui occorre aggiungere l’ostilità di molta della burocrazia di Bruxelles – e la distanza sempre più larga che ci separa dai tedeschi, vuoi per visioni divergenti vuoi per le diverse sensibilità personali, non rafforza la posizione dell’Italia in un momento in cui la nostra politica di bilancio deve passare il vaglio europeo e le grandi partite in corso nell’Eurozona e nel mondo richiedono più che mai credibilità e capacita negoziale.

Per carità, l’eurosistema è un legno storto, una delle costruzioni istituzionali più imperfette al mondo. E può darsi che vada a schiantarsi (le possibilità non sono poche), forse per implosione – specie se a qualcuno dovesse venire in mente di impedire a Mario Draghi di portare a termine il suo disegno di politica monetaria espansiva – forse perché la finanza mondiale, dominata ancora da Wall Street e dalle grandi banche americane, rischia di propinarci un remake del 2008. Sta di fatto, però, che una nostra debolezza nel contesto europeo – che si aggiunge a quella strutturale della nostra economia – ci rende oltremodo fragili proprio mentre sarebbe necessario il contrario. Renzi deve capirlo: in Europa non è come a casa, dove la logica “molti nemici, molto consenso” funziona. Lì devi difendere i tuoi interessi – sapendo bene quali sono, perché non sempre ne siamo consapevoli – esercitando la leadership, cioè usando il carisma e facendo lobby. Il che avviene solo se metti l’empatia al servizio di dossier ben preparati e ben studiati. E non sbagli valutazione sulle possibili alleanze (credere che Hollande ci avrebbe fatto da spalla contro l’austerità di stampo tedesco è stata una evitabile sciocchezza).

L’esempio più clamoroso e fresco di asimmetria europea è quello del credito. Oggi si stanno ponendo le basi per realizzare l’Unione bancaria, cioè la prima integrazione importante dopo quella monetaria, e sbagliare mosse significa un indebolimento permanente di una struttura portante del sistema economico. Le regole con cui si sono fatti gli esami alle banche e si eserciterà la vigilanza in futuro non sono fastidiosi dettagli tecnici che interessano ai banchieri, ma decidono su chi conterà nel sistema creditizio europeo – e quindi mondiale, proprio ora che il Financial Stability Board si appresta a presentare al prossimo G20 di Brisbane la proposta di aumentare ancora i requisiti di capitale per gli istituti cosiddetti “globalmente sistemici” – ed essersene disinteressati, come hanno fatto gli ultimi governi italiani, è colpa grave. Così come occuparsi, sia come governo nazionale che in sede comunitaria, del Ttip, il partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti da cui dipendono le sorti del nostro comparto manifatturiero, non è una noiosa perdita di tempo, ma un impegno di governo fondamentale (anche se non spendibile mediaticamente).

Ma ovviamente, in prima battuta gli interessi da salvaguardare a Bruxelles sono quelli della nostra politica economica. Cosa che richiede anche il battere i pugni sul tavolo – senza farlo sapere, altrimenti chiamasi mossa elettorale finalizzata a prosciugare la pozza di anti europeismo in cui sguazzano i Grillo e i Salvini – ma soprattutto presuppone di aver fatto con diligenza i compiti a casa. Evitando, per esempio, di dire bugie che hanno le gambe corte. Quali? Le poste del bilancio. Per dirne una. Se domani Juncker ci scrivesse una lettera chiedendo come mai nella legge di stabilità abbiamo messo alla voce “recupero di evasione fiscale” 3,4 miliardi per il 2015 quando quest’anno il gettito da lotta all’evasione sarà meno di un terzo (lo stesso ministero dell’Economia ha annunciato come nei primi nove mesi sia stato di 760 milioni), cosa potremmo rispondergli? Che triplichiamo il recupero di evasione perché abbiamo ingaggiato dei veggenti? Che faremo l’ennesimo condono fiscale? Che faremo rientrare i capitali un’altra volta? Oppure, confessiamo la verità, ammettendo che quella cifra, così come quella relativa alla spending review è dilatata per far quadrare i conti?

Insomma, c’è poco tempo per imbracciare il coraggio e la saggezza: non solo perché tra 45 giorni finisce il nostro semestre e perdiamo un’arma utile, ma perché in primavera si rifaranno i conti e se non torneranno scatteranno le clausole di salvaguardia – su cui ora è stato deciso l’assenso della Ue alla manovra – le cui conseguenze saranno, specie dal punto di vista della pressione fiscale per imprese e persone, micidiali. E a rifare i conti non sarà solo Bruxelles, ma anche i mercati finanziari, che si sono messi in stand-by in attesa di dare una nuova zampata ai nostri titoli di stato e all’euro. E questa volta, rispetto a quella del 2011, sarà mortale.

Can che abbaia

Can che abbaia

Enrico Cisnetto – Il Foglio

In Europa abbiamo perso 2-0. Ora non commettiamo l’errore di far finta che non sia così, altrimenti sarà impossibile metterci rimedio e continueremo a perdere. Di quale partita sto parlando? Di quella che misura il peso specifico dell’Italia nell’eurosistema. In particolare, i due gol li abbiamo beccati sul terreno del nostro potere decisionale sulle politiche di bilancio e su quello del sistema bancario e gli obblighi che è costretto a contrarre.

Che il primo sia un gol a tutti gli effetti lo ha certificato un arbitro di vaglia come Jean-Paul Fitoussi: Italia e Francia non hanno affatto rotto gli schemi di gioco di Bruxelles, anzi, si sono fatte imporre i vincoli europei molto più di quanto abbiano raccontato ai propri cittadini. E non è tanto o solo questione di numeri. Infatti, che la correzione dei conti rispetto al mezzo punto percentuale previsto dall’Europa sia stata dello 0,33 come dice il Tesoro o dello 0,38 come sostiene chi ha rifatto i calcoli, poco cambia: 17 o 12 decimi di punto che sia, non siamo certo di fronte non dico a una rottura, ma neppure a una significativa presa di posizione. Non abbiamo detto, come pure i francesi: noi facciamo così, poi ne riparliamo. O meglio, questo abbiamo raccontato in casa di averlo detto, per mostrare muscoli che in realtà non abbiamo o che comunque non usiamo oltre confine. Al contrario, abbiamo negoziato per ridimensionare una forzatura che già era meno importante di quanto non fosse stato fatte immaginare con le solite slide, e che strada facendo è diventata ancor meno significativa. Alla fine lo scarto sul deficit programmato è troppo per passare inosservato e poco per determinare un cambio di linea, rispetto a quella a marchio tedesco dell’austerità.

Ma proprio perché abbiamo provocato – il cane che abbaia dà fastidio anche se non morde – è arrivato il secondo gol: le bocciature agli stress test bancari. Nove banche sulle 25 mandate in purgatorio, 4 (poi scese a 2) su 13 quelle bocciate, significa che è stato acclarato che un terzo dei problemi del sistema bancario europeo è tricolore. Possibile? Ragionevolmente no. A parte le considerazioni da me svolte in questa sede venerdì scorso sull’inopportunità di procedere a un pubblico lavacro di questo genere quando nel sistema finanziario mondiale ci sono problemi di ben maggiore portata e pericolosità (oggi nel mondo c’è il 25 per cento in più della massa di derivati esistenti nel 2008 al momento della scoppio della grande crisi) e quando sarebbe stato sufficiente ricorrere a una più silenziosa ma ben più efficace azione di moral suasion, basta mettere in fila alcune questioni per capire che l’operazione stress test richiedeva ben altra attenzione e attività lobbistica da parte del governo di Roma.

Quali? Prima di tutto il trattamento concesso alla Germania: le casse dei Lander non erano tra le 131 banche europee esaminate, non ha importato a nessuno che il 70 per cento degli attivi degli istituti tedeschi sia relativo a rischi finanziari (per quelli italiani è circa il 40 per cento) e solo il rimanente riguardi impieghi rivolti a imprese e famiglie, ma soprattutto non si è tenuto per nulla conto dei 250 miliardi spesi a sostegno del sistema bancario tedesco dal 2008 a oggi. A fronte, per esempio, del quasi nulla (i bond dati al Paschi, per di più al tasso usuraio del 9 per cento, e già quasi del tutto restituiti) dato dall’Italia alle sue banche. Se poi a questo si aggiungono le diverse modalità di giudizio usate, sapendo che il patrimonio dipende da come lo calcoli (se fossero stati usati i dati 2014 anziché quelli dell’anno precedente, Mps e Carige non sarebbero state bocciate) e a quali elementi lo parametri, ecco che ne esce un quadro di disparità in cui come minimo c’è disparità di trattamento tra nord e sud dell’Europa, se non proprio un trattamento specifico per l’Italia.

Di fronte a queste considerazioni, che era possibile fare da tempo se solo si fosse posta un po’ di attenzione a un tema così delicato, forse avremmo potuto far presente le buone ragioni italiane, e se del caso anche alzare la voce. Anche perché, siccome tutta questa “ammuina” è stata fatta per arrivare al (lodevole) obiettivo del mercato bancario unico europeo, una volta fatta l’integrazione poi non si può più tornare indietro. Qualcuno faccia il calcolo di cosa ci è costata la pazza idea di cedere a Londra il controllo di Piazza Affari, e poi ne parliamo.

Insomma, la vicenda delle banche non è cosa che riguardi solo loro, i loro azionisti e obbligazionisti – che già sarebbe un buon motivo per occuparsene – e neppure solo dei loro clienti – che sarebbe motivo di preoccupazione – ma riguarda l’intero sistema economico. Tanto più in un paese dove il cavallo dell’economia non beve da sette anni. Dunque, non era il caso di aprire un fronte con la signora Merkel anche su questo tema? Trasparenza per trasparenza, possiamo sapere cosa hanno fatto i signori del Tesoro in questa circostanza? Magari stamattina il ministro Padoan alla giornata del risparmio officiata dall’Acri ce lo potrebbe raccontare. Magari.

Stress test

Stress test

Enrico Cisnetto – Il Foglio

La Banca dei Regolamenti internazionali ha calcolato che attualmente nel mondo ci sono derivati per 710 trilioni di dollari, oltre 9 volte l’ammontare del pil planetario, di cui circa 300 allocati nelle prime cinque banche americane (quelle “too big to fail”). Se si pensa che nel 2007, subito prima che a partire dallo scoppio della bolla dei mutui subprime Usa si innescasse la grande crisi finanziaria mondiale, l’ammontare di questo tipo di strumenti era di 530 trilioni di dollari, e che solo due anni fa era meno di 470 trilioni di dollari, questo dà la misura del grado di pericolo che tutti noi corriamo di ritrovarci nel pieno di una bufera finanziaria epocale, con in più l’aggravante di non aver ancora smaltito, specie in Europa – e in Italia in particolare – le conseguenze, soprattutto recessive e deflattive, della crisi precedente. Naturalmente, questi numeri indicano il valore nominale dei derivati in circolazione, mentre il rischio sottostante è inferiore. Ma è altrettanto vero che essendoci oggi il 25 per cento in più di questi strumenti rispetto al 2007, il pericolo non può che essere aumentato.

Dico questo non per menar gramo, ma per misurare la distanza siderale che c’è tra il rigore dei controlli sulle banche europee che in queste ore, con gli stress test del duo Bce-Eba, stanno facendo tremare i polsi di molti banchieri – e che dovrebbero fare lo stesso effetto agli uomini di governo, se solo avessero contezza della minaccia sistemica che pende sui loro paesi – e l’allegra spensieratezza che, specie oltreoceano, spinge i grandi istituti all’azzardo senza che nessuno intervenga. E già, perché queste verifiche sulla congruità patrimoniale delle banche – che tra l’altro ha generato una speculazione borsistica (e non solo) sugli esiti dei test che definire scandalosa è poco – sono state costruite all’insegna della più assoluta intransigenza, mentre nessun organismo, né nazionale né sovranazionale, ha aperto bocca di fronte al fenomeno della moltiplicazione dei derivati. Non solo.

Come sette anni fa, anche questa volta è sui mercati anglo-americani che si sono prevalentemente sviluppate attività che possano generare titoli tossici, ma anche questa volta, se la storia dovesse ripetersi, sarebbe l’Europa – dove, a parte un caso, non ci sono istituti ingolfati di derivati – a pagare il prezzo più alto. Allora, francamente non si capisce perché accanirsi sulle banche continentali – siamo alla terza tornata di stress test dal 2010 – tra l’altro appena reduci da ristrutturazioni pesanti e massicci aumenti di capitale (complessivamente sono stati chiesti al mercato 70 miliardi, di cui 10 solo in Italia). E se fosse vera la cifra di cui si parla in questa tormentata vigilia (domenica saranno ufficialmente annunciati i risultati dell’asset quality review), e cioè 50 miliardi di ulteriore fabbisogno patrimoniale, si capirebbe che trattasi di puro masochismo.

Si dice: ma così si assicura la stabilità finanziaria europea, indispensabile sia per poter realizzare l’Unione bancaria sia per dare corpo alla ripresa economica. Può darsi, è sperabile. Ma intanto si è ottenuto il risultato di tenere sotto pressione per un anno 130 banche, commerciali e d’investimento, proprio nel momento in cui avrebbero dovuto dedicarsi totalmente al rilancio degli impieghi, e di aver offerto una clamorosa occasione di guadagno alla peggiore speculazione, che ha approfittato per lanciare rumors di ogni genere facendo in molti casi letteralmente crollare il corso dei titoli di diverse banche. Ma questo, paradossalmente, è niente se pensiamo a quale valore di affidabilità si possa assegnare a graduatorie che pretendono di essere uniformi ma sono stilate sulla base di regole nazionali del tutto diverse tra loro. Non sfuggirà, infatti, che chi fosse eventualmente bocciato – e dunque costretto a prevedere nuove ricapitalizzazioni – si troverebbe facilmente preda di banche straniere. E aggregazioni cross-border figlie di asimmetrie normative sarebbero il modo peggiore per costruire un sistema bancario europeo integrato. Cosa abbiamo speso a fare?

È per queste considerazioni che ritengo che la questione doveva e dovrebbe essere affrontata dai governi europei. E in particolare da quelli di paesi, come l’Italia, che potrebbero ricavare maggior danno da questa “giostra”. Per carità, le authority è giusto che abbiano la loro autonomia, ma quando le scelte che esse fanno hanno ricadute sistemiche, allora è necessario che i governi si prendano le loro responsabilità. Il credito è troppo importante per lasciarne i destini in mano – con tutto il rispetto – al signor Andrea Enria (presidente dell’Eba, italiano) e alla gentile signora Daniele Nouy (responsabile della Vigilanza della Bce, francese), Anche perché, uno si domanda, a suo tempo cosa abbiamo speso a fare un mucchio di quattrini per evitare che le nostre banche facessero la stessa fine della Lehman, se poi i governi le lasciano dipendere da improbabili pagelle redatte da maestri (?) totalmente privi di responsabilità pubblica?

Ambizioni

Ambizioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Da 20 a 36 miliardi in poche ore: di questi tempi, meglio una legge di stabilità ambiziosa che una stitica, ma purtroppo la dimensione non fa automaticamente la qualità della manovra. Contano i dettagli. E quelli non li conosciamo – come da troppo tempo a questa parte capita, sarebbe ora di smettere di usare le slide al posto dei testi di legge – per poter dare un giudizio serio. E non è solo una questione di coperture – dai tagli di spesa per 15 miliardi al fondamento dei 3,8 miliardi previsti come rivenienti dalla lotta all’evasione – che naturalmente più i numeri sono grandi più diventano complicate. No, il tema è (sarebbe, se avessimo i documenti ufficiali) capire l’efficacia di alcune voci della manovra per misurarne gli effetti sull’unica cosa che conta davvero in questo momento, e cioè la ripresa dell’economia. Pur andando nella giusta direzione, sono sufficienti gli sgravi Irap e le decontribuzioni per le nuove assunzioni per spingere gli investimenti privati? La conferma degli 80 euro e l’eventualità (ancora tutta da capire) del Tfr in busta paga sono provvedimenti che possono far ripartire i consumi interni? Ma, soprattutto, la domanda è: visto che dei 36 miliardi 11 sono già esplicitamente a carico del deficit – e speriamo che a consuntivo la cifra si fermi lì – stiamo spendendo bene i soldi? La risposta di merito verrà più avanti, come ho detto, ma francamente è lecito dubitare che il tutto sia sufficiente. Luca Ricolfi l’ha efficacemente chiamato “keynesismo debole”: poco per riuscire a scuotere un’economia che apprestandosi a chiudere anche il 2014 in recessione (il quinto anno, dal 2008) ha perso 10 punti di pil e bruciato un quarto della sua capacità produttiva manifatturiera; troppo per essere più che sufficiente a scatenare la reazione sia della conservazione interna (da battere), sia di Bruxelles (e pazienza), sia dei mercati (pericolosa).

E già, perché un po’ tutti gli osservatori hanno sottolineato il reciproco “vaffa” con le regioni e immaginato lo scontro con la Commissione europea, la Merkel e la Buba. Renzi, si sa, ha nella tattica di “un nemico al giorno toglie i problemi di torno”, uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma il vero pericolo viene da un nemico, impalpabile e nello stesso tempo concretissimo, che non conviene mai sfidare: i mercati finanziari. Sia chiaro, le Borse non sono crollate negli ultimi giorni per colpa del governo di Roma, né gli spread sono schizzati (ieri il differenziale Italia-Germania ha toccato i 200 punti, per poi ripiegare un po’) dopo aver visto la manovra di Renzi. Ma una cosa è sicura: quel clima positivo verso l’Italia che si era manifestato qualche mese fa – e sulla cui durata mi ero permesso, solitario, di dubitare – è completamente cambiato. E non sarà questa manovra a far cambiare opinione a chi sta nuovamente valutando se scommettere sulla (non) tenuta dei debiti sovrani dei paesi europei più deboli, dalla Grecia all’Italia, e dell’eurosistema nel suo insieme. E non perché sarà giudicata sbagliata o eccessiva, come l’hanno già ribattezzata i conservatori italici, ma perché scarsa. E’ inutile sfidare l’Europa e i suoi vincoli di bilancio per fare un po’ di deficit in più se poi quella maggiore esposizione non produce pil perché è insufficiente e mal utilizzata, cioè non induce nuovi investimenti, che sono l’unica leva che può risollevare la crescita. Tanto più se i mercati hanno nuovamente dissotterrato l’ascia di guerra.

Quindi? Suggerirei di proporre all’Europa e di far sapere al mondo finanziario internazionale le seguenti due cose. Primo: che l’Italia ha intenzione di sforare sul deficit – anche molto di più degli 11 miliardi previsti dalla manovra – non perché non voglia pagare il prezzo politico di tagli e riforme impopolari, ma perché ha un piano – tra riduzione massiccia dell’imposizione fiscale sulle imprese e investimenti diretti in conto capitale – per rilanciare l’economia a sostegno del quale servono ingenti risorse. Secondo: che compenserà queste minori entrate e maggiori uscite con un massiccio intervento di riduzione una tantum del debito pubblico (e quindi anche degli oneri finanziari, circa 80 miliardi nel 2014, sul debito stesso). Come? Sia con alcune riforme capaci di ridurre in modo strutturale il perimetro della spesa pubblica, prima tra le quali la semplificazione del decentramento amministrativo e la riconduzione della sanità allo stato centrale, sia con un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico.

Una manovra di portata epocale – questa sì – che avrebbe il duplice effetto di ridare la credibilità perduta al paese e alle sue istituzioni in sede europea, e di calmierare i mercati togliendo loro dalle mani gli strumenti della speculazione finanziaria contro i nostri titoli del debito e contro l’euro. E che, last but not least, consentirebbe meglio di ogni altra cosa di tenere lontana la Troika, il cui spettro è tornato in queste ore ad aleggiare su Palazzo Chigi.

La causa delle cause

La causa delle cause

Enrico Cisnetto – Il Foglio

L’Europa non sta collassando. Non ancora, quantomeno, e comunque non perché Francia e Italia non rispettano i vincoli di bilancio. Lo deduco non dall’esito del vertice Ue sul lavoro, del tutto inutile, ma da un’analisi sulla vera origine dei problemi dell’eurosistema. Che non risiedono nei vincoli di bilancio imposti dai trattati, o nelle politiche di austerità volute dai tedeschi e neppure in quelle opposte predicate dai paesi mediterranei, o nei limiti statutari della Bce, e in tutti quegli errori che con faciloneria disarmante vengono dati in pasto a opinioni pubbliche che, di conseguenza, sollecitano atteggiamenti sempre più nazionalistici alle proprie classi politiche. O meglio, tutti questi sono sì errori, ma nessuno è quello decisivo. L’errore epocale, da cui tutto discende, è aver preteso di dare una moneta unica a paesi che non avevano e tuttora non hanno una governance democratica comune. E senza mettere rimedio a questa tara genetica, poco importa se prevale la linea del rigore o quella espansiva: l’eurosistema è comunque destinato a non funzionare. Anzi, più si discetta intorno alla presunta dicotomia, risalendo fino allo scontro Hayek-Keynes, e più si stende un velo omertoso sulla causa della cause della crisi europea.

Prendete la scelta della Francia di far slittare il contenimento del deficit. Il grave non sta nell’aver violato patti che in quanto “stupidi” meritano questo e altro, ma di non avere il coraggio di metterli apertamente in discussione, ponendo il problema politico nei vertici Ue.E sapete perché non lo fanno? Perché sanno che la risposta sarebbe quella di andare oltre i trattati, ed essendo autolesionistico farlo tornando indietro alle monete nazionali, l’unico modo sarebbe andare oltre, cedendo definitivamente sovranità politica e istituzionale a un governo eletto direttamente dai cittadini che hanno la stessa moneta in tasca. Ma per i francesi esistono solo gli interessi nazionali. E pazienza se debito federale, Bce leader of last resort e così via, vanno a farsi benedire. D’altra parte, è falsa la convinzione secondo cui la loro sarebbe una prova di forza muscolare contro la Germania e la Ue a trazione tedesca. No, si tratta solo di una mossa di politica interna nel tentativo (utile ma un po’ disperato) di tagliare la strada all’ascesa della Le Pen all’Eliseo. Per carità, bene che riesca, meglio un po’ di deficit in più di quella funesta eventualità – così come meglio gli inutili (dal punto di vista economico) 80 euro di Renzi piuttosto che Grillo a Palazzo Chigi – ma se la destra populista e nazionalista è arrivata a insidiare socialisti e gollisti è colpa di una politica che, tanto con Sarkozy quanto con Hollande, è stata fallimentare. La Germania si è solo limitata a farsi i suoi interessi, e meglio di quanto gli altri non abbiano fatto i propri.

E veniamo a noi. Il semestre europeo a guida italiana ha superato la metà della sua durata senza aver lasciato alcun segno, nonostante si fossero alimentate grandi aspettative. Né s’intravede all’orizzonte nulla che possa far pensare che nella seconda parte la musica cambi. Inoltre, sul deficit stiamo facendo persino peggio della Francia: sforiamo rispetto agli impegni presi, ma facciamo tinta che non sia così. Invece, ora si affaccia un’opportunità straordinaria, che Renzi dovrebbe cogliere al volo: partire dall’inevitabile processo che in Commissione si aprirà nei confronti di Italia e Francia, per lanciare la proposta di una riforma strutturale dei trattati europei, una riscrittura finalizzata a rimettere in moto l’arenato – ma sarebbe più giusto dire, mai partito – processo di integrazione politico istituzionale ed economico-finanziaria dell’area euro.

Attenzione, non si tratta di costituire improbabili cartelli mediterranei “espansivi” contro i maledetti “rigoristi” del nord. Anche perché entrambe le politiche hanno buone ragioni, e sono necessarie entrambe in un mix che non sarà mai ottimale se ciascuno stato rimane pienamente sovrano. Chi mi segue sa che la mia e una posizione “liberal-keynesiana” – e non è un ossimoro, se si evita un approccio dogmatico – ma sa anche che ho sempre sostenuto che non si poteva uscire con nuovi surplus di spesa corrente dalla crisi causata da un eccesso di debito privato (la bolla scoppiata nel 2007 negli Usa e trasferitasi immediatamente al sistema bancario mondiale) è tamponata con una moltiplicazione di debito pubblico (quello servito a immettere liquidità ed evitare il default creditizio). Spesa sì, ma solo in conto capitale (investimenti pubblici), e non senza mettere in gioco il patrimonio degli stati, sottoponendoli così a un sano dimagrimento (senza per questo sposare le tesi ultra dello “stato minimo”). Dunque, evitiamo la puerile polemica anti tedesca e non illudiamoci che domattina possa nascere l’asse Parigi-Roma. Invece, Renzi prenda un’iniziativa forte: convochi a Roma, nella sua veste di presidente di turno dell’Unione, i leader continentali che pesano e sparigli un gioco in cui rischiano di finire stritolati prima di tutto gli italiani, ma con noi l’euro e l’Europa intera. La Merkel è una ragioniera? Bene, si dimostri di saper fare di meglio.

I nemici di Renzi

I nemici di Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Ora è conclamato: l’Italia ha perso un altro anno. Il settimo, da quando ebbe inizio nell’estate del 2007 la più lunga e grave crisi economico-finanziaria che il mondo abbia conosciuto nell’ultimo secolo. Le cui conseguenze risultano così gravi – 10 punti di pil persi, il 25 per cento della produzione industriale evaporata – solo per noi, Grecia a parte. E nulla fa presagire che nel 2015 la musica cambi. Tutto questo non lo dicono i gufi ma il ministro Padoan, che ha parlato di un quadro congiunturale gravemente deteriorato. Peccato che andasse detto prima, anziché discettare sulla ripresa a portata di mano. Cosa non solo infondata, ma gravida di conseguenze negative, perché ha significato rinviare a data da destinarsi gli interventi più radicali, quelli capaci di invertire la rotta, i quali, più si rinviano, e più le mancate scelte ci riconsegnano un paese profondamente sconvolto nei fondamenti della sua società e della convivenza civile, con una quota di economia di mercato inferiore al passato e un problema di assistenza pubblica terrificante.

Tutto questo, naturalmente, non può essere messo in conto a Renzi. Per età e perché gli manca il passato. Ma a lui e al suo governo possono invece essere addebitate due cose: di aver sbagliato le previsioni e quindi l’approccio iniziale, e di avere mostrato un eccesso di fragilità e dilettantismo nello svolgimento quotidiano dell’azione di governo, laddove la politica diventa – o dovrebbe diventare – buona amministrazione. Hai voglia ora di dire che la Merkel è cattiva perché vuole l’austerità e impertinente perché ci tratta come studenti a cui chiede di fare i compiti a casa. Hai voglia di evocare lo spettro della Troika in nome della sovranità violata. Per sostenere certe tesi, anche quando sono giuste, occorre avere la necessaria credibilità, e Palazzo Chigi in questo difetta.

Tuttavia, Renzi viene accusato di tutt’altro: di essere nemico dei lavoratori, di muoversi in combutta con Berlusconi, di frequentare quel “sola” di Marchionne, di praticare il “metodo Boffo” contro chi dissente. Prendete la vicenda dell’articolo 18. Invece di dire “guarda che quella del reintegro, pur simbolica, è questione marginale e ciò che conta è una revisione, all’insegna della semplificazione e della delega alla contrattazione aziendale, dell’intera materia dei contratti e del mercato del lavoro”, no, si rispolverano vecchi linguaggi (i padroni) e consunte parole d’ordine (giù le mani dai diritti). Nessuno che lo sfidi sulla modernità, tutti a piagnucolare sulla conservazione di miti arrugginiti. E senza neppure avere l’intelligenza politica di capire – questo da D’Alema francamente non me lo aspettavo – che così la sinistra si condanna a una definitiva emarginazione e regala a Renzi gli strumenti per la definitiva conquista del voto moderato.

Che abbia o meno in testa le elezioni anticipate – io credo di si – l’aver alzato il tiro su un tema ideologicamente dividente come quello dell’articolo 18 e trovarsi la reazione che abbiamo visto, per il premier è stato come vincere alla lotteria. Ora il provvedimento – annacquato fino a lasciar le cose come stanno ma presentato come la rottura senza compromessi con il passato – passerà al Senato grazie all’uscita dall’Aula di un numero sufficiente di forzisti, così Renzi potrà dire all’Europa di aver fatto, da segretario del Pd per giunta, quello che nessuno prima di lui aveva mai osato fare o era mai riuscito a fare; potrà marcare una rottura a sinistra che gli servirà per dire al Quirinale che il Parlamento è una palude da cambiare con il voto; e infine potrà evitare di dover far emergere il cambio di maggioranza perché Berlusconi formalmente rimarrà all’opposizione. Caro Bersani, questa è quasi peggio del tuo (ancor oggi inspiegabile) tentativo di fare accordi con Grillo.

Ma la stessa cosa si puo dire delle stroncature che sono piovute addosso a Renzi da qualche miliardario annoiato che vuole fare politica senza pagare il dazio della raccolta del consenso, o da qualche esponente della “società civile” che si arroga il diritto di compilare la pagella dei buoni e dei cattivi. Non ho visto analisi approfondite, elaborazioni programmatiche fuori dal coro dei soliti bla-bla. Costoro, invece di ergersi a giudici, invece di imbarcarsi in operazioni personali senza alcun radicamento nelle culture politiche, elitarie e probabilmente di scarso successo, farebbero meglio a finanziare, sostenere, creare dei think tank capaci di contribuire alla qualità culturale del dibattito pubblico, di influenzare (alla luce del sole) i media e i decisori, di selezionare classe dirigente, di creare efficaci collegamenti internazionali, di lavorare sulla mentalità collettiva e in particolare far maturare nella borghesia la coscienza del suo ruolo sociale. Gli esempi esteri non mancano, basta copiare. Insomma, Renzi ha tanti (troppi) difetti, ma se i suoi nemici sono questi, viva Renzi.

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Lo stato faccia la sua parte rilanciando gli investimenti

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Secondo il vocabolario le parole fiducia e credito possono avere lo stesso significato. In economia sono due facce della stessa medaglia. Se c’è fiducia ci sono investimenti, e se ci sono investimenti c’è credito. Ma se la fiducia manca, il credito latita. Non c’e dunque da stupirsi che di fronte al protrarsi della recessione, ora per di più abbinata alla deflazione, sia sceso il tasso di fiducia degli imprenditori italiani – a settembre quello calcolato dall’Istat è arrivato a 86,6 il livello più basso dell’ultimo anno – e che, di conseguenza non ci sia domanda di credito. Già, proprio mentre la Bce punta a rilanciare la spesa in conto capitale, privata e pubblica, spingendo le banche a dare più credito, il segnale che arriva alimenta più di un dubbio sulle future intenzioni d’investimento.

Siamo dunque nella paradossale situazione in cui la liquidità è enorme – mentre solo due anni fa parlavamo di credit crunch – ma rimane inutilizzata perché in giro non ci sono nuovi progetti. O meglio, in banca c’è la fila di chi vorrebbe credito per sistemare debito, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di aziende decotte, la cui crisi è stata solo accelerata dalla pessima congiuntura. Spiace dirlo, ovviamente, ma è bene che le banche, un tempo troppo generose come dimostra il livello delle sofferenze, non aprano quei rubinetti, perché quasi mai ci sono le condizioni del risanamento e del rilancio e quasi sempre si può al massimo prolungare di qualche tempo l’agonia, illudendo imprenditori e lavoratori.

Dunque, è infondata e sterile la polemica contro il sistema bancario che sento fare. Oggi le banche avrebbero tutto l’interesse ad azionare la leva degli impieghi, ma per farlo ci deve essere domanda di credito per nuovi investimenti, e non c’è. E quella poca che c’è finisce per dover pagare interessi elevati, che le banche devono praticare proprio per l’esiguità dei loro impieghi. Certo, ci può essere anche un eccesso di prudenza per paura di commettere i vecchi errori, ma il tema centrale è e rimane la mancanza di progetti. E allora, come si possono rimettere in moto gli investimenti e rilanciare la domanda? Occorre riaccendere la speranza che le cose possono cambiare davvero. E per farlo, dopo la stagione ormai consumata dei gesti simbolici, ci vogliono respiro programmatico e azioni concrete. Per esempio – e qui siamo alla seconda chiave di volta- lo Stato deve tornare a mettere mano al portafoglio. Per fare le cose strategiche, a cominciare dalle infrastrutture materiali e immateriali, che i privati non fanno. Come, visti i problemi di bilancio? Trasformando patrimonio pubblico e spesa corrente in spesa in conto capitale. È il modo più sicuro per dare credito alla fiducia.

Esecutivo Spartacus

Esecutivo Spartacus

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Pare che nella famosa visita che Renzi ha fatto questa estate a Draghi nella sua casa di campagna in Umbria, il presidente della Bce abbia evocato la “Troika” (che poi tale non è più perché ormai ha perso per strada il Fondo monetario), descrivendone l’intervento come un aiuto di cui il primo ad avvantaggiarsi sarebbe stato il governo, e che il premier sia andato su tutte le furie, replicando con un gladiatorio “mai e poi mai, dovrete passare sul mio cadavere”. L’episodio, verosimile se non del tutto vero, aiuta, molto più di tante dietrologie correnti, a capire il dipanarsi della trama del film cui stiamo assistendo, e che potremmo titolare “Renzi contro il resto del mondo”. Specie se si tralascia per un momento il gioco più diffuso del momento, l’ esegesi del fondo di De Bortoli – in cui confluiscono troppi elementi di carattere personale perché aiuti a “leggere” i rapporti di Renzi con “i poteri”, nazionali e non – e si guarda con attenzione, invece, quanto scrive Wolfgang Munchau, che sul Financial Times è firma che riflette il pensiero dell’asse Francoforte-Berlino, molto più solida di quanto certa pubblicistica provinciale nostrana descriva.

La tesi è lapidaria: oggi per l’Europa la minaccia più grande si chiama Italia, che ha una situazione economica talmente insostenibile che se la crescita non dovesse ripartire andrà verso il default per debito eccessivo, con l’uscita dall’Eurozona e la fine dell’euro stesso. Da qui la pressione che Draghi ha esercitato, anche per conto della Merkel, su Renzi: prima con le buone (il discorso vis-à-vis), poi con le cattive (i messaggi mediatici). Naturalmente si può sostenere che trattasi di pressioni indebite – ma in questo caso si dimentica che a Draghi viene continuamente chiesto di andare oltre il confine delle sue responsabilità formali, e che comunque se siamo ancora vivi lo si deve a lui – così come si può ricorrere alla dietrologia da quattro soldi sulle sue presunte ambizioni per Palazzo Chigi (escluderei) o per il Quirinale (già più plausibile) per evocare “trame occulte”.

Sta di fatto che i “poteri vari e avariati”, da quelli un tempo forti alla magistratura, hanno sentito odor di scontro, e hanno fatto due più due: se la Bce e la Germania vogliono commissariare Renzi o addirittura farlo fuori, sarà bene schierarsi subito dalla parte del probabile vincitore. Reazione che si potrebbe velocemente archiviare come velleitaria, visto che Renzi il consenso ce l’ha e, finora, neppure il duo recessione-deflazione l’ha eroso, se non fosse che le cose stanno proprio come dice Munchau: l’economia italiana non cresce da un ventennio, e la recessione degli ultimi anni, annullando gli effetti di politiche di bilancio più rigorose di quelle di molti altri partner europei, ha determinato una crescita lenta ma irreversibile del debito pubblico; e ora, il prolungarsi della stagnazione, accompagnata da deflazione prolungata, rischia di rendere insostenibile, politicamente prima ancora che finanziariamente, il debito. In conclusione: o il governo trova la chiave della ripresa, o ci schiantiamo, e con noi l’eurosistema.

Ma qui scatta la contraddizione a cui siamo impigliati: Renzi non ha certo la responsabilità di quel disastro chiamato Seconda Repubblica, e fa bene a diffidare della classe dirigente (oltre che del ceto politico) che lo ha prodotto. Ma nello stesso tempo mostra limiti evidenti nell’affrontare i problemi del paese, o meglio nel tradurre in atti di governo – che non sono solo le leggi approvate – le buone e coraggiose intenzioni che mostra di avere. Inoltre, la scelta di affidarsi alle sue indubbie capacità mediatiche per avere un rapporto diretto con i cittadini-elettori saltando i rapporti con qualsivoglia rappresentanza degli interessi – modello Berlusconi+Marchionne” – e la strategia “tutti nemici, tranne il popolo” che ha adottato, fanno sì che scivoli con facilità nel populismo, il che non aiuta ad affrontare con la giusta ampiezza programmatica gli intricatissimi nodi del declino italiano.

Viceversa, chi imputa a Renzi di “parlare e non fare” o di essere capace solo di “rottamare e non costruire”, pur avendo non poche frecce al proprio arco, nella stragrande maggioranza dei casi non ha alcuna credibilità, avendo contribuito in modo diretto e significativo al disastro. Inoltre, chi intende mettere Renzi sul banco degli imputati non ha uno straccio di idea di come sostituirlo – né uomini né politiche all’altezza della sfida – e non vuole farsi una ragione del fatto che gli italiani indietro non vogliono più tornare, giusto o sbagliato che sia. Ecco, è questo “cane che si morde la coda” il problema del potere in Italia, oggi. Uscirne non è facile. Ma il modo sicuro per non riuscirci è far finta che le cose stiano diversamente.

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Cassa integrazione, un meccanismo da smontare

Enrico Cisnetto – Il Messaggero

Caro Renzi, già che hai intenzione di fare 30, fai 31. O meglio, se fai 18 (quel solo articolo o addirittura l’intero Statuto dei lavoratori), fai allora un passo in più e smonta la cassa integrazione. Proprio ieri la Uil ci ha fornito gli ultimi dati: nei primi otto mesi di quest’anno si sono consumate circa 714 milioni di ore, corrispondenti a mezzo milione di posti di lavoro mantenuti artificialmente in vita. A fine anno si conteggerà poco meno di un milione c mezzo di lavoratori bisognosi di tutele.

L’altra faccia della medaglia di questi dati è rappresentata da quelli relativi alle imprese. La produzione industriale dal 2007 è scesa del 25%. Una perdita ormai consolidata e che nulla fa prevedere possa essere non dico assorbita ma almeno ridotta. E questo nonostante il forte rimbalzo delle scorte: per la prima volta da oltre un anno, le imprese segnalano un’eccedenza dei magazzini, il cui saldo sale ai massimi dal 2011. Un segnale del fatto che le aspettative di ripresa della domanda non si stanno concretizzando. E la premessa che una volta riempiti i magazzini, si dovrà ulteriormente rallentare la produzione.

Ora, in una condizione come questa, che dura da sette anni, è difficile credere che siamo di fronte ad imprese momentaneamente in difficoltà, che si stanno ristrutturando e in tempi ragionevoli torneranno in piena attività. Dunque, perché spendere una montagna di quattrini per tenere in vita posti di lavoro che solo in pochi casi si potranno dawero salvare? Non è meglio usare queste risorse per sostenere i lavoratori con un sussidio di disoccupazione? È non solo inutile, ma controproducente immaginare che la ripresa della nostra economia passi dal mantenimento in vita di aziende che non hanno più le caratteristiche giuste per competere. Meglio accelerare la loro morte e creare le condizioni per farne nascere di nuove, profilate sulle esigenze dei mercati di oggi. Pensate forse che se non fosse intervenuta la recessione quel quarto di produzione industriale che abbiamo perso sarebbe rimasta in vita? Forse per qualche mese, un paio d’anni, poi avrebbe dovuto soccombere perché quella che attraversiamo non è una crisi congiunturale, ma una stagione di cambiamenti epocali. Allora, mettiamo al riparo i lavoratori – non i posti di lavoro – sostenendoli con un welfare adeguato, che vada loro incontro ma che nello stesso tempo cessi qualora il sussidiato dovesse rifiutare offerte di impiego. E mettiamo le imprese nella condizione di affrontare la crisi con tutta la flessibilità possibile.

La libertà di licenziamento, con indennizzo ma senza clausola di reintegro, è uno strumento utile, ed è un riflesso ideologico pensare che gli imprenditori siano interessati ad abusarne. Anzi, essa li spingerebbe ad evitare tutte quelle forme contrattuali che in questi anni sono state inventate per evitare le rigidità del tempo indeterminato. Ma non basta. Occorre che il Welfare non induca gli imprenditori a voler essi stessi mantenere in vita aziende decotte. Una rivoluzione darwiniana, ecco quello che serve.