enrico cisnetto

7 a 0 per Renzi

7 a 0 per Renzi

Enrico Cisnetto – Il Foglio

«Uno scalpo per i falchi della Ue». Susanna Camusso credeva di colpire al cuore Renzi sottolineando che l’abolizione dell’articolo 18 rappresenta un prezzo pagato dal governo alle aspettative di Ue, Bce e Germania, ma in realtà gli ha fatto un grande favore. Sì, l’emendamento all’articolo 4 della legge delega sul mercato del lavoro, che di fatto supera la disciplina dei licenziamenti senza giusta causa – per cui le nuove assunzioni a tempo indeterminato verranno fatte con contratti a tutele crescenti in base all’anzianità di servizio – e più in generale il “jobs act” che consente al governo di scrivere un testo unico semplificato che “pensiona” il vecchio (e superato) Statuto dei lavoratori, sono riforme (tardive) che servono al paese ma, soprattutto, rappresentano agli occhi dell’Europa quella certificazione di credibilità politica che serve al premier per evitare che gli venga chiesta entro fine anno una manovra correttiva dei conti.

Non che la riforma del lavoro comporti riduzioni del deficit, ma proprio perché il governo riuscirà, forse, a rimanere sotto il 3 per cento (diciamo 2,99 per cento per capirci) ma certo non entro quel 2.6 per cento per il quale era stato assunto un impegno formale certificato nel Def – sosterremo la tesi che la recessione ci esenta da quella riduzione – ecco che Renzi e Padoan cercheranno di barattare l’una cosa con l’altra. Della serie: vedete che stiamo facendo sul serio realizzando una riforma del lavoro di cui si parla inutilmente da 15 anni e che è carica di significati politici. Ora, questa è la migliore delle garanzie che proseguiremo con il risanamento finanziario e le riforme, perciò non penalizzateci proprio adesso che stiamo facendo questo sforzo. Ecco perché gli strepiti dei sindacati – a proposito, dispiace vedere che nel coro ci siano anche quelli moderati – fanno il gioco del governo, e tanto più i decibel sono alti, tanto maggiore è il valore politico della riforma agli occhi di Bruxelles, Berlino e Francoforte.

Non solo. Siccome nel corteo di chi si straccia le vesti per il tabù infranto dell’articolo 18 ci sono i diversi gruppi interni al Pd – più o meno gli stessi che in questi giorni stanno impedendo la fumata bianca per la Corte costituzionale – anche a costoro non dovrebbe essere difficile capire che il loro ostruzionismo è un grande regalo a Renzi. Perché se è vero, come molti dicono e come è lecito e sensato pensare, che il premier intende andare al più presto alle elezioni anticipate (marzo), ecco che la riforma bloccata dai rigurgiti ideologici della sinistra old style rappresenta la più ghiotta delle occasioni per far saltare il banco e andare alle urne, per di più potendo dire agli italiani, e in particolare a quelli moderati che hanno assicurato a Renzi il balzo al 41 per cento alle scorse europee, che la sua testa è stata fatta saltare dai comunisti e dai rottamati contrari ai suoi progetti di modernizzazione del paese. Viceversa, se la riforma passa e Renzi prosegue nel suo percorso di “mille giorni” – magari anche perché Napolitano gli preclude la strada delle elezioni anticipate, eventualmente dimettendosi a inizio anno (dopo la fine del semestre europeo a presidenza italiana) – ecco che ugualmente questo governo segnerebbe un punto pesante a suo favore, sia per aver dimostrato in Europa che è credibile sia perché metterebbe a tacere, almeno in parte, coloro che in questi mesi si sono lamentati dei tanti annunci e delle poche decisioni prese e portate fino in fondo.

Insomma, per come si è messa la partita, Renzi, piaccia o non piaccia, vince 7-0 come l’Inter con il Sassuolo. Con un doppio warning per lui, però. Entrambi in nome degli interessi generali (cioè i nostri). Il primo è: occhio alle elezioni anticipate. Anche ammesso e non concesso) che il Quirinale dia il via libera, e pur partendo dal presupposto, fondato, che Renzi le vincerebbe alla grande, esse rappresenterebbero un ulteriore rinvio di quella svolta in economia di cui l’Italia ha assoluto bisogno e che, alla fine, sarebbe la vera garanzia di successo per l’ambizione politica di Renzi. Il secondo “avviso di pericolo” è: se la riforma del lavoro passa e il governo prosegue – cioè se elezioni anticipate non ci sono – occhio che non basta abolire l’articolo 18 per far ripartire l’economia. Intanto perché la situazione è così deteriorata che il rilancio non puo che passare da un concorso di circostanze, anche abbastanza ampio. Per il mercato del lavoro, per esempio, occorrerebbe superare anche lo strumento della cassa integrazione – che salva posti di lavoro nella maggior parte dei casi non piu esistenti – e arrivare a una forma di salario di sostegno per i disoccupati che consenta una ristrutturazione del sistema produttivo più profonda e più virtuosa di quella prodotta dalla crisi. E poi perché, nello specifico, l’abolizione dei vincoli contrattuali in uscita ha più un valore simbolico che pratico. Infatti, come ha dimostrato uno studio della Cgia di Mestre, l’articolo 18 interessa solo il 2,4 per cento delle aziende (anche se il 57,6 per cento dei lavoratori dipendenti del settore privato), perche solo 105.500 di esse, su circa 4.426.000 in totale, hanno più di 15 addetti.

Rottamare Cernobbio

Rottamare Cernobbio

Enrico Cisnetto – Il Foglio

C’è una relazione, e quale, tra il benservito di Marchionne a Montezemolo e quello di Del Vecchio a Guerra, con l’ostentato distacco di Renzi dai cosiddetti “poteri forti”, manifestato platealmente attraverso la scelta di non calcare le scene di Cernobbio, e dalle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, sindacati e Confindustria in testa? Direttamente no. La vicenda Ferrari è un regolamento di conti personali, in sospeso da molto tempo. Quello che si è svolto in casa Luxottica appartiene a un fenomeno in atto da qualche tempo nel capitalismo italiano e che potremmo definire la rivincita dei padroni sui manager, i primi stanchi di non comandare più come un tempo e i secondi rei di aver esagerato, nell’esercizio del potere aziendale, nell’esposizione mediatica e nel darsi gli emolumenti. Mentre quella di Renzi è una scelta politica con finalità di comunicazione punto e basta. Insomma, si tratta di episodi non solo slegati tra loro, ma pure di bassa cucina, privi di una cornice strategica in cui collocarli.

In realtà un sottile filo rosso che li lega c’è. Si tratta, infatti, di convergenti segnali del disfacimento del vecchio sistema paese, quell’insieme di ruoli, uomini, prassi, relazioni e abitudini, che hanno costituito l’intelaiatura su cui in Italia si è retta l’organizzazione della politica, dell’economia e della stessa società. Quando si dice che si è “chiusa un’epoca” parlando dei tanti anni in cui Montezemolo è stato a vario titolo un protagonista della galassia Fiat, in realtà si indica la “fine di un mondo” in un’accezione ben più larga del perimetro, pur significativo, dell’impero Agnelli. Qualcuno, addirittura, dice che è la “fine del mondo”: chi in chiave pessimistico-nostalgica, chi al contrario in chiave positiva, aggiungendoci un “finalmente”. In tutti i casi, si tratta di segnali inequivocabili del fatto che nulla sarà più come prima.

Chi legge da tempo le mie considerazioni, ora starà probabilmente pensando che sto per produrmi in un veemente j’accuse sul declino italiano, magari accompagnato da un bel “ve l’avevo detto”. Spiace deludere (forse anche me stesso), ma non è così. Sia chiaro: l’ltalia non solo è in pieno e prolungato declino, ma è entrata in una pericolosa fase di decadenza. Quella che con un ottimo articolo Fausto Bertinotti ha descritto ieri sul Garantista. Solo che io aggiungo: del vecchio sistema, ormai consunto, abbiamo comunque bisogno di liberarci. Non ha torto Renzi quando dice che la classe dirigente del paese ha la responsabilità di averlo portato al disastro, e che prima ce ne liberiamo e prima possiamo tentare di invertire la rotta. Sbaglia a delinirla “quella della Prima Repubblica”, e tanto più sbaglierebbe se intendesse riferirsi al più longevo di quella generazione, ancora in attività. La colpa è principalmente, se non unicamente, di quelli che hanno popolato i vent’anni della Seconda Repubblica, che sono appunto stati gli anni del progressivo e crescente declino. Nella politica come nell’economia, e nella vita civile c culturale. Ma al netto di questo errore, il fatto che Renzi abbia messo in moto la macchina della rottamazione è cosa buona e giusta.

Non è andato a Cernobbio? Ha fatto bene due volte: primo perché è un segnale che va nella direzione del cambiamento, e secondo perché da quel consesso non è mai uscito uno straccio d’idea utile al paese. Il problema, semmai, è un altro, per Renzi come per il capitalismo made in Italy: avere in testa come ricostruire. Non basta buttarsi alle spalle passato e presente, bisogna avere idea di come costruire il futuro. Altrimenti rimangono solo le macerie.

Per esempio: se, giusto o sbagliato che sia, i salotti (o tinelli) buoni, patti di sindacato e i tanti altri strumenti del cosiddetto capitalismo relazionale sono superati e desueti, è inutile accanirsi a difendere quel che ne rimane o versare lacrime di rimpianto auspicando che tornino; serve, invece, prenderne atto e però, nello stesso tempo, rendersi conto che un sistema industriale complesso non può essere semplicemente la somma delle imprese esistenti ma ha bisogno di fare sistema. Sarà un sistema diverso da quello del passato – ormai ridotto a un pollaio di galli spennacchiati che si beccano – ma pur sempre sistema il capitalismo deve fare.

Lo stesso discorso vale per la politica e le istituzioni, come ho scritto in questo spazio venerdì scorso: bene la parte destruens se contemporaneamente c’è quella construens, altrimenti resti sepolto sotto i detriti. Renzi fa bene a non andare a Cernobbio, ma non può cavarsela facendo visita a una fabbrica. Quello è populismo. Deve, invece, auspicare che la nuova classe dirigente di cui c’è bisogno – e quando dico “nuova” non mi riferisco solo all’anagrafe – costruisca delle Cernobbio capaci di far circolare idee, produrre progetti, selezionare persone. C’è bisogno di riprogettare tutto: il sistema politico e istituzionale, le imprese e le loro relazioni, la rappresentanza degli interessi, le dinamiche della vita sociale, la mentalità collettiva. Una sfida immane. Che non può ridursi a un regolamento di conti, per quanto sia necessario e opportuno regolarli.

Lucciole in Europa

Lucciole in Europa

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Occhio a non prendere lucciole per lanterne, in Europa. Il rischio è credere che siano illuminate strade che in realtà sono buie 0 addirittura non esistono, e farsi male. Per esempio, in molti hanno creduto di vedere, o comunque di ritenere possibile, un’aggregazione mediterranea contro la Germania in nome dello sviluppo e della tutela del Welfare. Ora, a parte che non c’e nessuno nell’Eurozona che più e meglio dei tedeschi pratica la crescita e tutela lo stato sociale, comunque ecco il risultato: Hollande licenzia i ministri più ostili alla politica tedesca, a costo di spaccare il suo partito, genuflettendosi ancora una volta al cospetto del mai rinnegato, nei fatti, asse franco-alemanno; la Merkel e Rajoy si giurano amore imperituro e mostrano i denti ai, veri o presunti, nemici dell’austerità. Alla faccia di chi immaginava che nell’eurosistema in salsa berlinese si potesse fare a meno della Germania o anche solo mettersi di traverso. 

Stesso discorso, seppure rovesciato, vale per chi insegue la chimera dell’economia Ue a trazione tedesca. Così non è per due semplici motivi. Il primo è di carattere strutturale: il successo dell’economia teutonica è dovuto alla sua capacità di competere sui mercati mondiali con prodotti hi-tech e servizi d’alta gamma, ed è quindi basato sulle esportazioni verso le aree extra Uc del mondo – un export, non dovremmo mai dimenticarcene, in cui c’e un pezzo importante di made in Italy – e non sui consumi interni, che dunque non trascinano le esportazioni degli altri paesi europei. Scelta intelligente e per certi versi obbligatoria – sia perché questo e il destino dell’Europa nella divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione, sia perché per troppo tempo un po’ tutti noi del Vecchio Continente, chi più (paesi del Sud) chi meno (paesi del Nord), abbiamo vissuto al di sopra delle nostre reali possibilità – che comunque non cambia anche se ora l’Spd spinge la Merkel ad aumentare i salari minimi. Il secondo motivo è di natura congiunturale: per le riforme a suo tempo fatte e per come si è configurata l’integrazione (solo monetaria) europea, la Germania lucra un doppio vantaggio, la bilancia commerciale patologicamente in avanzo e un basso costo di accesso ai capitali, cui non intende – comprensibilmente – rinunciare. E questo non la rende certo una trainante locomotiva per le altre economie continentali.

Lucciole per lanterne stiamo rischiando di prendere anche sulle conseguenze delle recenti dichiarazioni di Mario Draghi. Non ci voleva certo il ruvido ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, per capire che sulla necessità di un allentamento delle politiche di rigore c’è stato un clamoroso misunderstanding. Anzi, Draghi ha detto che dopo averlo fatto negli ultimi due anni, la Bce non e più disposta a “comprare tempo” a favore dei governi europei senza che questi facciano i compiti a casa delle riforme strutturali. Un messaggio inequivocabile – la politica monetaria la sua parte l’ha fatta e continuerà a farla, ma non pensiate che abbia anche il compito di scongiurare la ricaduta nella recessione, quello spetta alle politiche economiche nazionali – su cui quasi certamente il presidente della Bce aveva acquisito preventivamente il consenso dei tedeschi. Allora, perché far finta che abbia detto altro? Perché non guardare in faccia la realtà, la quale ci dice che la Bee non può andare oltre, anche volendo. La diga eretta da Francoforte è stata preziosa, tagliando le gambe agli spread e alla speculazione che scommetteva contro l’euro, ma non ha risolto, né poteva, alcun problema di fondo che compone il puzzle delle eurocontraddizioni. Ha solo aperto un ombrello protettivo sulla testa dei governi, lasciando a loro il compito di approfittarne, pena essere esautorati dalla cosiddetta Troika. Così non è stato, per lo più. Non ne ha approfittato l’eurosistema nel suo insieme – per colpa dei diversi ma convergenti retaggi tedeschi e francesi – e non ne ha approfittato l’Italia, pur avendo nel frattempo sperimentato tre governi (Monti, Letta, Renzi), o forse proprio per questo. 

Insomma, nessun aiutino in vista. Perché non sta nelle cose, e perché comunque non ce lo meriteremmo. Si dice: ma avremo – ormai è pressoché certo – la guida della politica estera europea. Peccato che sia materia di piena sovranità nazionale e che dunque quel ruolo sia solo formale. Inoltre, per quel poco che conta, l’incarico arriva proprio mentre lo scenario geopolitico, con gli annessi e connessi energetici, si sta facendo maledettamente complicato. Anche qui, vietato scambiare lucciole per le lanterne: a decidere se fare o meno accordi con Putin, e di che tenore, e a parlarne con gli americani, sara la Merkel – che deve decidere se mantenere o far saltare la sempreverde ostpolitik tedesca (niente nemici a oriente) – non la Mogherini (come ieri non era la Ashton). Così, giusto per sapere con che carte si gioca.

Vecchie ricette

Vecchie ricette

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Nonostante l’aggiustatina che droga e mignotte potranno dare al pil, il governo rimane a caccia di 20-25 miliardi. La legge di stabilità puntava sul contenimento della spesa, ma dalla spending review non sono arrivati, né arriveranno, i risparmi desiderati, per cui ecco che dal cilindro di ferragosto escono, more solito, tagli ai salari e alla previdenza per tenere il deficit sotto la soglia del 3 per cento. Il tutto condito con l’ennesima puntata – temo non l’ultima – della fiction intitolata “articolo 18” e il solito balletto di dichiarazioni contrastanti tra diversi esponenti del medesimo governo. Non so se andrà davvero cosi, ma se fosse si tratterebbe di una grande delusione e di un grave errore di politica economica. Delusione perché non c’era bisogno del rottamatore armato di inedito vigore giovanilista per mettere in campo pratiche vecchie e già rese obsolete da chi le ha praticate in precedenza non cavando un ragno dal buco, anzi. Ma, soprattutto, ci troveremmo di fronte al gravissimo errore – economico, sociale, politico, di psicologia collettiva – di tornare a spremere il ceto medio che, come ha notato con efficacia Dario Di Vico sul Corriere, ha invece bisogno di continuare a credere di potercela fare a uscire dal pantano recessivo e deflattivo in cui siamo, pena il ritorno di quella depressione che fin qui si è mangiata i consumi e ha azzerato gli investimenti. E saremmo di fronte a una “spremitura” non solo insensata – non si esce dalla crisi punendo il ceto produttivo, sia esso lavoratore dipendente, professionista o imprenditore – ma anche contraddittoria, perché tutti i proclami della politica negli ultimi mesi sono andati in direzione opposta.

Non è un caso che il governo Renzi, primariamente, abbia voluto caratterizzarsi con la manovra degli “80 euro”. Dunque, e assurdo dare con una mano – senza neppure avere la copertura di spesa – nella speranza, peraltro poco fondata, di rimettere in moto la domanda interna, e poi prendere con l‘altra. E questo vale sia per l’eventuale intervento sugli stipendi della pubblica amministrazione, sia per il cosiddetto prelievo sulle pensioni d’oro. Nel primo caso, il tema non e quello di togliere (0 non dare più) un po’ a tutti – secondo la deleteria logica dei tagli lineari, ancor più devastanti laddove c’e maggior bisogno di meritocrazia – ma di rendere efficienti le amministrazioni riparametrando il numero degli addetti. Questo significa trasferire dipendenti da un’amministrazione a un’altra? Ottima cosa. Questo significa mandare a casa un po’ di persone? Spiacevole, ma necessario. E se poi ciò dovesse avvenire sia trasferendo al privato funzioni non strategiche ora nel pubblico (e ce ne sono tante), restringendo così il perimetro funzionale dello stato centrale e periferico, sia per via di una coraggiosa semplificazione del nostro elefantiaco e fallimentare decentramento amministrativo, ancor meglio.

Quanto alla previdenza, pensare di considerare “ricchi”, e quindi da spremere, i pensionati che stanno sopra i 2 mila euro lordi (ma anche con l’altra cifra che circola, 3.500 euro, sempre lordi, il discorso non cambierebbe), è stupido, prima ancora che profondamente sbagliato. E lo sarebbe, sbagliato, anche se l’asticella che individua l’area di prelievo si alzasse di molto. Non solo perché in quest’ultimo caso si rastrellerebbero risorse infinitesimali, ma perché non è dai redditi, per quanto alti, che si deve provare a ricavare ciò che serve a risistemare – specie se lo si vuole fare una volta per tutte – la baracca dei conti pubblici. No, l’obiettivo deve essere, e senza intenti punitivi, il patrimonio. Prima di tutto quello pubblico, sul quale occorre costruire una modalita di “sfruttamento” – cui chiamare a concorrere quello privato, con l’obbligo di acquisto di nuovi titoli e non con prelievi patrimoniali – con ‘intento di ridurre sotto il cento per cento del pil il debito pubblico (e relativi oneri) e ricavare risorse per investimenti in conto capitale. Bini Smaghi dice che si trattercbbe di una manovra pericolosa? Rispetto molto il suo parere, ma non lo condivido. Intanto perché egli critica allo stesso modo tutte le ipotesi di intervento sul debito, dal consolidamento alla patrimoniale, ma io non propongo né l’una né l’altra. E poi perché pecca di conservatorismo in un fronte che a furia di prudenze ci ha portato ad accumulare 2.168 miliardi di debito, di cui cento solo nel primo semestre di quest’anno. E non è certo con il mestolo degli avanzi primari che si svuota questo enorme pentolone.

Dunque, Renzi – che ha mostrato apprezzabile prudenza verso le ipotesi adombrate da alcuni suoi ministri – nel rimettersi in marcia tralasci questo pericoloso itinerario. Che è anche l’unico modo per uscire vivo dallo scontro sull’articolo 18. Il quale è un tabù che sarebbe meglio cancellare, ma è anche uno strumento, specie dopo la riforma Poletti del contratto a termine, dagli effetti decisamente limitati. Abolirlo sarebbe politicamente efficace, economicamente poco significativo. Ora, delle due l’una: o Renzi ha un piano di rilancio dell’economia vero, e allora può anche fregarsene di toccare l’articolo 18, oppure non ha carte in mano e quello diventa il suo jolly. Io preferisco la prima ipotesi.

La nuova “i” di Piigs

La nuova “i” di Piigs

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Se non sono bastati sette anni di crisi per capirlo, almeno adesso c’è la controprova: le riforme economiche funzionano. L’Italia è l’unico paese tra i “Piigs” a non aver adattato il proprio sistema produttivo al nuovo scenario economico internazionale ed è anche, guarda caso, l’unico in recessione. Non è a sproposito, quindi, che Mario Draghi ha evocato “cessioni di sovranità” pur di superare “la generale incertezza che circonda le riforme economiche” nei paesi recalcitranti. Non ha nominato il nostro, ma è ovvio che stesse pensando all’Italia. Perché siamo tornati a essere il grande malato d’Europa. Anzi, l’unico. Ed è inutile incolpare i vincoli europei, la congiuntura internazionale o, peggio, prendersela con la Bce per (presunta) lesa maestà. Non è stata una gran mossa essere scesi in polemica con Draghi – cosa che neppure Berlusconi ebbe l’incoscienza di fare, mentre Tremonti ci provò senza dirlo – proprio mentre Moody’s prevede che noi si finisca l’anno con il meno davanti (vuol dire stare in recessione altri sei mesi) e quando altrove, a riforme fatte, le cose cominciano invece ad andare bene.

Dopo aver rischiato il default nel 2011, per esempio, la Spagna è tornata a crescere – aumenti congiunturali per i primi due trimestri dello 0,4 e dello 0,5 per cento – tanto che il Fondo monetario ha aggiornato al rialzo le stime sul pil, che dovrebbe segnare un solido +1,2 per cento a fine anno, un boom se paragonato al meno zero virgola qualcosa italico. Ma la Spagna vince anche nelle vendite al dettaglio (+0,5 contro -0,7 per cento), nelle esportazioni (+8,1 contro +3,3 per cento) e in quell’indicatore che è lo spread (25 punti in meno quello spagnolo, sia quando veleggia intorno ai 150 punti sia quando si avvicina ai 200). Questa ripartenza è stata possibile perché Madrid, a differenza nostra, ha accompagnato l’austerità con il taglio delle spese della Pubblica amministrazione sia dal lato degli stipendi (abolizione della tredicesima), che su quello dell’organizzazione, e ha riformato il sistema di welfare intervenendo anche sulle pensioni (unica misura che abbiamo introdotto pure noi, con Monti). Ma, soprattutto, ha reso flessibile il mercato del lavoro, puntando sulla contrattazione decentrata e consentendo il licenziamento senza indennizzo nel primo anno di contratto.

Nonostante le manifestazioni di protesta e le opposizioni corporative e settoriali, il governo Rajoy è andato avanti nell’introduzione delle riforme e ora, con l’economia che è ripartita, ha messo in cantiere una riforma fiscale per ridurre le tasse. E sta pure estinguendo il prestito di 40 miliardi che la Ue ha erogato nel 2012 per salvare le banche iberiche. Anche Portogallo e Irlanda sono usciti dalle procedure di salvataggio della Troika. Lisbona, dopo aver semplificato gli oneri burocratici per le imprese, tagliato i tempi della giustizia civile, aperto alla concorrenza i settori protetti, favorite la contrattazione decentrata e la flessibilità in uscita, crescerà dell’1,2 per cento nel 2014 e dell’1,5 per cento nel 2015, con la bilancia dei pagamenti in surplus e la disoccupazione in calo da cinque trimestri consecutivi. Dublino ha guadagnato l’1,7 per cento dal 2011, lo stesso numero che dovrebbe fare anche nel solo 2014, per poi raggiungere il 2,5 per cento nel 2015. Perfino la Grecia, tecnicamente già fallita e con oltre 26 punti di pil persi dal 2008, quest’anno dovrebbe segnare +0,6 per cento, con Moody‘s che ha appena alzato di due gradini il giudizio sul debito sovrano di Atene.

Dopo amare medicine, insomma, gli altri paesi stanno tornando in forma, applicando, pur tardivamente, la strategia tedesca, attuata prima della crisi, per adattare il sistema produttivo ai nuovi parametri internazionali. In Italia, invece, del declino non si vede la fine. Eppure la sera delle elezioni europee si guardava al governo di Roma come al prescelto per cambiare il destino del continente, perché l’unico esecutivo con la forza politica ed elettorale per modificare la strategia economica europea. Che effettivamente è da cambiare, ma avendo la credibilità acquisita avendo fatto i compiti a casa. Nemmeno due mesi e siamo tornati la pecora nera, proprio a causa delle riforme non fatte (Draghi dixit). Quello “comprato” dalla Bce è stato tempo inutile, come inutili sono state e saranno le misure convenzionali della nostra assai poco coraggiosa politica economica (ammesso e non concesso che si possa definire tale). Gli altri, i “Pigs”, hanno adattato il loro sistema produttivo, burocratico e fiscale alla realtà globale e alla moneta comune – anche perché vincolati dagli aiuti finanziari internazionali – mentre l’Italia, l’altra “i” dei “Piigs”, essendosi sempre rifiutata di prendere atto di appartenere al “club dei maiali” o quindi avendo sdegnosamente allontanato qualunque soccorso, adesso rischia di doverlo subire forzosamente, quell’aiuto “esterno”. Per fare le riforme che la politica nazionale non è stata e non sembra ancora in grado di fare. Piaccia o non piaccia all’inquilino di Palazzo Chigi.

Gufi e Pil

Gufi e Pil

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Anch’io, come l’ottimo Giovanni Orsina, mi domando se Renzi mi abbia inserito nella lista dei “gufi” che da mesi evoca come i suoi veri oppositori (già, gli altri o fanno parte della maggioranza parallela o si sono liquefatti). E temo – pur contando sulla sua amicizia – che l’Elefantino mi voglia schiaffare d’autorità in quella che lui chiama, non senza ragione, «carognesca èlite» perché ho il vizio di badare alla fastidiosa variabile che si chiama andamento (congiunturale e strutturale) dell’economia. Sì, quel viziaccio che mi aveva procurato guai con il facondo Berlusconi (quello dei «ristoranti pieni»), con l’iracondo Tremonti (quello dell’Italia che «sta messa meglio degli altri»), con l’algido Monti (quello del «cresci Italia») e con il cocciuto Letta (quello della «luce in fondo al tunnel»). Tuttavia accetto il rischio e scanso ogni esitazione: l’avevo detto.

Sì, l’avevo detto che delle ripresa non c’era neppure l’ombra, anzi che saremmo tornati in recessione. L’avevo detto che gli 80 euro non si sarebbero tramutati in consumi e che quella non era la misura giusta (se non ai fini elettorali) per far riprendere la nostra economia. L’avevo detto che l’export non sarebbe bastato, intestato com’è a solo 12-15mila imprese, e che la crescita si fa solo con gli investimenti, a loro volta figli di una politica economica e industriale da piano Marshall. Così come avvertito di non dare la colpa a Bruxelles e Berlino – che pure ne hanno – perché sono un alibi a non fare. Come ora è un alibi dire che siamo in recessione perché si è fermata la Germania: il crollo dell’export è stato con i paesi extra Ue. Già, avevo visto meglio del Def (ci vuole poco). Ma non me ne vanto. E non traggo (ancora) conclusioni su Renzi e il suo governo. Insomma, io (come altri) guardavo la realtà, non facevo né il pessimista piagnone né tantomeno tifavo per la conservazione, né quella ideologica né quella in nome di interessi. Ho avuto ragione, ma me ne dolgo.

Non godo affatto nel sentire tornare la parola recessione nel lessico quotidiano. Non mi piace dover mettere in fila ben 17 trimestri con il Pil in rosso sui 28 trascorsi da inizio 2008. Anzi, soffro a vedere che ben 12 degli ultimi 13 trimestri hanno il segno medio davanti (unica eccezione il quarto trimestre 2013). E mi cospargo il capo di cenere. Sinceramente. Chiedo, però, solo una cosa: vorrei che chi ha sbagliato previsioni e scenari almeno avesse la franchezza di ammetterlo. E, soprattutto, che non diventasse recidivo. Eh sì, perché tra Renzi e Padoan non solo autocritica saltami addosso – abbiamo fatto tutto bene, la ripresa è lenta (veramente è la recessione ad essere svelta) ma se perseveriamo arriverà – ma pure giurano che «non c’è bisogno di fare alcuna manovra correttiva». Sicuri? Mi pare improbabile che, con il Pil che scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6 per cento non sia da ricalcolare. Starà comunque entro il 3 per cento? Forse, ma sappiamo che l’Ue non farà sconti e visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016 potrebbe chiederci di cominciare a limare fin d’ora. Inoltre molti dei provvedimenti del governo, a cominciare dagli 8 euro, sono assolutamente privi di reale copertura – se non si vuole usare la solita presa in giro dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review – e da qualche parte dovranno pur saltar fuori, e i margini di manovra sono stretti, come ha palesato la vicenda dei “quota 96” in cui la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso. Se infine aggiungiamo che, per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, si capisce come l’intervento correttivo dei conti pubblici – per almeno una ventina di miliardi – sia una necessità e non l’ennesima invenzione dei menagramo. Anzi, rimandare a domani quello che andrebbe fatto oggi provocherà solamente l’acutizzarsi dei problemi e la necessità di intervenire ancor più pesantemente in futuro. No, purtroppo non c’è alcun iperbolico avanzo primario che tenga. La manovra andrà fatta. A meno che…

Ecco, c’è un solo modo per evitare i soliti tagli lineari e le solite tasse più o meno occulte: cambiare completamente registro. Sì, dotarsi di coraggio e dare la scossa che serve al paese attraverso una tripla azione di governo. Da un lato, un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico finalizzata sia all’abbattimento dello stock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro come ha suggerito il viceministro Calenda, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Infine, avviare riforme strutturali – vere – che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul Pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi., 16 in più di quanto programmato e il 7,8 per cento in più del 2013. Lo so, si tratta di politiche impegnative, faticose. Ma, senza, l’esito è già scritto. E ora, se credete, imbalsamatemi e mettetemi pure nella stanza dei gufi. Sic.  

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Meglio tardi che mai. Non è Cottarelli ad aver sbagliato, è fallimentare l’idea stessa di un commissario alla spesa pubblica

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ne sentiremo la mancanza. Se è vero che “mister spending review”, alias Carlo Cottarelli, lascerà l’incarico per riapprodare al Fondo monetario, da dove proveniva prima che qualcuno avesse la fessa idea di chiamarlo a sforbiciare la nostra spesa pubblica, inefficiente prima ancora che eccessiva, trattasi di una buona notizia. Anzi, potrei dire meglio tardi che mai, visto che a marzo in questo stesso spazio scrissi una sorta di lettera aperta a Renzi suggerendogli di “rottamare” il commissario alla revisione della spesa come primo costo da tagliare. Ma non per Cottarelli, che non conosco personalmente e nei confronti del quale non ho alcuna riserva tranne quella derivante dal fatto che a suo tempo avesse accettato un siffatto incarico. Anche perché non fu Renzi ad aver avuto la cervellotica pensata di nominare un commissario che con un lanternino si mettesse a cercare eccessi di spesa e di sprechi – sia chiaro, non per i 258mila euro del suo emolumento, che queste sono le miserie populiste cui si attaccano coloro che non hanno idee in zucca – e dunque decidere che a dover essere rottamato non è Carlo Cottarelli ma la figura stessa del commissario non rappresenterebbe per il presidente del Consiglio alcuna forma di autocritica (pratica cui non sembra avvezzo).

Il vero problema, infatti, sta nell’aver immaginato che il governo potesse delegare il compito di ridurre e riqualificare la spesa pubblica – perché di entrambe le cose c’è bisogno, in Italia – a un soggetto privo di rappresentanza e responsabilità politica. E non solo perché ciò denuncia la tendenza della politica a sfuggire ai propri obblighi, cosa che contribuisce in modo devastante al processo di delegittimazione delle istituzioni già in atto, ma anche e soprattutto perché non è così che si ottengono i risultati che si dice di voler perseguire. La spesa pubblica è stata per decenni ed è tuttora il perno intorno a cui ha ruotato buona parte dell’economia italiana e su cui si è retto l’equilibrio sociale del Paese. Ora, renzianamente parlando, il sistema va “rivoluzionato”, e ciò si ottiene solo con le riforme strutturali, non con la ricerca dello spreco qui e della corruzione là, importante nella comunicazione politica ma del tutto secondaria nella realtà macro dei fatti. La rivoluzione non si fa tagliando il numero di auto blu e mettendone qualcuna all’asta. Tantomeno si realizza con i tali lineari, che incidono carne morta e viva allo stesso modo. Anzi, l’obiettivo primario non è neppure la riduzione della spesa bensì le riforme di sistema. Nel senso che quei 7-8 punti di spesa sul Pil di cui dovremmo liberarci diventano conseguenza delle riforme stesse. Le quali non possono che essere concepite e realizzate da governo e Parlamento. Anche perché altrimenti si finisce con scrivere manovre di bilancio che prevedono riduzioni di spesa immaginarie. Come i 14 miliardi ipotizzati per il 2015, di cui non si vede neppure l’ombra.

Prendiamo la previdenza, che nella classifica della spesa è al primo posto. Non va bene che eventuali tagli alle pensioni siano immaginati per ridurre la spesa corrente in modo da far rientrare nei pagamenti il deficit, perché l’equilibrio della spesa previdenziale deve essere calcolato nel lungo periodo. Né tantomeno ha senso che interventi, anche piccoli e una tantum, siano oggetto di spending review – come quelli indicati nello stesso studio presentato da Cottarelli al governo – perché non possono e non devono essere concepiti al di fuori delle sedi istituzionali proprie.

Altro esempio: la sanità, che è al secondo posto in classifica. Ora il commissario può anche scoprire che il posto letto o la siringa in Calabria costano molto di più che in Lombardia, ma la questione va affrontata alla radice a monte. Ha senso che esistano venti sanità diverse? Ha funzionato il passaggio delle competenze alle Regioni, visto che ben sei sono commissariate e almeno altrettante dovrebbero esserlo? No. E allora si faccia la (contro)riforma del Titolo V avendo il coraggio di riportare in capo allo Stato centrale una spesa regionalizzata che in molti casi è del tutto fuori controllo. E già che ci siamo, semplifichiamo un decentramento amministrativo elefantiaco che produce burocrazia e corruzione. L’obiettivo è ridare efficienza alla macchina amministrativa e ripensare il fallimentare Sistema sanitario. Ma vedrete che, come conseguenza, avremm anche un risparmio di spesa, a regime, di almeno 100-120 miliardi. Un lavoro che non può essere affidato ad alcun commissario, neppure fosse il miglior tagliatore di costi del mondo e per di più lavorasse gratis.

Dunque, Renzi approfitti dell’addio di Cottarelli per cambiare strada. Anche perché, se non gli riuscirà di andare a elezioni in autunno – cosa difficile, anche se i maghi del filibustering ce la stanno mettendo tutta per dargli una mano – gli toccherà fare una manovra correttiva prima di fine anno che non potrà certo essere fatta di maggiori entrate fiscali da lotta all’evasione e minori spese da spending review. Non se le beve più nessuno.

Il 28esimo trimestre

Il 28esimo trimestre

Enrico Cisnetto – Il Foglio

È destino. L’Italia si occupa sempre di altro rispetto a quello che sarebbe più urgente e necessario. Ora, per esempio, l’attenzione è morbosamente focalizzata sulla “rottamazione” politico-istituzionale in corso – di cui tra l’altro stiamo ancora aspettando la traduzione delle intenzioni, peraltro non sempre encomiabili, in fatti concreti – mentre, viceversa, troppo poco concentrata sul florilegio di dati negativi che sul fronte della congiuntura economica escono quotidianamente. Ultimi quelli di ieri sulla caduta delle vendite al dettaglio e la diminuzione della fiducia dei consumatori, con ciliegina sulla torta la previsione del Fmi di un pil in crescita solo di tre decimi di punto a fine anno (e speriamo sia quella giusta, visto che per Bankitalia sarà dello 0,2 per cento e per Confindustria sarà “piatta”). Ma, ancor più importanti sono i dati sull’export, cui è stato dedicato un centesimo dello spazio giornalistico riservato alla riforma del Senato o a quella della legge elettorale (entrambe pessime, senza per questo sposare le assurde tesi sulla “dittatura di Renzi”). Infatti, le esportazioni italiane verso i paesi fuori dai confini europei a giugno sono calate del 4,3 per cento rispetto a maggio e del 2,8 per cento nei confronti del giugno 2013, considerato che la flessione annuale è stata particolarmente intensa per i beni di consumo durevoli (-9,7 per cento), l’energia (-5,6 per cento) e i beni strumentali (-4,4 per cento). Questi dati fanno scopa con quelli sulla produzione industriale. A maggio è stato certificato il peggior risultato della produzione industriale da novembre 2012 (con un calo dell’1,2 per cento su aprile e dell’1,8 per cento sull’anno precedente) e il peggior dato degli ultimi otto mesi sugli ordini industriali (-2,1 per cento su base mensile e -2,5 per cento annuo), con un allarmante calo del 4,5 per cento degli ordinativi esteri.

Basta guardare i numeri sciorinati da Francesco Daveri su LaVoce.info per capire la dimensione epocale del fenomeno: fatto 100 l’indice della produzione industriale dell’aprile 2008 (pre-crisi), lo scorso maggio il dato depurato dalle componenti stagionali ha fatto registrare un deludente 74,7. Mancano cioè 25,3 punti di produzione rispetto a prima dello tsunami. Una voragine che non solo non si chiude, ma rischia di allargarsi ulteriormente se anche le imprese che esportano, cioè che stanno sull’unica frontiera che ha retto alla crisi e su cui si può ragionevolmente contare per i prossimi anni, danno segni di cedimento. E quel quarto di capacità produttiva andata perduta – e che è inutile pensare di poter recuperare – è una media, perché ci sono settori in cui la caduta è ancora più forte. Per esempio quello dei beni di consumo durevole (automobili ed elettrodomestici bianchi in particolare) che fanno segnare 63,3 punti, cioè quasi 38 in meno rispetto all’aprile 2008. Ma sotto la media è stata anche la produzione di beni strumentali (per esempio mezzi di locomozione acquistati da imprese, non da consumatori) e di beni intermedi (produzione di componenti). Questo significa che non si fanno investimenti (si rinviano al futuro o si eliminano del tutto) e che le imprese maggiori usano sempre meno l’indotto italiano, preferendo il ricorso alle delocalizzazioni di intere filiere sub-produttive.

Tutto questo con conseguenze disastrose sull’occupazione. Un po’ meno pesanti per i fatturati aziendali, che hanno comunque almeno parzialmente beneficiato delle riduzione delle materie prime, delle riduzioni di costo consentite dalla delocalizzazione nell’est Europa e in Asia e, in alcuni casi, dall’apertura di nuovi mercati. Come testimonia l’indagine campionaria di Bankitalia su industria e servizi: per il 2014 le imprese si attendono infatti una ripresa del fatturato nella misura del 2,1 per cento, mentre la dinamica dell’occupazione rimarrebbe negativa, scendendo di un 1 per cento come lo scorso anno. Se a questo si aggiunge che lo scenario mondiale non aiuta – il Fondo Monetario, preso atto della frenata americana e delle prospettive meno rosee relativi ad alcuni mercati emergenti, ha rivisto al ribasso di tre decimi di punto la crescita del pil planetario, che nel 2014 sarà del 3,4 per cento per poi accelerare al +4,0 per cento (stima confermata) nel 2015 – è evidente che il nostro ritorno a un tangibile livello di ripresa e crescita è sfumato per quest’anno e si fa molto incerto per il prossimo, quando entreremo nel 28esimo trimestre dall’inizio della “grande crisi”. Che tale ormai non si può più definire, perché la parola crisi presuppone una fase – necessariamente non troppo lunga – di frattura di una traiettoria, che poi si va a ricomporre per consentire a quella curva di riprendere la sua precedente tendenza. No, qui la frattura è ormai tra un prima e un dopo, e quest’ultimo non potrà mai più essere come fu. Ecco perché si sente l’urgenza dell’azione politica, cui spetta il compito di resettare il paese e la sua economia su basi nuove, obbligatoriamente diverse da quelle precedenti. Solo che mentre essa diventa sempre meno rinviabile, il sistema politico-istituzionale si divide su ben altre questioni e pensa di risolvere le proprie contraddizioni ricorrendo all’arma delle elezioni anticipate. Occhio, perché potrebbe rivelarsi un’arma letale. Per il paese, ma prima di tutto per chi la usa.

 

Sparigliare il gioco

Sparigliare il gioco

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non ci siamo. La scossa che il paese attendeva, e sul presupposto della quale si è costruita la ripresa della fiducia di famiglie e imprese – importantissima sul piano della tenuta sociale – non è arrivata, e ora tutto sembra ancor di più maledettamente in salita. Il ministro Padoan, poco avvezzo alle sparate mediatiche, ci comunica che la ripresa è lenta, eufemismo per dire che non è nemmeno partita, e oppone un «no comment» all’ipotesi di una manovra correttiva dei conti pubblici, che poi un po’ penosamente è costretto a trasformare in un «no, non c’è nessuna manovra in arrivo». Al presidente di Confindustria Squinzi, che da tempo sembra mordersi la lingua per evitare di sbottare, scappa detto che «il tempo per riforme concrete, profonde, incisive, a 360 gradi, è ormai agli sgoccioli», che è un modo per manifestare scontento per quanto fin qui non c’è stato. Può essere che l’Istat fra poco ci comunichi che nel secondo trimestre il Pil abbia fatto +0,2 per cento anziché quel -0,1 per cento che sommando all’analogo risultato dei primi tre mesi ci avrebbe riportato in recessione (per la verità altre voci dicono che comunicherà lo zero senza virgola, così giusto per evitare il segno meno, ma niente di più), ma è dal fronte della produzione industriale che giungono i segnali maggiormente preoccupanti. Per maggio l’Istat ha già certificato il peggior risultato da novembre 2012, con un calo dell’1,2 per cento su aprile (dell’1,5 per cento per il manifatturiero puro) e dell’1,8 per cento sull’anno precedente. Considerato che nel primo trimestre la caduta era stata dello 0,9 per cento e pur mettendo in conto che per giugno Confindustria stima un aumento dello 0,7 per cento su maggio, è plausibile che nel secondo trimestre si arrivi a un’ulteriore riduzione dello 0,5 per cento sul precedente, e che dunque questa dinamica metta a rischio la possibilità di un recupero, seppure marginale, del Pil nella prima metà dell’anno. È ormai evidente, quindi, che gli otto decimi di punto di crescita previsti nel Def dal governo – peraltro del tutto insufficienti a farci rialzare la testa, visto che dal 2008 di punti di Pil ce ne siamo mangiati 9,4 – sono una chimera e che nel migliore dei casi si chiuderà il 2014 con il -0,4 per cento predetto dall’Istat (ma occorrerebbe una seconda parte dell’anno brillante, a essere realisti è più probabile la metà). Insomma, c’è da essere preoccupati, molto preoccupati. E non solo perché tutti i dati economici (persino l’inflazione allo 0,2-0,3 per cento è un problema grosso) sono talmente negativi da spezzare i sogni di ripresa anche dei più inguaribili ottimisti – a proposito, questi ultimi, signor presidente del Consiglio, sono i veri “gufatori” – ma soprattutto perché, mentre la positiva congiuntura internazionale a cui ci siamo aggrappati in questi mesi sembra volgere al termine, rischiamo che la speculazione finanziaria torni a colpirci.

In questo quadro, con la coperta corta che ci ritroviamo addosso della ripresa che non c’è e delle risorse che il rispetto dei vincoli europei ci impedisce di disporre, l’unica chance che abbiamo è sparigliare il gioco. Come? Certamente non tirando la giacca a Bruxelles e a Berlino per ottenere qualche margine di manovra in più, come, per esempio, usare i fondi Ue inutilizzati (nel 2013 ne abbiamo usati solo poco più della metà di quelli di cui avevamo diritto, ultimi in classifica insieme con la Romania). No, qui dobbiamo mettere in campo una doppia manovra. Da un lato, l’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico di cui si parla ormai da troppo tempo – e che anche Delrio ultimamente ha evocato, anche se non si capisce se a titolo personale o a nome del governo – finalizzata sia all’abbattimento una tantum di una fetta dello stock di debito sia all’acquisizione di risorse per fare investimenti pubblici e favorire quelli privati abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Dall’altro, un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul Pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto a esso connessi, e di portare – come ha giustamente suggerito in un ottimo intervento sul Sole 24 Ore il viceministro Calenda – dal 30 al 50 per cento, come la Germania, la quota di export sul Pil. Gli strumenti sono ormai individuati, e lo stesso Calenda li riassume efficacemente nella magica parola «riforme strutturali». Il postulato è quello ripetuto più volte in questa rubrica: la crisi non supera dal lato della domanda – che più di tanto non si fa stimolare e che comunque richiederebbe risorse che non abbiamo – ma agendo da quello dell’offerta, che deve essere ripensata partendo dal presupposto che essa deve soddisfare i consumatori del mondo e non più soltanto quelli italiani. Si tratta di rimuovere le cause di contesto che frenano lo sviluppo, specie quelle che hanno a che fare con la Pubblica amministrazione e il mercato del lavoro, così come di favorire il ridisegno di interi settori (turismo, filiera agroalimentare, energie rinnovabili, utilities, trasporto e logistica, facility management, solo per citarne alcune) e la moderna infrastrutturazione, materiale e immateriale, del paese. Attendiamo segnali. Anche a Ferragosto.