euro

La trattativa che mette  “sotto scacco” l’euro

La trattativa che mette “sotto scacco” l’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La “tragedia greca” era basata sulle unità aristoteliche di tempo e di luogo; l’azione era molto rapida e anche l’intreccio più complesso (si pensi a Edipo Re di Sofocle) si dipanava in meno di novanta minuti. Lo stilema venne rotto, al di della Manica, dal teatro elisabettiano e in Francia da quella mirabile Illusion Comique di Corneille che restò un unicum ed è anche oggi è poco rappresentata.

Questi ricordi non possono non venire in mente se si segue l’estenuante ultimo negoziato tra Grecia e Unione europea. Si tratta, abbiamo detto su queste pagine, di un gioco plurimo a più livelli in cui tutti i partecipanti cercano di raggiungere simultaneamente un equilibrio tra “reputazione” con i loro partner e “popolarità” con i loro sostenitori interni. È un equilibrio di Nash (proprio quello del film A Beautfiful Mind di circa tre lustri fa), ossia un profilo di strategie (una per ciascun giocatore) rispetto al quale nessun giocatore ha interesse a essere l’unico a cambiare. Grazie a Nash sappiamo che se ogni componente del gruppo fa ciò che è meglio per sé, il risultato cui si giunge non è che la situazione ottimale di un giocatore sia ottimale anche per tutti gli altri (l’ottimo paretiano dei testi universitari di un tempo) e si abbia il volterriano “migliore dei mondi possibili”. Dato che nel suo schema non c’è una mano invisibile è possibile che, se ogni giocatore fa unicamente il proprio interesse personale, si giunga a un’allocazione inefficiente delle risorse.

Continua a leggere su IlSussidiario.net.
QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

L’Europa convalescente

L’Europa convalescente

Giuseppe Pennisi – Startmag.it

Il settimanale Americano “The National Review”, di orientamento conservatore, definisce l’Europa “Convalescente”. Cosa preoccupa oltreoceano dello stato di salute dell’UE? Su ‘The National Review’ , settimanale americano di orientamento conservatore , Michael Bird chiama l’Europa ‘convalescente’. I suoi strali sono orientati principalmente alla Gran Bretagna ma con riferimenti all’intera eurozona. E’ un segno di miglioramento in quanto in passato l’Unione Europea veniva chiamata ‘ il vecchio ammalato della comunità internazionale’.

Continua a leggere su Startmag.it.
Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Il “Jolly” da 25 miliardi in mano ad Atene

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La conclusione della riunione dell’Ecofin del 20 febbraio ha lasciato molte bocche amare, poiché appare difficile che nell’arco di quattro mesi, pur con il supporto dell’Ocse, il Governo della Repubblica ellenica riesca a preparare un programma di riassetto strutturale tale da convincere i partner dell’Eurogruppo. Appare ancora più difficile che i lineamenti di tale piano siamo pronti e consegnati a Bruxelles nel corso della giornata di oggi e discussi (e approvati) domani da un’altra riunione collegiale.

C’è, senza dubbio, grande attesa per quali saranno i contenuti nella lettera che entro stasera dovrebbe arrivare alla Commissione europea e all’Eurogruppo. C’è anche – occorre dirlo – una buona dose di scetticismo, almeno negli editoriali dei quotidiani economici e nelle dichiarazioni di esponenti grandi e piccoli delle istituzioni europee. L’impressione generale è che si è solamente guadagnato tempo per evitare una probabile uscita della Grecia dell’eurozona e il caos sui mercati finanziari mondiali che ciò causerebbe. La settimana scorsa – com’è noto – si è mossa anche Washington, spesso negli ultimi tempi poco attenta ai problemi europei (a ragione di quelli in altre parti del mondo) per incidere soprattutto su Atene affinché si giungesse a un accordo.

Ma se ci fossero informazioni nuove e tali da cambiare le carte in tavola? Un dato nuovo, e non irrilevante, è stato portato all’attenzione di un gruppo ristretto di economisti e specialisti di finanza, il 18 febbraio a Londra in una riunione riservata (ma non troppo) tenuta nei piani alti della torre di Morgan Stanley a Londra. Sono i calcoli di Paul B. Kazarian, economista e finanziere Usa di origine armena, che ha lavorato a lungo per Goldman Sachs prima di creare una propria finanziaria a Providence, Rhode Island, (Japonica Partners con cui ha assestato un paio di colpi fortunati). Ora, cinquantanovenne, è ricchissimo e ha un portafoglio gonfio di bonds greci (quelle che la Banca centrale europea considera quasi-spazzatura) nella convinzione che gli porteranno un’enorme guadagno. A suo avviso, il debito “netto” greco è notevolmente inferiore a quanto indicato nelle cifre ufficiali e il Paese ha tutti i numeri per rimettersi in cammino.

La materia è molto tecnica. Quindi, va spiegata con ordine. Il debito sovrano greco è stimato in 318 miliardi di euro, applicando metodologie e procedure Eurostat che sono essenzialmente le stesse di quelle applicate da Banca mondiale, Fondo monetario internazionale e Ocse. Kazarian sostiene che se ciò che in ballo è il fallimento della Repubblica ellenica, al fine di valutare la consistenza effettiva del debito e il suo peso sull’economia occorre impiegare strumenti di contabilità aziendale, per l’appunto gli International accounting standard (Ias), in vigore da diversi anni negli Usa e in Europa.

Gli Ias hanno due colonne: il dare e l’avere. Nella colonna del dare, soprattutto, tengono conto del valore attuale dell’indebitamento. I numerosi riassetti del debito greco effettuati dal 2010 fanno sì che il valore attuale dell’indebitamento sia inferiore al debito nominale computato da Eurostat e altri. Sino a questo punto, il ragionamento di Kazarian tiene: è confermato indirettamente dal fatto che – come notato su queste pagine – il servizio del debito incide sul Pil greco meno di quanto non incidano i servizi del debito di Italia, Spagna e Portogallo sui relativi prodotti nazionali.

La colonna dell’avere contiene stime del valore del patrimonio pubblico greco: dai beni demaniali, alle partecipazioni statali, a beni culturali (quali il Partenone). Ritengo che non si debba tenere conto della colonna dell’avere, sarebbe come se nella contabilità dell’indebitamento italiano si computassero i 3800 miliardi di euro di risparmi delle famiglie e anche il valore del Colosseo e del Duomo di Milano. Se ci sofferma però sul dare, il peso del debito greco scende di 20-25 miliardi di euro. E un percorso di riassetto strutturale appare maggiormente fattibile.

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

La Grecia ha il diritto di fallire. Fallisca

Carlo Lottieri

C’è qualcosa di incomprensibile, assurdo, davvero irrazionale, in questa crescente tensione che oppone Atene e Bruxelles, il governo greco e il resto dell’Unione europea. In sostanza, da anni la Grecia è vittima di politiche socialiste – per iniziativa della destra e della sinistra, senza rilevanti differenza tra l’una e l’altra – che hanno moltiplicato il parassitismo, i privilegi, gli sprechi. Sotto certi punti di vista, quel Paese è una sorta di Sud privo di un Nord, o meglio un Mezzogiorno che ha preteso di assegnare all’Europa il ruolo di ”ufficiale pagatore”. Per decenni la situazione ha in qualche modo retto, ma ora i nodi sono venuti al pettine.

La Grecia si ritrova quindi con una pletora di dipendenti pubblici e con una spesa fuori controllo, mentre il settore privato è davvero troppo debole e quasi impossibilitato a crescere. Per giunta, i greci hanno abbandonato la dracma per l’euro e hanno quindi accettato – almeno in linea teorica – di adottare comportamenti virtuosi a tutela della moneta comune.

Di fronte al disastro dell’economia greca, l’Europa ha reagito nel peggiore dei modi: dando soldi e imponendo una sorta di commissariamento”. L’arrivo ad Atene della troika ha favorito il successo, alle ultime elezioni, dell’estrema sinistra di Syriza, che ora vorrebbe continuare a incassare gli aiuti europei senza però adottare alcuna misura di austerità. Anzi, il programma elettorale che ha permesso a Tsipras di vincere è proprio agli antipodi di ogni politica che punti a ridurre le spese, smantellare il welfare, creare spazi per la concorrenza e il mercato. L’euro è molto di più di una moneta unica: purtroppo essa è stata concepita come un passaggio cruciale verso quella creazione di un’Europa unita che le élite del continente considerano necessaria e inevitabile. Questo è uno dei motivi per cui è tanto difficile proporre quello che invece dovrebbe essere obbligatorio fare: l’espulsione della Grecia dall’eurozona.

I greci hanno diritto di sbagliare. Hanno votato un demagogo e ora è opportuno che ne paghino le conseguenze. Non è pensabile che la burocrazia di Bruxelles o il governo tedesco possano dettare un programma alternativo a quello uscito dalle urne. È bene che non siano aiutati finanziariamente, tornino alla dracma, scontino le conseguenze del loro sganciamento dall’Europa (alti tassi sul debito), ma che abbiano la possibilità di sperimentare l’efficacia – se mai esiste – dei loro sogni anticapitalisti.

La libertà non si impone: né con l’esercito, né con il commissariamento dei regimi politici. È facile immaginare che una Grecia fuori dall’euro si troverà in pessime acque, non tanto perché l’euro sia chissà che cosa, ma perché senza vincoli esterni e senza la garanzia dei capitali altrui la Grecia è destinata a trovarsi in una condizione assai complicata. Non ci sono però alternative e certo non si creda che i postmarxisti di Syriza possano essere manipolati e fatti ragionare. La Grecia avrà problemi quando sarà fuori dall’euro, ma ne avrà perfino di peggiori se continuerà a essere sovvenzionata e resterà sotto una sorta di tutela straniera. Togliamo ogni alibi agli sfascisti al governo di Atene e lasciamo che quel popolo paghi le conseguenze dei propri errori di decenni.

Una Grecia che rimanga in tal modo all’interno della zona euro, per giunta, sarebbe un pessimo segnale per tutti: per la Spagna, la Francia e soprattutto l’Italia. Bisogna che tutti capiscano, e alla svelta, che non vi sono tedeschi o danesi disposti a pagare i buchi altrui. Il messaggio deve arrivare subito e in maniera molto chiara: ad Atene come altrove.

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Nessuno è innocente nella tragedia greca

Luigi Zingales – L’Espresso

Nelle tragedie dell’antica Grecia l’eroe era al tempo stesso colpevole e innocente. Si pensi ad Edipo, che uccide il padre e sposa la madre. Ha commesso due orribili crimini, parricidio ed incesto, e in quanto tale è colpevole. Ma ha agito inconsapevolmente. Non è forse anche innocente?

Nella stessa situazione si trova oggi il popolo greco, di fronte alla tragedia economica. Da un lato è colpevole. Colpevole di aver vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità, per di più mentendo al mondo intero sulla reale situazione delle proprie finanze. Una volta ricalcolato correttamente, il deficit di bilancio del governo greco nel 2009 era 16% del Prodotto interno lordo. La cosiddetta austerity, ovvero il taglio della spesa pubblica, non è una cattiveria imposta dalla Troika, ma una necessità, il frutto inevitabile di una colpa. Il popolo greco è anche colpevole di aver dilapidato una fortuna nelle Olimpiadi del 2004 (Renzi pensaci finché sei in tempo) e in spese improduttive e clientelari. Infine il popolo greco è colpevole di aver votato per anni due partiti, uno più corrotto dell’altro: vivevano di clientelismo finanziato dalla spesa pubblica e di favori fatti ai potenti oligarchi, che controllano quel poco di economia privata che funziona, e ai capi sindacali, che controllano il resto. Ma allora hanno ragione i tedeschi che sostengono che la Grecia deve pagare per le sue colpe?

Come nelle tragedie greche, la risposta non è così semplice. Il popolo greco, al pari di Edipo, era per lo più inconsapevole. Inconsapevole dei falsi in bilancio dei propri governi, almeno quanto lo erano i funzionari dell’Unione Europea che oggi si ergono a giudici. Inconsapevole dell’insostenibilità della propria situazione economica, almeno quanto le banche francesi e tedesche che hanno prestato, senza troppa attenzione, i soldi che hanno permesso ai greci di continuare a spendere. Inconsapevole che l’aiuto offerto dall’Unione Europea e dal Fiondo Monetario Internazionale era innanzitutto un aiuto alle banche tedesche e francesi. Ma allora ha ragione Syriza a chiedere un taglio del debito e la fine dell’austerità? Anche in questo caso la risposta non è semplice. Oggi un taglio nominale del debito sarebbe difficile da ottenere e forse nemmeno così necessario. Se in termini nominali il debito rimane elevato, in termini reali no. La maturità del debito è stata allungata a tassi di favore. Quindi il peso reale del debito non è così elevato come appare.

Il vero problema della Grecia rimane la bilancia dei pagamenti. Per lunghi anni il paese ha importato più di quello che ha esportato. Negli ultimi anni si è avvicinata al pareggio, ma lo ha fatto solo grazie a un crollo delle importazioni: la contrazione del reddito interno ha ridotto i consumi e soprattutto i consumi di beni esteri. Purtroppo le esportazioni non sono cresciute. Una ripresa del reddito, quindi, porterebbe inevitabilmente un deficit della bilancia commerciale difficilmente sostenibile. Per risolvere questo problema non c’è che una svalutazione. Ma finché la Grecia rimane nell’euro non ha questa possibilità. Il nuovo governo greco capeggiato da Syriza vorrebbe una ripresa dei consumi in Grecia senza un’uscita della Grecia dall’euro. A meno di un drammatico cambio della competitività della Grecia, i due obiettivi sembrano incompatibili. Prima o poi Syriza dovrà cedere su uno dei due. È più facile che ceda sul secondo.

Nelle tragedie di Euripide, l’ultimo degli autori classici, venne introdotto il “deus ex machina”, ovvero un personaggio divino calato sulla scena mediante una macchina teatrale per risolvere la situazione quando l’azione era tale che i personaggi non avevano più vie d’uscita. Anche l’odierna tragedia greca ha un disperato bisogno di un deus ex machina. Senza di esso, un’uscita della Grecia dall’euro sembra inevitabile, anche contro la volontà del popolo greco, che a stragrande maggioranza vuole rimanere nella moneta comune. Senza un deus ex machina a rimetterci saremo anche noi spettatori.

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Quel baluardo così fragile delle banche greche

Fabio Pavesi – Il Sole 24 Ore

Nel delicato (e pericoloso) gioco a scacchi tra la Troika e il Governo di Alexis Tsipras le prime a rischiare sono le banche greche. Un’eventuale rottura nel difficile negoziato si propagherebbe come un uragano sul sistema creditizio, primo fragile baluardo della zoppicante economia ellenica. Le profonde oscillazioni dei titoli bancari che avvengono pressoché giornalmente ne sono la prova più evidente. Certo le condizioni di base non sono quelle della prima crisi di Atene che diede vita a una fuga eclatante dei depositanti che sono culminati nel settembre 2012 in una emorragia di ben 90 miliardi di soldi sottratti dai conti correnti, oltre il 30% dello stock totale. Da allora il sistema si è stabilizzato ma non ripreso. I volumi dei depositi sono risaliti da allora di soli 15 miliardi. E la nuova fiammata di tensione ha fatto uscire dai conti correnti almeno 3 miliardi in pochi giorni. Se le cose dovessero precipitare la fuga dalle banche potrebbe riprendere vigorosamente corpo, facendo ricollassare l’intero Paese.

Gli effetti di quella fuga mai colmata sono stati devastanti. Le pericolanti banche greche non solo hanno dovuto attingere ai rubinetti della Bce per ben 160 miliardi per sopravvivere, ma hanno dovuto drasticamente tagliare gli impieghi per un centinaio di miliardi. Ecco il cortocircuito che ha aggravato la già traballante economia ellenica. Ora il fabbisogno da Francoforte è sceso a 60 miliardi e le banche greche hanno ricominciato a approvvigionarsi sul mercato interbancario. Ma basterebbe molto poco, un passo falso di troppo per far riesplodere il bubbone. Nuova potente fuga dai conti, mercato interbancario di nuovo congelato e nuova richiesta di assistenza. Una via oggi difficilmente ripercorribile come allora. Ma non solo. Le banche greche sono solo apparentemente sicure: nonostante il taglio dei prestiti, la recessione ha portato un fardello enorme nei conti. Solo le quattro principali banche hanno in pancia tuttora sofferenze pari in media al 30% del totale degli impieghi. Difficile credere che ci possa essere un prodigioso rientro dei crediti inesigibili da molti anni nel breve termine. E allora quei bilanci andranno incontro nei prossimi mesi a nuove perdite per le rettifiche sempre rimandate, ma prima o poi da effettuare. Ecco perché la partita a scacchi di Tsipras vede come epicentro di un’eventuale nuova devastante crisi proprio il sistema creditizio. Il primo baluardo che cadrebbe in un attimo se la trattativa dovesse naufragare in malo modo.

La doppia morale di Tsipras

La doppia morale di Tsipras

Alberto Mingardi – La Stampa

Ci sono diversi modi per raccontare la crisi greca. Uno, molto semplice, punta l’attenzione su un dato di fatto. Per certo, sappiamo che una delle parti in trattativa è il governo, piaccia o non piaccia, democraticamente eletto (quand’anche con poco più di un terzo dei suffragi) dal popolo greco. Chi sia la controparte è meno chiaro. C’è la Banca centrale europea, monumento di sapienza tecnocratica che suscita sospetto e diffidenza. C’è il Fondo monetario internazionale. E poi la Commissione europea: non c’è un solo europeo che si senta «rappresentato» da questo esecutivo continentale, che non si capisce bene cosa faccia né tantomeno a chi risponda. Sono della partita anche i governi nazionali: Matteo Renzi ha chiuso la porta a soluzioni «creative» del problema greco, non prima di aver regalato una cravatta ad Alexis Tsipras. I governi nazionali temono una Grecia insolvente, perché essi stessi le hanno prestato quattrini. Sui giornali sono apparse le simulazioni del costo pro capite di un default di Atene, per gli altri cittadini europei. La gente, però, presta poca attenzione. Sono decisioni che sente lontane. Alzi la mano chi, alle scorse elezioni europee, ha votato pensando non a vaghi ragionamenti sulla «austerità» ma alle concrete modalità di funzionamento dei meccanismi anti-crisi.

La narrazione, lo storytelling, democrazia contro tecnocrazia è appassionante. Ecco perché ci sta investendo proprio Tsipras, il cui motto è «democrazia dappertutto». Nel suo discorso al Parlamento, ha rinnovato gli impegni elettorali: aumenterà il salario minimo, fermerà le privatizzazioni, alzerà la soglia della no tax area. Un programma centrato su un aumento di spesa pubblica, senz’altro non bilanciato dalla riduzione del 50% del parco macchine blu e neppure dalle sforbiciate ai costi della politica o dalla lotta all’evasione. Auguri ai greci, ma almeno in Italia sembra il solito libro dei sogni delle coperture. Secondo Tsipras, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo ma lo ha privato del diritto di decidere». Decidere, ma coi soldi di chi? Nello storytelling democrazia contro tecnocrazia, il «diritto di decidere» viene sottratto ai popoli per la vendetta di entità misteriose, i «mercati», che si divertirebbero a calpestarne le prerogative. A questi «mercati», gli Stati, fra cui la Grecia, hanno per anni chiesto prestiti: che per definizione a un bel momento devono essere ripagati. Questi prestiti li hanno chiesti per «decidere», direbbe Tsipras. Decidere stanziamenti, programmi, sussidi.

Indebitarsi non è mai stato obbligatorio. Se uno Stato vuole fare più cose, può sempre aumentare le tasse. In questo caso, la popolazione si accorge immediatamente del costo di «solidarietà», «investimenti» e «Stato sociale». Accorgendosene, potrebbe pensare che è meglio vivere in un Paese dove la spesa pubblica è un po’ meno generosa, ma le persone possono decidere da sé che fare di una quota maggiore dei propri redditi. Se lo Stato s’indebita, il problema non si pone: qualcuno un bel giorno il conto lo dovrà pagare, ma non gli elettori che votano alle prossime elezioni. La classe politica promette allegramente: nel lungo periodo, saremo tutti morti. Non ha torto chi ricorda che gli Stati hanno sempre disposto dei loro debiti in modo diverso dalle famiglie o dai comuni cittadini: cioè che hanno sempre evitato, quando possibile, di onorarli. Il ricorso alla svalutazione li aiutava a diluirne il peso. Grazie all’odiata Troika, la Grecia di Tsipras oggi ha un avanzo primario e potrebbe, nel breve, continuare a pagare gli stipendi. Nel medio periodo, farebbe fatica a chiedere nuovi prestiti, come qualsiasi debitore insolvente.

Diceva Adam Smith: «Ciò che è saggezza nella gestione di ogni privata famiglia, difficilmente può risultare follia nel governo di un grande regno». La questione è tutta qui. È giusto che ci sia una «doppia morale»? Gli Stati già fanno cose che nessun altro può fare: se vengo fermato dopo aver rapinato una banca, ho un bel dire alla polizia che volevo soltanto ridurre le diseguaglianze. È auspicabile che gli Stati possano considerare i loro debiti carta straccia? Se così fosse, non si capirebbe perché qualcuno debba prestar loro dei soldi: e non solo alla Grecia. Tanto peggiore è la reputazione dei governi, tanto più alti sono gli interessi che dovranno corrispondere, per avere credito. E perché di uno Stato che non paga i suoi debiti i cittadini dovrebbero fidarsi quando promette loro la pensione, quando giura che non abuserà dei dati confidenziali in suo possesso, quando dice la sua verità alle famiglie delle vittime di un dirottamento aereo? Dove passa il confine fra le bugie lecite e quelle illecite? Per «decidere» Tsipras intende: scegliere senza subire le conseguenze delle proprie scelte. È un diritto che tutti sogniamo, ma che nessuno dovrebbe avere.

Così il Piano Juncker può  sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Così il Piano Juncker può sbloccare la trattativa Ue-Tsipras

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

La prima notizia è senza dubbio buona: il tanto temuto “mal di Grecia”, ossia il contagio della crisi finanziaria ed economica greca, al resto dell’eurozona, non avverrà – oppure se ci sarà, sarà in forma molto limitata blanda e l’Italia non ne sarà, come si era temuto, il vettore. I mercati internazionali hanno reagito con calma e souplesse alle richieste ad alta voce del nuovo Governo della Repubblica ellenica, anche a quelle del pittoresco ministro delle Finanze Yanis Varoufakis. E, soprattutto, la Banca centrale europea ha detto chiaro e tondo a tutti che “misure monetarie straordinarie” non vuole dire accettare in garanzia, per nuovi prestiti, titoli che domani possono essere carta straccia.

La seconda notizia è abbastanza buona. I nuovi governanti della Repubblica ellenica hanno iniziato la trattativa con quello che, in termini di “teoria dei giochi”, si chiama un gioco a ultimatum: un duello in cui una delle due parti deve soccombere (quale quello tra Don Giovanni e il Commendatore nelle varie versioni del mito del burlador de Sevilla). Ma appena la Bce ha mostrato non un bazooka ma un regolamento (e una dose di buon senso) hanno fatto marcia indietro, nonostante ad Atene (e non solo) le piazze si agitassero. Ciò vuol dire che si sta aprendo un negoziato che verosimilmente sarà lungo e difficile.

Le parti in causa sono numerose: i 19 Stati membri dell’eurozona, gli altri dieci dell’Unione europea, la Commissione europea, la Bce, il Fondo monetario internazionale e il resto del mondo in trepida e nervosa attesa. Ciascuna parte deve massimizzare due obiettivi: “la reputazione”, nel senso del rispetto delle regole nei confronti di tutti gli altri, e “la popolarità” nei confronti del proprio elettorato. Il Prof. Pier Carlo Padoan, attualmente ministro dell’Economia e delle Finanze dell’Italia, è un maestro di “teoria dei giochi multipli a più livelli” e potrebbe dare lezioni in materia. Potrebbe anche avere un ruolo centrale nella trattativa. Tuttavia, le divergenze tra gli obiettivi sono tali e tanti che è arduo prevedere che venga svolta unicamente sulla base della logica economica.

La terza notizia non è affatto buona. L’affaire Grecia ha scoperchiato la pentola di tutte le contraddizioni di un’unione monetaria (l’unica che io rammenti) effettuata non come conseguenza di un’unione politica, anche solamente confederale, ma come disegno puramente a tavolino tra Governanti di Paesi con storie, tradizioni, culture, strutture economiche profondamente differenti nella speranza che il resto arrivi come conseguenza del Trattato di Maastricht e degli accordi intergovernativi a esso successivi.

Gli esiti sono stati tali che ne sono nati movimenti che guardano con diffidenza (per parlare in toni gentili) alla moneta unica. La ripresa in atto nel Nord America e l’andamento abbastanza buono dell’economia mondiale mostrano che l’eurozona è il “grande malato” e che dal 2010 le difficoltà in cui versa non possono essere attribuite alla crisi dei mutui subprime venuta dagli Stati Uniti, ma, come ha chiaramente scritto la Banca d’Italia, a “una crisi del debito sovrano europeo”. Per risolverla, sarebbe auspicabile una conferenza dei debitori (numerosi) e dei creditori (pochi) e un metodo condiviso per procedere. È difficile pensare che un’assise del genere possa essere convocata in tempi brevi, anche e soprattutto poiché manca un metodo condiviso.

Nel breve periodo preverrà un approccio multi-bilaterale, termine elegante per dire di fare sì che tutti “salvino la faccia”, senza incorrere in costi eccessivi, quali il Piano Marshall per la Grecia che qualche anima bella ogni tanto evoca. Una soluzione potrebbe essere quella di allungare le scadenze del debito greco e dare un’allocazione speciale degli investimenti del “piano Juncker” alla Repubblica ellenica. Il prolungamento delle scadenza pare, in ogni caso, necessario per evitare un vero e proprio default: i greci lo presenterebbero al loro pubblico come una riduzione del debito (in sostanza lo è), i “duri e puri” direbbero ai loro elettori che non si è fatto alcun taglio ma soltanto somministrato un dosaggio di vitamine e antibiotici, le anime belle (poche e dubbiose come le vergini nelle processioni delle Pasque greche e non solo) inneggerebbero (a torto) alla flessibilità.

Un’allocazione straordinaria del “piano Juncker” non danneggia alcun partner della Grecia (principalmente poiché il pipeline di progetti di qualità ed effettivamente cantierabili non è affatto pieno) e permetterebbe al Governo greco di annunciare di avere portato fresh money a casa. Nel complesso si metterebbe una pezza. Sempre che non ci sia l’intenzione di acquistare un nuovo paio di pantaloni.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.