euro

Invisibili trame contro l’euro

Invisibili trame contro l’euro

Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

La simpatia che il nuovo governo greco suscita in molti, la condiscendenza verso un Paese le cui condizioni sociali sono da alcuni anni drammatiche rischiano di farci cadere in una trappola che potrebbe portare dritti alla fine dell’euro. La Banca centrale europea con la mossa di ieri sera, e cioè con la sospensione del finanziamento diretto delle banche greche, ha mostrato di essere ben conscia dei rischi che si stanno correndo. La vittoria elettorale di Alexis Tsipras e il suo annuncio che non intende rispettare gli impegni assunti dal precedente governo erano stati accolti in modo diverso in Germania. Da Angela Merkel e dal suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, con grande preoccupazione. Dagli oppositori dell’euro con comprensione. Costoro vedono nel risultato delle elezioni greche un’occasione per criticare il modo in cui la Merkel ha finora gestito la crisi di Atene. Auspicano una revisione del programma di salvataggio concordato con la troika (Fondo monetario internazionale, Ue e Banca centrale europea) e ascoltano con attenzione le nuove proposte della Grecia per una ristrutturazione dei suoi debiti.

Critiche legittime e programmi ragionevoli, ma che nascondono un comportamento strategico. Il loro vero obiettivo è spingere la Bce ad accettare una ristrutturazione dei titoli di Atene che essa acquistò nel 2010 nell’ambito del Securities market programme, circa 31 miliardi di euro. Ma se lo facesse, la Banca violerebbe i trattati europei, che impediscono di finanziare debiti pubblici stampando moneta. I governi sono liberi di condonare anche tutto il debito greco, ma la Bce (che peraltro fino ad ora ha ottenuto un buon rendimento da quell’investimento) non lo può fare.

Non solo la Bce non può accettare perdite sui titoli pubblici che ha acquistato: non può neppure accettare, come garanzia nelle operazioni di finanziamento delle banche, titoli di un Paese che ha abbandonato il programma concordato con la troika. Un programma che, come ha rivelato ieri sera la Bce, è già di fatto violato. La sospensione del finanziamento delle banche è un primo passo nella direzione che potrebbe portare alla uscita della Grecia dall’Unione monetaria. L’obiettivo strategico di chi oggi è così accondiscendente verso Tsipras era dare scacco matto alla Bce, costringendola a violare apertamente i trattati. Indirettamente, bloccare il cosiddetto Quantitative easing, il programma di acquisto di titoli pubblici che la Bce ha annunciato il 22 gennaio. Eliminare quindi il paracadute per l’euro e mettere a rischio l’intera architettura dell’Unione monetaria. Ma da ieri i nemici dell’euro devono sapere che Francoforte rimane il presidio della moneta unica.

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti.  Anche da Cottarelli

Ma sul debito di Atene i conti son già fatti. Anche da Cottarelli

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Rispunta Carlo Cottarelli. Questa volta ad Atene. Non nella veste di autore di spending review secretate, quindi, ma di “avvocato difensore”  della Grecia alle dirette dipendenze di Alexis Tsipras, in quanto rappresentante della Repubblica ellenica («oltre che dell’Italia e di un’altra mezza dozzina di Stati») nel consiglio del Fmi, il partner senior della troika se non altro per l’esperienza e le risorse professionali di cui dispone.

Cottarelli è avvezzo a trattare di debito pubblico. Per di più trova il terreno pronto. Nel novembre 2014 – a Washington, Bruxelles ed Atene è il “segreto di Pulcinella”, anche se a Francoforte si afferma di non saperne nulla – il presidente del Consiglio greco allora in carica Antonis Samaras aveva concluso un patto top secret con i partner europei che contano. Atene avrebbe dovuto rientrare quanto il dovuto nei loro confronti – quasi 190 miliardi su 300 – entro il 2057. Non si possono toccare i crediti privilegiati targati Fmi e Bce, perché salterebbe l’intero sistema. Ma la Grecia avrebbe forse avuto un periodo di grazia (senza pagare nulla ai maggiori creditori) fino al 2020. Da quella data avrebbe poi rimborsato a tassi di interesse “calmierati”, pari a solo lo 0,53% annuo in aggiunta al tasso armonizzato d’aumento dei prezzi pubblicato nel Bollettino Mensile della Banca centrale europea. Tsipras è ovviamente perfettamente al corrente.

Su questa base è anche facile non solo fare il gioco delle tra carte, ma mostrare risultati differenti a seconda dell’uditorio. Mediamente il debito greco ha scadenze di 16 anni, oltre il doppio di quelle di Francia, Germania ed Italia. Ad un tasso d’attualizzazione nominale (l’inverso del tasso d’interesse) medio del 2,5% (il 2% definito come “obiettivo d’inflazione” della Bce più lo 0,53%) il prolungamento delle scadenze comporta una riduzione di un terzo di quanto dovuto – e un taglio ancor maggiore se nel pacchetto rientra anche il “periodo di grazia”.

Mediaticamente sarebbero tutti contenti. Tsipras sottolineerebbe ai suoi che ha ottenuto un bel taglio. La troika che si è trattato di un allungamento “tecnico” per meglio consentire alla Grecia il rientro del debito e l’avvio dello sviluppo. Ai contribuenti italiani l’operazione costerebbe circa 15 miliardi. Spalmati, però, su una ventina d’anni.

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

La barriera dell’euro e l’abisso incertezza

Alessandro Plateroti – Il Sole 24 Ore

In un’Europa divisa e senza leadership, politicamente in stallo ed economicamente fragile, non c’è evento straordinario a cui non venga ormai attribuito un potenziale dirompente per il futuro dell’Eurozona. Che si tratti di crisi geopolitiche, di tensioni finanziarie o monetarie, di elezioni nazionali o di scelte politiche su austerity e riforme, poco importa. Più il destino dell’euro viene messo in gioco, più chi lo fa guadagna: guadagnano denaro gli speculatori di Borsa, come avviene ormai dal 2011 con l’altalena di tassi, azioni e valute, e guadagnano consenso partiti e movimenti antagonisti, che proprio negli slogan contro l’euro e l’Europa hanno trovato ragion d’essere.

In questo senso, gli eventi dell’ultima settimana offrono più spunti di riflessione sia per chi difende l’Unione monetaria sia per chi l’attacca all’origine: in particolare, il quantitative easing della Bce e le elezioni in Grecia. Entrambi gli eventi sono stati caricati di tensione e di significati ben oltre il dovuto, con palesi distorsioni della realtà dei fatti. Da un lato, si è attribuita infatti alla Germania una cinica determinazione nel bloccare la manovra monetaria di stimolo economico e di contrasto della deflazione: bloccando il Qe, è stato il coro, Berlino farà saltare per i propri interessi la Grecia, l’Italia e l’euro, affermandosi come potenza egemonica. Risultato: il sentimento anti-tedesco è lievitato nell’Europa mediterranea, mentre in Grecia ha fornito a Syriza e a Tsipras la spinta decisiva per il successo elettorale. Le cose sono andate però diversamente: non solo Draghi ha ottenuto il via libera al Qe, ma l’entità della manovra – 1.100 miliardi di euro in acquisti di bond sovrani – è andata ben oltre le attese del mercato. Le Borse sono quindi salite, i tassi periferici (a cominciare da quelli dei BTp italiani) sono scesi ai minimi storici e l’euro ha perso terreno sul dollaro, come appunto si voleva. E con la manovra Draghi, ha stimato la Confindustria, il Pil italiano potrebbe mettere a segno un balzo dell’1,8% nell’arco di due anni, mentre per le imprese ci sarà un risparmio di 3,2 miliardi sugli interessi.

È forse questa la dimostrazione del sentimento anti-europeo della Germania? In Borsa non la pensano certamente così, visto il rally degli indici e dei listini europei: per i mercati, il QE non è certo la panacea della crisi e la ripresa economica resta una sfida da vincere con le riforme, ma l’Euro e la sua difesa da parte della Bce sono la vera garanzia a protezione degli investimenti finanziari e produttivi. Se l’Italia sta già beneficiando di questa percezione malgrado la durezza della crisi, è solo perché il mercato non attribuisce ai movimenti anti-Euro la forza per spingere politicamente un ritorno alla lira. Nell’ottica di chi investe, la sfida al rigore non è un delitto: un conto è dare fiducia a un Paese in crisi che chiede meno vincoli e condizioni migliori per tornare a crescere, un altro è investire su una nazione indipendente ma isolata, con una valuta “sudamericana” in balia degli eventi, con scarse possibilità di riaccedere al mercato dei capitali e senza reti di protezione internazionale sui tassi di interesse.

Un discorso analogo vale per la Grecia: se i mercati ieri hanno reagito in modo composto alla vittoria di Tsipras è soltanto perchè hanno capito bene che il leader di Syriza non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Euro. I greci non vogliono la Dracma, ma comprensione, solidarietà e migliori condizioni dai loro creditori. I mercati non votano, non sono né di destra né di sinistra, cercano solo garanzie e certezze finanziarie: la Grecia oggi è un fattore di rischio, ma circoscritto, quantificabile e gestibile.

Chi ha attribuito alla Grecia e a Tsipras la volontà di uscire dall’Unione monetaria lo fatto insomma per esigenze politiche nazionali o per rincorrere il vento del populismo. E lo stesso è stato fatto con la Germania. Anche se Berlino e la Bundesbank hanno la propria parte di responsabilità nell’escalation delle tensioni sul voto greco, sarebbe un errore pensare che la Germania o l’Europa siano pronte a espellere Atene dall’Unione monetaria solo perché chiede di rinegoziare le condizioni dei prestiti e dell’austerity. A questo proposito, è bene ricordare che già nel 2012 l’Europa accettò la rinegoziazione dei prestiti alla Grecia proprio per evitare l’uscita di Atene dall’Euro e il rischio di un devastante contagio europeo, sia politico sia finanziario. Perchè ora non si dovrebbe fare altrettanto?

Abbandonare ora la Grecia sarebbe non solo sbagliato, ma in contrasto con lo spirito solidaristico con cui l’Europa sta cercando di ripartire. E d’altra parte, proprio i mercati finanziari sembrano aver capito meglio di altri osservatori politici che non sarà certamente la Germania a mettersi di traverso sul salvataggio della Grecia o sulle manovre di stimolo della Bce. A dirglielo è stata direttamente la Merkel lunedì scorso, nel pieno delle polemiche contro Berlino: «Questa settimana – ha risposto la Merkel alle domande dei giornalisti sullo scontro in Bce – non sarà affatto determinante per l’Europa: tanto il risultato della riunione in Bce sul quantitative easing quanto l’esito delle elezioni in Grecia non rappresenteranno fattori di rottura o di sopravvivenza per l’Euro». E così è stato. Detto questo, è chiaro che i prossimi mesi saranno determinanti per l’Eurozona. Il caso greco, per le sue dimensioni finanziarie limitate, può rappresentare l’occasione giusta non solo per ricalibrare, secondo un principio di equità e di tolleranza, il peso dei sacrifici nei Paesi ancora schiacciati dalla recessione, ma anche una grande opportunità per dimostrare che l’Europa è molto più di un’espressione geografica.

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Perché dopo la scossa di Draghi serve privatizzare in Italia

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei giorni in cui tutti azzardano stime sugli effetti del Quantitative Easing (Q.E.), volgiamo lo sguardo a cosa fare per rendere efficaci le “misure monetarie non convenzionali” varate il 22 gennaio dalla Banca centrale europee. Non solo mi concentro sulle materie strettamente nel nostro campo: ciò che possono (e che debbono) fare Parlamento e Governo della Repubblica Italiana mentre gli altri 18 membri dell’eurozona molto probabilmente si accapiglieranno su questa o quella virgola del compromesso raggiunto.

A mio avviso, il tema più urgente è quello delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il Q.E. può darci lo spazio di manovra per farlo anche se i suoi effetti saranno inferiori a un tasso di crescita complessivo dell’1,8 % sui prossimi due anni (ossia, mediamente, 0,75% l’anno) come stimato dal Centro Studi Confindustria. La crescita sarà probabilmente – è la media delle proiezioni dei 20 maggiori istituti econometrici internazioni, tutti privati, nessuno italiano – sullo 0,4% nel 2015 e sul 0,6% nel 2016, pur sempre un’inversione di tendenza dopo tre lustri in cui alla stagnazione hanno fatto seguito una recessione ed una deflazione.

Le privatizzazioni (e la chiusura di enti inutili) sono particolarmente urgenti sia per contribuire a ridurre lo stock di debito (sarebbe illusorio, ove non puerile, fare conto, a questo scopo solo o principalmente sul Q.E.) sia per rendere più snello quello che un tempo si chiamava (grazie ad una definizione molto appropriata di Franco Reviglio) “settore pubblico allargato” sia per contribuire, in tal modo, ad aumentare la produttività dei settori di produzione (da quindici anni rasoterra). È un campo particolarmente ostico: basti pensare che l’unica privatizzazione portata a termine nel 2014 è quella dell’Unione Nazionale degli Ufficiali in Congedo e che dal 2011 il Ministero dell’Economia e delle Finanze non mette in rete la Relazione Annuale al Parlamento sulle Privatizzazioni (forse perché non riuscirebbe a riempire neanche una pagina). Anzi, stiamo andando verso la nazionalizzazione (tramite una SpA contenitore) per le aziende in crisi. Non solo ma la nostra proposta è di cominciare non con operazioni relativamente facili (cessioni di quote dell’Enel, dell’Eni, delle Poste), e neanche da quella giudicata come la “madre di tutte le privatizzazioni” dall’Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina Sociale della Chiesa (la RAI, per cui si potrebbe stilare un programma tecnico dettagliato) ma dal terreno più difficile: quello del capitalismo (o socialismo) regionale e municipale.

Il campo è tanto ispido che il documento stilato dal buon, e caro, Carlo Cottarelli (chiamato a rimettere ordine e presto rispedito, dal Presidente del Consiglio, oltre-oceano, dove non potesse sapere troppo su ciò che avviene in Italia) è stato “segretato” come se svelasse segreti di Stato sul terrorismo mondiale. Interpolando dalle informazioni apparse sulla stampa a proposito del documento segretato, analisi apparse sulla bella rivista Amministrazione Civile del Ministero dell’Interno (ha cessato le pubblicazioni subito dopo avere toccato l’argomento), studi dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e un saggio recente pubblicato dal Chief Economist della Cassa Depositi e Prestiti Edoardo Reviglio sulla rivista Economia Italiana, si giunge ad una base conoscitiva essenziale per trarre direttive operative.

In breve le “partecipate” a livello locale sono circa 25.000 mila (Cottarelli ne ha censite 8000), di un centinaio partecipate totalitarie, un migliaio aziende in cui la mano pubblica ha la maggioranza , 22.000 partecipate in cui gli enti pubblici hanno una quota inferiore al 49%, e ben 16.000 con una quota inferiore al 4%. Numerosissime sono mere scatole cinesi in cui sovente il numero dei dipendenti è inferiore a quello dei componenti degli organi di indirizzo di gestione. Secondo Giovanni Montemartini, che in età giolittiana teorizzò le municipalizzate, avrebbero dovuto generare reddito da utilizzare a fini sociali a beneficio degli ‘incapienti’, i più poveri dei poveri’. Molte di esse, invece, sono macchine per fare debiti (si parla di circa 120 miliardi l’anno).

Occorre dire che all’interno del Governo era stato proposto di fare pulizia, portando a non più di mille (nell’arco di tre anni) il numero delle partecipate e di dismettere quelle con disavanzi per due anni consecutivi, nonché un drastico dimagrimento degli organi di indirizzo e di gestione e chiusura delle ‘scatole cinesi’. Alcune norme erano stato nelle legge di stabilità. Tuttavia, con un emendamento all’articolo 15 della legge di stabilità al Senato, il Governo cancella con un colpo di spugna i tentativi di razionalizzazione delle società partecipate messi in campo negli ultimi anni. Niente vendite obbligatorie per le aziende dei Comuni fino a 50mila abitanti, previste dal 2010 e poi rinviate da una serie di proroghe, e niente privatizzazione delle società strumentali, cioè quelle che lavorano quasi solo con le amministrazioni controllanti, e che la spending review varata nel 2012 dal Governo Monti chiedeva di vendere o chiudere entro il prossimo 31 dicembre. Tutto abrogato: il panorama attuale delle società di enti locali, Regioni e ministeri può tranquillamente rimanere quello attuale.

Al posto delle sforbiciate, sempre rimaste sulla carta, il governo tenta la strada del controllo dei bilanci, imponendo agli enti che posseggono società in perdita di accantonare riserve e prevedendo, ma solo dal 2017, la chiusura obbligatoria delle aziende che chiudono bilanci in rosso per quattro anni consecutivi. Confermata, ma solo a partire dal 2015, la possibilità di “licenziare” gli amministratori delle partecipate che chiudono in perdita per due anni consecutivi. Sempre dal 2015, arriva un taglio del 30% ai compensi dei manager delle società controllate e titolari di affidamento in house che chiudono in perdita per tre anni consecutivi.

Dal 2015 è previsto che anche società partecipate, aziende speciali e istituzioni, anche di regioni e camere di commercio, debbano dare una mano nel «conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica». Come? In primo luogo, la norma promette di individuare “parametri standard” dei costi e dei rendimenti dei servizi, traducendo in termini societari il percorso dei fabbisogni standard degli enti locali che però al momento si mantiene lontano dal traguardo. Più immediato è invece l’obbligo per gli enti proprietari di accantonare in bilancio fondi di riserva, a garanzia delle perdite accumulate dalle società. Le regole di questi fondi procederanno in due tempi: nel 2014, ogni ente dovrà accantonare una somma pari alla perdita registrata dalla sua società nel 2013. Nel 2015-2017, invece, le regole dividono le società in due gruppi, a seconda del risultato medio del 2011-2013: se è positivo, l’accantonamento sarà pari a una quota della perdita conseguita nell’ultimo anno, altrimenti si calcolerà sulla media degli ultimi tre. Troppo poco e troppo tardi.

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Italia, Cottarelli “batte” Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Tutti coloro che in questi giorni cantano le lodi del bazooka probabilmente non sanno cos’è un bazooka. All’inizio della Seconda guerra mondiale, i fanti avevano contro i carri armati ultimamente usando i fucili anticarro della Grande Guerra, praticamente impotenti: quando i carri migliorarono mobilità e protezione, infatti, i fucili diventarono solo un peso inutile per i fanti. A quel punto fu necessario utilizzare un tipo diverso di arma, i lanciarazzi, che furono sviluppati sia dai tedeschi che da inglesi e americani Quello degli yankee era il M1 Rocket Launcher 2.36 in Bazooka, che diede risultati soddisfacenti negli ultimi anni di guerra, ideato da Edward Uhl nel 1942. Il soprannome bazooka deriva dal fatto che un uomo, addetto ai collaudi, disse che il tubo assomigliava a uno strano strumento musicale, usato dall’attore radio Bob Burns per creare effetti comici. In effetti, il bazooka, se non è parte di una strategia ben pensata e di una tattica ben coordinata, ha effetti limitati. Vi ricordate il detto di Totò: Bazooka, ogni colpo una buca, ossia più si spara e meno si centra il bersaglio?

Eppure i mercati esultano. Non occorre essere il Premio Nobel Robert Shiller che con una fine teoria ha dimostrato come l’esuberanza delle piazze finanziarie possa essere “irrazionale”. I mercati brindano perché in caso di mancato accordo si sarebbe andati allo sfascio. Alla Banca centrale europea le bocche sono cucite, ma nei felpati saloni del Frankfurter Hof si bisbiglia che Draghi avrebbe minacciato le dimissioni, mettendo in crisi Bce ed eurozona. Ci sarebbe un accordo segreto – da lui smentito – con Renzi per farlo eleggere Presidente della Repubblica italiana, proprio per farlo andare lontano dalle rive del Meno.

In effetti, nella storia degli ultimi due secoli, i mercati hanno esultato solo per pochi giorni o settimane ad accordi monetari redatti unicamente da tecnici e politici, tranne che dopo una guerra mondiale, quando si doveva ricostruire il sistema dalle fondamenta, e quindi la politica, aiutata da grande tecnica (Keynes, White), doveva scendere in campo. Vi ricordate l’intesa del Smithsonian Institution del dicembre 1971, pubblicizzata dal Presidente degli Stati Uniti a reti unificate come “il più grande accordo monetario della storia dell’umanità” e lodato con pari enfasi dalla Commissione europea? Ebbe vita breve (tre mesi) e contrastata, arricchendo la speculazione sui cambi. Anche il Trattato di Maastricht venne esaltato come veicolo di crescita nella stabilità per gli Stati dell’unione monetaria. Soprattutto, sei mesi dopo la firma, Gran Bretagna, Danimarca e Italia ne chiesero la sospensione (dopo che molti, anche loro concittadini, si erano gonfiati i portafogli alle spalle di governi e banche centrali). Londra e Copenhagen restarono i fuori. Roma prese la via del rientro, un percorso come quello per andare al Santuario di Compostela. Lo guidava Carlo Azeglio Ciampi, che fece pagare agli italiani un dazio di un aumento di sette punti percentuali della pressione fiscale sul Pil. Da allora siamo a sviluppo rasoterra.

Oggi nessuno sa come i mercati reagiranno a un accordo contro il quale forze politiche dello stesso azionista di maggioranza (la Repubblica Federale Tedesca, unitamente ad Austria, Finlandia, Estonia, Lettonia) hanno espresso una tale opposizione che un gruppo di distinti cattedratici del diritto e dell’economia ha fatto ricorso alla Corte Suprema (che attende pazientemente sulla riva del Reno superiore, a Karlsruhe, l’evolversi degli eventi). Il problema è politico, non giuridico. Lo esprime con grande chiarezza Antonio Luca Riso dell’ufficio legale Bce nel documento pubblicato nel numero speciale di Imfs (Interdisciplinary Studies in Monetary anf Financial Stability) dedicato alle Outright Monetary Transactions (OMT) e pubblicato a metà gennaio.

Per “politico” deve intendersi che tutto dipende dalle altre politiche che gli Stati dell’eurozona metteranno in campo per dare corpo alla possibile politica di ripresa. Ovviamente, il tasso d’integrazione nell’eurozona sta nel fatto che le politiche di uno Stato incidono anche su quelle degli altri. Ad esempio, si dovrebbe dare maggiore attenzione alla crescita della propria domanda aggregata che, pur se in misura minore di quanto sostengono numerosi media e tanti politici poco informati, può avere un effetto di trazione su altri soci del club. In Italia, tuttavia, ci siamo inflitti dei nostri mali: uno studio del Centro Studi Impresa Lavorodocumenta che dal 2011 l’imposizione su conti correnti e investimenti è aumentata del 130% da 6,9 a 15,9 miliardi di gettito, azzoppando imprenditori e consumatori proprio in una fase in cui da recessione si scivolava in deflazione.

Cosa fare? Uno stop alla pressione tributaria, e se possibile una sua riduzione con paralleli tagli alla spesa corrente. Sono misure che si possono mettere in atto subito agendo su quel capitalismo (o socialismo) regionale e comunale, analizzato dal “segretato” Rapporto Cottarelli (alla faccia della trasparenza e della democrazia). Si può anche mettere in atto immediatamente un programma di privatizzazioni di vaste dimensioni; unitamente alle misure Bce, tale programma dovrebbe portare a una riduzione almeno del 30% dello stock entro il 2015 e rimuovere il blocco principale alla ripresa. In parallelo occorre rilanciare la politica dei prezzi e dei redditi, al fine di porre fine alla discesa nella povertà dei ceti medio bassi e liberalizzare i mercati di merci e di servizi (segnatamente delle professioni un tempo dette “liberali”) per aumentare, tramite la concorrenza, la produttività. Il Governo Renzi è pronto a mettere in atto questa batteria? Altrimenti – ricordiamoci Totò – il bazooka di Draghi farà “buca”.

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Renato Brunetta – Il Giornale

Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).

La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.

Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.

Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).

Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.

L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».

Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.

Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

QE della Bce, quel bivio tra euforia e depressione nera

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Sotto una pressione politica e mediatica priva di precedenti, Mario Draghi è riuscito a far approvare a larga maggioranza dal consiglio della Bce un’operazione di allentamento monetario di dimensioni almeno doppie rispetto alle attese. Il sistema europeo delle banche centrali acquisterà titoli sovrani, di agenzie e di istituzioni europee per 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 o anche oltre fino a che l’inflazione non sarà su un «sentiero sostenuto» verso il 2%. Il potenziale positivo è molto elevato: sostituendo i titoli pubblici con la nuova liquidità, le banche sono incentivate a finanziarie le imprese nei paesi le cui politiche garantiscano prospettive di crescita; inoltre con un’inflazione più alta calerà il valore reale dei debiti pubblici; infine il mercato dei titoli pubblici sarà meno instabile. La politica monetaria da sola forse non può rilanciare consumi e investimenti la cui mancanza affligge l’economia europea, ma può attenuare la sfiducia ormai radicata che è la prima causa del vuoto di domanda.

Dopo la delusione del piano Juncker per gli investimenti, la Bce offre dunque l’ultimo incentivo ai governi per approvare le riforme, e a banche e imprese per sfruttare il calo dell’euro e del prezzo del petrolio. Le condizioni favorevoli non dureranno in eterno. La data del 2016 assume quindi un significato per la politica e non solo per l’economia. La pressione politica attorno a Draghi era inaudita. Politici di vari paesi avevano aizzato un clima di ostilità che ha finito per far breccia perfino all’interno della Bce. Draghi ha fatto leva sullo statuto della banca, e quindi sui trattati, per far valere l’obiettivo primario della difesa della stabilità dei prezzi. Il principio secondo cui la politica monetaria deve dominare gli obiettivi fiscali, caro alla Bundesbank, è il cilindro da cui Draghi ha potuto estrarre una politica espansiva intesa a modificare le aspettative di deflazione senza eccessivo riguardo alle conseguenze fiscali.

Non è un colpo di magia, ma un esercizio di leadership sovranazionale in un quadro politico sfilacciato in cui governi e opinioni pubbliche si stanno allontanando dal progetto europeo. Non a caso la Bce è diventata il primo bersaglio delle polemiche politiche nazionali. Ieri sera il titolo della “Bild” era «Draghi distrugge i nostri soldi?», il commento della FAZ è «Così Draghi distrugge la fiducia». Non a caso, per mesi l’unico tema dell’allentamento quantitativo è sembrato quello della condivisione dei rischi fiscali tra centro e periferia dell’euro. Due giorni fa, il parlamento olandese ha espresso il parere che i contribuenti dovessero essere tenuti al riparo dal debito italiano. Alla stessa paura rispondono le “stringhe tedesche”, come questo giornale ha battezzato l’opposizione di Berlino alla condivisione dei rischi attraverso gli acquisti di titoli pubblici.

La condivisione formale dei rischi è stata fissata al minimo e avrà come giudice finale il mercato. La Bce acquisterà solo l’8% dei titoli sovrani (un altro 12% di titoli di istituzioni europee), il resto finirà nei bilanci delle banche centrali nazionali. Si accetta quindi il rischio che prosegua la frammentazione dei sistemi finanziari in corso da tre anni, con tassi d’interesse nei paesi deboli più alti che negli altri. Inoltre in caso di crisi fiscale, ogni paese si troverebbe più facilmente isolato. Ma l’eventualità di insolvenza si allontana (benché non sia esclusa dall’annesso tecnico diffuso da Francoforte) ora che la spirale debito-deflazione viene contrastata credibilmente attraverso un intervento che tutti i governatori hanno giudicato al riparo da contestazioni giudiziali.

Il giudizio sul grado di condivisione o di segmentazione degli acquisti di titoli pubblici si capirà meglio a marzo, dopo il completamento della preparazione tecnica e legale. A Francoforte spetta infatti il coordinamento degli acquisti delle banche centrali nazionali secondo proporzioni in linea con le quote di ogni paese nel capitale della Bce. Non è affatto detto che ogni banca centrale acquisti solo titoli del proprio paese, né che la proporzione dei titoli sia fissa (potrebbe essere impossibile nel caso di paesi piccoli e con poco debito). A quanto è possibile capire, viene sancita la centralità dell’organo direttivo della Bce nel decidere le modalità degli acquisti anche modificandole nel corso del tempo. In teoria, come in passato, la Bce potrebbe modificare il programma qualora i governi abusassero del credito facile per non rispettare gli impegni, un’ipotesi che avrà una verifica con il caso greco.

In ultima istanza, se l’intervento della Bce condurrà a un miglioramento dell’economia e a un ricompattamento anche politico dell’euro area, o se invece allargherà la porta d’uscita per i paesi deboli, non dipende dalla banca centrale. Come si ripete di solito, l’intervento della Bce toglie alibi alle responsabilità politiche nazionali. Una volta ribadita l’unicità della politica del sistema di banche centrali, la condivisione dei rischi resta comunque in via indiretta attraverso il sistema dei pagamenti, il potenziale di conflitto politico tra paesi resta dunque elevato. Tutti i governi devono capire la natura “bipolare” della manovra di ieri: darà euforia se le cose andranno bene, o depressione nera se la sfida sarà mancata.

L’austerità? In Italia mai provata

L’austerità? In Italia mai provata

Alberto Mingardi – La Stampa

La politica italiana è litigiosa e polarizzata, ma su alcune cose destra e sinistra hanno più in comune di quanto lascino ad intendere. Per esempio, è convinzione generale che «l’austerità ha fallito». Le differenze sono questione di sfumature: chi sta all’opposizione vuole uscire dall’euro, chi governa agisce per una maggiore «flessibilità» delle regole europee. Cambiano i mezzi, il fine è lo stesso: far ripartire il cuore dell’economia italiana, tornando a pompare denaro pubblico.

Che cosa sia l’«austerità», non è proprio chiarissimo. Solo alcuni anni fa si parlava di «consolidamento fiscale», per riferirsi a quell’insieme di politiche che dovrebbero riportare il bilancio pubblico verso il pareggio. Il consolidamento fiscale può avvenire dal lato delle entrate, e cioè con un aumento della pressione fiscale, o da quello delle uscite, e dunque con una riduzione della spesa pubblica. Nella narrazione oggi prevalente, l’austerità «fallimentare» è proprio quella che coincide con la riduzione della spesa (in alcuni casi, fraintesa con un rallentamento del tasso di crescita della spesa). Diminuire le spese pubbliche significherebbe «mettere in discussione il nostro modello sociale», cosa a cui nessun politico è disponibile, perché teme un’erosione dei consensi. L’esempio della Grecia è quello citato più spesso: l’austerità pilotata dalla «troika» farà il pieno di voti a Syriza e a Alexis Tsipras. Dal punto di vista delle classi dirigenti, il principale fallimento delle politiche d’austerità è il non assicurare la rielezione a chi le pratica, spalancando le porte alle forze d’opposizione.

Guardiamo però ai Paesi cosiddetti Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In Italia il «consolidamento fiscale» è passato per la riforma delle pensioni, per un inasprimento della pressione tributaria, soprattutto sugli immobili, e per una «spending review» che prima di arrivare alla fase operativa è sparita dalle pagine dei quotidiani e dall’agenda politica. Negli altri Paesi, vi è stato un mix di interventi sul fronte della spesa e su quello delle entrate, orchestrato in Portogallo, Irlanda e Grecia dalla cosiddetta «troika». Le soluzioni sperimentate sono state sicuramente imperfette, ma hanno provato ad intaccare il corpaccione della spesa con maggior determinazione che dalle nostre parti.

Nessuno di questi Paesi pare avviato verso un turbinoso sviluppo alla cinese. Eppure le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano il Portogallo di una crescita di poco meno dell’uno per cento nel 2014, l’Irlanda di una crescita del 3.6, Grecia e Spagna rispettivamente dello 0,6 e dell’1,3. Per il 2015, le aspettative di crescita sono dell’1,5 % (Portogallo), del 3% (Irlanda), del 2,8 e dell’1,6% (Grecia e Spagna). Poco? Può darsi. Ciascuno di questi Paesi aveva problemi e criticità già prima della crisi: non esistono panacee. L’economia greca, per esempio, è ancora ingessata da bardature che rendono estremamente complessa l’attività produttiva. L’iper-regolamentazione è un male comune.

Quel poco però è di più della crescita negativa che il nostro Paese ha registrato nell’ultimo anno e dello 0,8% che il Fondo Monetario prevede per questo (la Banca d’Italia prevede invece lo 0,4%). L’essersi progressivamente avvicinata al pareggio di bilancio, raggiunto nel 2014 con un anno d’anticipo sulla tabella di marcia, non ha impedito alla Germania di essere il Paese più invidiato dell’eurozona. In Italia, secondo l’Istat, nell’ultimo trimestre del 2014 l’incidenza sul Pil delle uscite totali delle pubbliche amministrazioni è aumentata, dal 47,4 (2013) al 48% del Pil. Nei tre trimestri precedenti, il rapporto era rimasto invariato rispetto all’anno precedente. Si dirà che si è ridotto il denominatore, ovvero il Pil. Il che è verissimo, ma dimostra soltanto che la spesa pubblica è considerata una sorta di «variabile indipendente», com’era il salario per Luciano Lama.

Quello sull’austerità è un «dibattito filosofico-culturale», come ha detto Matteo Renzi al Parlamento europeo. Ma, quando affermano che l’«austerità ha fallito», i nostri leader politici chissà a quale Paese si riferiscono. Negli stessi Piigs, il fallimento non è affatto evidente. Della Germania meglio non dire. Quanto all’Italia, perché l’austerità potesse fallire, prima avremmo dovuto sperimentarla.

Contro i disfattisti

Contro i disfattisti

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Non è un bazooka. Ma un colpo di fucile nella direzione giusta, sì. E nell’Europa dei piccoli passi, spesso anche indietro, non è cosa da poco quella che Draghi è riuscito a far passare alla Bce. Certo, condividere solo il 20 per cento dei rischi relativi ai 1,080 miliardi di titoli che la Bce comprerà di qui Fino a settembre 2016 può far storcere la bocca. Ma intanto sono meglio di zero, e poi questa forma di mutualizzazione rappresenta la fine di un tabù che apre la strada, sul piano culturale prima ancora che pratico, a una vera federalizzazione del debito europeo. Tuttavia, è presto per dire se questo Quantitative easing sarà o meno sufficiente a riassorbire la caduta dei prezzi e riportare l’inflazione alla soglia del 2 per cento, così come se spingerà in modo strutturale il cambio dell’euro verso la parità con il dollaro e se sarà capace di bagnare in modo irreversibile le polveri da sparo della speculazione nei confronti della moneta unica e dell’eurosistema. Anche perché rimane il fatto che, come Draghi ha ripetuto fino alla noia, ogni manovra monetaria, per quanto straordinaria, non potrà che restare un palliativo se i governi non si impegneranno nelle riforme nazionali e nell’integrazione delle sovranità. Veri fronti da cui passa, o meno, la possibilità di mettere fine alla più grande crisi economica dell’ultimo secolo anche per 1’Europa, dopo che Obama l’ha dichiarata archiviata per l’America.

Con buona pace degli arruffapopoli che nel Vecchio continente stanno facendo credere alla gente, stremata psicologicamente prima ancora che praticamente da sette anni di crisi, che la fine dell’incubo risiede nel tornare ciascuno sotto il proprio campanile. Gli stessi che ieri, subito dopo 1’annuncio della Bce, hanno tirato le pietre a Draghi per aver tardato. Prendete tale Claudio Borghi, sedicente economista che presta il suo pensiero (sic) a Salvini -“il Qe è la più grande speculazione della storia” – e vedrete chi avremmo dovuto mettere a trattare con l’arcigna Merkel. Questo tizio capeggia un gruppo di “haters”, gente che passa la giornata a intingere il pennino nell’odio. Parlo per esperienza, perché ne ho fatto le spese. “Infame collaborazionista”, “cialtrone”, “#nonseiumano”, “nemico dell’Italia vergognati”, sono solo alcuni degli insulti (tra quelli riferibili) che ho collezionato in poche ore su Twitter dagli infoiati antieuro per aver sostenuto che a oggi, nonostante tutto, credo ancora nell’Unione europea.

Nessun modello econometrico può stabilire con esattezza cosa accadrebbe in caso di fine della moneta unica, ma con fervore integralista gli antieuro sostengono di poter prevedere ogni cosa, insultando chiunque la pensi diversamente (#jesuiseuropeista). Pensate, poi, che pur di tornare alla liretta tra gli ideologi antieuro c’e chi propone di chiudere le banche e congelare i risparmi per settimane, Ma poi, tutta questa ambizione solo per tornare a svalutare? A parte che durante la crisi e con l’euro forte (eccessivamente) il nostro export è cresciuto anche più di quello tedesco, è da rilevare che, nonostante il deprezzamento sul dollaro, a novembre c’è stato un calo congiunturale delle vendite extra Ue dell’1,7 per cento. E poi, non è certo con le svalutazioni competitive che innescano competizione al ribasso che ci risolleviamo. Si tratta di accuse ridicole per me, in quanto i professionisti dell’insulto ignorano (loro, d`altra parte, ignorano per definizione) che mi sono beccato dell’euroscettico e dell’euro-disfattista perché ero contrario a introdurre l’euro senza una preventiva o quantomeno contemporanea integrazione politico-istituzionale (ma avevo anche detto che se si fosse fatto, comunque per l’Italia sarebbe stato un suicidio rimanerne fuori, e lo ribadisco). Ma pazienza. Il fatto è che si tratta di parole d’ordine pericolose per il paese, perché finiscono con l’azzerare le nostre responsabilità – da noi il declino è iniziato ben prima del 2008 – e far credere che sia l’euro la causa di tutti i mali.

L’operazione è semplice: sbatti il mostro in prima pagina, approfitti di ansie e paure (legittime) e gli adepti si moltiplicano. E domani anche i voti. È la strategia dell’ormai ex Lega nord, che fino a ieri voleva creare una moneta sovrana dal Po alle Alpi e ora si è intestata la battaglia contro l’euro con gli slogan di qualche improvvisato ideologo, tipo un “si stava meglio quando il caffè costava mille lire”. Semplificazioni che impediscono di spingere l’opinione pubblica nell’unica direzione possibile, quella di mettere rimedio ai difetti genetici dell’euro, capendo che il difetto non è nella moneta, ma nell’Europa come progetto politico. La sfida è proprio qui: o andare avanti verso gli Stati Uniti d”Europa, o il ritorno al passato, l’illusione di poter restaurare un sistema che in realtà è la globalizzazione e non 1’euro ad aver cancellato per sempre. Meno male che c’è Draghi.