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Bce, il coraggio che ci vuole

Bce, il coraggio che ci vuole

Danilo Taino – Corriere della Sera

Una giornata inusuale per l’Europa, ieri. Due leader in azione, in parallelo, hanno affermato che nel Vecchio Continente le crisi e i passaggi più delicati si possono affrontare con coraggio. Che si può fare ciò che si ritiene giusto senza piegarsi ai calcoli della piccola politica.

Mario Draghi ha condotto la Banca centrale europea a lanciare un piano potente di lotta alla deflazione, con una portata che ha impressionato gli osservatori. Si tratta di acquisti di titoli, in maggioranza degli Stati dell’eurozona, per 60 miliardi ogni mese fino al settembre 2016, e oltre se ce ne sarà bisogno: un’iniezione di nuovo denaro per almeno 1.100 miliardi nella zona euro. L’operazione è importante non solo per gli effetti che può avere sull’economia ma – forse soprattutto – perché afferma in via definitiva l’indipendenza della Bce dai governi, anche da quello tedesco che non ha nascosto di essere contrario agli acquisti. È l’ingresso dell’istituzione nella maturità, nell’età in cui ci si emancipa dalle tutele e si cammina da soli. Da oggi la Bce è più simile alla Federal Reserve, la Banca centrale americana.

Angela Merkel ha fatto qualcosa di non meno rilevante: un passo laterale da leader europeo. L a cancelliera non è d’accordo con la scelta che la Bce ha compiuto ieri. Ritiene che produrre un enorme stimolo monetario finisca con lo spingere i governi, soprattutto quelli strutturalmente deboli, a non realizzare le riforme che si sono impegnati a fare. Pensa che l’operazione voluta e progettata da Draghi rischi di fare scivolare l’eurozona verso quella «Europa dei trasferimenti» – cioè di un Paese costretto a finanziare il debito di un altro – alla quale la Germania si oppone da sempre. Soprattutto, Frau Merkel sa che il suo partito, gran parte del Parlamento di Berlino, la gloriosa Bundesbank, la maggioranza delle imprese, delle banche e della cultura economica tedesche si oppongono all’operazione della Bce: come si è già capito dalle reazioni di ieri pomeriggio, in Germania nei prossimi mesi la battaglia, anche legale, contro di essa sarà dura.

Ciò nonostante, la cancelliera ha ritenuto che l’indipendenza della Banca centrale fosse un bene superiore all’interesse politico immediato: ieri a Davos, negli stessi minuti in cui a Francoforte Draghi annunciava l’ormai famoso Quantitative easing , esprimeva le sue preoccupazioni ma si spostava di lato, non lanciava l’opposizione del suo governo alla Bce. In Europa, leadership vuole anche dire sapere garantire l’unità: e questo, ieri, Angela Merkel ha fatto.

Oggi, naturalmente, gran parte dei problemi dell’area euro sono ancora quelli dei giorni scorsi. Già domenica, la Grecia va al voto e il risultato potrebbe riaprire una fase di alto nervosismo politico e di mercato. I risultati stessi dell’operazione della Bce contro la deflazione (caduta dei prezzi per un lungo periodo) non sono scontati e per avere successo dovranno essere accompagnati dall’azione riformista dei governi nazionali. Sta di fatto, però, che la giornata di ieri ha indicato che in Europa si può fare politica (sì, anche l’affermazione di Draghi nel confronto con le posizioni tedesche è un fatto politico): ha detto che non sono necessariamente i compromessi opportunistici e le visioni nazionaliste a doversi affermare, che la vera leadership, anzi, si realizza alzando lo sguardo.

Niente di comodo. Su Mario Draghi è ora caduta una responsabilità ancora maggiore di quella che aveva in passato. Se il Quantitative easing non avrà successo, la vittoria di ieri si trasformerà in una passività e ne dovrà rispondere a una Germania arrabbiata. Per parte sua, la signora Merkel dovrà ora impegnarsi a controllare le proteste in casa: ben conscia, come sempre, che la sua legittimità democratica deriva dagli elettori tedeschi, non da quelli europei. Ma proprio per il significato e la pesantezza che hanno, le responsabilità prese ieri da Draghi e Merkel possono, se non diventare un modello, almeno ispirare.

Da ieri sera, la cancelliera è in Italia, a Firenze, per un incontro con Matteo Renzi. Anche il presidente del Consiglio italiano è reduce dal vertice dei potenti di Davos, dove è stato accolto con grande attenzione e ha avuto modo di misurare le aspettative che ha sollevato fuori dall’Italia. Aspettative che si sposano con il fatto che l’economia della Penisola sia nella posizione di beneficiare del calo del petrolio e dell’indebolimento dell’euro. L’opportunità per rendere stabile e di lungo periodo l’interesse degli investitori è dunque lì, da cogliere. Serve leadership: la quale, come gli possono raccontare oggi la sua amica Angela e domani Draghi, non sta nelle parole ma nelle azioni, nel caso italiano le riforme. È a questo impegno che chiama l’inusuale e interessante giornata di ieri.

La sconfitta dei privilegi

La sconfitta dei privilegi

Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore

«Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario». «le modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive». Era il 31 maggio 2011, e a dirlo era Mario Draghi, allora Governatore della Banca d’Italia. Il “necessario” intervento legislativo adesso è arrivato, indotto, se non “sollecitato”, dal Single Supervisionary Mechanism della BCE. Sette banche popolari di rilevanza sistemica, pur superando tutte lo stress test e l’asset quality review, hanno però dovuto usare il margine di tempo consentito per mettersi a posto: sono per così dire borderline. Per rafforzarsi le banche ricorrono perlopiù alle fusioni: ma se i loro statuti prevedono il voto capitario, solo con delle acrobazie di governance e di poltrone possono ricorrere a quello strumento, anche se sono quotate in Borsa. Il prezzo delle azioni non riflette il valore potenziale della banca, tant’è che basta l’annuncio dell’eliminazione del voto capitario perché i listini prendano il volo. La conseguenza è che abbiamo banche sistemicamente importanti, perlopiù efficienti, con buon radicamento sul territorio, che però risultano borderline nel nuovo panorama della Banking Union.

Il Governo ha deciso di eliminare gli ostacoli al superamento di questa situazione: entro 18 mesi 10 banche popolari, di cui 7 quotate, ma tutte sistematicamente importanti, dovranno diventare società per azioni. E lo ha fatto, perdipiù, con lo strumento del decreto, evidentemente, e a mio avviso giustamente, ravvisando la “necessità ed urgenza” di evitare che possano nascere problemi in quella parte del nostro sistema creditizio ( e magari sperando che in questo modo se ne possano risolvere alcuni, tanto per intenderci tra Siena e Genova). Evidentemente per Francoforte, e quindi per Roma, l’obbligo di trasparenza richiesto a una banca che per dimensione è sistematicamente rilevante, può essere soddisfatto solo con la governance di società per azioni, e non con quella a voto capitario.

C’è la retorica della cooperazione: le banche popolari – scriveva Raffaele Bonanni a proposito delle vicende BPM che mi indussero a dare le dimissioni da consigliere di quella banca– sono “la forma più compiuta di partecipazione al governo dell’impresa, la forma più avanzata di democrazia economica”. E c’è la realtà degli interessi, quelli di associazioni di soci, magari dipendenti e loro famigli, che organizzando e selezionando l’affluenza in assemblea, riescono a controllare il voto. Nel 2011 in BPM il 73% del capitale era in mano di non soci, il 27% in mano di 53.000 soci, di cui il 4% degli 8700 dipendenti organizzati nell’Associazione Amici. Questi controllano il voto in assemblea, hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali, in particolare in quelle su avanzamenti e promozioni, senza nessuna responsabilità o rischio di sanzioni. Il problema di agenzia c’è anche nelle società per azioni, c’è, moltiplicato, nelle piramidi societarie, ma c’è perlopiù la possibilità di conquistare una maggioranza sufficiente a sostituire il management: una possibilità che invece non esiste in caso di voto capitario. Fin quando possono esistere isole felici in cui risparmiatori coscienti di non contare nulla corrono a dare i loro soldi a dipendenti perché la banca sia gestita in modo da dare a loro vantaggi sicuri, ovviamente a scapito della redditività? È nelle realtà di media dimensione che la cooperazione può non essere retorica, dove anzi si può supporre che si sia ancora capaci di assegnare correttamente il merito di credito alle imprese e ai loro progetti: che sono quindi fuori da quanto dispone il decreto del Governo.

Giuste le ragioni dell’intervento, a lasciar sorpresi è il momento scelto: perché non è che siano mancate le occasioni, nei 4 anni dopo il discorso del Draghi italiano e nei 4 mesi dopo il responso del Draghi europeo. Le banche popolari, proprio per le ragioni implicite al voto capitario, possono contare su sostenitori tra tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento. Se a suggerire l’intervento del Governo non c’è qualche brutta notizia di cui non si sia ancora a conoscenza, bisogna riconoscere che Matteo Renzi ha dato dimostrazione di grande determinazione prendendo un provvedimento che gli potrebbe alienare consensi proprio mentre in Parlamento hanno e avranno luogo votazioni di decisiva importanza per il futuro del Paese e suo. Consideriamola allora come una dimostrazione di forza, e attendiamo con fiducia la conversione del decreto.

Giungerebbe proprio a tempo. Infatti uno degli scopi del QE che oggi verrà annunciato dalla BCE è di consentire alle banche di erogare maggiori finanziamenti alle industrie. Ma se l’economia non cresce, gli investimenti diventano più rischiosi, più difficile diventa assegnare il merito di credito. Se è vero che molte banche popolari, anche alcune delle grandi, grazie a una maggiore prossimità alla clientela, hanno (ancora) conoscenze e competenze per saperlo fare, è questo il momento per loro di concentrarsi interamente a valorizzarle: libere dai conflitti di interesse tipici delle governance a voto capitario.

Valuta debole volàno per gli investimenti

Valuta debole volàno per gli investimenti

Giorgio Barba Navaretti – Il Sole 24 Ore

L’euro è debole, care imprese investite! La domanda interna continua a languire, ma raramente si sono verificate condizioni nei prezzi relativi dei beni più favorevoli alle nostre imprese. La svalutazione di oltre il 15% sul dollaro, il crollo del prezzo del petrolio, la stabilità dei prezzi interni e il credito a basso costo porteranno una crescita sostanziale dei volumi di beni venduti all’estero e un miglioramento significativo dei margini di profitto. Gli investimenti in macchinario sono stati negli ultimi tre trimestri del 2014 di 22 punti inferiori allo stesso periodo del 2008: un quarto di macchine da rinnovare o necessarie a espandere la produzione in meno. Se output e margini riprendono, inevitabilmente ripartiranno anche gli investimenti.

Paradossalmente la svalutazione sarà particolarmente benefica grazie agli anni in cui l’euro è stato forte. Nonostante le imprese italiane siano state sottoposte a condizioni competitive durissime, le esportazioni hanno continuato a crescere e i saldi di bilancia commerciale a migliorare già dal 2010. Il che è stato possibile grazie a ristrutturazioni draconiane e investimenti in qualità, tecnologia e marchi. In uno studio del 2008 Matteo Bugamelli, Fabiano Schivardi e Roberto Zizza avevano evidenziato come nei primi anni dell’euro la crescita della produttività fosse stata intensa in quei paesi come l’Italia, e in quei settori che più avevano utilizzato le svalutazioni competitive.

Oggi il sistema produttivo nazionale è radicalmente diverso rispetto al periodo pre-euro, quando le imprese competevano quasi solamente sulle condizioni di costo. Se dunque allora le svalutazioni erano indispensabili per la sopravvivenza del sistema, oggi sono una spinta per imprese che starebbero in piedi lo stesso. E queste imprese, proprio perché della svalutazione possono fare a meno, sono anche quelle più in grado di approfittarne. Infatti, i prodotti di alta qualità o basati su tecnologie particolari o con un marchio forte sfruttano solo marginalmente l’opzione di abbassare i prezzi in valuta estera. La svalutazione garantisce soprattutto un aumento dei margini di profitto, oltre e più che un aumento dei volumi esportati. E questi profitti devono essere utilizzati per quegli investimenti necessari a rafforzare ancor più la loro competitività globale.

La svalutazione, comunque continua ad avere un effetto benefico anche per le imprese meno efficienti. Il paradosso italiano del crollo dell’output industriale accompagnato dalla crescita dell’export durante gli anni dell`euro forte e della crisi è spiegabile solo in termini di eterogeneità delle imprese. Da un lato le imprese più avanzate crescevano all’estero, mentre quelle più deboli subivano in pieno il calo della domanda interna e l’euro forte. Ora quelle di questo secondo gruppo che sono riuscite a sopravvivere troveranno con la svalutazione un nuovo traino per riprendere a crescere con prezzi più competitivi all’estero.

Il dilemma di Draghi

Il dilemma di Draghi

Stefano Micossi – Affari & Finanza

La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.

La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.

Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.

Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.

La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).

La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.

La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Il “gioco del cerino” che mette nei guai Draghi

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

In attesa della riunione del Consiglio della Banca centrale europea si stanno affilando i coltelli e la situazione appare ogni giorno (ove non ogni ora) più complicata. Un coretto a cappella di cronisti e commentatori ha scritto, sulla stampa italiana, che dopo il documento dell’Avvocato generale della Corte di Giustizia europea, il management della Bce deve considerarsi “sereno” e deve essere considerato acquisito il “via libera” al Quantitative easing (Qe) e alle misure “non convenzionali” che, insieme a un numero di componenti del Consiglio Bce, Mario Draghi vorrebbe mettere in atto per rilanciare l’economia dell’eurozona, specialmente le Outright monetary transactions (Omt). O non hanno letto il documento o vivono lontani dal mondo Bce.

Facciamo un passo indietro a un ricorso alla Corte Costituzionale tedesca fatto da un gruppo nutrito di economisti e giuristi tedeschi, secondo cui le Omt proposte dal Presidente Bce nel giugno 2012 avrebbero trasgredito vari trattati e la stessa Carta fondamentale della Repubblica Federale. Il massimo tribunale della Germania ha risposto chiedendo il parere della Corte di Giustizia Ue. È un parere non vincolante, ma è altamente probabile che la Corte Tedesca vi si atterrà. Se non altro per non restare con il cerino acceso in quel di Karlsruhe (dove i giudici rosso togati hanno sede).

Tuttavia, l’Avvocato generale Pedro Cruz Villalon, il cui parere verrà molto probabilmente recepito dalla Corte di Giustizia Ue (su questo punto concordo con il coretto a cappella) ha scritto un documento tra il fariseo e il pilatesco, passando il cerino agli organi dell’unione monetaria, in primo allo luogo alla Bce, il cui Consiglio si riunisce ben prima della Corte tedesca di Karlsruhe (peraltro ancora non convocata).

Il documento, infatti, afferma che la Bce deve avere «ampia discrezionalità» in materia di politica della moneta, ma unicamente in questa materia. In questo quadro, le misure “non convenzionali”, il Qe e soprattutto le Omt (non affatto amate a Berlino e dintorni) possono essere formulate e attuate purché siano uno strumento di politica monetaria e non aiuto finanziario a uno Stato membro. L’esatto contrario di quanto vorrebbe il management della Bce, che desidererebbe poter acquistare obbligazioni di Stati in difficoltà (ad esempio, titoli del debito italiano per ridurne il fardello).

Inoltre , secondo il documento, ciascuna operazione dovrebbe essere effettuata sulla base di un programma economico concordato dallo Stato membro con le autorità Ue, un po’ come le varie forme di structural adjustment lending che Banca mondiale e Fondo monetario internazionale attuano da quaranta anni – e che la Troika ha elaborato per Cipro, Grecia, Irlanda e Spagna. Infine, secondo il documento, le circostanze straordinarie per tale intervento eccezionale devono essere precisate, unitamente a un meccanismo di monitoraggio, perché il programma definito venga attuato.

Quindi, un “nulla osta” molto condizionato, pieno di paletti e vincoli che ne rendono difficile l’attuazione. Potrebbe il Governo Renzi essere messo nella condizione di dover rendere conto a un gruppo di eurocrati con cui concordare misure specifiche la cui attuazione verrebbe monitorata con attenzione? E quello Hollande?

Prima ancora di arrivare a questi nodi politici, dovrebbero essere sciolti spinosi nodi tecnici. Prendiamo la forma più semplice di Qe: l’acquisto di obbligazioni degli Stati dell’eurozona. L’acquisto avverrebbe in proporzione alla loro partecipazione al capitale della Bce per tutti i 19? O si terrebbe conto della “qualità” dei titoli di ciascuno? Quale metro di giudizio, in questo caso, verrebbe utilizzato per valutare la qualità? Quello delle quattro agenzie di rating (tre essenzialmente americane e una cinese)? Oppure si metterà in piedi un apparato specifico europeo? E come si tratterebbero le obbligazioni di Stati in cui forze politiche importanti (e che potrebbero presto avere responsabilità di governo) hanno annunciato l’intenzione di ripudiare parte del proprio debito sovrano?

In effetti, a questi interrogativi posti dai giuristi e dagli economisti che hanno fatto ricorso alla Corte suprema tedesca, i giudici rosso togati di Karlsruhe pensavano di avere qualche risposta dalla Corte di Giustizia europea. Sono stati, invece, rinviati non direttamente al mittente, ma al Consiglio Bce, nel cui seno infuria la battaglia.

Ove la situazione non fosse sufficientemente complicata, un numero crescente di economisti (anche italiani) ritiene che la Bce deve considerarsi causa dei suoi mali, in quanto, pur adottando una politica di inflatition targeting e fissando tale target, ha fatto cadere l’eurozona in deflazione. Altri documentano che con una crescita della quantità di moneta al 2,5% l’anno, non è la liquidità a far difetto, ma un sistema economico, regolamentare e giudiziario obsoleto che frena gli investimenti – Nomura lo ha scritto chiaro e tondo ai propri clienti. In tal caso, Qe, Omt e tante altre sigle servirebbero unicamente ad arricchire la galassia degli acronimi.

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Cambio insostenibile con l’Europa ferma

Marco Onado – Il Sole 24 Ore

Non sempre i tappi che saltano fanno allegria. L’improvvisa decisione della Banca centrale svizzera di abolire il tetto al cambio con l’euro ha provocato un terremoto sui mercati e suscita pesanti interrogativi sulla capacità della politica monetaria di influire sui livelli dei cambi nelle condizioni odierne dei mercati finanziari.

Vi erano molte ragioni di buon senso alla base della decisione, nell’agosto 2011, di evitare un eccessivo apprezzamento del franco svizzero, da sempre considerato bene-rifugio per eccellenza. Eliminando la probabilità di un guadagno in conto capitale sul cambio a breve e mantenendo bassi i tassi di interesse interni (addirittura introducendo tassi negativi nel dicembre scorso), si sperava di porre un freno a movimenti di capitale considerati – non senza ragione – destabilizzanti. L’eterogenesi dei fini ha portato la Bns ad acquistare grandi quantità di titoli in euro, riducendo le pressioni sul mercato dei titoli pubblici dei Paesi periferici e togliendo quindi le castagne dal fuoco alla Bce il cui quantitative easing era ancora in attesa del via libera.

Ma sia la mancata ripresa europea e soprattutto la crisi russa rendevano sempre più difficile difendere un tasso di cambio insostenibile rispetto ai movimenti potenziali di capitali. Le crisi degli anni Novanta hanno insegnato che nessuna banca centrale può contrastare flussi che assumono sempre dimensioni multiple rispetto alle riserve che essa può mettere in campo. È stato così per i Paesi del Sud-Est asiatico, quando il flusso di capitali si è improvvisamente invertito; è stato così per Messico e Argentina che avevano ancorato la loro moneta al dollaro. E non può che essere così nelle condizioni odierne, visto che la dimensione complessiva dei movimenti a breve è cresciuta enormemente e il mercato dei cambi, secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali, attiva ogni giorno scambi per 5mila miliardi di dollari, pari a circa un terzo del Pil mondiale, ovviamente annuale (erano 3,3 nel 2007, cioè prima della crisi). E poiché fra il 5 e il 6 per cento di questa frenetica attività di trading riguarda il franco svizzero, l’impegno della Bns a non sforare il tetto del cambio euro-franco non era più credibile.

La Banca centrale svizzera ha colto i mercati di sorpresa, ma proprio la decisione clamorosa mette a nudo le criticità della strategia di stabilizzazione adottata nel 2011. In primo luogo, perché ha inferto un duro colpo alla credibilità della stessa banca centrale, visto che solo un mese fa essa aveva baldanzosamente dichiarato che il tetto sarebbe stato difeso «con la massima determinazione». Poi, perché ha confermato ex post la strategia di investire sul franco svizzero come bene-rifugio: chi ha investito negli ultimi tre anni mette a segno da ieri guadagni in conto capitale di tutto rispetto. Infine perché sacrifica pesantemente gli interessi dell’economia svizzera ai problemi del cambio. Non a caso, la Borsa ha segnato pesanti perdite, soprattutto per le imprese più orientate all’export: i mercati europei rappresentano infatti metà del commercio estero svizzero. Niente male come bilancio.

La lezione più generale che deriva dai fatti di ieri è che l’economia mondiale e in particolare la finanza non hanno ancora trovato il modo per affrontare gli aspetti macroeconomici della globalizzazione e dei movimenti internazionali di capitali. Alla base dei problemi della Svizzera (prima con l’introduzione del tetto, poi con la sua improvvisa abolizione) sta il potenziale destabilizzante dei movimenti di capitale a breve in un mondo interconnesso, ma con politiche monetarie non coordinate fra loro per effetto degli inevitabili sfasamenti dei cicli.

I global financial imbalances, cioè la polarizzazione del mondo fra Paesi in permanente surplus di parte corrente (Cina e Germania in testa) e quindi esportatori di capitali e Paesi che si trovano nella condizione opposta (Stati Uniti e alcuni Paesi della periferia dell’eurozona) sono stati una delle cause fondamentali della crisi e da allora si sono ridimensionati, ma non in modo decisivo e continuano ad essere il primo alimento di flussi di capitale a breve troppo grandi rispetto alla capacità di contrasto di autorità nazionali. E ovviamente lo sfasamento ciclico amplia i differenziali dei tassi d’interesse e l’intensità dei flussi di capitale.

Il Fondo monetario internazionale ha documentato in un recente rapporto triennale il problema della fragilità del sistema finanziario internazionale e della trasmissione dei problemi da un Paese all’altro. È sempre il problema che si ponevano i padri fondatori del nuovo ordine monetario di Bretton Woods, che diede origine appunto all’Fmi, oltre che alla Banca mondiale. Come ha affermato Paul Krugman, commentando quel rapporto, si ripropone oggi il problema di assegnare al Fondo un ruolo almeno di sorveglianza e di monitoraggio sugli squilibri macroeconomici di ciascun Paese, che danno origine alla trasmissione di spinte destabilizzanti verso l’esterno. Una funzione di vigilanza preventiva, per così dire, basata solo sulla moral suasion nei confronti dei singoli Paesi. Ma fra l’enunciazione di questo principio, che pure non contrasta con lo statuto del Fondo (alla fine, dice Krugman, il Fondo è nato per fare il pompiere delle crisi e prevenire è meglio che curare) e la sua applicazione c’è un oceano intero di difficoltà politiche. E così le cause profonde della crisi non vengono affrontate e le banche centrali sono costrette ad andare avanti in ordine sparso, correndo tutti i rischi del caso come si è visto ieri a Zurigo.

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Grazie all’euro Berlino ci ha battuti sette a zero

Libero

Germania-­Italia? Finisce 7 a 0. Non si tratta di uno sfortunato incontro di calcio, ma del confronto tra i due Paesi nei principali indicatori economici dall’introduzione dell’euro (2001) al 2013 (ultimi dati disponibili). L’analisi impietosa è stata realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” che condensa così lo sconfortante raffronto: in Italia la disoccupazione è passata dal 9 al 13% (a novembre 2014 al 13,5), il rapporto debito/Pil è cresciuto del 23,2%, senza dimenticare che l’Istat ha appena certificato come questo sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Insomma, se si trattasse di una sfida calcistica i tedeschi, negli ultimi 12 anni, ci batterebbero 7 a 0. Questo perché l’euro – secondo la ricerca – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando proprio il divario con l’Italia.

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Crisi: ImpresaLavoro, con l’euro sono peggiorati tutti gli indicatori

Repubblica.it

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto debito/Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto deficit/Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%. Ad evidenziarlo il Centro studi di ‘ImpresaLavoro’ che azzarda anche un irriguardoso paragone calcistico: se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca. I tedeschi, infatti, ci batterebbero oggi 7 a 0.

A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili. Ne esce un quadro chiaro nella sua drammaticità: l’euro – evidenzia l’istituto – ha fortemente avvantaggiato la Germania aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi.

La moneta unica risulta determinante è nelle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominale dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: mentre prima della moneta unica quindi l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione ha fatto segnare un’impennata del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese.