euro

C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

C’è troppa Germania sotto il cielo d’Europa

Romano Prodi – Il Messaggero

Mentre il semestre italiano ha già compiuto oltre la metà del suo corso, la confusione domina sovrana a Bruxelles. Nessuno obbedisce a nessuno, anche perché a Bruxelles non vi è nessuno in cerca del compromesso necessario perché i vari paesi possano essere in grado di obbedire a parametri che costituiscono sempre meno un obiettivo condiviso e sempre più una temuta minaccia. Mancando un’autorità riconosciuta ognuno, a Bruxelles, disobbedisce per conto suo. Cominciando dalla Germania che, mantenendo da lungo tempo un surplus della propria bilancia commerciale del 7%, non solo viola l’impegno di non eccedere mai il 6%, ma costituisce un elemento di squilibrio nell’economia mondiale pari a quello che in passato noi rimproveravamo alla Cina. Inoltre, il numero dei paesi che disobbediscono alla regola del deficit del 3% cresce ogni giorno, sotto la spinta dalla congiuntura sempre più sfavorevole.

Si potrebbe minimizzare l’importanza di questi fatti con la semplice osservazione che le cose stanno andando in questa direzione già da qualche anno e che quindi nulla di radicalmente nuovo sta succedendo nel rissoso recinto europeo. I fatti nuovi invece esistono. Prima di tutto il tasso di crescita (potremmo meglio chiamarlo di decrescita) sta ancora peggiorando e i 25 milioni di disoccupati non vedono alcuna migliore prospettiva per il loro futuro, anche perché non vi è più nessuno disposto a ripetere le errate previsioni che sempre promettevano miglioramenti che mai si sono sono avverati. L’esperienza, tuttavia, ci insegna che anche la pazienza e la capacità di sopportazione hanno un limite.

Il secondo fatto nuovo è che la Banca Centrale Europea, che pure nel passato è riuscita ad evitare la catastrofedi una deflazione ancora peggiore, sembra oramai avere speso tutte le proprie limitate munizioni, anche se la sua politica ha raggiunto il positivo ma non dichiarato obiettivo di fare calare il valore dell’Euro di fronte al dollaro, con un potenziale beneficio per le nostre esportazioni. La prima tranche di finanziamento della BCE al sistema bancario ( il così detto Tltro) ha tuttavia trovato una limitata accoglienza proprio perché l’economia europea marcia ad una velocità ancora più ridotta rispetto ad ogni previsione. D’altra parte le dichiarazioni di Draghi rivolte a dare ossigeno alla crescita, non possono avere l’efficacia che avevano avuto in passato, proprio perché vengono sistematicamente ed immediatamente seguite da un’opposta dichiarazione della cancelliera tedesca sulla necessità di non allentare i vincoli dell’austerità. Il continuo richiamo ai compiti a casa suona sinistro soprattutto nei confronti dei paesi che, pur facendo tutto il possibile, vedono crescere continuamente il disagio sociale. I compiti a casa vanno fatti ma, ai presunti scolari, deve essere fornita almeno una matita e un quaderno.

Un terzo elemento da prendere in considerazione è il tono sempre più duro dei dibattiti all’interno del parlamento tedesco riguardo alla politica europea. Chi pensava che l’aumentato ruolo dei socialdemocratici avrebbe ammorbidito le posizioni germaniche e avrebbe reso più responsabile la politica tedesca si è sbagliato. L’intransigenza non è una caratteristica della coalizione CDU-CSU ma è una convinzione profonda e condivisa di tutta la Germania. Non aspettiamoci quindi alcuna novità da Berlino.

Il quarto elemento da prendere in considerazione è che la Francia ha preso atto della sua reale situazione ed ha reso palese che non solo non intende obbedire agli ordini tedeschi ma che si rifiuterà di obbedirvi anche in futuro. L’attuale politica, infatti, non è in grado di accelerare il cammino dell’economia francese e apre le porte ad una vittoria della signora Le Pen alle prossime elezioni presidenziali. L’asse franco-tedesco è quindi entrato anche formalmente in crisi. Oggi tuttavia è divenuto molto più difficile per Francia e Italia proporre a Bruxelles soluzioni innovative. Nella vana attesa di queste proposte, la posizione della Germania si è infatti ulteriormente rafforzata. Ai paesi che tradizionalmente gravitavano intorno alla sua orbita se ne sono aggiunti altri, a partire dalla Spagna, quotidianamente lodata dalla Cancelliera tedesca come esempio di paese riformatore, anche se le riforme messe in atto sono in realtà marginali e la Spagna resta con livelli di disoccupazione e tassi di sviluppo inaccettabili. Qui a Bruxelles, inoltre, la nuova Commissione viene considerata sotto totale controllo tedesco e i direttori germanici sostituiscono con inarrestabile progresso i loro colleghi britannici, francesi e italiani.

Mettendo insieme tutte queste oggettive osservazioni si deve concludere che una concreta politica di più paesi, guidati da Francia e Italia, per portare avanti una linea alternativa di sviluppo non esiste più. Quest’alternativa esisteva fino a qualche mese fa: oggi è scomparsa di fronte ai mutamenti dei rapporti di forza. Eppure un’Europa che procede solo operando su parametri tecnici e non su una politica condivisa è destinata a scomparire. Perché questo non avvenga bisogna che chi ha oggi in mano il timone della politica europea abbia l’intelligenza di aiutare gli altri paesi a uscire dalla crisi. Tuttavia quest’obiettivo potrà essere raggiunto solo se le necessarie riforme potranno essere messe concretamente in atto senza provocare il disfacimento sociale.

Quanto è avvenuto in queste ultime settimane sembra tuttavia indicare che nei circoli politici non ci si rende conto della pericolosa rapida involuzione della politica europea. Ripeteva continuamente il cancelliere Kohl che, anche contro la volontà dei suoi elettori, egli aveva voluto dare vita all’Euro perché, parafrasando Thomas Mann, egli voleva una Germania europea e non un’Europa germanica. Pur avendo, con fatica e con lungimiranza politica dato vita all’Euro, ci stiamo oggi avviando verso la costruzione di un’Europa germanica e non di una Germania europea. E non è il destino che noi abbiamo per tanti anni sognato.

La vera sfida è costruire un patto sociale europeo

La vera sfida è costruire un patto sociale europeo

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Tra Francia e Germania vogliamo stabilire rapporti su una base completamente nuova, orientare quello che ci divideva, le industrie belliche, verso un progetto comune a beneficio dell’Europa, che così ritroverà nel mondo il ruolo eminente che i confitti interni le hanno fatto perdere. È una proposta politica e morale che vorremmo realizzare senza preoccuparci delle difficoltà tecniche». Questo disse a Bonn, in un mattino di giugno del ’50, Jean Monnet, un francese piccolo piccolo al gigantesco e incredulo cancelliere tedesco, un uomo e un paese feriti, isolati, umiliati. «Aspettavo da 25 anni questa iniziativa» gli rispose dopo un lungo silenzio Konrad Adenauer, «ma per realizzare una tale impresa non è la responsabilità tecnica da sollecitare ma quella morale verso i nostri popoli». L’Europa nacque da qui, da un sogno scandalosamente anticonformista, da un coraggio politico tanto scorretto da immaginare e proporre l’inimmaginabile: la riconciliazione tra nemici irriducibili, implacabili.

La profonda crisi di fiducia che tormenta da troppo tempo l’eurozona deprimendone i prezzi e l’economia, l’incomunicabilità quasi stagna che accompagna il dialogo o meglio i soliloqui dei suoi leader, evocano quei lontani tempi bui e impongono la necessità di un’analoga rottura con la storia, i dogmatismi, il pensiero unico dominante. Urge un nuovo patto di riconciliazione, un nuovo contratto sociale europeo. Oggi sul campo non ci sono 40 milioni di morti da seppellire ma 26 milioni di disoccupati di scarsissime speranze: pesano entrambi sulla coscienza dell’Europa che non può diventare il continente senza futuro del mondo globale. È troppo facile recriminare in uno sterile gioco di scambi di accuse e colpe reciproche. È difficile ricostruire le basi di una sana convivenza europea.

Non c’è dubbio che Francia e Italia abbiano sprecato i tempi della vacche grasse per rimettere in ordine i loro conti e fare le riforme strutturali indispensabili per modernizzare e flessibilizzare le rispettive economie. Non c’è dubbio che la levata di scudi pubblica e unilaterale di Parigi, il gran rifiuto di rispettare le regole anti-deficit, siano sentiti come un tradimento e una provocazione a Berlino dove la Merkel e la sua Cdu-Csu devono fare i conti con il partito anti-euro che ne erode i fianchi. Non c’è però dubbio che la sfida di Francois Hollande, più che una prova di forza, il sonoro requiem sull’asse franco-tedesco peraltro moribondo da tempo, sia un atto di suprema debolezza, di impotenza e di disperazione politica da parte di un presidente con la popolarità al 13% e il Front National in testa ai sondaggi. Non c’è nemmeno dubbio sul fatto che anche i patti europei si logorino, invecchino. Nel mondo globale che cambia a ritmi quasi istantanei, vent’anni sono un’eternità. Quando a Maastricht si fissò al 3% del Pil il tetto del deficit, la crescita media europea nel decennio precedente era stata del 4-5%: a quel ritmo si calcolava che gli squilibri nei conti si sarebbero progressivamente riassorbiti da soli.

Quando di recente gli accordi Ue sono stati rinnovati e rafforzati, si è lavorato sul presupposto di una crescita media del 2% e su un’inflazione della stessa percentuale. Quest’anno si arriverà a malapena e forse all’1%. Le previsioni di Bruxelles per il prossimo decennio parlano di una crescita media intorno all’1% annuo, meno della metà di quella americana. Per i prezzi è deflazione. Riforme o no, rispetto o no delle regole, in questo panorama la stabilità finanziaria diventa una chimera, perlomeno a breve. È una questione meccanica: non politica né economica. Costringere oggi all’impossibile i paesi ritardatari in nome della credibilità dei patti europei di fronte ai mercati, più che rafforzarla rischia di frantumarla del tutto. Un conto infatti è strapazzare la Grecia, 2% del Pil dell’eurozona, un altro è minacciare di fare lo stesso con ben oltre un terzo di quello stesso Pil. Nemmeno la Germania rispetta in toto le regole europee. Per Il surplus dei suoi conti correnti, oltre 400 miliardi pari a più del 6% massimo previsto dai patti europei, è già stata richiamata all’ordine da Bruxelles. Finora senza risultati. Anche la Germania, secondo vari studi tedeschi, deve mettere in cantiere nuove riforme e grandi investimenti in reti e innovazione per tenere il passo con la competitività globale e ritrovare un robusto ritmo di sviluppo.

Oggi crescita e investimenti – quelli veri e non i 300 miliardi del piano Juncker tutti da verificare – sono dunque nell’interesse generale: una boccata d’ossigeno creerebbe un ambiente più propizio a riforme e sacrifici e darebbe un’immagine dell’Europa meno arcigna e indifferente ai problemi quotidiani della gente. Ma nel clima di diffidenze profonde e diffuse, un patto europeo per lo sviluppo oggi richiede un gesto di lungimiranza economica e un atto di temerarietà politica che nessuno in Europa sembra in grado di fare. Un quinquennio di crisi ha dimostrato che la Germania riesce a superare i propri tabù soltanto quando arriva sull’orlo dell’abisso. È successo con il salvataggio della Grecia però al prezzo, avendo tirato troppo in lungo, di seminare il contagio in tutta l’area euro. Un gioco simile con Francia e Italia sarebbe letale per l’euro e per tutti. L’Europa è nata dalla volontà di riconciliazione nell’assoluzione reciproca. Davvero i terribili misfatti di allora erano meno gravi degli attuali e davvero l’Europa non merita di ritrovare la pace con se stessa?

La cosa giusta che non facciamo

La cosa giusta che non facciamo

Lucrezia Reichlin – Corriere della Sera

La tragedia era annunciata ma nonostante in molti l’avessimo vista arrivare, il treno è andato dritto contro il muro. La Francia ha dichiarato che non rientrerà nei limiti del deficit del 3% fino al 2017, l’Italia è vicina a sforarlo anche se continua ad affermare che lo rispetterà. La Banca centrale europea è da tempo ben sotto all’obiettivo dell’inflazione al 2% a cui è vincolata dal suo mandato.

La Germania è in surplus commerciale eccessivo. Tutte le parti coinvolte sono in evidente difetto rispetto alle regole che si sono collettivamente e consensualmente date. Come in un film al rallentatore, tra accuse reciproche, in un gioco in cui l’attribuzione della responsabilità della crisi è sempre e regolarmente dell’«altro», si è finiti sull’orlo di un suicidio collettivo. Le voci sono ormai cacofoniche, si ha l’impressione che manchi il direttore di orchestra. La Bce bacchetta i governi del Sud e del Nord: i primi per le mancate riforme, i secondi, in particolare la Germania, perché non si fanno motore di una ripresa della domanda attraverso un’espansione di bilancio. I governi francese e italiano si lamentano di un rallentamento inaspettato (inaspettato?) dell’economia.

I tedeschi accusano i Paesi che non hanno seguito la via del rigore e delle riforme di non rispettare i patti. Ma, per una ragione o per l’altra, tutti, alla fine, hanno infranto qualche regola. Un sistema in cui nessuno riesce a rispettare le regole va ripensato. Le misure da attuare subito per rilanciare la domanda, al livello dell’Unione, sono chiare e se non ci fossero vincoli politici si andrebbe dritti per quella strada. C’è un largo consenso tra gli studiosi sul fatto che quando un’economia è in pericolo di deflazione e appesantita dal debito bisogna attuare politiche di bilancio espansive (attraverso un taglio delle tasse o tramite un aumento della spesa) finanziate dalla Banca centrale.

I vincoli politici per seguire questo percorso ci sono e sono comprensibili. Il tema posto dai tedeschi sulla necessità di darsi istituzioni in cui gli interessi dei creditori siano protetti e dove non si creino incentivi per i debitori ad allentare i vincoli di bilancio nei tempi buoni, è un tema chiave e non può che rimanere centrale in una Unione monetaria senza integrazione delle politiche di bilancio. Il nostro Paese in particolare manca, per buone ragioni, di credibilità. Il Trattato e il patto di Stabilità sono stati costruiti in modo da rispondere a questa esigenza. Ora però, nella loro interpretazione più conservatrice, impediscono all’Unione nel suo insieme di fare la cosa giusta. I trattati non si cambiano in cinque minuti e sono il frutto di un compromesso faticoso, ma, o all’interno delle vecchie regole o dandosene delle nuove, dobbiamo uscire dall’eccezionalità di un’Unione in cui la politica della banca centrale è limitata da vincoli dettati da interpretazioni di parte del Trattato. E questo mentre l’approccio alle politiche di bilancio è sordo alla congiuntura economica e si basa su regole eccessivamente punitive e quindi poco credibili. È il legame tra l’eccessivo rigore dei vincoli e la loro mancanza di plausibilità a renderci, tutti, inadempienti.

L’ultimo salvagente rimasto

L’ultimo salvagente rimasto

Giuseppe De Bellis – Il Giornale

Basta, ha detto ieri la Francia. A se stessa, alla Germania, all’Europa. Basta con l’ossessione del rigore. Il governo di Parigi ha annunciato che sforerà ancora il rapporto deficit-Pil, quello che per i trattati europei deve essere massimo al 3%, una percentuale che per noi è diventata un incubo fatto di manovre su manovre, ovvero tasse su tasse. Ecco, la Francia quest’ anno chiuderà al 4,4% e ha rimandato il rientro sotto la soglia al 2017.

È la rottura di un argine che ha tenuto finora, di un fronte rigorista che praticamente tutti (tranne l’Italia di Berlusconi e in parte quella di Renzi) in Europa non avevano il coraggio di contrastare. Lo fa la Francia, che per anni ha fatto da spalla alla Germania della Merkel: ve lo ricordate l’asse franco-tedesco? Parigi ha cambiato idea da un po’ sotto la spinta della crisi e del conseguente calo di popolarità del presidente Hollande, arrivato oggi a un imbarazzante 13%. E sarà di sicuro questa la principale motivazione che spinge la Francia, ma resta il fatto che Parigi ieri ha lanciato una carica di dinamite sull’Europa: un governo tassatore che dice «noi non chiederemo più un solo sforzo ai francesi». La Germania ha reagito all’istante, la Merkel ha minacciosamente detto: «I Paesi facciano i loro compiti». Sprezzante, nervosa, irritata. Non se l’aspettava. Ce l’aspettavamo noi, invece, e da tempo, quando speravamo che il grido di dolore dei Paesi arrivasse dall’ltalia ma né Monti, né Letta si sono sognati di dire quel «basta». Di che cosa avevano paura? E di che cosa dovrebbe avere paura oggi Hollande? Delle dichiarazioni da maestrina della Merkel? Che può accadere? Commissarieranno la Francia? Sarebbe la fine dell’Europa.

Il potere contrattuale è direttamente proporzionale al coraggio. Renzi aveva cominciato le sue trattative con Bruxelles e Berlino, poi s’è fermato. Hollande l’ha superato, forse per disperazione. Ma l’ha fatto. Ci si può aggregare, distruggendo prima le resistenze di sindacati e mezzo Pd: la riforma del lavoro subito per muovere il Paese e dire all’Europa: «Adesso basta anche per noi». È paradossale che Parigi, cioè il governo più di sinistra d’Europa, faccia la cosa più liberale d’Europa: smettere di chiedere ai cittadini di salvare lo Stato. Dev’essere lo Stato a salvare i cittadini. I propri, prima che quelli europei. Forse vale la pena di salvare gli italiani.

Ora la partita si sposta a Roma

Ora la partita si sposta a Roma

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Si sapeva che la partita decisiva sulle sorti economiche e politiche dell’area euro si sarebbe dovuta giocare tra Francia e Germania e il momento è arrivato. Di questa partita l’Italia è molto più di uno spettatore interessato. Da dieci anni, da quando entrambi violarono le regole fiscali, i due maggiori paesi europei hanno visto divergere le loro economie e ciò ha reso difficile la gestione della politica economica europea. Diverse politiche di bilancio, austere in Germania e dispersive in Francia, hanno reso problematico un impegno comune nonché un coordinamento con la politica monetaria. Da un anno e mezzo è cresciuta anche la divergenza politica. Sarkozy aveva nascosto la divergenza accettando un ruolo pubblico ancillare alla cancelliera tedesca; Hollande ha fatto della critica alla Germania un elemento di identità politica.

La divaricazione tra Parigi e Berlino minaccia la tenuta della costruzione europea, come dimostra l’imbarazzo in cui è calato il processo di nomina dei nuovi commissari, in un’inedita architettura che vede il socialista francese Moscovici costretto a prendere decisioni sulla politica di bilancio dei paesi euro solo col gradimento di un altro commissario, il vicepresidente Valdis Dombrowskis, un lettone considerato un severo alfiere del rigore. Le elezioni europee avevano già squilibrato il baricentro europeo a svantaggio di Parigi. Ora le vicende attorno alla Commissione Ue dimostrano che il confronto avviene in un momento in cui la Francia è politicamente molto più debole.

Annunciando obiettivi di bilancio in violazione degli accordi, Parigi ha alzato il costo politico dello scontro anche per Berlino. Il problema è che sul breve termine Parigi ha ragione, l’economia europea si è fermata e soffre di un grave vuoto di politiche di sostegno alla domanda, ma sul lungo termine le ragioni di Berlino sono più forti. Nessuno vede in questo momento la possibilità di riconciliare due ragioni che si contraddicono in assenza di un’adeguata sintesi politica.

La partita sul breve termine si gioca sugli obiettivi di bilancio dei prossimi anni. Il ministro delle Finanze tedesco Schäuble ha presentato un piano di bilancio che azzera il deficit nel 2015 e fino al 2018, non escludendo un surplus. Prevedendo la crescita all’1,5%, sopra il livello potenziale, Berlino non fa altro che rispettare il Patto di stabilità. La sfida francese è giunta con l’annuncio del ministro Sapin che il disavanzo salirà al 4,4% e non scenderà sotto il 3% fino al 2017. Parigi aveva già mancato l’obiettivo del 3% nonostante una duplice estensione dei termini concessa dalla Commissione. Sapin ritiene che la debolezza dell’economia giustifichi l’allentamento della politica di bilancio. A livello aggregato dell’euro-area, Parigi ha certamente ragione, la debolezza viene sottovalutata da Berlino, ma qui purtroppo di aggregato c’è ben poco.

Se i due paesi avessero presentato le due manovre insieme, come se appartenessero a un bilancio comune, l’effetto netto sarebbe stato positivo e credibile. Un disavanzo sopra il 2% in Francia-Germania sarebbe stato un segnale accettabile per l’euro area. Ma anziché accordarsi, i due governi hanno fatto il contrario. Schäuble ha escluso violentemente che Berlino possa corrispondere alle invocazioni dei partner europei, dell’Fmi e della Bce in favore di una politica espansiva che dimostri che anche Berlino fa la sua parte nel coprire il vuoto di domanda di cui soffre l’euro area. Sapin da parte sua ha tolto credibilità al coordinamento delle politiche di bilancio annunciando una violazione unilaterale dei patti. Sarebbe bastata un po’ di cooperazione politica per ribaltare questo pasticcio che erode le fondamenta dell’euro-area, e rappresentarlo come un successo.

La ragione per cui ciò non avviene è che divergono le visioni di fondo. In questo caso Berlino ha uno straboccante arsenale di motivi per sentirsi nel giusto. Il tasso di crescita dei due paesi dall’inizio dell’euro è stato simile, ma a differenza della Germania, la Francia non ha saputo agganciarsi all’economia globale: ogni anno il saldo commerciale aggiunge lo 0,6% al Pil tedesco, ma sottrae lo 0,2% a quello francese. La crescita francese dipende per l’1,7% dalla domanda interna, (0,8% per la Germania), quindi da consumi, salari e trasferimenti spesso a carico dello Stato. Così si spiega la divergenza sia nei costi del lavoro sia nel debito pubblico che in Francia tende a crescere senza sosta. Schiacciate da costi e tasse, le imprese francesi hanno dovuto aumentare la leva finanziaria per fare investimenti e rimanere profittevoli, ma il risultato è altro debito e una disoccupazione doppia rispetto a quella tedesca. Senza l’allineamento ai tassi tedeschi, lo Stato e le imprese francesi non sopravviverebbero. Questo rende le politiche della Bce l’ultima istanza per tenere insieme l’intera euro area a costo di surrogare la mancanza di intesa politica.

La scelta dell’Italia deve tener conto del cattivo equilibrio tra Parigi e Berlino. Sul breve termine sta prevalendo la tentazione di inseguire la Francia con il rinvio degli impegni di bilancio, ma sul lungo è ancora da dimostrare che ci stiamo allineando alla posizione tedesca. In assenza di intese tra Francia e Germania, grava interamente sull’Italia l’onere di dimostrare che si può intervenire mediante riforme strutturali a tutto campo e con un orizzonte temporale adeguato a sostenere gli investimenti.

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Crisi e banche di sviluppo, lezioni italiane

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Tutti gli Stati dell’area euro hanno drasticamente tagliato i loro bilanci in conto capitale, ossia gli investimenti pubblici. In media, l’investimento pubblico è passato dall’8% della spesa complessiva delle Pubbliche amministrazioni a meno del 4%. In effetti, è più facile ritardare i programmi che comportano investimento in capitale fisico che operare su spese correnti, come gli stipendi per il pubblico impiego oppure i trasferimenti alle famiglie. Lo ha fatto anche la Germania. Secondo la Camera di commercio federale, per evitare un arresto delle attività, specialmente nei trasporti – basta viaggiare sulle autostrade per awertirlo – occorre investire 80 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Il confronto con la piccola Austria è drammatico: un tasso d’investimento aggregato (infrastrutture, industria, commercio) pari al 17% del Pil in Germania rispetto al 27% in Austria (e a una media Ue del 21%). Il ministro dell’Economia, Sigmar Gabriel, ha invitato gli esperti stranieri a fornire suggerimenti.

Da un lato, le modifiche di politica economica (energia, previdenza, norme lavoristiche) scoraggiano le imprese che “emigrano” in vicini Paesi neocomunitari. Dall’altro, (capitolo poco noto in Italia), i Länder hanno una ragnatela di regole che – per ragioni campanilistiche – hanno in gran misura neutralizzato le leggi Schroeder-Merkel per incoraggiare l’aumento delle dimensioni industriali. Nel breve periodo gli investimenti pubblici attivano la capacità produttiva non utilizzata – in un’eurozona con un tasso di disoccupazione dell’11,5% di forza lavoro ce ne è moltissima – senza innescare inflazione. Nel medio periodo migliorano la produttività dei fattori produttivi.

È in quest’ottica che il neopresidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, ha proposto un programma speciale di 300 miliardi di euro (aggiuntivo ai fondi europei già in essere) su tre anni per rilanciare i programmi di lungo periodo. Un anno fa è stato completato l’aumento di capitale della Banca europea per gli investimenti (Bei). Non ci sono, quindi, difficoltà a finanziare il programma, anche tramite obbligazioni targate Bei. Il 4 luglio le banche di sviluppo dei Paesi del G20 si sono riunite a Roma per definire scambi frequenti di strategia e di prassi. Da luglio, il club delle maggiori banche di sviluppo non solo europee (il Long term investors club – Ltic) è presieduto dall’ltalia. Anche se gli storici dell’economia ritengono che la Vnesheconombank, creata in Russia nel 1917, sia la più antica banca di sviluppo, l’ltalia è uno dei Paesi dell’Europa occidentale con più lunga e più varia tradizione.

Uno studio recente di Amadeo Lepore analizza la storia della Cassa per il Mezzogiorno e rafforza le conclusioni a cui erano giunti una quindicina di anni fa Alfredo Del Monte e Adriano Giannola: la Cassa ha funzionato, sino alla meta degli anni Settanta, come le migliori banche di sviluppo. È stata spesso elogiata dalla stessa Banca mondiale che ha incanalato i propri finanziamenti all’ltalia (sino al 1964) non tramite i ministeri ma tramite la Cassa. Un libro di Giovanni Farese e Paolo Savona, fresco di stampa, riguarda il ruolo personale del presidente della Banca mondiale, Eugene Black, perché la Cassa diventasse il modello per il resto d’Europa e del mondo. Sappiamo che interessi particolaristici miopi hanno portato al declino e crollo della Cassa a partire della seconda metà degli anni Settanta. Tuttavia, come documentato in due ricchi volumi di Marcello De Cecco e di Gianni Toniolo, nell’ultimo decennio la Cassa depositi e prestiti è stata gradualmente trasformata da una direzione generale del ministero del Tesoro a una delle più grandi, più importanti e più prestigiose banche di sviluppo europee. In base a queste esperienze, sia positive sia negative, possiamo – anzi dobbiamo – fornire indicazioni alle altre banche di sviluppo in vista di una strategia coordinata per tornare a crescere.

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Euro più debole e inflazione: le mosse per tornare a crescere

Renato Brunetta – Il Giornale

La scorsa settimana si è caratterizzata non tanto per il viaggio del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, negli Stati Uniti; non tanto per il dibattito, sempre più duro, sulla riforma del mercato del lavoro e, in particolare, sul superamento dell’articolo 18, ma soprattutto, sul fronte economico-finanziario-Europa-mercati, per la svalutazione dell’euro sul dollaro. Del tutto in secondo piano è passato il tema della Nota di aggiornamento al Def, che il governo avrebbe già dovuto presentare al Parlamento (il termine previsto dal semestre europeo è il 20 settembre di ogni anno), ma che probabilmente solo oggi vedrà la luce. Probabilmente. Nella settimana che si è appena chiusa, dicevamo, il rapporto di cambio euro/dollaro ha raggiunto il suo livello minimo da 14 mesi: sotto quota 1,28. Il dato non può e non deve passare inosservato, per l’importanza dei motivi che lo hanno determinato e per gli effetti che esso ha, e avrà, sulle maggiori economie mondiali.

Il valore della moneta unica europea è in diminuzione in quanto, da un lato, è in aumento la domanda di attività finanziarie denominate in dollari, che promettono rendimenti superiori, a seguito dell’annuncio della banca centrale americana, la Federal Reserve, di una imminente stretta monetaria: la fine del Quantitative easing (Taper off) dal prossimo mese di ottobre e l’aumento dei tassi di interesse tra marzo e giugno 2015. Dall’altro lato, al contrario, la Banca centrale europea manterrà bassi ancora a lungo i tassi d’interesse dell’area euro, e si appresta a varare nuove e straordinarie misure espansive di politica monetaria nei prossimi mesi. Ne deriva un ampliamento del differenziale atteso dei tassi d’interesse tra Europa e Usa a favore degli Stati Uniti. Inoltre, gli ultimi dati disponibili rilevano un peggioramento della bilancia commerciale dell’area euro, determinato in generale dalla cattiva performance economica, in termini di crescita, dei paesi europei, e, più in particolare, dal calo dell’export della Germania nei confronti dei paesi extra-Ue. Questo crea un ulteriore aumento della domanda di dollari (per acquistare beni e servizi americani) e una diminuzione di quella di euro. Il combinato disposto di questi due fattori ha determinato la rivalutazione del dollaro e la conseguente svalutazione dell’euro cui abbiamo assistito nell’ultima settimana. Mercati in movimento, quindi. Incerti, ma vigili. Fare attenzione. Ottobre è arrivato.

Come abbiamo anticipato, la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, la scorsa settimana ha confermato che con il prossimo acquisto, in ottobre, di asset per 15 miliardi di dollari finirà la politica di Quantitative easing che fino ad oggi ha assicurato bassi tassi di interesse a sostegno dell’economia. In realtà, il cosiddetto “Tapering”, cioè la riduzione progressiva, di 10 miliardi al mese, della terza tranche di QE, iniziata a settembre 2012 con acquisti mensili di asset per 85 miliardi di dollari, era attesa da oltre un anno.

L’interazione tra le politiche monetarie della Bce e della Fed, che continueranno a essere di segno contrario, seppur in posizioni invertite, consentirà un riequilibrio in termini di crescita tra Europa e Stati Uniti? Ciò dipenderà dai tempi con i quali il mutamento della politica della Fed si trasmetterà sull’aumento dei tassi d’interesse nell’area dollaro, soprattutto sui tassi a lungo termine, da come la Federal Reserve riuscirà a orientare e/o controllare la progressività dell’aumento e soprattutto da come la Fed reagirà a possibili scostamenti dei tassi di crescita dell’economia e di disoccupazione americani da quelli previsti e sui quali essa ha basato le proprie decisioni di normalizzazione monetaria. Ma ciò dipenderà ovviamente anche da quel che accadrà in Europa.

L’obiettivo principale che deve porsi oggi la Banca centrale europea è duplice: ottenere una consistente riduzione del tasso di cambio dell’euro e alzare il tasso d’inflazione, per evitare l’emergenza di una spirale deflazionistica già iniziata in vari paesi europei. I due obiettivi sono strettamente connessi, perché la svalutazione dell’euro sembra ormai a molti commentatori l’ultimo strumento per ottenere nel breve periodo, al tempo stesso, un aumento dell’inflazione importata e un aumento della domanda, sia estera sia domestica, di prodotti europei. Questo appare, dunque, l’unico modo per riavviare la crescita, in attesa che l’Europa riacquisti un dinamismo competitivo endogeno. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro dell’ultima settimana sembra dare una risposta al possibile effetto congiunto dell’espansione monetaria inseguita dal presidente della Bce, Mario Draghi e l’annuncio della fine della stessa politica negli Stati Uniti.

Qui si pone, tuttavia, una questione di non poco conto per i paesi europei più indebitati come l’Italia. L’afflusso di capitali in Europa ha avuto un effetto benefico sulla sostenibilità dei debiti, determinando un costo del debito ai minimi, e sui valori azionari che sono saliti nonostante la stagnazione/recessione, ma ha avuto come prezzo un ostacolo alla crescita determinato dal valore alto dell’euro. Il desiderato deprezzamento dell’euro, e, soprattutto, l’attesa di deprezzamento, implica una possibile inversione di tendenza anche dal lato della remunerazione richiesta per il finanziamento dei debiti che, quindi, aumenterebbe, con conseguenti guai per molti paesi europei e per l’Europa nel suo complesso. Per questo crediamo che la Bce debba prepararsi a un necessario intervento non convenzionale che possa estendersi all’acquisto di debito pubblico (leggi: Quantitative easing europeo).

Rimane anche un dubbio complessivo legato al passaggio, annunciato dalla Fed, dall’approccio “Forward guidance”, fino ad oggi adottato, all’approccio del “Data-driven stance”. Il primo approccio è quello seguito dal predecessore di Janet Yellen alla guida della Federal Reserve, Ben Bernanke, negli ultimi anni, in base al quale la banca centrale comunica con largo anticipo agli operatori le decisioni di politica monetaria che intende prendere. Altro approccio è quello di stare a vedere cosa accade all’economia, fare piccole correzioni nei tassi di interesse, o altre azioni di intervento, e annunciare che ulteriori decisioni verranno prese se gli stimoli non si dimostrano sufficienti a far ripartire la spesa in consumi e investimenti (Data-driven stance). Questo approccio sembra guidare sostanzialmente anche gli ultimi interventi della Bce e i suoi annunci di ulteriore e crescente ricorso a strumenti di politica monetaria non convenzionali. Gli stimoli monetari messi in campo fino ad oggi dalla Bce non hanno avuto gli effetti sperati. Ha dunque ragione Draghi quando afferma che la politica monetaria da sola è inefficace se non aiutata dalla politica economica, quindi dalle riforme strutturali, degli Stati, e anche che entrambe le politiche possono poco se non si sbloccano i mercati e le istituzioni.

La conclusione è che, con la svolta della politica monetaria americana, per l’Italia la strada rischia di complicarsi ulteriormente, e diviene sempre più cruciale la necessità di grandi capacità di governance e di decisioni non solo rapide, ma anche forti e condivise. Se fino ad oggi i tassi di interesse sul nostro debito pubblico sono rimasti bassi, per esempio rispetto ai picchi del 2012, grazie alle “magie” della politica monetaria, non solo e non tanto della Bce, ma soprattutto della Federal Reserve, adesso lo scenario sta cambiando e il ruolo dei governi torna centrale. Se si vuole evitare una nuova tempesta finanziaria, le banche centrali non bastano più: la palla è in mano ai governi. Solo ai governi. Purché facciano le cose giuste.

L’ombra di Draghi

L’ombra di Draghi

Andrea Cangini – La Nazione

Mai come oggi Matteo Renzi deve dimostrare al mondo di non essere un Benito Cereno. Niente a che vedere, dunque, col celebre comandante del mercantile spagnolo immaginato dallo scrittore Herman Melville: formalmente nel pieno dei poteri, di fatto ostaggio di una ciurma ammutinata. Il terreno scelto per la prova di forza è, come è noto, la riforma del lavoro. Terreno scelto non dal presidente del Consiglio italiano, che volentieri avrebbe rimandato il fischio di inizio di una partita chiaramente delicata per il Pd, ma dal governatore della Banca centrale europea Mario Draghi. Paradossalmente, l’ombra di Draghi aiuta Renzi.

Aleggia infatti da settimane lo spettro del commissariamento dell’Italia. L’idea cioè, che pur se incarnata dal giovane e dinamico Matteo, la politica italiana sia la stessa di sempre e la capacita di passare dalle parole ai fatti, riformando quel che va riformato, pari a zero. Cominciano a pensarlo sia i poteri più o meno «forti» nazionali sia i partner europei sia gli advisor dei grandi fondi di investimento globali. C’è chi vorrebbe che Draghi diventasse capo dello Stato. E chi auspica – alcuni come il fondatore di ‘Repubblica’ Eugenio Scalfari, dicendolo; altri, come i direttore del ‘Corriere della Sera’ Ferruccio de Bortoli, dicendo il contrario – l’intervento della Troika. Quel che Renzi non riesce a fare lo farebbero i ‘commissari ‘ della Bce, del Fmi e della Commissione europea.

Lavorare affinché Renzi fallisca significa aprire la strada a questa prospettiva. È questa la responsabilità che intendono assumersi i Civati, i Bersani e le Camusso? Diflicile crederlo. Facile invece immaginare che, nel Pd, molti degli attuali dissenzienti temano anche il secondo scenario possibile in caso di fallimento renziano: le elezioni anticipate. E la loro ovvia non ricandidatura. Se a questo si aggiunge il fatto che – sgombrato il campo da totem, feticci e pregiudizi – un ‘intesa sul merito della riforma del lavoro è davvero a portata di mano, c’è da credere che Renzi finirà per spuntarla. Ma perché il mondo si convinca che il premier italiano non è un Benito Cereno, bisognerà che alla direzione de Pd convocata per lunedì Matteo Renzi prenda di petto i suoi avversari interni sbattendogli in faccia le proprie responsabilità e intimandogli di adeguarsi alle decisioni della maggioranza. Non c’è dubbio che lo farà, unendo così all’utile il dilettevole.

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Senza riforme l’aspirina valutaria non basterà

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Debolezza dell’euro o forza del dollaro? A giudicare non solo dall’1,27 del cambio euro/$ ma dal 109 del dollaro/yen o dallo sgretolamento del prezzo dell’oro, sono i pettorali del biglietto verde a gonfiarsi sotto la spinta di un’economia che cresce. Dall’inizio della crisi a poco tempo fa la divaricazione dei cambi nel mondo aveva rispettato quel che suggeriscono teoria e storia: i cambi dei Paesi emergenti – in primis la Cina – erano andati apprezzandosi, quelli dei Paesi emersi avevano segnato il passo se non indietreggiato. Parliamo qui dei cambi come indicatori della competitività, cioè dei cambi effettivi reali, che tengono conto di tutti i rapporti di cambio con i Paesi terzi e dei differenziali di inflazione.

Da qualche tempo la divaricazione si è andata manifestando anche all’interno dei Paesi emersi, e segnatamente fra le tre maggiori aree economiche: Usa, Europa e Giappone. Fra queste quella che cresce di più è l’America, e il dollaro sta guadagnando terreno rispetto allo yen e alla moneta unica. C’è chi ama i titoli gonfi sulle “guerre valutarie”, ma i cambi sono l’effetto e non la causa delle differenze nella crescita. La crescita di un’economia dipende da fattori strutturali – le “forze innate” di un sistema economico – e dalle politiche di espansione. Di queste due grandi determinanti la prima è di gran lunga la più importante. Una politica monetaria di stimolo può portare in prima battuta a un deprezzamento del cambio, ma, se funziona – cioè se l’economia risponde con la crescita – poi il cambio tende a rafforzarsi. Si prenda ad esempio il dollaro. Fino a pochi mesi fa sia il cambio effettivo reale dell’euro che quello della moneta Usa si erano andati deprezzando all’incirca nella stessa a misura a partire dall’inizio della crisi. Ma, quando è diventato evidente che le due aree rispondevano in maniera diversa – gli Stati Uniti riprendevano a crescere e l’Eurozona si adagiava nella stagnazione – i destini delle monete si sono separati. Gli Usa avevano ripreso un sentiero di crescita per meriti diversi da quelli valutari (le capacità di reazione del gran corpaccio dell’economia americana, la politica di bilancio meno penalizzante), mentre nell’Eurozona erano anche lì fattori non valutari (una austerità malintesa, riforme insufficienti) a far segnare il passo all’economia.

Se la svalutazione dell’euro – il cambio reale è oggi stimabile a circa il 12% più basso rispetto alla media del 2007 – avrà un merito sarà quello di togliere un alibi a quanti sostenevano che era colpa del cambio troppo forte se l’economia non cresceva. Forse la discesa dell’euro non è terminata, ma c’è già una grossa differenza fra l’1,38 contro dollaro della primavera scorsa e l’1,27 di adesso. “Qui si parrà la tua nobilitate”, si potrebbe dire ai produttori italiani ed europei: vedremo se era il fattore valutario a tenervi al palo… Ma non bisogna nascondersi dietro un dito. Il problema dell’economia italiana non sta nell’offerta ma nella domanda. Da una parte, la forte rivalutazione del livello di produttività industriale rilevata nei nuovi dati di contabilità nazionale rilasciati dall’Istat; e, dall’altra, i dati sulle vendite al dettaglio comunicati ieri, sono lì a ricordarci che quel che manca in Italia non è la capacità di offerta ma la voglia e la capacità di spendere.

Una apatia dell’economia che, pur tristemente e lungamente evidente nella Penisola, si va manifestando anche nei Paesi “forti” dell’Eurozona. Una apatia che è riflesso anche dello stallo disperante delle politiche economiche. La Bce ha fatto quel che poteva fare, e la palla è ora nel campo dei governi. Ma questi sono incapaci di trovare i tempi giusti e il sentiero più agevole per conciliare riforme e flessibilità di bilancio. La determinazione del governo italiano nel perseguire la riforma del mercato del lavoro è importante, ma ha bisogno di essere assortita di impegni comunitari sulle regole cieche del Fiscal Compact. Per uscire da questo stallo l’Europa ha bisogno della politica alta, dell’afflato che in passato ha segnato le grandi tappe dell’integrazione. Non basta e non basterà l’aspirina di un euro debole.

Come Ue comanda

Come Ue comanda

Giuseppe Turani – La Nazione

La fretta e il piglio più deciso con cui Renzi sta affrontando la questione delle riforme ha una sola possibile spiegazione. Fra Bruxelles e Roma, senza che siano stati firmati protocolli o carte, è entrato in funzione quello che potremmo chiamare crono-programma. Il vertice dell’Ue ha spiegato molto chiaramente che, senza riforme, non ci sarà nessuna attenzione speciale per l’Italia. E, inoltre, ha anche fatto capire che non si può tirare tanto per le lunghe. Da qui il crono-programma: mano a mano che le riforme diventano reali da Bruxelles arriverà qualche attenzione (e qualche soldo) in più. Non è come avere la Troika in casa, ma la differenza non è moltissima: lasciano all’Italia la libertà di fare quello che va fatto. Altrimenti: applicazione severa delle norme comunitarie. In questi ultimi tempi gli appelli da Bruxelles sono stati ripetuti e molto chiari. E anche Draghi ne ha fatti almeno tre di appelli, sia pure nei modi felpati e nebbiosi propri dello stile di un banchiere centrale. Le tensioni delle ultime ore nascono proprio da questo: ci sono alcune cose che la Bce e la Ue considerano non più rinviabili. Il primo caso che viene in mente è quello del mercato del lavoro.

Sono mesi che cercano di farci capire che con l’attuale organizzazione del lavoro non si va da nessuna parte. Il professor Giulio Sapelli, che peraltro è critico verso Ue e Bce, da tempo va sostenendo che la nostra legislazione sul lavoro va rasa al suolo e sostituita con qualcosa di più semplice e di più moderno. E il senatore Ichino a questo sta lavorando da anni. Nessuno ci ha dettato i particolari, ma le richieste europee si possono sintetizzare in una semplice frase: più flessibilità in entrata e più flessibilità in uscita. Questo significa che l’articolo 18 ha i giorni contati. E la stessa cosa si può dire di altre norme che ingessano il lavoro.

Di fronte a questo clima cambiato, la Cgil è già insorta e minaccia grandi mobilitazioni di massa, sostiene (non a torto) che la soppressione (totale o parziale) dell’articolo 18 è lo scalpo che l’Italia si appresta a offrire ai falchi europei. Rimane da capire quanto l’attuale organizzazione del lavoro abbia ancora senso in una società immersa nella competizione globale. E anche la resistenza della Cgil non sembra avere molte possibilità di vittoria: le pretese dei falchi, infatti, sono quelle del mondo moderno mentre la Cgil è un po’ ferma agli anni Cinquanta. Ma c’è di più. La vera grana per la Cgil è un’altra.- se l’articolo 18 può già considerarsi defunto, adesso la partita vera riguarderà la contrattazione aziendale e locale. In sostanza, la futura organizzazione del lavoro punterà a rendere meno importanti i contratti nazionali per dare più spazio alla contrattazione in sede locale o aziendale. Si vuole andare verso una maggiore aderenza al mercato. I dipendenti di aziende che vanno bene potranno chiedere salari più alti, quelli di aziende che vanno male dovranno accontentarsi di buste paga più esili. È facile capire come questa linea finisca per rendere più sfumato il ruolo delle grandi confederazioni sindacali nazionali, destinate a perdere di peso e di importanza. Il sindacato non accetterà tutti questi cambiamenti di buon grado. Ci sarà quindi una tensione crescente. Ma nemmeno la Cgil potrà andare contro la storia. Ormai il mondo va in questa direzione: più flessibilità e più spazio alle realtà aziendali. I contratti buoni dal Trentino alla Sicilia stanno per andare in pensione, assieme all’articolo 18.