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Condannati alla monnezza

Condannati alla monnezza

Davide Giacalone – Libero

Ce la prendiamo con l’invadenza e la costrizione europea o con la deficienza e l’indecenza italiana? Propendo per la seconda ipotesi e trovo che la condanna della Corte di giustizia, per le discariche abusive e inquinanti, sia uno sfregio meritato. Non ci siamo limitati a farci condannare, ci siamo spinti a farci riprendere per non aver dato alcun seguito a quella sentenza. I fatti: nel 2007 la Corte europea ci condanna per le discariche abusive (4866 vergogne, ridottesi a 218 indecenze), in spregio della direttiva europea che regola lo smaltimento dei rifiuti. Come spesso capita, in Unione europea si è fin troppo elastici, sicché, dopo la sentenza, l’Italia ottiene tempo per rimediare. Quante volte reclamiamo elasticità per potere continuare con le rigidità immorali? Passano sette anni e la Commissione deve prendere atto che in Italia non si è ancora rimediato. Ed ecco la pena: 40 milioni da pagare forfettariamente e 42,8 per ogni semestre ulteriore di inadempienza nel rimediare. Considerato che per assolvere al nostro dovere non basta non continuare con le discariche abusive, non basta coprire di terra gli scempi, ma quelle esistenti vanno risanate, ne deriva che ci siamo guadagnati una tassa ulteriore, pari a 85,6 milioni l’anno. Continuando a tenerci la monnezza a cielo aperto. Continuando ad avvelenarci.

Allora: colpa dell’Europa? Si facciano gli affari loro? No: infamante colpa italiana. Dice Gian Luca Galletti, ministro dell’ambiente, che non pagheremo una lira, perché sono stati stanziati i soldi per rimediare. Intanto i 40 milioni li paghiamo. I soldi stanziati sono 60 milioni. Questo significa che, a giudizio del governo, per risolvere il problema ci vogliono meno soldi della multa di un anno, e un terzo in più di quella una tantum. Ammesso che le cose stiano così, perché l’impressione è che la criminalità dei rifiuti non sia in fase di riflusso, ma di straripamento. La colpa è di un Paese in cui il presunto ambientalismo rende impossibile smaltire i rifiuti in modo sensato e regolare, facendo da spalla alla criminalità organizzata delle discariche e delle sostanze tossiche sversate nell’orto. In cui ci sono sindaci no-discarica, no-inceneritore, no-termovalorizzatore, in attesa che arrivi l’era del no-sindaco, nel senso che prima o dopo salta tutto. In cui i movimenti spontanei lo sono come le poesie recitate dai bambini, e compitate tutte con la stessa rima balorda del comune che s’è denuclearizzato (meriterebbero una tassa sulla cretineria), ma non s’è despazzaturizzato. In tal senso l’ideale che s’insegue, una via di mezzo fra scie chimiche frinenti e glocal (globale e locale) per analfabeti, è il mito di rifiuti zero. Tipiche conquiste della cultura usa e getta. Altamente inquinante.

La condanna non è nuova, dunque. La novità è che dal 2007 a oggi non siamo riusciti a chiudere la partita. E le discariche abusive. Senza contare che sono un orrore anche le discariche non abusive, perché la ragionevolezza vorrebbe che i rifiuti da buttarsi in discarica fossero una parte residuale di
quelli riciclati, termovalorizzati o smaltiti. Noi, invece, abbiamo Comuni come la capitale, che impongono ai cittadini la raccolta differenziata e poi buttano tutto nello stesso buco di follia. Il Paese più bello del mondo, la meta ambita da chiunque, riesce a essere il luogo in cui il pattume si monumentalizza. C’è una cosa, però, che alla Corte europea sarà bene non far sapere: non è che siamo inadempienti dal 2007, è che questa situazione già la cantava Aldo Fabrizi, con “Buon giorno monnezza”. Non mi ha mai convinto la teoria dell’Europa come vincolo esterno, opinione che mi consentì di vedere che il problema non sarebbe stato entrare nell’euro, ma restarci. In casi come questi, però, mi piace l’Europa come ceffone esterno. Meritato da ceffi incapaci e tanto moralisti quanto privi di etica.

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Caro Matteo Renzi, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il ‘semestre europeo’ che sarebbe dovuto essere a guida italiana si sta chiudendo senza essere stato pilotato, in effetti, da nessuno. Le ragioni sono oggettive: i protratti, e difficili negoziati, per la costituzione di una nuova Commissione Europea in una fase in cui l’eurozona è il grande malato dell’economia mondiale, sono in corso guerre guerreggiate alle frontiere orientali e meridionali dell’area, e le tensioni tra il ‘virtuoso’ Nord ed il ‘peccaminoso’ Sud si fanno più acute. Non si deve certo attribuire al Presidente del Consiglio italiano il ‘bailamme’ in cui si è dipanato il semestre. Gli si può rimproverare , però, di avere, come è sua abitudine, fatte troppe promesse e destato eccessive aspettative. Accendendo la miccia per delusioni. Alla vigilia dell’imminente Consiglio Europeo del 18-19 dicembre, sarebbe auspicabile consigliargli la prudenza, virtù cardinale che pare lontana dalle sue convinzioni.

Oggi l’Europa sembra in mano a leader intellettuali e politici di stampo medioevale. Il confronto è tra iconoclasti e gli alchimisti. I primi sono guidati dall’economista Anatole Kaletsky ed annoverano tra i loro ranghi sia premi Nobel come Paul Krugman che giornalisti di belle speranze e tanto ottimismo. I secondi hanno trovato il loro Leader Massimo nel Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker.

Per i primi ci sarebbero indicazioni molto solide di una svolta. Anzi, sarebbe dietro l’angolo una “Grande Convergenza” tra le politiche macro-economiche degli Stati Uniti (dove la crescita del Pil rasenta il 4% l’anno) e quelle di Unione Europea, Giappone ed anche India e Cina. Le banche centrali, a cominciare dalla Bce, inizierebbero un programma ‘vigoroso’ di ‘misure non convenzionali’, si allenterebbero i vincoli di bilancio (senza troppo preoccuparsi di Trattati e di Compact), si liberalizzerebbe, si privatizzerebbe. E via discorrendo. A mio avviso, queste indicazioni, ove ci fossero, non tengono conto dei nodi demografici che caratterizzano l’Europa in generale e l’Eurozona in particolare e che frenano innovazione, consumi ed investimenti ed impongono un crescente stato sociale (previdenza, sanità) e comportano una bassa produttività dei fattori di produzione. Inoltre, nell’eurozona, i Paesi ‘che pesano di più’ non ritengono che Trattati e Compact, liberamente sottoscritti, possano essere liberamente e gioiosamente violati.

Gli alchimisti hanno trovato – si è detto – il loro Leader nel Presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, di cui Matteo Renzi è un aedo, ancor più che un corista a cappella. La prova si ha nel tanto atteso e tanto applaudito (da coristi e aedi) piano di investimenti di 300 miliardi di euro che dovrebbe ‘dare la scossa’ all’eurozona. In effetti, non solo – come notato da numerosi commentatori – la Commissione Europea stanzia sono 21 miliardi (che dovrebbero attrarre i Governi, i privati ed anche mia zia Carolina dubbiosa sul futuro della propria pensione ed anche dei propri risparmi), ma se dedica un po’ di tempo allo studio del bilancio comunitario ci si accorge che i 21 miliardi sono rimasugli (infrattati in migliaia di voci) non utilizzati dalla Commissione presieduta da José Barroso.

Non sono stati impegnati o perché mancavano i progetti o per lungaggini burocratiche degli Stati membri, delle loro Regioni e negli stessi labirinti comunitari. Quindi, più nulla che poco per ‘svoltare’ e ‘cambiare marcia’ in un’eurozona dove l’investimento in infrastrutture è ridotto, mediamente, a meno del 2% del Pil (non riporto per carità di patria l’ulteriore taglio proposto nella nostra Legge di Stabilità). In breve si tratta di una ricetta ispirata alla Vêc Makropoulos, la pozione che l’alchimista greco-ebreo preparò per l’Imperatore Rodolfo d’Asburgo (quando Praga era la capitale dell’Impero) immortalata in un dramma di Ċâpeck, uno dei massimi scrittori boemi del primo Novecento.

Matteo, lascia perdere gli alchimisti e non ascoltare le sirene degli iconoclasti. Cerca, piuttosto, di circondarti di chi di queste cose se ne intende.

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash” del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.

In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”.

In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.

Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Sovranità senza sovrano

Sovranità senza sovrano

Davide Giacalone – Libero

Mario Draghi continua a ripetere che è impossibile sperare che la ripresa europea si basi solo sulle iniziative della Banca centrale. Che è necessario cedere sovranità per creare qualche cosa che somigli a un governo europeo. E ha ragione, tanto più che i fatti pongono davanti all’alternativa: cedere sovraninà per riforme e istituzioni condivise, o cederla perché travolti dalla propria inettitudine. Le alzate d’ingegno e le presunte fughe non ne restituirebbero neanche un grammo, semmai farebbero salire il conto da pagare.

La Bce può fare la sua parte, e la sta facendo, ma non può e non deve sostituirsi ai governi e alle istituzioni dell’Ue. Draghi ripete, giustamente, che la moneta unica chiede più integrazione, cosa che incontra una resistenza soprattutto francese. Taluni credono di sapere che l’euro nacque a freddo e dal nulla, invece ha alle spalle gli anni del Sistema monetario europeo e dei cambi (quello Sme cui si oppose il Pci, con le parole del non europeista Giorgio Napolitano, perché non voleva l’Europa indipendente e sovrana). Draghi, però, continua a non ricevere risposte convincenti. La Bce c’è stata e c’è. Quando lo sostengo c’è chi obietta: e che cosa ha fatto, per l’Italia? Molto: ha messo le banche in condizione d’acquistare titoli del debito pubblico e li ha a sua volta comprati, riducendo efficacemente il divario dei tassi d’interesse e l’affanno delle aste. Ora prova a pompare denaro destinato al credito, verso imprese e famiglie. Ha fatto molto, ma ha agito isolata. Ha invocato il coerente concorso di Ue, governi e parlamenti, ma questi fanno finta di non sentire.

Il governo italiano ha inviato alla Commissione una legge di stabilità fondata su dati irreali. Lo sa chi l’ha spedita e lo sa chi l’ha ricevuta. Allora perché la approvano, come raccontano tutti i giornali, anziché restituircela con sdegno? Intanto perché ne chiesero e ottennero delle correzioni, poi perché non l’hanno approvata, limitandosi a dire che i conti li faremo a marzo, quando non torneranno. Più in generale, però, non ce la tirano dietro perché i nostri numeri sono sì sballati, ma anche quelli degli altri. A cominciare da quelli della Commissione.

Il celebre piano Juncker ha finalmente preso corpo numerico, confermando i peggiori sospetti. 16 miliardi diventano 21 con i 5 della Banca europea degli investimenti; cosi creato, il Fondo europeo per gli investimenti strategici consentirà alla stessa Bei di fornire prestiti per il triplo del capitale, arrivando a una disponibilità di 63 miliardi (e già qui siamo fra gli atti di fede); dai 63 si passa a 315 grazie all’entusiasmo che vedrà moltiplicare tutto del quintuplo, con i capitali privati che vorranno partecipare alla festa (e qui si entra fra i misteri della fede, o negli empirei del raggiro). Se poi andate a leggere in cosa quei soldi dovrebbero essere investiti, trovate roba che o è profittevole in sé, quindi dovrebbe essere lasciata al mercato, o è spesa pubblica classica, che ammesso possa essere generatrice di profitto lo sarà solo dopo anni. La testa di questi politici funziona ancora immaginando spesa pubblica che sostiene i consumi, dimenticando che in questi anni di crisi il debito pubblico europeo è cresciuto in modo impressionante (il nostro, già enorme, meno di quello altrui). Quanto tempo ancora pensano che una zona ricca possa continuare a vivere al di sopra dei propri gia grandi mezzi?

L’azione di accompagnamento che la Bce reclama ha caratteristiche diverse. Servono riforme che sciolgano il blocco muscolare e celebrale di società che hanno preteso di abolire il rischio, così condannandosi alla paura del futuro. E servono tagli alla spesa pubblica corrente, compresi tagli al costo del debito (e gli unici visti vanno a merito della Bce), che consentano di far scendere la pressione fiscale. La Bce lavora per un cambio più favorevole, tassi bassissimi e inflazione più tonica. I governi dovrebbero lavorare per meno fisco e più produttività, non attendere i frutti dell’azione di Francoforte per ciucciarne i risultati e sprecarli come impareggiabilmente sanno fare.

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Il passo corto dell’Europa, più speranze che soldi

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa non tradirà «i figli e i nipoti firmando assegni che finiranno per pagare loro». Il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker, presentando il suo piano per la crescita da 315 miliardi di investimenti, si preoccupa del futuro dei più giovani. E dedica un pensiero politicamente corretto anche al «bambino greco di Salonicco che deve poter entrare in una scuola moderna con il computer». Dunque, niente denari freschi. Ma tante speranze sì. Quella per cui 21 miliardi di capitale iniziale si moltiplicano al pari della fiducia degli investitori privati e ne mobilitano 315, in particolare a favore dei Paesi più sofferenti. O quella per la quale «piacerebbe» a Juncker che siano i Paesi con «più ampi margini di manovra di bilancio» (leggasi Germania) a contribuire di più al costruendo fondo per gli investimenti capace di strappare l’Europa alla stagnazione.

La Banca Europea per gli Investimenti (Bei) deve mantenere il suo rating da “tripla A” e non può assumersi rischi, ha precisato il vicepresidente della Commissione Jyrki Katainen. D’altra parte, la Cancelliera tedesca Angela Merkel approva «in linea di principio» il piano ma si riserva già una verifica appuntita dei progetti. E non è ancora certo che l’eventuale contributo dei singoli stati nazionali sia escluso dal calcolo del deficit e del debito ai fine del rispetto del Patto di stabilità. Insomma la vecchia «nonna Europa», per stare alla tagliente definizione di Papa Francesco, fa il passo che può. Quello corto, e ancora tutto da scrivere prima nei regolamenti e poi nell’economia reale, ma che consente di dire è «il primo» della svolta dopo l’austerity. Alle sue spalle, in tema di azioni pro-crescita, il fallimento dei piani del 2008 e del 2012. Ci si augura che non finisca così. Cosa può fare l’Italia? Primo: battersi a Bruxelles per riempire quanto più possibile i buchi del progetto le cui incognite sono pari alle sue ambizioni. Secondo: far scattare i piani relativi ai 40 miliardi subito “bancabili” co-finanziabili con la Bei di cui ha parlato il ministro Pier Carlo Padoan. Sarebbe già questo un gran risultato.

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

L’espansione del potere statale e la minaccia dell’Unione

Carlo Lottieri

Lo Stato moderno è quell’istituzione che, al termine di un lungo cammino che ha avuto inizio in epoca medievale, si è imposta sulla società moderna quale soggetto in grado di monopolizzare l’uso della violenza, assorbire il diritto, farsi carico di tanti ambiti e attività tradizionalmente affidati a comunità, associazioni, imprese e individui. Dopo avere dominato gli ultimi cinque secoli della storia occidentale, però, lo Stato potrebbe essere avviato verso il proprio declino. È però vero che anche se le cose stessero in questi termini, ci si troverebbe in una fase “terminale” segnata da una serie di paradossi.
Da un lato, mai come ora lo Stato è stato forte e mai oggi il ceto politico è stato in grado di togliere risorse ai produttori, costruendo un enorme apparato parassitario. Oggi questo Moloch sta però distruggendo le economie, e non solo quelle del Sud dell’Europa: dato che tanti Stati sono sempre più indebitati e vanno trascinando nel gorgo l’intera economia. Eccezion fatta per qualche caso particolare (dalla Svizzera al Liechtenstein, a taluni paesi ex-comunisti), nel Vecchio Continente chi lavora è privato del 50% delle risorse, ricevendo in cambio una sanità di modesta qualità, un’istruzione sempre meno adeguata, una promessa di protezione previdenziale che non potrà essere mantenuta, e via dicendo. Ma di fronte a tale fallimento la risposta che viene individuata consiste nel trasferire il potere a un livello superiore: puntando utopicamente a costruire uno Stato globale e, quale tappa intermedia, un’Unione europea sempre più costosa e centralizzata. Questo significa che gli Stati stanno trionfando, ma al tempo stesso stanno progressivamente per essere spodestati da un iper-statalismo sovranazionale e da un processo che svuota antiche e consolidate autonomie nazionali. Ne consegue che Roma e Parigi, Londra e Berlino, ma anche i capoluoghi di regione e le grandi città, rischiano di essere sempre più i semplici punti d’appoggio di un potere parassitario e onnipresente, le cui pratiche predatorie tengono ormai a sganciarsi dagli Stati e adottano qualsivoglia strategia pur d’imporsi.
La formula, pur teoricamente infelice, della cosiddetta “cessione di sovranità” interpreta con efficacia lo svuotamento di istituzioni che un tempo si sono proclamate totali e definitive, gli Stati, e che hanno pure sviluppato una loro teologia secolare, costruendo quelle mitologie variamente nazionaliste o classiste che hanno innescato i grandi conflitti degli ultimi due secoli. Sotto vari punti di vista, il globalismo giuridico di quanti mirano a realizzare un qualche Stato mondiale e che puntano a edificare una statualità continentale – gli Stati Uniti d’Europa – è figlio diretto della linea teorica che ha costruito la modernità statuale (Bodin-Hobbes-Rousseau), essendo in sintonia con le ideologie che hanno dominato la filosofia politica negli ultimi secoli. La sovranità prima si è fatta assoluta, ma poi si è realizzata integralmente nel momento in cui ha incontrato la massa (nazionalismo, socialismo, democrazia illiberale) e ha quindi investito se stessa in un globalismo giuridico volto a far venir meno ogni vincolo, facendo coincidere la mistica della volontà generale e l’ideologia dei diritti umani.
Per certi aspetti, ci si trova su un piano inclinato. Le élite politiche e intellettuali europee, che nel ventesimo secolo hanno dato credito a ogni visione totalitaria, oggi considerano la prospettiva dell’unificazione come l’unica possibile e legittima. Nonostante i problemi correlati al processo di costruzione dell’Unione, ogni difficoltà viene addebitata all’ancora imperfetta federazione realizzata negli anni scorsi. È un’idea largamente condivisa che una democrazia europea compiuta con capitale a Bruxelles sarebbe in condizione di assicurare pace, civiltà e prosperità a tutti.
Non tutto sta però favorendo gli artefici di questo Potere tendenzialmente illimitato. Il quadro economico e sociale, in particolare, va deteriorandosi. Le logiche deresponsabilizzanti che sono state al cuore dello Stato moderno (“la grande finzione grazie alla quale tutti si illudono di vivere alle spalle di tutti”, secondo l’aurea definizione di Frédéric Bastiat) sono esaltate dalle procedure di protezione, aiuto e garanzia che contraddistinguono l’interventismo dell’Unione e della Bce. La disfatta della civiltà europea non è casuale.
Il risultato è che il meccanismo redistributivo che vorrebbe costringere alcuni Stati a sostenerne altri rischia di erodere le chance di tenuta dei primi senza davvero aiutare i secondi. I bilanci dei Paesi più virtuosi sarebbero messi a rischio e con essi la solidità della moneta comune, mentre nel caso dei Pigs il “salvataggio” di taglio assistenziale rinvierebbe decisioni che invece vanno assunte senza indugio. Ritardare l’agonia non significa evitare la catastrofe. Dilatati nella loro capacità d’intervento dallo sviluppo del welfare, gli Stati moderni hanno progressivamente innalzato la pressione fiscale, hanno poi aumentato la massa monetaria (generando inflazione) e, infine, hanno fatto ricorso al debito.
Il progetto ideologico è lanciatissimo e non ha rivali, ma la realtà offre resistenza. Sul piano del dibattito delle idee, purtroppo gli unici (o quasi) che s’oppongono al globalismo giuridico-politico e all’europeismo unificatore sono gli sciovinisti difensori delle patrie ottocentesche. I fautori della coercizione sembrano insomma non dover competere con progetti alternativi e non incontrare ostacoli. Anche se il treno va velocissimo, all’orizzonte è però già visibile il precipizio. L’interventismo statale è stato distruttivo e l’iper-interventismo dello Stato massimo lo è ancor di più. Come cantava Jim Morrison, “this is the end”, perché alla fine gli errori si pagano. Per questo è urgente dare fiducia a quanti credono nella proprietà privata, nel mercato, nella facoltà di autodeterminarsi, nell’autonomia negoziale, nella possibilità di generare nuove istituzioni (veramente liberali) e nell’obiezione di coscienza.
Grazie alla libertà devono insomma poter crescere mille fiori: così da disorientare i fanatici del Potere e da far dissolvere i loro progetti illiberali.
Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Torti e ragioni della recalcitrante Germania sull’Europa poco teutonica

Giuseppe Pennisi – Formiche.net

Nonostante sia da quasi mezzo secolo sposato con una francese (non certo filotedesca tanto più che nata dove negli anni della seconda guerra mondiale, c’era “la linea di demarcazione tra territorio occupato e la Repubblica di Vichy”), sin dagli anni dell’università i miei migliori amici personali erano tedeschi. La Germania mi aveva affascinato al liceo con la sua filosofia e la sua musica. Quando in un’università internazionale ero con studenti di differenti Paesi, finii con fraternizzare, e studiare, con i colleghi tedeschi per il loro fortissimo senso del dovere e la loro parimenti profonda lealtà. Non avere imparato la lingua (se non per sommi capi) è ancora un cruccio, causato dall’avere vissuto per oltre tre lustri negli Stati Uniti.

Molti amici e colleghi italiani (nonché francesi) hanno difficoltà a comprendere l’atteggiamento della Repubblica Federale in generale e dei Governi tedeschi nei confronti di programmi e progetti (ad esempio, gli eurobond) che faciliterebbero il processo d’integrazione europea. In effetti, i tedeschi (non solo i Governi ma la popolazione in generale) sono recalcitranti nei confronti di un’Europa più integrata e più coesa di cui Berlino (il Paese più vasto e più potente) avrebbe tutti i titoli per assumerne la guida.

Per comprendere il fenomeno occorre guardare al passato ed al futuro. Per il passato un utile contributo è Reluctant Meisters: How Germany’s Pasti s Shaping its European Fuure di Stephen Green. Green non è uno storico di professione ma un Lord britannico, che è stato Ministro del commercio con l’estero ed anche Presidente della Hong Kong and Shanghai Bank. I tedeschi diffidano del resto d’Europa dal lontano 9-15 dopo Cristo quando leader tribale di nome Hermann sconfisse tre legioni romani nella foresta di Teutoburg per essere fatto a pezzi dopo alcuni anni (quando i romani tornarono con ancora maggiori forze). In tempi più recenti, si sono considerati (a torto od a ragione) vittime della guerra dei trent’anni 1618-48, delle scorribande napoleoniche ed infine del Trattato di Versailles che li umiliò al solo scopo di giungere ad un armistizio di vent’anni della lunga guerra mondiale che ha caratterizzato la prima metà del Ventesimo Secolo.

Il ‘miracolo tedesco’ – ricorda Lord Green – è stato il frutto degli aiuti americani (i quali anche delinearono la Costituzione ed il sistema politico della Repubblica Federale). Sono stati anche gli americani a contribuire, più degli altri europei, al crollo del muro di Berlino ed alla riunificazione. Agli americani va la loro gratitudine e lealtà. Anzi – Lord Green non lo dice ma ne ho la chiara sensazione – da quando gli Usa hanno diminuito il loro interesse (a torto o a ragione) nel processo di integrazione europea caratterizzato, a loro avviso, da bisticci tra comari – pure la Germania Federale non vede perché deve assumere un onere pesantissimo nei confronti di millenari avversari che hanno scarso senso del dovere e spesso hanno concluso guerre con alleati differenti da quelli con cui le avevano iniziate.

A queste determinanti relative al passato, se ne aggiungono fortissime altre concernenti il futuro. La Germania “sente” più di altri Paesi europei l’invecchiamento della propria popolazione. Coen Teulings della University di Cambridge – un demografico olandese distinto e distante dalle beghe del Continente (e per questo motivo sulle rive del fiume Cam) – ha calcolato che per fare fronte alla “sfida demografica” (ad esempio, pensioni ed assistenza medica decenti) il risparmio complessivo delle famiglie tedesche deve porsi sul 350% del Pil. Non che l’Italia sia piazzata meglio. Per i tedeschi (in generale) la differenza è che loro se ne curano, a ragione del “dovere” che sentono profondamente nei confronti delle generazioni future, mentre gli italiani (con i francesi, gli spagnoli, i portoghesi ed i greci) se ne preoccupano meno. Perché – mi diceva recentemente un vecchio compagno di studi che ha fatto, in quel di Francoforte, il banchiere per tutta la vita professionale – dobbiamo metterci alla guida di tale brigata e porci l’onere sulle nostre spalle? Come rispondere?

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

La Pac è fallita, ma l’Europa fa finta di nulla

Carlo Lottieri

Nelle scorse settimane è toccato al ministro italiano delle Politiche agricole, Maurizio Martina, scendere in campo a difesa della Politica agricola comune (Pac), che forse subirà qualche limitato taglio. Eppure l’economia ha le sue leggi: lineari, ma al tempo stesso capaci di rivelarsi spietate se vengono continuamente ignorate. E questo spiega perché l’interventismo in agricoltura abbia prodotto, negli scorsi decenni, soltanto disastri.
Meccanismi assistenziali a favore del mondo agricolo sono presenti in molti Paesi, per una ragione assai semplice. Ancora un secolo fa, la maggioranza degli europei lavorava nei campi, mentre oggi solo una piccola frazione degli occupati (in quasi tutti i Paesi europei è inferiore al 10%) si colloca in tale settore. Di fronte a un tale esodo la classe politica è intervenuta. Nel Vecchio Continente, in particolare, fino al 1992 sono stati introdotti montanti compensativi associati alle produzioni e successivamente si è provveduto a scoraggiare ogni iniziativa con altri strumenti. Al fine di limitare i costi di questo sistema di sovvenzioni a favore dei “poveri contadini” (tra i primi beneficiari ci sono però le case reali: dai Windsor ai Grimaldi) si sono destinate ingenti risorse anche a chi accettava di non coltivare i propri terreni. Il risultato è che abbiamo visto farmacisti o notai acquistare terreni per fare un investimento, talora proprio contando sulle sovvenzioni destinate a quanti tengono inattivi i terreni. In più sono state introdotti limiti alla produzione.
Com’era prevedile, il meccanismo ha moltiplicato imbrogli ed abusi, come nel caso dello scandalo delle quote latte. E se la situazione europea non è troppo diversa da quella statunitense, è pure vero che le alternative esistono e, quando applicate, producono risultati notevoli: come nel caso della Nuova Zelanda. Un convinto sostenitore dell’esperienza liberista neozelandese (stop degli aiuti pubblici e libertà di produrre) è Giorgio Fidenato, un agronomo friulano che da tempo va conducendo una strenua battaglia contro la Pac – quale segretario dell’associazione Agricoltori Federati – e che egualmente è assertore della necessità di aprire la strada all’innovazione in ambito agricolo: a partire dall’utilizzo degli Ogm. La tesi di Fidenato è difficilmente contestabile: “avere finanziato le aziende agricole europee ha rallentato quei processi di ammodernamento che, specie in Italia, passano dalla fine di un’agricoltura fatta di appezzamenti troppo piccoli. Perché sia possibile uno sfruttamento migliore delle risorse i protagonisti del settore vanno indotti a fare scelte imprenditoriali. Ma il sistema degli aiuti e le logiche dettate dagli ecologisti (a partire da quanti hanno promosso il biologico) hanno impedito tutto ciò. Oggi il mercato ci chiederebbe di aumentare le produzioni, ma in realtà la Pac ci blocca”.
Il bilancio sulla Pac, insomma, è solo negativo: dato il gran numero di vittime che ha prodotto.
In primo luogo hanno subito gravi conseguenze di tale politica i contribuenti, tassati per sostenere tale politica di sprechi. Ma ugualmente danneggiati sono stati i consumatori, dato che la Pac ha tenuto artificiosamente alti taluni prezzi. E per lo stesso motivo sono stati penalizzati gli agricoltori del Terzo Mondo (dove ancora si muove di fame, anche a causa della nostra chiusura commercial), che non possono vendere da noi i loro beni. Per questo se in passato la lotta contro il protezionismo era combattuta per lo più da pochi liberisti, oggi vi sono organizzazioni umanitarie di varia tendenza che avvertono l’urgenza di offrire a quanti vivono nelle aree più povere la possibilità di guadagnarsi onestamente da vivere e di esportare da noi i loro prodotti. D’altra parte, una quota dell’immigrazione clandestina è anche da addebitarsi alla Pac, che impedendo a quanti stanno in Africa di costruirsi un futuro li induce a venire qui. Essi non vogliono vivere alle nostre spalle: ci chiedono solamente di poter venderci quei prodotti che, poiché gravati da dazi altissimi (140% sul burro, 150% sullo zucchero e così via), non possono arrivare nei nostri mercati.
In apparenza, gli agricoltori sono i grandi beneficiari della politica agricola europea: e in qualche caso è così. Però nell’insieme – dopo un periodo di tempo ormai abbastanza lungo – possiamo dire che anche il mondo agricolo ha finito per pagare un prezzo altissimo. In cambio dei finanziamenti gli agricoltori hanno dovuto accettare una crescente limitazione delle produzioni e più in genere un freno al loro sviluppo. Per questo motivo, oggi il settore appare in larga mostra arretrato.
Un vantaggio netto dalla Pac, invece, hanno ricavato i professionisti del sindacalismo agricolo e le burocrazie comunitarie. Come rileva Fidenato, “c’è una tragica alleanza tra le comprensibili paure di tanti agricoltori (consapevoli dei guasti della Pac, ma timorosi di fronte al libero mercato) e gli interessi di chi gestisce il sistema. È questo intreccio che va sciolto, mostrando come gli aiuti ostacolino la libertà d’impresa e quindi finiscano per distruggere il settore”. Il guaio è che una voce come quella di Fidenato, capace di formulare analisi razionali e a lungo termine, sia sommersa dal rivendicazionismo demagogico di chi non vuole
Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Il bazooka di Draghi rischia di restare scarico

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Il consiglio della Bce che si riunisce oggi non dovrà solo decidere se lasciare il tasso d’interesse di riferimento allo 0,05% l’anno (come appare scontato), ma anche se e in che modo verranno adottate le ‘misure non convenzionali’ (principalmente gli Abs, in quanto gli Omt appaiono accantonati, mentre una seconda asta per gli T-ltro è in calendario a fine anno). In effetti, Draghi spera di avere creato, con pazienza e perseveranza, il consenso perché nel ‘bazooka’ monetario, come lui stesso lo ha chiamato, venga messa polvere da sparo e – soprattutto – ne venga autorizzato l’uso. In una recente conversazione a Roma, Fabrizio Saccomanni, che ha lavorato a lungo su questi temi sia come direttore generale della Banca d’Italia sia come ministro dell’Economia e delle Finanze, ha sostenuto che la Germania e altri Paesi non consentiranno mai e poi mai al presidente della Bce di acquistare le munizioni e ancor meno di sparare. Quindi il ‘bazooka’ è scarico e potrebbe restare tale.

Ma riuscirebbe una manovra monetaria ‘non convenzionale’ a rivitalizzare un’economia europea stagnante (più in Italia che altrove) e travagliata da uno spread di malessere sociale uguale (se non peggiore) rispetto a quello monetario dell’estate-autunno 2011? Il recente stress test al sistema bancario ha documentato casi di cattiva gestione (e di carente vigilanza da parte delle autorità nazionali), ma non di mancanza di liquidità. Che a fare difetto sia la domanda di impieghi lo confermano conversazioni con alti dirigenti e amministratori anche di banche stressate: vorrebbero aumentare gli impieghi alla grande (è la loro ragion d’essere), ma trovano solo piccoli e medi clienti. Lo ribadiscono studi recenti: un lavoro (inedito) di Cinzia Balzan e Francesco Zen (ambedue dell’ateneo di Padova) e di Enrico Geretto (Università di Udine) propone un modello del sistema bancario italiano basato sull’’appetito di rischio’.

La conclusione è che le banche italiane sono sottoesposte, ossia hanno poco ‘appetito di rischio’ anche in quanto dopo sette anni di crisi, le imprese hanno ragionevolmente dato la priorità al sopravvivere e non alla progettazione di nuovi investimenti. In parallelo, un lavoro (anch’esso inedito) dell’Università di Leicester studia 141 banche dell’Unione europea nel 2004-2010 e conclude che la crisi finanziaria internazionale ha reso gli istituti meno efficienti e, quindi, meno pronti ad aiutare clienti nell’allestimento di piani finanziari. Infine, c’è lo spettro del ‘contagio’ che rende tutti più prudenti, come confermano studi del Cepr. Come si spiegano allora i successi della politica monetaria americana? Gli Stati Uniti non hanno solo la freccia monetaria nel loro arco, ma utilizzano pure il bilancio e il cambio.