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Riforme? Cominciamo dalla Bce

Riforme? Cominciamo dalla Bce

Gaetano Pedullà – La Notizia

Come si fa a chiedere agli altri di fare qualcosa che poi non si sa fare con se stessi? La domanda certamente non sfiora Mario Draghi, lodato presidente della Banca centrale europea, ma proprio per il suo caso riguarda tutti noi. Draghi, ieri a summit economico di Jacksone Hole, è tornato ad annunciare misure anche non convenzionali per sostenere la ripresa in Europa, e a chiedere contemporaneamente ai singoli Stati di non rinviare più le necessarie riforme strutturali. Ora chi segue appena un po’ l’economia ricorderà che la Bce promette misure non convenzionali da anni. Cosa sono queste misure? In sintesi l’immissione di un po’ di liquidità per contrastare una crisi che è economica ma anche monetaria. Con un euro che vale il 30% più del dollaro è chiaro che l’export delle imprese europee è mostruosamente sfavorito e di conseguenza naturale che ci siano meno opportunità di lavoro. Tutto qui? No, perché altro grandissimo problema è la spaventosa stretta creditizia sotto gli occhi di tutti. A chi tocca governare questi problemi: agli Stati o alla Banca centrale? Ovviamente alla Bce, che però da anni promette e ripromette ma poi non fa nulla solo perché i tedeschi non vogliono. Fatto salvo che riformare regole vecchie come quelle che abbiamo non solo in campo economico è sacrosanto, non è che insieme all’azione riformatrice dei singoli Stati sia arrivata l’ora di riformare la stessa Banca centrale? Anche perché la Fed americana promette, promette ma poi i tassi del dollaro non li alza. Ma a Francoforte evidentemente voglia di cambiare non ce n’è.

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.

L’elicottero che Draghi non ha (e servirebbe)

L’elicottero che Draghi non ha (e servirebbe)

Luigi Zingales – Il Sole 24 Ore

Non passa giorno senza che un politico, un economista o un giornalista rivolga un appello alla Banca centrale europea perché faccia qualcosa per combattere la deflazione nell’area euro. Nonostante i richiami, la Bce ha offerto solo dichiarazioni di disponibilità ad agire. Alle parole, però, non sono seguiti i fatti, e la situazione si fa ogni giorno più insostenibile.

Il motivo di cotanto ritardo è duplice. Da un lato la Bce non riconosce ancora di aver fallito nella sua missione di garantire la stabilità dei prezzi. Questo dovrebbe essere evidente: l’inflazione media europea negli ultimi 12 mesi è stata lo 0,38% e a luglio 10 dei 18 paesi dell’euro hanno fatto registrare una riduzione dei prezzi al consumo. Il Governing Council della Bce, però, ha definito la stabilità dei prezzi come «un aumento annuale dell’indice armonizzato dei prezzi dell’area euro inferiore al 2%». Come ho spiegato l’altro ieri nel mio blog, l’obiettivo di un’inflazione «al di sotto ma vicino al 2%» è solo una guida pratica della Bce per conseguire l’obiettivo della stabilità, non un obiettivo a sé stante su cui valutare il successo delle politiche. Se la Bce non agisce, è perché non si è convinta che ha l’obbligo di agire.

Il secondo motivo di questa inattività è la mancanza di strumenti. Tutti reclamano un quantitative easing, visto che in America ha funzionato. Eppure anche i migliori economisti sono in disaccordo sul motivo per cui ha funzionato negli Usa e non sono convinti che funzionerebbe in Europa. Il quantitative easing non consiste nello stampare moneta, ma nell’acquisto di titoli da parte della Banca centrale in cambio di depositi presso la Banca centrale stessa (anche chiamati riserve). Si tratta di uno scambio tra titoli e riserve. Perché mai dovrebbe stimolare la domanda aggregata e l’inflazione? Un canale è attraverso l’effetto indiretto del quantitative easing sul deficit pubblico. Riducendo il costo del debito pubblico, il quantitative easing rende meno impellente il taglio della spesa pubblica. Un altro canale è attraverso le aspettative sui tassi futuri. Di fatto il quantitative easing è una garanzia che l’aumento dei tassi avverrà tra molto tempo. Questo favorisce la speculazione finanziaria, ma – si spera – anche gli investimenti reali. Il terzo canale è attraverso la svalutazione del cambio: riducendo i tassi sui titoli, il quantitative easing favorisce la svalutazione della moneta.

Questi tre canali non funzionerebbero in Europa. L’abbassamento dei tassi nominali è già avvenuto. Difficilmente il quantitative easing potrebbe comprimerli ulteriormente. Come se non bastasse, il Fiscal Compact ha imposto piani di riduzione del deficit così aggressivi che qualsiasi effetto del quantitative easing sarebbe limitato o addirittura controproducente (perché ritarderebbe il momento in cui questi piani sono riconosciuti come insostenibili). Anche l’effetto del quantitative easing sulle aspettative future sarebbe limitato. Le aspettative sui tassi nominali futuri sono già molto basse e un po’ di quantitative easing non eliminerebbe lo spauracchio di una Bundesbank in agguato per alzare i tassi. Per finire, il quantitative easing non potrebbe avere un grosso effetto sul tasso di cambio dell’euro: i tassi nominali sui titoli in euro sono già molto bassi e difficilmente il quantitative easing produrrebbe una fuga dall’euro. Siamo dunque condannati a morire di deflazione?

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Il taglia-debito? Sarà la crescita

Dino Pesole – Il Sole 24 Ore

Primo step il pacchetto di misure all’esame del Consiglio dei ministri del 29 agosto: il decreto «sblocca-Italia», la riforma della giustizia civile e le linee guida sulla scuola con i nuovi meccanismi di reclutamento degli insegnanti per superare l’emergenza precari e il potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro (mentre potrebbe slittare il provvedimento su «quota 96» per sanare la posizione di 4mila docenti pensionandi). Secondo step il 30 agosto, quando il Consiglio straordinario dei capi di Stato e di governo affronterà il nodo delle euronomine, con un focus sulle ricette per affrontare la congiuntura negativa che investe i big dell’eurozona, Germania, Francia e Italia in primis. Consiglio europeo “cruciale”, secondo quanto il premier Matteo Renzi ha fatto sapere ai suoi ministri.
Poi, a partire dall’Ecofin informale di Milano in programma il 13 settembre, l’avvio vero e proprio della trattativa per rendere esplicito «il miglior utilizzo della flessibilità», secondo le intese raggiunte nel Consiglio europeo di fine giugno, con l’obiettivo di chiudere il semestre di presidenza italiana della Ue con un pacchetto di proposte concrete, preventivamente concordate con la nuova Commissione europea che si insedierà in novembre. Mese in cui l’esecutivo comunitario renderà note le sue nuove stime sull’economia dell’eurozona, con annesse le prime valutazioni sulle manovre di finanza pubblica predisposte dai singoli paesi. Nel caso dell’Italia, la legge di stabilità che il Governo sottoporrà all’esame del Parlamento a metà ottobre. È già partita la caccia alle risorse per stabilizzare il bonus Irpef, all’interno di una manovra che si attesterà attorno ai 20 miliardi: tagli alla spesa, ma anche riordino delle agevolazioni fiscali e maggiori introiti attesi dalla lotta all’evasione.

Fonti di palazzo Chigi negano che sia in atto una sorta di trattativa pubblica o segreta sui conti italiani con l’Europa e che sia in arrivo un piano taglia debito, come riportato da alcune indiscrezioni giornalistiche. L’Italia, sottolineano le stesse fonti, «farà la sua parte come più volte ribadito dal premier, rispettando il vincolo del 3% senza aumentare la pressione fiscale. Non esiste, ribadisce palazzo Chigi, un problema Italia in Europa: esiste un problema dell’eurozona che l’Italia contribuirà ad affrontare». E il premier Matteo Renzi ai suoi collaboratori ricorda: «Abbiamo sempre detto che l’Europa non è solo spread e Maastricht, ora che la guidiamo noi è giusto dimostrarlo». La linea del Tesoro non cambia: le varie ipotesi di operazioni taglia debito circolate in questi giorni, e approdate fin nei corridoi di Via XX Settembre, presentano «problemi». Non esistono di fatto scorciatoie per il Tesoro, come ha ripetuto più volte Padoan, e quindi la via maestra per ridurre il debito pubblico al Mef è e resta una soltanto, ed è quella della crescita «sostenibile e sostanziale abbinata alla fiducia dei mercati». Fiducia che si conquista sul campo con uno sforzo continuo nell’implementazione delle riforme strutturali, con l’aggiustamento del bilancio, con un avanzo primario che sia considerevole e con i conti pubblici tenuti costantemente sotto controllo. Le privatizzazioni possono certamente contribuire ma in maniera minore, non sono decisive, hanno alti e bassi: il Tesoro conta di avvicinarsi molto all’obiettivo dello 0,7% di Pil programmato per quest’anno, con le privatizzazioni (senza Poste, la vendita di azioni Eni ed Enel integra la voce delle dismissioni) e con la valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico per il quale grandi aspettative sono riposte nel decollo in autunno di Invimit, la SGR immobiliare posseduta al 100% dal Tesoro. La fiducia dei mercati, che è fondamentale per la riduzione del debito, è alimentata da un ventaglio di forme di intervento tra le quali non figurano operazioni taglia debito come quelle proposte in questi giorni. Una crescita non fiacca, le riforme strutturali, un avanzo primario importante restano il sentiero principale per ridurre il debito pubblico, dal quale l’Italia e il Tesoro non si discostano ma lungo il quale il Paese dovrà essere aiutato dall’Europa, che deve fare la sua parte (con nuove politiche per rafforzare la crescita) e dalla Bce che con la sua politica monetaria deve fare anch’essa la sua parte anche per combattere i rischi di deflazione.

Lo schema resta quello più volte enunciato da Renzi e Padoan: riforme in cambio di flessibilità nel timing di rientro dal debito, tenendo conto che rispetto allo scenario ipotizzato in primavera i due trimestri consecutivi di crescita sotto lo zero rendono di fatto obbligata la strada del ricorso alle «circostanze eccezionali» previste dal Fiscal compact. La contemporanea, brusca frenata di Germania e Francia rafforza la linea avanzata dall’Italia: solo attraverso azioni concordate e coordinate a livello europeo si potrà tentare di invertire il ciclo. Se, differentemente dalla Francia, l’Italia conferma che non vi saranno sforamenti al tetto del 3% per quel che riguarda il deficit, il focus si sposta sul percorso di rientro dal deficit strutturale (depurato dagli effetti del ciclo economico e dalla una tantum) così come delineato dalla disciplina di bilancio europea.
La frenata del Pil rende per noi di fatto impossibile, a meno di ricorrere a manovre restrittive di bilancio, rispettare la richiesta di Bruxelles in direzione dell’obiettivo di medio termine. Il pareggio di bilancio non potrà essere conseguito nel 2015, slitta al 2016 se non al 2017. La trattativa con Bruxelles dovrà a questo riguardo puntare in primo luogo a evitare il ricorso a misure aggiuntive già nel 2014 (in sostanza una manovra correttiva) chiesto dalla Commissione fin dalle raccomandazioni del 2 giugno. Richiesta motivata dallo scarto tra la stima del deficit strutturale calcolata da Bruxelles per il 2015 (0,7%) e lo 0,1% assicurato dal governo. A quel punto la trattativa si concentrerà proprio sul 2015 e sugli anni a venire e la carta che Renzi e Padoan si accingono a giocare, per quanto riguarda le politiche nazionali, punta sull’effetto atteso dalle riforme strutturali, che lo stesso Padoan fissa in almeno un biennio. L’auspicata flessibilità, da estendere evidentemente erga omnes, sarebbe dunque strettamente connessa alle riforme strutturali messe in campo, puntualmente monitorate dalla Commissione. Il giudizio di Bruxelles è atteso su questo punto non prima della prossima primavera.

O il coraggio, oppure la manovra

O il coraggio, oppure la manovra

Alessandra Servidori – Italia Oggi

C’è chi pensa che i numeri negativi per le economie di due partner fondamentali dell’Italia come Francia e Germania rafforzino la richiesta italiana di una maggiore flessibilità nelle regole europee. Ma sicuramente c’è un caso Italia, e se «non siamo il vagone di coda» e «l’Eurozona è in stagnazione» ho i miei dubbi che «l’Italia è in condizione di trascinare l’Eurozona fuori dalla crisi». La tempesta perfetta si è già annunciata con un meteo fuori dal normale mentre la tempesta economica è ancora incalzante.

L’Italia chiede flessibilità e politiche europee orientate alla ripresa economica ma ciò comunque comporta riforme costose nell’immediato, come giustizia, pubblica amministrazione e un’ulteriore diminuzione delle tasse sul lavoro.

Vero è che per l’Italia alla guida del semestre Ue, si apre un varco e un dialogo/alleanza anche con altri paesi nel chiedere correzioni di linea. I primi appuntamenti chiave per capire se questo sarà possibile sono il Consiglio europeo del 30 agosto, dedicato peròsoprattutto alle nomine, e soprattutto l’Ecofin informale previsto a Milano il 13 settembre.

La richiesta del governo italiano potrebbe essere quella di «incentivi» per quei paesi che le riforme le fanno davvero. Incentivi che prevedono più tempo nell’abbattimento del deficit e del debito e maggiori margini di manovra sui conti senza incorrere nelle sanzioni. Certo, la recessione c’è e non ci consola la situazione franco/tedesca. Ma è anche vero che il nostro export coinvolge solo 12-15 mila imprese, la crescita si fa solo con gli investimenti che, a loro volta, sono figli di una politica economica e industriale da «piano straordinario Marshall all’italiana». Non possiamo quindi dare la colpa solo a Bruxelles e Berlino poiché se anche la Germania si è fermata il crollo dell’export è stato con i paesi extra-Ue.

La ripresa è lenta e la recessione è svelta anche se i nostri giovani governanti hanno detto che «non c’è bisogno di fare alcuna manovracorrettiva». Ma stiamo ai fatti: il pil scende al denominatore (tre decimi di punto nel primo semestre), il deficit programmato nel Def al 2,6% sarà comunque entro il 3%? La Ue, stiamo pur certi, non farà sconti e, visto che non ci ha concesso di far slittare il pareggio di bilancio dal 2015 al 2016, ci chiederà di cominciare a limare fin d’ora.Gli 80 euro sono privi di reale copertura poiché non regge la previsione dei proventi derivanti dalla lotta all’evasione e dalla spending review, la vicenda dei pensionati «quota 96» è lì che canta poiché la maggioranza ha dovuto rimangiarsi quanto promesso.

Per effetto della deflazione, gli interessi sul debito ci costeranno altri 17 miliardi, solo parzialmente compensati dai bassi tassi pagati sui titoli di Stato, e il l’intervento correttivo dei conti pubblici, per almeno una ventina di miliardi, è una evidente necessità. La manovra andrà fatta. Ecco perchè va chiesto a chiediamo a Renzi di cambiare passo: sia coraggioso faccia tre passi avanti: il patrimonio pubblico (come da quattro anni insistono ItaliaOggi e Milano Finanza, con il piano SalvaItalia redatto, fra gli altri, da Monorchio e Savona) deve servire sia all’abbattimento dellostock di debito che a rilanciare gli investimenti pubblici e favorire quelli privati, abbassando le tasse sulle imprese e sul lavoro. Metta in pista un piano industriale nazionale che ci consenta di incrementare la quota sul pil del manifatturiero e dei servizi ad alto valore aggiunto. Vada avanti con riforme strutturali vere che siano in grado di tagliare di 7-8 punti sul pil quella spesa pubblica che, ultimi calcoli, nel 2014 arriverà a superare gli 825 miliardi, 16 in più di quanto programmato e il 7,8% in più del 2013.

A ciascuno la sua

A ciascuno la sua

Davide Giacalone – Libero

La banca centrale europea deve fare la sua parte. Giusto. Ha fatto bene il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan, a ricordarlo. S’è dimenticato due o tre cose, però. La prima è che, fin qui, la Bce è stata la sola istituzione europea ad avere fatto la propria parte. Se i tassi d’interesse sui debiti sovrani sono scesi e gli spread sono stati ricondotti alla fisiologia (con quello italiano costantemente sopra lo spagnolo, perché quella è una patologia non influenzabile da Francoforte), lo si deve all’azione della banca centrale. La seconda cosa che Padoan ha dimenticato è che la settimana scorsa il governo di cui lui fa parte, per bocca di chi lo presiede, Matteo Renzi, aveva intimato alla medesima banca di farsi i fatti propri. È bello avere un governo che corre, corre e corre. Sarebbe meglio se lo facesse due settimane di fila nella stessa direzione.

Perché Renzi aveva così sgarbatamente reagito, intimando a Mario Draghi di non impiccarsi delle riforme interne a ciascun Paese? Perché Draghi aveva ricordato quanto quelle riforme siano decisive, sicché chi non è in grado di farle, e di metterle a regime nei tempi opportuni, quindi subito, sarebbe stato costretto a perdere sovranità. Era stato pesante, non c’è dubbio, ma lo aveva fatto proprio nel senso ora auspicato da Padoan. Ed è per questo che qui non abbiamo avuto dubbi: ha ragione la Bce.

Per indurre i mercati a piantarla con lo speculare sui difetti strutturali della moneta unica, quindi a inchiodare paesi come l’Italia, costringendoli a pagare cifre altissime per i loro debiti pubblici, Draghi dovette usare sistemi non convenzionali. In quel caso furono le parole: siamo pronti a tutto per difendere l’euro. I mercati capirono, gli speculatori si ritirarono. Poco più di un anno fa, quindi, la Bce comprò tempo, spendendo la propria credibilità. Quel tempo sarebbe dovuto essere dedicato alle riforme interne. Guardiamo in casa nostra: teste e lische. Posto che la speculazione potrebbe ripartire in ogni momento, averla fermata non ha risolto tutti i problemi. In particolare non ha risolto quelli della crescita. Gli ultimi dati hanno confuso le idee a molti, complice uno stucchevole propagandismo governativo: i problemi non sono solo nostri, ma di tutti, tanto che neanche la Germani cresce. Bubbole: noi siamo in recessione, mentre la Germania cresce troppo poco. Non è la stessa cosa. Per affrontare il secondo problema lo sguardo si dirige ancora una volta verso la Bce: continuate ad agire in modo non convenzionale e fate crescere l’inflazione, tirandoci fuori dal gorgo della deflazione. Richiesta prevedibile e prevista.

Ma la Bce non può mettersi a spingere l’inflazione dando l’impressione che dopo avere comprato tempo per consentire le riforme ora s’appresti a introdurre moneta per pagarne (o affievolire il costo) la mancanza. L’inflazione deve servire alla crescita, non a far finta che il debito pubblico non cresce in valori reali (come, invece, fa). Per questo Draghi ha bisogno, e ripeto “bisogno”, che ciascuno dei beneficiari si mostri consapevole dello sforzo in atto. E se Padoan chiede, giustamente, alla Bce di fare la sua parte Draghi s’era limitato a dire: fate la vostra, o qualcuno lo farà al posto vostro.

Ora girate pagina dei giornali. Ci trovate un surreale dibattito sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, con il ministro del lavoro che guida la tesi: non lo si tocca, semmai lo si aggira, come ho fatto con il decreto sul contratto triennale a termine. Questa è la conferma che quel 18 non solo è un totem, come lo ha definito Renzi, ma anche un tabù. Che nella lezione di Freud era il legame fra le credenze dei selvaggi e la loro sopravvivenza odierna. Oppure leggete l’intervista al sottosegretario Angelo Rughetti: propone un fondo per abbattere il debito pubblico, ove far confluire beni mobiliari e immobiliari dello Stato. Lo si scrive da lustri, anche scendendo nel dettaglio. Avvertite Rughetti che è al governo, non a un convegno. Oppure leggete le tante interviste di politici e professori: gli 80 euro non sono stati la bischerata democristianeggiante che sembrano, daranno effetti nel tempo. Ecco, è esattamente quel che non abbiamo: tempo e soldi da buttare.

Se oggi ci si rivolge ancora alla Bce è perché la politica non ha saputo assolvere il dovere che gli compete. Non ha saputo dare indicazioni precise sulle riforme, correndo a realizzarle. Non ha saputo impostare i rapporti europei richiamando tutti al rispetto dei trattati, quindi anche i tedeschi sul disavanzo commerciale, preferendo chiedere (come continuano a fare) elasticità per sé. Quell’elasticità è la speranza di non dovere riconoscere d’essersi sbagliati. Ergo: Padoan ha ragione, ma la smetta di fare il politicante, che non è il suo mestiere, e sappia impuntarsi con palazzo Chigi. L’estate è finita, senza essere arrivata.

Il superbanchiere e la deflazione

Il superbanchiere e la deflazione

Federico Fubini – La Repubblica

Nelle otto conferenze stampa che ha tenuto dall’inizio dell’anno, Mario Draghi ha sempre parlato della ripresa in arrivo. Cambiavano giusto gli aggettivi scelti dal presidente della Bce per descriverla. Da gennaio a marzo era “lenta”. Ad aprile questa sfumatura di cautela è caduta, quasi che le nubi si stessero sollevando. A giugno però la ripresa è diventata di colpo “un po’ più debole del previsto” e a inizio agosto “moderata e diseguale”. Poi a metà agosto l’Europa ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Sarebbe facile ora rimarcare che nell’ultimo anno e mezzo lo staff della Banca centrale europea ha regolarmente sbagliato i suoi calcoli. Ha sempre previsto una crescita superiore a ciò che poi è successo e non ha mai messo in conto che l’intera zona euro si sarebbe trovata sull’orlo della deflazione.
Se queste previsioni erano la base delle scelte,non sorprende che la Bce stia fallendo nel suo compito principale: garantire la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione “vicina ma sotto al 2%” nel medio periodo. Quest’estate i prezzi sono in caduta in Spagna, Portogallo, Grecia e di fatto anche in Italia, mentre nella media dell’area l’inflazione (in frenata) è ad appena lo 0,4%. Angel Ubide dal Peterson Institute nota che i mercati non credono affatto che i prezzi ripartiranno: i valori impliciti nei tassi forward – stime di mercato sul futuro – danno un ritorno alla normalità non prima di un decennio. Le conseguenze sono note. Famiglie e imprese rinviano consumi e investimenti in attesa di prezzi ancora più bassi domani. L’economia ristagna più a lungo. E poiché con un’inflazione a zero il peso reale dei debiti aumenta, l’intera contabilità di famiglie, imprese e governi in Europa sta già cambiando in peggio. Oggi circolano obbligazioni emesse in euro da europei per 13.300 miliardi (quasi un terzo del Pil del mondo), di cui 7.300 miliardi a carico degli Stati dell’area. Tutti coloro che si sono sobbarcati dei debiti in questi anni, lo hanno fatto nell’idea che la Bce avrebbe rispettato il proprio impegno a difendere un’inflazione attorno al 2%. Non a quota zero. Ora quell’impegno viene meno e rende la gestione di tutti i debiti molto più pesante: gli interessi restano uguali, i ricavi per pagarli scendono. Lo stesso Fiscal Compact diventa più difficile da rispettare e meno credibile, quasi nato morto.

Sarebbe facile notare adesso questi errori della Bce, non fosse che nessuno si illude che una banca centrale possa sempre evitarli. Non succede mai. Dall’inizio di questa crisi la storia dell’Eurotower è piena di errori commessi e poi corretti. Soprattutto è piena di errori della Bundesbank e delle persone espresse dalla banca centrale tedesca nell’Eurotower, sempre convinte che creare moneta e allargare il bilancio della Bce avrebbe creato troppa inflazione. Non è mai andata così: al suo massimo il bilancio dell’Eurotower è quadruplicato, eppure l’inflazione è scesa. Nel 2007 Jürgen Stark, tedesco nell’esecutivo Bce, si lamentò quando la banca lanciò le prime iniezioni di liquidità con la crisi dei subprime; la storia ha dimostrato che si sbagliava. Nel 2010 e nel 2011 lo stesso Stark e Axel Weber, allora presidente della Bundesbank, votarono contro gli acquisti di titoli di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, furono messi in minoranza e anche questa volta la storia ha dato loro torto. Lo stesso vale per Jens Weidmann, successore di Weber alla Buba, quando nel 2012 si oppose alla svolta con cui Draghi promise sostegno illimitato ai Paesi che avessero accettato un programma di riforme. Quella promessa non costò un euro, salvò l’Italia e la moneta unica e dimostrò che la Buba si sbagliava e andava messa in minoranza.
Se questa storia ha ancora un senso, è perché continua: la banca centrale tedesca si oppone a ciò che serve per scongiurare la deflazione. Come hanno già fatto la Federal Reserve americana, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra, per fare il suo dovere oggi la Bce ha bisogno di creare almeno mille miliardi di euro e comprare a tappeto titoli pubblici e privati dei Paesi dell’area euro. È il cosiddetto “quantitative easing”, inaugurato dalla Fed nel 2009. Avrebbe già dovuto farlo, risparmiando un po’ dei problemi di debito, crollo degli investimenti e stallo dell’export che oggi affliggono l’Italia e altri Paesi. Non è successo perché Draghi non ha voluto muovere un passo del genere contro la Bundesbank.

Il presidente italiano della Bce ha due ottimi argomenti dalla sua. Il primo è che già la sua promessa del 2012 di difendere l’euro a tutti i costi, ricreando fiducia, ha di fatto prodotto un effetto “quantitative easing”: da settembre 2012 a marzo 2014 le banche private estere hanno riportato in Italia 163 miliardi di dollari (dati Bri), eppure il paziente non si riprende. La differenza è che nuovi interventi della Bce svaluterebbero l’euro e darebbero finalmente ossigeno all’export, mentre gli afflussi di denaro privato invece rafforzano il cambio.
Il secondo argomento di Draghi è anche più serio: poiché la Germania è di gran lunga il primo azionista Bce, è difficile imporle il rischio di sobbarcarsi debito italiano per centinaia di miliardi contro la sua volontà. In questo l’Italia può aiutare, cercando di ricostruire una credibilità che in Europa ha perso da un pezzo. Ma per la Bce combattare la deflazione è un dovere. È stata creata apposta: se condizionasse le sue scelte in proposito a quelle dei governi, di fatto rinuncerebbe all’indipendenza.

Ormai Draghi è davanti a un bivio, forse il più difficile della lunga carriera di successi. Può fargli comodo un consiglio contenuto nelle memorie di un suo vecchio amico, l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: meglio prendersi la colpa dei propri errori, che di quelli degli altri. Inclusa, al solito, la Bundesbank.

Tagli alla spesa pubblica: in Europa si fa sul serio

Tagli alla spesa pubblica: in Europa si fa sul serio

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore

Se esistesse una Coppa europea della spending review a trionfare sarebbe l’Irlanda. A Dublino, infatti, la sforbiciata della spesa pubblica si è rivelata più efficace: dal 2011 al 2013 – secondo i dati di Eurostat – il suo peso sul Pil è diminuito di oltre quattro punti percentuali, passando dal 47,1 al 42,9 per cento. Sul podio salirebbero anche Spagna e Gran Bretagna, dove i tagli procedono secondo la tabella di marcia. L’Olanda, ex “allieva modello” che si è scoperta fragile, dovrebbe invece accontentarsi del quarto posto. Tra i grandi, invece, gli unici in controtendenza sono Italia e Francia. Nel nostro Paese la spesa pubblica sul Pil è cresciuta dello 0,9%, in quello transalpino – al top in Europa per i costi di funzionamento della macchina burocratica – dell’1,2 per cento. Così mentre il governo italiano ribadisce che la spending review è al centro della sua strategia e per Parigi la strada è ancora in salita, il resto dell’Europa fa sul serio. E con ogni probabilità la cura dimagrante della pubblica amministrazione sarà ancora uno degli ingredienti dei budget 2015 che i governi dovranno presentare entro metà ottobre a Bruxelles. Una via obbligata per dare un po’ di ossigeno ai conti pubblici e dare una mano alla ripresa.
Dublino ha scommesso su un piano di risparmi da 7,8 miliardi varato nell’aprile 2010, che prevede un ferreo controllo della spesa, con una stretta sul welfare e una riduzione del numero di dipendenti pubblici entro il 2015. Gli interventi sono valsi al Paese la conclusione del programma di salvataggio di Ue e Fmi a dicembre, ma il governo non si adagia sugli allori e anche quest’anno si è impegnato a rispettare il tetto alla spesa per abbassare ancora il deficit.
Madrid, con un disavanzo fuori rotta, punta a una riduzione di 37,6 miliardi dal 2012 al 2015. La cabina di regia è affidata al Cora, la Commissione per la riforma della Pa, che ha messo a dieta ministeri ed enti locali. Tra le misure previste figurano lo stop alla tredicesima per parlamentari, funzionari e impiegati statali, una riduzione dei giorni di ferie per i dipendenti pubblici, un taglio del 30% del numero di consiglieri comunali e del 20% dei sussidi a partiti e sindacati. Ma anche pesanti interventi su sanità e scuola. Gli sforzi sono stati ribaditi anche nel Programma nazionale di riforma inviato alla Commissione Ue ad aprile, con un impegno a rendere più incisiva la modernizzazione della Pa e a un’ulteriore razionalizzazione dell’organizzazione e delle strutture. Grazie a questi sforzi Madrid ha già ridotto la spesa pubblica dello 0,9% sul Pil. E secondo le ultime stime del governo è già stato messo a segno un terzo dei risparmi previsti, pari a 10,4 miliardi. L’impegno continua e anche per il 2015 il premier Mariano Rajoy ha fissato un tetto di spesa a 129 miliardi, il 3,2% in meno rispetto a quest’anno.

A Londra la spending review imposta dal governo Cameron ha scatenato a luglio uno dei più grandi scioperi del Paese, che ha coinvolto oltre un milione di persone. Dopo i tagli avviati nel 2010, lo scorso anno Downing Street ha annunciato un nuovo round per il 2015 e 2016, con una dieta da 14,3 miliardi (11,5 miliardi di sterline). Dalla scure si salvano solo sanità e istruzione, mentre a soffrire di più sono le risorse destinate a giustizia ed enti locali. Viene introdotto anche un tetto alle spese di welfare, con una stretta sui sussidi di disoccupazione. La spending review non risparmia nemmeno la Bcc: la tv pubblica si appresta a licenziare altre 600 persone, dopo i tagli del 2012. Secondo i dati di Eurostat, Londra si sta muovendo nella giusta direzione: dal 2011 al 2013 è riuscita a contenere la spesa dello 0,8 per cento.
Nel budget 2014 l’Olanda ha invece annunciato tagli per 6 miliardi, con un focus sulla riduzione della spesa sanitaria e una razionalizzazione dei sussidi al welfare. In cantiere c’è anche un piano di modernizzazione della Pa e il congelamento degli stipendi pubblici.
In Francia, infine, il rimpasto di governo a fine marzo con l’arrivo del premier Manuel Valls non ha distolto il governo dalle intenzioni di ridurre la spesa. I piani, che puntano a 50 miliardi di risparmi entro il 2017, sono stati però definiti «ambiziosi» in un recente rapporto della Corte dei conti transalpina. Oltre il 40% degli interventi riguarderanno welfare e sanità, mentre a livello locale si punta sul dimezzamento del numero di regioni e sulla semplificazione dell’organizzazione territoriale. L’obiettivo dichiarato è racimolare un gruzzolo per abbassare le imposte. La Corte punta però il dito su 30 miliardi di risparmi previsti, ma «ancora poco documentati e dall’esito incerto», come l’intervento sui regimi complementari di assicurazione sulla vecchiaia e quelli sulle collettività territoriali.
Comunque vada, insomma, da nord a sud quest’anno il filo rosso d’autunno nella Ue sarà ancora la spending review.

RICETTE DI SPENDING REVIEW A CONFRONTO

ITALIA 53,5 miliardi

È l’obiettivo complessivo della spending review annunciata dal governo nel Def di aprile presentato alla Commissione Ue. Nel dettaglio si tratta di 4,5 miliardi per il 2014, 17 per il 2015 e 32 per il 2017.
Gli interventi
Sotto la scure sono finiti i trasferimenti alle imprese, le retribuzioni dei dirigenti pubblici (con il tetto massimo di 238mila euro) e i costi della politica. Nell’ambito del Patto per la salute sarà interessata anche la sanità e la sforbiciata riguarderà le spese che eccedono i «costi standard». Si dovranno concentrare anche gli acquisti in capo alla centrale della Consip e ad altre centrali a livello di regioni e città metropolitane. Dal piano di razionalizzazione delle partecipate locali annunciato dal Commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, è previsto un risparmio di 2-3 miliardi all’anno.

GRAN BRETAGNA 14,3 miliardi

Valore della riduzione della spesa prevista per il 2015 e 2016 dopo le misure già varate nel 2010.
Gli interventi
Tetto dell’1% all’aumento degli stipendi pubblici; tetto alla spesa del welfare dall’aprile 2015, compresi i sussidi per le abitazioni; riduzione del budget per le pensioni del 9,5%; regole più rigide per ottenere i sussidi di disoccupazione. Tagli selettivi alle spese dei ministeri: quello responsabile degli enti locali e la giustizia subiranno un taglio del 10%, mentre trasporti ed energia registreranno una riduzione della spesa del 9% e la cultura del 7 per cento. Restano escluse solo sanità e istruzione. Tagli anche per il budget delle forze di polizia (circa il 6%).

OLANDA 6 miliardi

Riduzione della spesa prevista dal budget 2014. La misura segue un piano di spending review del 2010, che aveva tracciato la rotta da seguire individuando 20 capitoli di spesa.
Gli interventi
La spesa della Pubblica amministrazione diminuirà di 1,4 miliardi, quella sanitaria di 1,5 miliardi. Riduzione delle pensioni minime nel 2014 con tagli progressivi ogni anno fino al 2016. Salvo solo il budget per l’istruzione. Nel Programma nazionale di riforma presentato
a Bruxelles sono stati annunciati un piano per la modernizzazione della Pubblica amministrazione, una razionalizzazione della spesa sanitaria con l’obiettivo di risparmiare oltre 6,5 miliardi nel corso della legislatura e una riforma delle pensioni.

FRANCIA 50 miliardi

È l’obiettivo di riduzione complessiva della spesa annunciato dal Governo dal 2014 al 2017: 15 miliardi per quest’anno, 18 per il 2015 e 14 per il 2017. Di questi 21 miliardi di risparmi deriveranno dal welfare e dalla sanità, altri 18 miliardi da una razionalizzazione della spesa dei ministeri e 11 a livello locale.
Gli interventi
Congelati fino all’ottobre 2015 i contributi di welfare e le pensioni, previsti un freno all’aumento dei salari dei dipendenti pubblici e un blocco delle assunzioni. Miglioramento dell’efficienza della spesa sanitaria, con un maggiore ricorso ai farmaci generici e alle cure ambulatoriali. A livello locale dimezzamento del numero di regioni dal 2017, semplificazione e rafforzamento dell’efficacia del servizio pubblico locale. Salvi i settori prioritari come lavoro, politiche giovanili e giustizia.

SPAGNA 37,6 miliardi

Riduzione della spesa pubblica prevista dal 2012 al 2015. A oggi, secondo il governo, è stato realizzato un terzo dei risparmi, pari a 10,4 miliardi. L’esecutivo assicura che le altre misure sono in dirittura d’arrivo.
Gli interventi
Stop alla tredicesima per parlamentari, funzionari e impiegati pubblici, riduzione dei giorni di ferie per i dipendenti pubblici, taglio del 30% dei consiglieri comunali e del 20% dei sussidi per partiti e sindacati. Pesanti riduzioni del budget per scuola, università e sanità, eliminazione delle agevolazioni ai pensionati per l’acquisto di medicinali. Nel Programma nazionale di riforma presentato a Bruxelles il governo si impegna a modernizzare la pubblica amministrazione e a razionalizzarne le strutture.

IRLANDA 7,8 miliardi

È l’entità del taglio della spesa pubblica varato dal governo con il cosiddetto «Croke Park Agreement» nell’aprile 2010: 2,2 miliardi nel 2014, 2,25 nel 2015, 2 nel 2014 e 1,3 nel 2015.
Gli interventi
Stretta sui dipendenti pubbblici, con l’obiettivo di una riduzione di 37.500 unità (da 320mila) entro il 2015. Riduzione della spesa per il welfare, con un focus sui bonus bebé e i sussidi di disoccupazione, razionalizzazione del sistema dei ticket sanitari e regole più rigide per i certificati di malattia. Risparmi anche dalla “standardizzazione” dei congedi di maternità. Previsto un tetto al bilancio pubblico nel 2012, 2013 e 2014. Bocciata invece con un referendum lo scorso ottobre l’abolizione del Senato, che avrebbe dovuto portare a un risparmio di 20 milioni annui.

In mezzo al guano

In mezzo al guano

Davide Giacalone – Libero

La frenata tedesca può creare delle illusioni, inducendo a credere che propizi l’agognata “elasticità”. Se il rigore tedesco porta sfortuna pure ai germanici, suppongono in diversi, molti dei quali francesi, è ora di tornare a un sano lassismo latino. Se lo tolgano dalla testa, quella è la via della perdizione. Noi italiani abbiamo un debito pubblico arrivato a 2168 miliardi, di tutto abbiamo bisogno, tranne che di farlo crescere allargano i deficit. Cresce già per i fatti suoi, senza che collabori l’incoscienza politica.

Vedere il segno meno innanzi al prodotto interno lordo tedesco (-0,2) desta il ghigno di taluno. Stia attento a non restare con la ghigna allocca: si tratta di un solo trimestre ed è un dato fortemente influenzato dal calo di redditività di investimenti all’estero (Russia e non solo). Nulla di paragonabile alla nostra lunga recessione. Eurostat conferma i dati complessivi della crescita europea, che come previsto dalla Banca centrale europea sono bassi (ma pur sempre positivi). La ripresa è troppo fioca e troppo lenta, come previsto. Non ci sono novità di rilievo. Eppure quel dato tedesco pesa e può propiziare politiche assai interessanti. Dobbiamo saperlo usare. Che è l’opposto di leggerlo come viatico ad allargare la spesa pubblica improduttiva.

Con tutto il rispetto per gli altri europei, la forza economica dell’Unione è data da Francia, Germania e Italia. La Francia ha i conti pubblici fuori controllo e prova a sostenere il pil sostituendo spesa pubblica a mancati investimenti privati. In questo modo si va accartocciando su sé stessa. La Germania ha perso un colpo, con questo dimostrando, se non altro, che il vantaggio preso speculando contro gli altri europei, attirando denaro e pagandolo niente, costringendo gli altri all’opposto (la lunga polemica che qui facemmo, sostenendo che gli alti spread non erano giudizi morali sui singoli governi, ma l’indicazione dei guasti strutturali dell’euro), non è stato sufficiente a darle un abbrivio inarrestabile. Ma sarebbe inesatto sostenere che la frenata tedesca dimostra il fallimento dell’Europa parametrale, perché è vero che quei parametri non bastano a governare le economie, ma è anche vero che li si è applicati solo in parte, consentendo alla politicamente forte Germania di violare sistematicamente quello sugli avanzi commerciali. Ecco il risultato: si impoverisce il mercato interno, che è europeo e non nazionale, con questo forando una ruota della vettura che pretendeva di procedere da sola. Dell’Italia scriviamo ogni giorno: abbiamo bisogno di fare i conti con la realtà, di non prenderci in giro, di non credere che si possa andare avanti con furbate e gargarismi.

In questo quadro la posizione più saggia è quella della Bce: avanti con le riforme del mercato interno, inteso come europeo. Non possiamo permetterci che uno di quei tre paesi resti indietro, quindi non si possono accettare dilazioni italiane (come degli altri). Avanti con politiche antideflattive (che porteranno al debito europeo). Il dato inquietante è che la posizione più politicamente ragionevole trova voce non in un potere eletto, o designato in secondo grado, in qualche modo riconducibile alla democrazia, ma in una Banca centrale, il cui board è composto da banchieri centrali. Ed è questa la grande falla da cui gli europei tutti imbarcano acqua. Per uscire dalla crisi, per non essere i ricchi che crescono meno, non è che si debba guardare al Giappone (cui gli incauti e i superficiali diressero occhi languidi), ma agli Stati Uniti. E il vantaggio degli Usa non è solo quello di avere fatto riforme interne, oltre che di avere avuto una Banca centrale indipendente, ma capace di accompagnare lo sforzo di rimettere in moto la macchina produttiva, il vantaggio, enorme, consiste nell’averlo dovuto fare restando una democrazia in cui i poteri rispondono al popolo. Per quanto complessi e tecnici possano essere i problemi che si affrontano.

Quattro anni dopo siamo ancora lì dove ci vedemmo allo scoppiare della crisi dei debiti sovrani: o si va avanti, creando il debito europeo e, quindi, la connessa cessione di sovranità nazionale nella gestione delle politiche economiche; oppure si rincula al passato, liberando le singole tribù nazionali dai vincoli collettivi e lasciandole al loro lillipuziano destino (che può anche essere florido, ma da turaccioli nel mare della globalizzazione). Quel che non si può fare è restare fermi. Magari si crede d’essere in mezzo al guado e ci si ritrova immersi nel guano.

L’unica strada per competere

L’unica strada per competere

Mariana Mazzucato – La Repubblica

L’economia dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competitività tra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma se il presidente della Bce Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa «debole, fragile e disomogenea», il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria, nel 2007, i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è no: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso. Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito – soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero. L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi – risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” – e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita – salvataggio – misure di austerità – assenza di crescita – salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura – non il coraggio necessario per cambiare strada.