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Ue alla svolta, ecco perché coordinare le riforme non è aggressione alla sovranità

Ue alla svolta, ecco perché coordinare le riforme non è aggressione alla sovranità

Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore

Negli ultimi sette anni per sei volte gli europei hanno previsto una crescita maggiore di quella poi realizzata. Si dice che gli ottimisti vivano più felici, ma evidentemente in economia non funziona. Tra il 2008 e oggi la perdita di reddito dell’euro-area rispetto agli Usa è pari all’8% del Pil e molti milioni di posti di lavoro sono andati perduti. Dopo i dati di ieri, la revisione di quest’anno sarà tra le più ampie. Evidentemente ci illudiamo o vogliamo evitare misure eccezionali. Inoltre siamo abituati a utilizzare modelli che non colgono le interdipendenze economiche e le incertezze politiche nell’euro area. Ad esse infatti sono legati la debolezza degli investimenti e dell’export che stanno frenando tutte le maggiori economie dell’euro area.

Se tuttavia vogliamo proprio essere ottimisti, si può dire che le cattive notizie sull’economia arrivano al momento giusto. Il 30 agosto infatti i lavori del Consiglio Ue dei capi di governo riprenderanno sotto la sferza della recessione. Dopo aver risolto il puzzle delle nomine della Commissione (e ancora non mi capacito di come l’Italia stia rinunciando alla presidenza del Consiglio offertale su un piatto d’argento), i capi di governo discuteranno il dossier sui 300 miliardi di euro di investimenti annunciati dal nuovo presidente della Commissione Juncker. Fino a ieri quella di Juncker poteva essere una promessa elettorale, ora è una necessità vitale. Merkel, Renzi e colleghi dovranno decidere in quale modo finanziare l’ingente pacchetto, tra Bei, fondi strutturali od obbligazioni a progetto, e dovranno poi litigare su come destinare le risorse. E questo secondo capitolo promette di essere molto interessante.

La proposta di cui si sente parlare a Berlino è infatti di legare la disponibilità degli investimenti a «condizionalità» specifiche per il governo che riceve i fondi. In parole semplici, la realizzazione delle riforme strutturali diventerebbe la condizione per ottenere gli investimenti finanziati dall’Europa. Ci sono due metodi per far questo: assecondare il vecchio e criticato progetto della cancelliera Merkel di far stipulare accordi bilaterali tra il Paese richiedente e la Commissione Ue, oppure condividere la sovranità delle riforme strutturali. Nel primo caso alla fragilità economica corrisponde minorità politica. Nel secondo caso invece tutti i paesi crescono insieme coordinando le riforme: Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, ne aveva fatto cenno a maggio a un convegno della Bce; il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan ne aveva già discusso con i colleghi a una riunione a marzo e poi in un articolo con il collega tedesco Wolfgang Schaeuble. Altri hanno parlato di un sistema di valutazione congiunta delle riforme strutturali. Il presidente della Bce, Mario Draghi, infine aveva suggerito a luglio di sottoporre le riforme dei singoli Paesi a «una disciplina a livello comunitario».

Alcuni giorni fa Draghi ha ripetuto l’idea della sovranità condivisa ma, per i meccanismi misteriosi del discorso pubblico italiano, si sono levati allarmi di aggressione alla sovranità nazionale. Il paradosso è che coordinando le riforme si fa esattamente il contrario: tutti i Paesi – non solo quelli deboli – procedono verso le stesse riforme negli stessi tempi e si scambiano esperienze e benefici. Un esempio concreto è venuto dall’Eurogruppo del 7 luglio che ha citato 11 Paesi – tra cui Italia, Germania e Francia – a cui chiede di ridurre il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro. I Paesi sono identificati dalla Commissione nelle “raccomandazioni specifiche” che essa ha elaborato e che sono sottoscritte dai capi di governo. Di arcane e oscure potenze nemmeno l’orrida ombra.

Non solo gli investimenti, anche la debolezza dell’export pongono a Merkel e Renzi un interrogativo politico. Buona parte dell’eccezionale crescita tedesca dal 2004 dipendeva dall’esorbitante privilegio di essere l’àncora dell’euro area: finanziandosi a bassi costi e investendo ad alto rendimento nella stessa valuta. Ridottosi questo privilegio con i rischi della crisi e poi con gli interventi della Bce, la crescita tedesca è rientrata nella normalità: 1,1% annuo dal 2013 a oggi. La Germania resta una delle poche economie che cresca al proprio reddito potenziale, ma il suo “limite di velocità” è basso ed esposto a rischi: nel 2014 l’export tedesco verso Usa e Cina sta aumentando del 7-10%, mentre crolla verso Turchia, Ucraina e Russia: il rischio “geo-politico” spiega dunque buona parte del calo del pil ed evidenzia le conseguenze economiche dell’assenza di una forte politica estera comune. L’economia dipende dunque dalla strategia politica europea. Il caso vuole che la presidenza Ue sia in mano italiana. È il momento di giocare bene questa formidabile mano di carte.

La nuova “i” di Piigs

La nuova “i” di Piigs

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Se non sono bastati sette anni di crisi per capirlo, almeno adesso c’è la controprova: le riforme economiche funzionano. L’Italia è l’unico paese tra i “Piigs” a non aver adattato il proprio sistema produttivo al nuovo scenario economico internazionale ed è anche, guarda caso, l’unico in recessione. Non è a sproposito, quindi, che Mario Draghi ha evocato “cessioni di sovranità” pur di superare “la generale incertezza che circonda le riforme economiche” nei paesi recalcitranti. Non ha nominato il nostro, ma è ovvio che stesse pensando all’Italia. Perché siamo tornati a essere il grande malato d’Europa. Anzi, l’unico. Ed è inutile incolpare i vincoli europei, la congiuntura internazionale o, peggio, prendersela con la Bce per (presunta) lesa maestà. Non è stata una gran mossa essere scesi in polemica con Draghi – cosa che neppure Berlusconi ebbe l’incoscienza di fare, mentre Tremonti ci provò senza dirlo – proprio mentre Moody’s prevede che noi si finisca l’anno con il meno davanti (vuol dire stare in recessione altri sei mesi) e quando altrove, a riforme fatte, le cose cominciano invece ad andare bene.

Dopo aver rischiato il default nel 2011, per esempio, la Spagna è tornata a crescere – aumenti congiunturali per i primi due trimestri dello 0,4 e dello 0,5 per cento – tanto che il Fondo monetario ha aggiornato al rialzo le stime sul pil, che dovrebbe segnare un solido +1,2 per cento a fine anno, un boom se paragonato al meno zero virgola qualcosa italico. Ma la Spagna vince anche nelle vendite al dettaglio (+0,5 contro -0,7 per cento), nelle esportazioni (+8,1 contro +3,3 per cento) e in quell’indicatore che è lo spread (25 punti in meno quello spagnolo, sia quando veleggia intorno ai 150 punti sia quando si avvicina ai 200). Questa ripartenza è stata possibile perché Madrid, a differenza nostra, ha accompagnato l’austerità con il taglio delle spese della Pubblica amministrazione sia dal lato degli stipendi (abolizione della tredicesima), che su quello dell’organizzazione, e ha riformato il sistema di welfare intervenendo anche sulle pensioni (unica misura che abbiamo introdotto pure noi, con Monti). Ma, soprattutto, ha reso flessibile il mercato del lavoro, puntando sulla contrattazione decentrata e consentendo il licenziamento senza indennizzo nel primo anno di contratto.

Nonostante le manifestazioni di protesta e le opposizioni corporative e settoriali, il governo Rajoy è andato avanti nell’introduzione delle riforme e ora, con l’economia che è ripartita, ha messo in cantiere una riforma fiscale per ridurre le tasse. E sta pure estinguendo il prestito di 40 miliardi che la Ue ha erogato nel 2012 per salvare le banche iberiche. Anche Portogallo e Irlanda sono usciti dalle procedure di salvataggio della Troika. Lisbona, dopo aver semplificato gli oneri burocratici per le imprese, tagliato i tempi della giustizia civile, aperto alla concorrenza i settori protetti, favorite la contrattazione decentrata e la flessibilità in uscita, crescerà dell’1,2 per cento nel 2014 e dell’1,5 per cento nel 2015, con la bilancia dei pagamenti in surplus e la disoccupazione in calo da cinque trimestri consecutivi. Dublino ha guadagnato l’1,7 per cento dal 2011, lo stesso numero che dovrebbe fare anche nel solo 2014, per poi raggiungere il 2,5 per cento nel 2015. Perfino la Grecia, tecnicamente già fallita e con oltre 26 punti di pil persi dal 2008, quest’anno dovrebbe segnare +0,6 per cento, con Moody‘s che ha appena alzato di due gradini il giudizio sul debito sovrano di Atene.

Dopo amare medicine, insomma, gli altri paesi stanno tornando in forma, applicando, pur tardivamente, la strategia tedesca, attuata prima della crisi, per adattare il sistema produttivo ai nuovi parametri internazionali. In Italia, invece, del declino non si vede la fine. Eppure la sera delle elezioni europee si guardava al governo di Roma come al prescelto per cambiare il destino del continente, perché l’unico esecutivo con la forza politica ed elettorale per modificare la strategia economica europea. Che effettivamente è da cambiare, ma avendo la credibilità acquisita avendo fatto i compiti a casa. Nemmeno due mesi e siamo tornati la pecora nera, proprio a causa delle riforme non fatte (Draghi dixit). Quello “comprato” dalla Bce è stato tempo inutile, come inutili sono state e saranno le misure convenzionali della nostra assai poco coraggiosa politica economica (ammesso e non concesso che si possa definire tale). Gli altri, i “Pigs”, hanno adattato il loro sistema produttivo, burocratico e fiscale alla realtà globale e alla moneta comune – anche perché vincolati dagli aiuti finanziari internazionali – mentre l’Italia, l’altra “i” dei “Piigs”, essendosi sempre rifiutata di prendere atto di appartenere al “club dei maiali” o quindi avendo sdegnosamente allontanato qualunque soccorso, adesso rischia di doverlo subire forzosamente, quell’aiuto “esterno”. Per fare le riforme che la politica nazionale non è stata e non sembra ancora in grado di fare. Piaccia o non piaccia all’inquilino di Palazzo Chigi.

Strumenti taglia-debito: tutte le insidie da evitare

Strumenti taglia-debito: tutte le insidie da evitare

Isabella Bufacchi – Il Sole 24 Ore

Non si può proprio dire che la coperta sia corta, quando si lavora su un’operazione taglia-debito degna di questo nome. Un intervento una tantum risolutivo di riduzione dello stock del debito pubblico italiano, su quei 2.168 miliardi che valgono all’incirca il 135% del Pil, deve rimuovere qualche centinaio di miliardi di euro affinché ne valga davvero la pena. La coperta appare enorme, e dài e dài a tagliare in lungo e in largo, a colpi di sforbiciate si toglie questo e quel pezzo. Non si guarda tanto per il sottile, l’obiettivo è nobile: liberare risorse per crescita e occupazione. Ma attenzione a non sottovalutare le insidie, il pericolo di fare a brandelli la credibilità, lo standing creditizio del paese, i bilanci delle banche e la fiducia degli investitori.

La gamma delle operazioni una tantum per la riduzione del debito pubblico è vasta come ampio è il rischio di perdere la faccia sui mercati. La forma più classica e attendibile è la privatizzazione, la vendita delle partecipazioni azionarie in mano allo Stato: l’incasso rimpolpa il fondo di ammortamento dei titoli di Stato, usato dal Tesoro per rimborsare i bond in scadenza. L’impatto sul debito è immediato, lo stock cala all’istante, la credibilità resta elevata. Ma tra il 1992 e il 2000 lo Stato ha dismesso il grosso delle partecipazioni (oltre 180mila miliardi di vecchie lire): nel febbraio 2012 Mediobanca ipotizzava 50 miliardi di euro aggiuntivi ma la cifra si è sgonfiata. Non rimangono tanti gioielli di famiglia. L’attuale programma di privatizzazioni del Tesoro vale lo 0,7% del Pil l’anno (2014-2017 con gli immobili): annovera Poste, Enav, Fincantieri, Cdp reti, Rai way, STMicroelectronics, Ferrovie, altre quote di Eni ed Enel, il piano sta andando avanti, si fa, si farà. Ma le grandi aspettative sono riposte su un altro terreno, più scivoloso, quello delle municipalizzate: piuttosto che agli incassi si mira ai risparmi perché in molti casi si tratta di liquidare, non dismettere. La privatizzazione qui si trasforma in liberalizzazione, lo Stato arretra, promette maggiore efficienza e concorrenza. Ma chi ci ha già provato mette in guardia gli ottimisti dalle insidie del diritto societario, dall’ingente spesa legale per colpa di liti e cause, dai tempi incredibilmente lunghi per chiudere con il passato.

L’asticella delle aspettative si alza di più con la dismissione degli immobili pubblici. Ripetutamente agli italiani e agli stranieri viene detto che il patrimonio immobiliare dello Stato vendibile, in gran parte oramai in mano agli enti locali e alla Difesa, vale fino a 400 miliardi ma la cifra rischia di essere gonfiata. Un censimento ufficiale ed esaustivo non è stato ultimato: molti enti locali non sanno quali e quanti immobili hanno e con quale valore di mercato. Vendere tutto e subito comunque non si può: non c’è una domanda adeguata (neppure straniera) che possa assorbire tanta offerta senza provocare il crollo dei prezzi e i tempi restano biblici per il cambio di destinazione d’uso. Servono risorse upfront che non ci sono, come per smaltire l’amianto. Per velocizzare la vendita degli immobili come con una bacchetta magica rispunta sempre la “spv” (la società veicolo fuori dal perimetro della pa, contabilmente fuori dai conti pubblici).

Fare cassa in questo modo è molto complicato, si torna alle cartolarizzazioni, al sale & lease-back (affitto) redditizie per le banche d’affari che offrono consulenza: la spv in teoria compra un portafoglio di immobili (tra i 100 e i 300 miliardi?) da Stato ed enti locali al fine di gestirli per venderli o valorizzarli con la messa a reddito (affitti e concessioni). La spv acquista gli immobili con i soldi incassati dal collocamento sul mercato (a risparmiatori o investitori istituzionali) di quote o bond o pseudo-azioni: attira fondi promettendo rendimenti attraenti (dal 5% in su?) purché il portafoglio di immobili generi vero reddito. Questa sorta di mattone-bond può funzionare su portafogli snelli e se lo Stato e gli enti locali si prestano a pagare un affitto: il debito pubblico migliora ma il deficit rischia di peggiorare perché i rendimenti di questi nuovi strumenti di finanza strutturata, per attrarre domanda, non possono essere inferiori a quelli dei titoli di Stato. Il trasferimento di patrimonio immobiliare pubblico dallo Stato alla spv, inoltre, rafforza la solidità della società-veicolo ma rende meno solidi (meno garanzie, meno appetibili) i titoli di Stato in circolazione.

Resta la tentazione di far scendere in campo nel ruolo di acquirenti i grandi portafogli italiani, come le compagnie di assicurazione, i fondi pensione e la Cdp. Ma questi investitori sono il mercato, sono esigenti sul rischio/rendimento, sulla tempistica, sulla trasparenza, sull’affidabilità e hanno vincoli di bilancio. La Cassa, la più gettonata nei progetti taglia-debito, ha 147 miliardi di liquidità (fine 2013) parcheggiati sul conto di Tesoreria dello Stato. Questa liquidità però serve in gran parte, va a fronte di oltre 240 miliardi di buoni postali, strumenti a vista in quanto il sottoscrittore può rivenderli alla Cdp in qualsiasi momento con rimborso del capitale alla pari. La Cassa deve rispettare ratios patrimoniali e ha limiti nell’investimento in azioni.

Oltre agli immobili, nel taglia-debito si tirano spesso in ballo le riserve auree della Banca d’Italia: ma non si possono toccare perché «costituiscono parte integrante delle riserve dell’Eurosistema insieme a quelle conferite alla Bce, sono una garanzia di solvibilità». Se invece l’Italia dovesse chiedere aiuto all’Esm, in forma di linea precauzionale, potrebbe contare su una potenza di fuoco congiunta dei due fondi-salva Stato da 450 miliardi e ambire alle OMTs e il QE, gli acquisti della Bce. Ma nessuno al mondo vuole che l’Italia chieda aiuto e per evitarlo il taglia-debito azzarda la ristrutturazione “soft”: c’è chi propone di offrire ai sottoscrittori, tramite il farraginoso processo delle assemblee degli obbligazionisti, la facoltà di scambiare i BTp con altri bond con cedole diverse e soprattutto scadenze più lunghe. Questo swap può interessare i privati (che detengono meno del 10% dei titoli di Stato) e non può riguardare le banche italiane che detengono oltre 400 miliardi di titoli di Stato, acquistati con i prestiti LTRO della Bce che vanno restituiti nel 2015 (o TLTRO fino al 2018). Le banche non possono scambiare BTp con nuovi titoli a 30 anni. E poi, se vacillano i titoli di Stato, vacillerebbe l’intero sistema bancario.

L’Eurozona dovrebbe risolvere per tutti il “debt overhang” creando un fondo dove far confluire quella quota di debito pubblico dei 18 Stati membri che va oltre il 60% del debito/Pil: la “ristrutturazione” sarebbe silente, sostituire i vecchi titoli di Stato con nuovo debito europeo a scadenza extra-lunga, tassi bassi. Sarebbe “mascherata”, senza lo spettro di default e PSI (private sector involvment): per arrivare a tanto, l’Italia dovrebbe garantire il pareggio di bilancio, il trasferimento di asset pubblici e un flusso di entrate tributarie. Ne varrebbe la pena.  

I veri fantasmi di Bruxelles

I veri fantasmi di Bruxelles

Andrea Bonanni – La Repubblica

«Tutto bene», assicura Matteo Renzi dopo l’incontro segreto con Mario Draghi in villeggiatura in Umbria. Tuttavia se il premier sente il bisogno di prendere un elicottero per andare a disturbare le privatissime vacanze del presidente della Bce, è legittimo immaginare che abbia avuto urgenti questioni da risolvere. Specie dopo che Draghi ha spiegato come la recessione italiana sia dovuta alla insufficienza delle riforme promesse dal governo. E dopo che Renzi, in una intervista al Financial Times, ha replicato con un secco «non ci faremo commissariare». Ma quanto è reale il rischio di un cornmissariamento europeo dell’Italia? E quanto peserà, nei mesi a venire, la richiesta di Draghi che i governi nazionali cedano sovranità anche sulle riforme strutturali, dopo aver ceduto a Bruxelles la sovranità sui loro conti pubblici? Perché di questo è lecito immaginare che abbiano discusso il capo del governo italiano e il presidente della Bce nelle due ore e mezza del loro incontro riservato.

Alla prima domanda esistono due risposte: una formale e una sostanziale. La risposta formale è che, oggi, l’unico strumento di “commissariamento” previsto dalle norme europee è quello della troika, composta da rappresentanti della Commissione, della Bce e del Fondo monetario inernazionale. E la troika entra in azione solo qualora un Paese faccia ricorso ai prestiti europei dell’Esm, il Fondo salva-Stati che ha finora dato soldi a Irlanda, Grecia, Portogallo e Cipro. La Spagna ha ricevuto un prestito dall’Esm, ma solo per salvare alcune banche private, e dunque non è stata sottoposta al controllo della troika.

L’intervento della troika non è stato uguale in tutti i Paesi. In Irlanda e a Cipro, per esempio, che avevano un enorme buco finanziario aperto dalla crisi delle banche ma un’economia sostanzialmente sana, il direttorio europeo ha agito con mano relativamente leggera. In Grecia, invece, dove il dissesto era provocato oltre che dalla falsificazione dei conti pubblici anche da una cronica mancanza di competitività, la troika ha agito con durezza esigendo tagli sanguinosi alla spesa pubblica e riforme sociali molto dolorose. In entrambi i casi la cura ha funzionato. Ma il paziente greco ha rischiato seriamente di morire perla medicina somministratagli pagando un prezzo altissimo in termini sociali. E proprio questo potrebbe essere il caso dell’Italia, il cui problema principale, oltre all’enorme debito pubblico, è la scarsa competitività di un sistema-Paese oppresso da una burocrazia tanto invadente quanto inetta.

Ma l’Italia, al momento, non sembra correre il rischio di vedersi messa sotto il controllo della troika. Per due motivi. Il primo è che la congiuntura favorevole dei mercati sta mantenendo i tassi di interesse molto bassi e dunque il Paese per ora è in grado di sostenere l’enorme debito pubblico senza dover ricorrere ai prestiti europei. II secondo è che un’ipotetica bancarotta italiana sarebbe talmente disastrosa che neppure l’intervento dell’Esm potrebbe scongiurarla E senza intervento del Fondo salva Stati non ci sarebbe intervento della troika, che è sostanzialmente un comitato di creditori.

Tuttavia proprio per questi motivi l’Italia, Paese “too big to fail”, si trova ancora una volta nella difficile condizione di osservato speciale delle autorità monetarie europee e internazionali. Se non riprende la strada della crescita, Roma non potrà continuare per molto a rimborsare un debito che diventa sempre più pesante con il diminuire del reddito prodotto. E la crescita, è convinzione comune, può arrivare solo con una serie di radicali riforme strutturali che taglino la spesa inutile, avviino le privatizzazioni tante volte annunciate, riformino il mercato del lavoro e restituiscano al Paese una amministrazione pubblica efficiente, dalle Regioni al fisco, dalla giustizia alla scuola, alla sanità. È essenziale, per evitare un collasso dell’Italia e un tracollo dell’euro, che queste riforme, tante volte promesse e mai attuate, vengano finalmente rese operative.

La richiesta di Draghi di una «cessione di sovranità» su questa materia costituisce dunque anche la risposta sostanziale alla domanda sul rischio di commissariamento dell’Italia. L’Italia deve dare garanzie ai partner europei che le riforme tante volte promesse verranno finalmente attuate. E queste garanzie devono essere concrete e verificabili perché, anche in Europa, la politica degli annunci non basta più.

Come ottenere questo risultato senza ricorrere alla troika? La risposta potrebbe essere nei cosiddetti “accordi contrattuali”, che la Commissione e il Consiglio stanno studiando da tempo. In pratica, un governo firma un accordo specifico con Bruxelles in cui si impegna a realizzare riforme precise, dettagliate e scadenziate nel tempo (dall’approvazione delle norme alla loro attuazioneconcreta). E in cambio riceve dall’Europa l’autorizzazione a rinviare, per un periodo determinato, gli aggiustamenti di bilancio a cui sarebbe tenuto in base alle norme comuni. Nel caso dell’Italia, per esempio, fermo restando il rispetto del deficit al 3%, il governo potrebbe evitare la drastica riduzione del debito a cui sarebbe tenuto, senza per questo incorrere in una procedura di infrazione cherisulterebbealtrimenti inevitabile.

Sarebbe nell’ interesse dell’ Italia che questi “accordi contrattuali” prendessero forma al più presto proprio per evitare forme di commissariamento più invasive. E comunque, anche se gli accordi non dovessero essere concretizzati in forma giuridica, sarà questa l’unica strada che il governo potrà percorrere presentando a Bruxelles uno scadenziario di riforme concrete in cambio della tanto auspicata “flessibilità” nel giudizio sui nostri malandati conti pubblici.

Il perimetro della sovranità

Il perimetro della sovranità

Antonio Polito – Corriere della Sera

Questa è la quarta estate d’ansia per la nostra sovranità. Ed è la quarta di seguito in cui ci accorgiamo che il governo ha sbagliato i conti, che la ripresa era un miraggio, e che non cresceremo affatto. Nella prima estate c’era Berlusconi, nella seconda Monti, poi Letta, ora Renzi. Cambiano vorticosamente i premier ma i problemi restano uguali, come la crisi in cui è piombato il nostro Paese. E alla fine del tunnel c’è sempre l’identica alternativa: o ce la facciamo da soli, o qualcuno lo farà al posto nostro. Perché l’Italia è troppo grande, e troppo intrecciata è la sua sorte con quella dell’intera Europa, per poter fallire. Il tema della sovranità è tutto qui: meglio farlo noi o lasciarcelo imporre da altri? E la risposta sembra scontata: meglio farlo noi. È per questo che abbiamo cambiato quattro governi in quattro anni. Ma arrivati al punto in cui siamo, al debito in cui siamo, alla recessione in cui siamo, il dubbio che serpeggia in Europa è: ce la faranno mai, da soli?

Per far da soli ci siamo sottoposti a grandi sacrifici, che hanno reso ben presto impopolare chiunque abbia governato. Ma se avessimo chiesto aiuto avremmo pagato un prezzo molto più alto: in tutti i Paesi che l’hanno fatto, perfino gli stipendi degli statali sono stati tagliati. Spagna e Portogallo si stanno sì riprendendo, ma a costo di uno choc sociale che chi governa l’Italia ha il dovere di evitare.

Perciò ha ragione Renzi, come altri premier prima di lui, quando dice con orgoglio che ciò che c’è da fare lo decidiamo noi. È esattamente questo il perimetro della nostra sovranità. Essa infatti ci conserva la libertà di decidere su tasse, spese, pensioni, mercato del lavoro. Ma è limitata da due colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo più andare: da un lato ci sono i Trattati, da noi liberamente firmati, che ci dicono di quanto possiamo indebitarci ogni anno; dall’altro ci sono i mercati, che ci dicono quanto costa indebitarci ogni anno. Dunque la nostra sovranità non è limitata da Bruxelles, ma dal nostro debito. Anzi, per essere più precisi, dal credito che ci danno i risparmiatori di tutto il mondo e chi ne gestisce i capitali. Siccome il nostro debito è immane, la nostra sovranità è già molto limitata. Ogni volta che ci servono soldi, ne perdiamo un pezzo. Meno ne chiediamo e più liberi siamo. Ma se non ricominciamo a produrre ricchezza, ne dovremo chiedere sempre di più.

Per nostra fortuna stiamo vivendo un momento magico dei mercati. Nonostante le nubi nere che si aggirano per l’Europa, si mantengono calmi. Ma non c’è bisogno di essere un gufo per capire che questa bonaccia può finire da un momento all’altro. Ecco dunque un’ottima ragione per correre, e sbrigarsi a fare ciò che va fatto. Questo non è un braccio di ferro con Juncker per avere uno sconticino, non è questione che si possa risolvere all’italiana, con un po’ di furbizia e qualche rodomontata. Se continuiamo ad aspettare passivamente una ripresa che poi resta zero, o sotto zero; se continuiamo ad eludere scelte difficili definendole inutili totem, non c’è alcuna speranza di reggere il nostro deficit sopra la linea di galleggiamento. In un mondo nel quale merci e capitali circolano liberamente e globalmente, è sovrano solo chi è forte. E noi stiamo diventando troppo deboli per vivere un’altra estate così.

Il vero incubo adesso è il debito

Il vero incubo adesso è il debito

Massimo Riva – La Repubblica

A preoccupare non è tanto che Moody’s tagli le sue stime sul Pil di quest’anno: ormai lo sanno anche a Palazzo Chigi che il previsto più 0,8 per cento è diventato un obiettivo irraggiungibile. Quel che più dovrebbe allarmare è l’effetto che i giudizi negativi sulla lentezza delle riforme possono avere sui mercati finanziari. Le agenzie di rating – ormai questi anni di crisi ce l’hanno insegnato – non sono né arbitri distaccati da interessi concreti né istituti di beneficenza. Il loro ruolo è quello di orientare gli operatori mercantili ed è un compito che ne alimenta il reddito e il successo soltanto nella misura in cui le annunciate profezie si avverino.

Occorre, dunque, maneggiare con cura questa sortita di Moody’s perché essa potrebbe facilmente trasformarsi in un nuovo segnale di attacco sul fronte più fragile delle tante nostre oggettive difficoltà. In particolare, quello del finanziamento del debito pubblico che in questi mesi è riuscito a reggere con il vento in poppa di una costante e significativa discesa dei tassi d’interesse. È chiaro a tutti, infatti, che un brusco rincaro del servizio del debito non solo priverebbe il governo di risorse utili a misure di stimolo all’economia ma metterebbe a rischio anche quel rispetto del fatidico 3 per cento di deficit che è condizione importante per poter fare la voce grossa in Europa.

Il nodo cruciale attorno al quale ruotano i giudizi negativi dell’agenzia americana riguarda soprattutto la lentezza con cui l’Italia procede sul terreno delle riforme strutturali. Dunque, la stessa questione sollevata appena qualche giorno fa dal presidente della Bce, Mario Draghi. A quest’ultimo il presidente del Consiglio ha risposto in termini al tempo stesso consenzienti e infastiditi. Da un lato, ha detto di essere anche lui consapevole della necessità di attuare le attese riforme. Dall’altro lato, ha tenuto a ricordare che la scelta sulle riforme da fare spetta al governo italiano e non alla Bce o alla Commissione di Bruxelles, tanto meno alla troika fra i due e il Fondo monetario.

Una rivendicazione di sovranità formalmente legittima e per certi versi oggi anche ovvia sul piano istituzionale. Ma che per non avere un senso di battuta occasionale ed estemporanea avrà bisogno di essere seguita da comportamenti e azioni all’altezza dei problemi del momento su due tavoli principali, interno ed esterno.

In primo luogo, evidentemente, si tratterà di realizzare le attese riforme in tempi che evitino al Paese il rischio di quel discredito sui mercati che potrebbe essere alimentato da iniziative come quelle di Moody’s. In secondo luogo, si tratterà di muoversi con più cautela sul piano europeo proprio per quanto riguarda i rapporti di potere all’interno dell’Unione, laddove sempre Moody’s (non a caso) preconizza forti tensioni fra Italia e Germania.

Nel reclamare cessioni di sovranità dai governi nazionali alle istituzioni comunitarie, Mario Draghi ha posto il dito sulla piaga più dolente di un impianto europeo dove ogni spinta in senso federale è regolarmente bloccata dall’esercizio della legge del più forte. Come dimostra l’impotenza dei paesi favorevoli a una politica economica espansiva a far cadere il muro dell’austerità contabile a qualunque costo costruito dalla Germania. Perciò Matteo Renzi, tanto più nel corso del semestre italiano di presidenza, dovrà fare non poca attenzione alle controindicazioni implicite nella sua rivendicazione di sovranità. Quello che può oggi sembrare un punto di forza a Roma facilmente può diventare un fattore di debolezza a Bruxelles perché fornirebbe alibi potenti ai governi che intendono l’Europa come poco più di un’unione doganale.

Le inattese avvisaglie di stagnazione che si profilano all’orizzonte della grande Germania stanno facendo capire anche ai tedeschi che la crescita in un Paese solo è oggi una pura illusione. Berlino ha bisogno dell’Europa non meno di quanto l’Europa di Berlino. Figuriamoci, quindi, quanto più questa equazione possa essere valida per l’Italia. A maggior ragione in una fase nella quale lo scenario internazionale – dall’Ucraina alla Libia passando per il Medio Oriente – solleva nubi minacciose anche sui rifornimenti energetici.

L’inverno non è così lontano e tutto l’Italia può permettersi fuorché trovarsi nella tenaglia di rincari congiunti dei tassi d’interesse e di gas e petrolio. Coraggio, perciò, presidente Renzi mandi in porto le riforme “sovrane” che vuole ma lo faccia presto. Anche perché solo su questa strada troverà i titoli politici per promuovere una svolta nella politica economica europea. Ci sono treni, in politica e nella vita, che passano una sola volta.

Dai debiti arretrati della Pa buco di 30 miliardi per le aziende

Dai debiti arretrati della Pa buco di 30 miliardi per le aziende

Paolo Baroni – La Stampa

Andranno anche in pagamento entro il 21 settembre, giorno di San Matteo, gli arretrati della pubblica amministrazione. E alla fine saranno almeno 60 miliardi di euro che torneranno in circolo. La «ferita» nei conti delle impresa però resta molto profonda. Solo l’anno passato – denuncia Impresa lavoro, centro studi di ispirazione liberale guidato dall’economista Giuseppe Pennisi – i ritardi nei pagamenti da parte delle amministrazioni pubbliche hanno comportato oneri per 6,8 miliardi, in deciso aumento dispetto agli anni passati. Perché nonostante lo stock di arretrati si sia lievemente ridotto, passando dagli 87,3 miliardi del 2012 ai 74,2 dell’anno passato, nel frattempo sono diventati più onerosi i finanziamenti bancari. se si allarga lo sguardo al periodo 2009-2013 si vede poi che il costo complessivo a carico del sistema produttivo è stato pari a 29,9 miliardi di euro. Un buco enorme, che ha avuto riflessi a cascata arrivando a “coinvolgere imprese subfornitrici e i dipendenti”.

Il Centro Studi ImpresaLavoro elenca così i principali effetti negativi, che sono minori investimenti operati dalle imprese in conseguenza della minore disponibilità di capitale, la riduzione di dipendenti e quindi la distruzione di posti di lavoro, i costi del dissesto delle imprese che, per le conseguenze dei ritardi di pagamento della Pa, si sono trovati in una situazione di insolvenza, fino ad arrivare (nei casi più gravi) al fallimento, e infine i costi diretti ed indiretti a carico dei contribuenti.

Questo perché, a partire dal 1 gennaio 2013, il recepimento di una direttiva europea ha obbligato tutta la pubblica amministrazione a versare gli interessi di mora sui ritardi, calcolati sulla base del tasso di riferimento Bce maggiorato di 8 punti percentuali su base annua. “Tale misura non compensa del tutto il costo del capitale a carico delle imprese italiane ma grava comunque sui cittadini italiani per oltre 3 miliardi di euro all’anno”. Anche questo un peso considerevole.

Del resto, come si evince dai dari Eurostat – segnala ancora ImpresaLavoro – “l’Italia è il paese che presenta il maggiore stock di debito commerciale, ed anche di quello insoluto. Già dal 2010, a il peggior rapporto tra debiti commerciali e Pil, superando sia la Spagna che la Grecia, gli unici in Europa a parte l’Italia a superare il 3% in questo rapporto”. E anche i tempi di pagamento medi della Pa italiana, in base alle stime di Intrum Justitia, sono ancora i più lunghi d’Europa.

I ritardi dei pagamenti ed i costi che le imprese sono costrette a sostenere producono una distorsione anche sul piano della concorrenza con i fornitori esteri che appartengono ai paesi più virtuosi: in termini di assorbimento di capitale, il costo di una fornitura standard per un’impresa italiana che lavora con la Pubblica amministrazione è infatti pari al 4,2% del fatturato ed è di gran lunga più elevato rispetto a quello di Germania (0,6%) e Francia (1,2%).

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

E tre. Mario Draghi si ripete, purtroppo finora invano, per richiamare l’Italia insieme a tutti i ritardatari dell’Eurozona all’urgenza delle riforme strutturali per tornare a crescere.
Per il nostro Paese di nuovo in recessione conclamata e comunque da troppo tempo in forte affanno rispetto ai partner, con tassi di sviluppo dell’1% circa sotto la media europea nell’ultimo decennio, le parole del presidente della Bce suonano come una sorta di ultimo appello in nome e per conto delle ragioni dell’economia, la terza dell’euro, che non può permettersi di far male a sé e agli altri perseverando nella politica degli annunci regolarmente seguita dalla strategia dei rinvii.
Non può perché non crescere significa distruggere imprese e benessere, moltiplicare i disoccupati, rendere insostenibile il debito, violare i patti europei, avviarsi al commissariamento ufficiale Ue, visto che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro ancora maggiore dei mali da curare. Che non sono incurabili.

Il primo avvertimento a uscire dalla palude dei veti incrociati per attuare una precisa serie di riforme con allegato calendario era arrivato a Roma nell’estate del 2011: allora Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, avevano scritto una severa lettera a quattro mani consegnata agli archivi senza grandi risultati concreti, caduta del governo Berlusconi a parte.
L’anno dopo, nel corso di un’altra estate ancora più bollente con l’euro sull’orlo del baratro, Draghi ormai a Francoforte aveva fermato la tempesta sui mercati comunicando ai medesimi che avrebbe preso «tutte le misure necessarie» a garantire la tenuta della moneta unica. In breve, la Bce avrebbe fatto la sua parte fino in fondo ma i governi avrebbero dovuto fare la loro, risanando i conti pubblici e facendo le riforme strutturali.
Ancora una volta l’Italia ha sprecato i due anni di tregua sui mercati guadagnati dalle iniziative di Draghi. Tra l’altro proprio mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, i Paesi finiti sotto i rigori della “troika” per aver chiesto gli aiuti europei, si auto-riformavano per forza ma ora sono quasi tutti tornati sui mercati e ricominciano a crescere.
L’Italia ha evitato gli aiuti e quindi la troika ma ha anche evitato di fare le riforme: in questo modo non è uscita dal tunnel del commissariamento futuro né è tornata a crescere. Cioè ha fatto la scelta peggiore, la più pericolosa e nefasta. Come cifre e previsioni di Istat, Eurostat, Commissione Ue, Ocse e Fmi continuano a dimostrare.

Ora Draghi ha lanciato il terzo allarme: ignorarlo ancora una volta significherebbe avviarsi al suicidio collettivo. E non perché si debba obbligatoriamente ottemperare a tutte le sollecitazioni in arrivo da Francoforte e Bruxelles ma perché senza riforme, è ampiamente provato, l’economia italiana è condannata a recedere anziché avanzare. Immobilizzata, come Gulliver, dai mille lacci e lacciuoli cui la inchiodano i troppi “lillipuziani” che le girano intorno: politici, burocrati di più o meno alto rango, magistrati più o meno efficienti e illuminati, corporazioni più o meno potenti e determinate…
Riuscirà il governo Renzi dove i suoi predecessori hanno fallito? Non ci sono scorciatoie possibili. La politica degli annunci che si fermano alle parole comincia a innervosire i mercati e i nostri partner europei, ansiosi di vedere i fatti.
In fondo non c’è proprio niente da inventare: la crisi del Pil italiano deriva in larga parte dalla crisi degli investimenti, che a sua volta dipende dalla mancanza di fiducia, e quindi di aspettative positive, in un Paese bloccato da una lunga e pesantissima crisi strutturale. Molto più che debitoria.
Vanno quindi rimossi al più presto tutti gli ostacoli che soffocano o scoraggiano chi fa business in Italia: che si chiamino pubblica amministrazione elefantiaca, leguleia o comunque ostativa, giustizia dai tempi biblici, mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi sclerotici e privi della flessibilità indispensabile per competere su scala europea e globale. E per restituire alle imprese la voglia di rischiare.

La diagnosi è arcinota, la terapia anche: la ripete da anni, inascoltata, la Commissione europea. L’ha ribadita Draghi l’altro ieri. È stata sottolineata con forza tre giorni fa in un editoriale del direttore di questo giornale. Non c’è più tempo da perdere: non solo perché sulla nostra testa pende il rischio concreto dell’apertura entro l’anno di una procedura Ue per mancato rispetto degli impegni presi sui fronti del debito e delle riforme. Non solo perché la nuova Commissione Juncker non si annuncia certo più tenera di quella Barroso.
Non solo perché la Germania della Merkel ha per l’ennesima volta appena risposto picche alla Francia di Hollande che le chiedeva di fare più crescita in Europa: «La Germania è già un motore importante, il più importante, per la crescita dell’Eurozona» ha puntualizzato il suo portavoce. Ma anche e soprattutto perché, se non ricomincia ad auto-generare crescita con le riforme e a recuperare fiducia all’interno e all’estero, l’Italia a poco a poco si auto-distrugge.

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

 Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il calo del Pil italiano del secondo trimestre conferma una discesa che prosegue dal terzo trimestre del 2011. L’attenuazione del calo sui dati tendenziali trimestrali non basta a tranquillizzare e quindi bisogna che il Governo sia in Italia che in Europa (e con il supporto di tutte le forze produttive) tracci un confine netto tra un passato di crisi e un futuro di ripresa.

Il Pil trimestrale. Un calo dello 0,2% sul trimestre precedente e dello 0,3% sul corrispondente trimestre del 2013 (con “calo acquisito” del Pil per il 2014 dello 0,3%) è preoccupante, anche perché riguarda tutti e tre macro-settori dell’economia (agricoltura, industria, servizi). La variazione delle domanda interna è nulla mentre la componente estera è negativa per gli effetti della crisi Russia-Ucraina che intaccherà anche i prossimi dati tedeschi. Meglio è andata la produzione industriale che è cresciuta in giugno su maggio e nel primo semestre 2014 sul corrispondente del 2013 ma che non ha compensato i cali del Pil.

La lunga crisi italiana. Per varie ragioni (politiche,economiche,fiscali) siamo rimasti più esposti alla crisi di altri grandi Paesi della Eurozona anche perché la nostra non-crescita ha una storia lunga. Limitandoci agli ultimi 10 anni, dal 2005 abbiamo avuto una crescita media annua molto più bassa dell’Eurozona. Nel quinquennio 2005-09 abbiamo avuto un calo medio annuo di circa lo 0,4% mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1,1 punti percentuali in media annua. Sul 2010-14 l’Italia è calata circa dello 0,3% medio annuo mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1 punto percentuale annuo. Non sono differenze da poco.

Le cause di questo divario sono state analizzate dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia e anche nel Def del Governo presentato alla Commissione europea in aprile. Consideriamo solo tre temi italo-europei interrelati e relativi alle istituzioni e agli apparati, all’economia e agli investimenti, all’Europa e alla crescita.

Le istituzioni e gli apparati. Dal 2005, in 10 anni, abbiamo avuto sei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) mentre negli altri tre grandi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) le successioni sono state quelle delle legislature. Ha ragione Padoan nel ritenere che le riforme costituzionali e istituzionali possono avere un impatto sull’economia dando certezza di durata ai Governi e semplificando i processi legislative. Ma questo non basta perché certezza e fiducia vanno di pari passo con le riforme, purchè siano quelle necessarie. Il che, stando alle osservazioni degli organismi internazionali, non è accaduto in Italia anche se nel decennio 2001-2011 c’è stata una sostanziale continuità dei Governi Berlusconi, salvo la parentesi di Prodi 2006-2008. In Italia troppe riforme epocali sono state solo annunciate, altre buone insabbiate, altre infine sbagliate. È mancata quella continuità realizzatrice che antepone l’interesse nazionale alla partigianeria politica (forte persino dentro i singoli partiti) e alla critica fine a se stessa ma è anche mancato un forte supporto tecnico degli apparati pubblici. Perciò la riforma degli apparati pubblici è essenziale come ci chiede l’Europa per arrivare alla certezza, stabilità e semplicità delle norme, alla rapidità della giustizia, allo snellimento della burocrazia. È infatti evidente che la nostra “macchina pubblica” non è efficiente (anche se ci sono non pochi tecnocrati capaci) causando costi diretti in termini di spesa pubblica e costi indiretti sui cittadini e le imprese. In queste riforme il Presidente del Consiglio Renzi deve mettere molta determinazione utilizzando anche le competenze necessarie per correggere evitando di distruggere.

L’economia e gli investimenti. Le urgenze dell’economia richiedono anche alcune, poche e chiare, accelerazioni. Tutti sanno che l’Italia ha limitatissimi spazi di finanza pubblica a causa dei vincoli europei. Tutti sanno anche che la manifattura italiana esportatrice è stata la rete d’acciaio che ha tenuto insieme la nostra economia (e anche di più) durante la crisi. Non sempre si ricorda però che gli investimenti totali (pubblici e privati) sul Pil (per di più calante!) sono scesi dal 22% del 2007 al 17% del 2013 e che le previsioni indicano una ripresa così lenta che solo nel 2019 ritorneranno al 20%. Cruciale è perciò il rilancio degli investimenti sia nel partenariato pubblico privato sia nelle imprese per creare innovazione, reti e crescita dimensionale delle imprese, infrastrutture. Il Governo, così come quello Letta, ha messo in campo varie misure per l’economia reale (dalla nuova Sabatini, allo sblocca-Italia, alla riduzione del cuneo fiscale, al potenziamento dell’Ace) ma non basta. Per questo ci vuole presso la presidenza del Consiglio una task force di raccordo tra i ministri dello Sviluppo e delle Infrastutture, la Cassa Depositi e prestiti, il sistema imprenditoriale e bancario per massimizzare l’uso delle risorse della Bei e del Quadro Finanziario poliennale della Ue. E anche per orientare agli investimenti delle imprese la liquidità che da settembre verrà dal Tltro della Bce.

L’Europa e la crescita. Padoan ha rassicurato che il limite del 3% del deficit sul Pil non verrà superato senza bisogno di una manovra aggiuntiva. Speriamo che sia così ma in ogni caso riteniamo che si debbano scegliere delle priorità per la crescita che riguardano l’Italia e l’Europa. La nostra priorità è la spending review dove il programma Cottarelli è già ben definito. Forse non si potranno avere i risparmi lordi annui di 7 miliardi nel 2014, di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Basterebbe la metà dei risparmi, purché certa, da riallocare in parte agli investimenti. Poi bisogna passare con la stessa logica a valorizzare i tanti patrimoni pubblici anche per ridurre il debito senza danneggiare il Pil. Sugli investimenti il Presidente del Consiglio deve mettere tutto il suo peso politico sul presidente della Commissione europea Juncker non solo per spostare almeno al 2017 il nostro pareggio strutturale di bilancio (ce lo meriteremmo perché, come documenta Fortis, siamo i campioni europei degli avanzi primari a danno della nostra crescita) come sarà di certo per Francia e Spagna. Bisogna anche spingere (come chiede persino l’Fmi) l’Europa ad una politica espansiva con gli investimenti infrastrutturali e mettere la Germania di fronte alle responsabilità del suo eccesso di risparmio e di vari surplus dovuti non solo alla sue virtù ma anche alla sua miopia.

Perciò l’Italia ha bisogno di un Commissario europeo forte all’economia reale che, pur nel rispetto “alla Draghi” del ruolo europeo, supporti l’attuale incisività politica di Renzi per evitare a noi e all’Europa un declino lento ma certo.

 

Quella spinta da Francoforte

Quella spinta da Francoforte

Donato Masciandaro – Il Sole 24 Ore

Riforme strutturali per avere mercati più competitivi e Stati più efficienti: è l’unica spinta possibile per ritornare a crescere e dare un senso alla politica monetaria espansiva che la Banca centrale europea ha deciso di proseguire, ma non di accentuare. Perché le condizioni monetarie per tornare alla normalità ci sono. Peccato che manchino tutte le altre politiche economiche. L’assenza di efficienza nei mercati e di efficacia nell’azione pubblica sono i due nodi scorsoi che stanno soffocando l’Unione. È questo il messaggio di Mario Draghi che vale in generale per Bruxelles, ma in particolare per Roma. La Bce fotografa una situazione dell’Unione monetaria Europea in cui la ripresa economica è ancora timida ed instabile. Il termometro è rappresentato da un andamento stagnante sia delle variabili reali – la crescita – che da quelle nominali – l’inflazione. Quale è la diagnosi della nostra banca centrale? È facile. Tutto dipende dallo stato delle aspettative di famiglie, imprese e mercati.

In una situazione normale, una stagnazione con rischio deflattivo può essere attribuito ad un deficit di domanda aggregata. Il deficit di domanda può influenzare le aspettative, attraverso un circolo vizioso che si autoalimenta: il deficit di domanda di oggi implica prezzi calanti per domani, quindi gli operatori hanno incentivo a posticipare le scelte di consumo e di investimento, alimentando il deficit di domanda. In questi frangenti la politica monetaria deve essere normalmente espansiva, per incentivare le decisioni di spesa ed al contempo alimentare le aspettative di inflazione. Purtroppo ancora oggi la situazione in Europa non è normale: il deficit di domanda si intreccia con un eccesso di avversione al rischio, incubatosi prima della Grande Crisi, scoppiato dal 2008 con la crisi finanziaria e consolidatosi negli anni successivi con la recessione economica. L’Europa è in una trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità e la crescita dei prezzi azionari non provocano effetti rilevanti e stabili sulle grandezze reali, a partire dalla crescita economica.

L’avversione al rischio spinge a risparmiare – quindi a non consumare – ma non ad investire. La liquidità, sia essa detenuta dalle famiglie, dalle imprese o dalle banche tende ad essere tesaurizzata. Occorrono gli investimenti reali, pubblici e privati, che possono far ripartire la domanda aggregata. È qui il primo nodo scorsoio che l’analisi della Bce mette in luce. Esistono investimenti privati sono lo Stato è in grado di offrire in modo efficace e sistematico i beni pubblici essenziali: dalle istituzioni efficienti – a partire dalla giustizia civile e penale – alle infrastrutture della comunicazione, reale e virtuale. Inoltre occorre riprendere la politica della concorrenza, in tutti i mercati e settori, incluso quello del lavoro, per scogliere completamente il secondo nodo scorsoio, ed essere efficaci anche dal lato dell’offerta aggregata.

L’Italia è un destinatario naturale del messaggio della Bce: il governo Renzi è partito dalla architettura politica, che è la madre delle politiche pubbliche inefficienti, ma non può che essere solo un punto di inizio, se si vuole essere coerenti con il modello sposato dall’analisi Bce. Allo stesso modo la capacità di offrire investimenti pubblici dipende dallo stato delle finanze pubbliche di un Paese. Il presidente Draghi ha fatto notare come i Paesi che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici sono proprio quelli che hanno le finanze pubbliche peggiori: alta tassazione unita a pessima qualità della spesa pubblica.

Anche qui la missiva di Francoforte trova un naturale approdo a Roma. L’Italia è un Paese indebitato, con un grosso vantaggio: essere membro dell’Unione monetaria. Grazie a tale appartenenza, può pagare sul proprio debito tassi di interesse, nominali e reali, più bassi. Un vantaggio che purtroppo finora la nostra classe politica ha dissipato. Per un Paese indebitato gli obiettivi del pareggio dei conti, della riqualificazione della spesa e della lotta all’evasione sono indipendenti dall’essere parte dell’Unione, che invece può essere uno strumento per rendere tali obiettivi più credibili, e nel contempo più flessibili in termini di profilo temporale. Purtroppo le voci più miopi nei dibattiti nazionali ribaltano spesso il nesso tra disciplina fiscale e appartenenza all’Unione, ricordato dalla Bce.

La convergenza delle politiche strutturali e fiscali diviene condizione necessaria per far riassorbire stabilmente l’eccesso di avversione al rischio, e tornare ad un sistema economico normale e dinamico. La normalizzazione delle condizioni monetarie, bancarie e finanziarie ha fatto passi in avanti. Mario Draghi ha elencato tutta una serie di segnali incoraggianti, che riguardano la domanda come l’offerta di credito, nonché l’auspicato effetto stabilizzante dell’inizio dell’Unione bancaria. Inoltre aiuta il fatto che la politica della Bce abbia oramai un orientamento opposto a quello intrapreso dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra. Ma i segnali positivi sono tutti reversibili, anche alla luce delle incognite geopolitiche che toccano da vicino l’Unione Europea; purtroppo di nuovo i dibattiti nazionali sembrano orientati dal binocoli alla rovescia. La Bce ha confermato per il secondo mese consecutivo l’orientamento più espansivo della politica monetaria europea dalla sua nascita, nonché una decisione unanime di continuare nel tentativo di normalizzazione. E Bruxelles – nonché Roma – come rispondono?