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Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Valentina Conte – La Repubblica

Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi. Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce. info è una sola: i benefici sono ignoti.
«Nessuno riesce a districarsi tra piani europei, nazionali e regionali», osserva Perotti, docente alla Bocconi e in passato consigliere economico di Renzi. «Centinaia di documenti stilati per fissare obiettivi che nessuno rispetta. E i soldi diventano una mangiatoia pazzesca per sindacati, assessorati regionali e provinciali». La soluzione per Perotti è una sola: «Non diamo più soldi a Bruxelles, così non rischiamo di vederli finire nelle mani dei maestri dello spreco, in un sottobosco politico parassitario». La tesi è ardita, ma suffragata dai numeri dello studio dal titolo “Il disastro dei fondi strutturali europei”.
Nel 2012 l’Italia ha versato 16,5 miliardi come contributi alla Ue e ne ha ricevuti in cambio solo 11, di cui 2,9 di fondi strutturali, tra Fse (per formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale) e Fesr (sussidi alle imprese e infrastrutture). Questi fondi per essere spesi devono essere “doppiati” tramite il cofinanziamento, dunque denari italiani. «Ottima idea, per coinvolgere il beneficiario. Ma se prendiamo il solo Fse, appena il 4% del finanziamento totale viene dalle Regioni (quasi niente dalle Province), il resto è finanziato in parti uguali da Stato italiano e Ue»». I soldi di questo fondo dunque «sono completamente gratuiti per i soggetti che poi attuano il progetto, cioè Regioni e Province». Di qui la prima stortura. «Lo scopo del cofinanziamento è completamente negato».
Lo studio passa poi ad esaminare la spesa per i progetti di formazione, che rappresentano la quasi totalità dei progetti dell’Fse (504 mila su 668 mila). Nel periodo 2007-2012 (dati OpenCoesione) ben 7,4 miliardi su 13,5 sono stati impiegati qui. La valutazione di questi corsi è «un’industria che non conosce crisi» e tiene in vita «decine di centri di ricerca» che hanno prodotto tra 2007 e 2011 ben 280 documenti di valutazione, per la stragrande maggioranza «inutili, un sottobosco nel sottobosco». Poiché nessuno è davvero in grado di raccontare l’efficacia dei corsi. Le variabili di solito citate sono la percentuale di soldi spesi e il tasso di occupazione. Ma la prima non è per forza indice di successo: si possono spendere molti soldi in progetti inutili o dannosi. E la seconda spesso è effetto della congiuntura, se non si riesce a misurare i posti di lavoro che davvero i corsi di formazione e gli stage favoriscono.
Il confronto europeo è poi agghiacciante. Se l’Italia tra 2007 e 2013 ha offerto corsi a 21mila persone, la Francia aveva 254mila iscritti e la Germania 208mila (dati del network di esperti sulla spesa dell’Fse per l’inclusione sociale). Ebbene, tra quelli che hanno completato le attività (appena 233 italiani, contro 50mila francesi e 32mila tedeschi), solo il 14% risultava poi occupato in Italia, contro l’85% della Francia e il 35% della Germania. Ma, aggiunge lo studio, «è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro». Ma allora a che cosa servono questi corsi?

La Commissione europea, lo scorso marzo, sosteneva che grazie ai fondi Ue in Italia sono stati creati tra 2007 e 2013 più di 47mila posti, 3.700 nuove imprese, banda larga estesa a più di 940mila persone, sostegno per 26mila pmi, 1.500 chilometri di ferrovie e progetti di depurazione delle acque. La Corte dei Conti però, in febbraio, diceva che dal 2003 ad oggi gli “euro-furti” (frodi, imprenditori fasulli, finti progetti, costi gonfiati, incarichi irregolari) hanno raggiunto la cifra record di un miliardo e 200 milioni. Solo nel 2012 ne sono stati scovati 344 milioni (al top la Sicilia con 148 milioni finiti nelle tasche sbagliate, vedi il caso del deputato pd Genovese che secondo le accuse in cinque anni avrebbe lucrato ben 6 milioni di euro di fondi europei destinati proprio alla formazione professionale). Nel 2013 poi la Guardia di Finanza ne ha recuperati altri 228 di milioni. Arrivati come fondi strutturali, poi finiti nelle tasche del malaffare. E certo non usati per creare posti o crescita.

Europa delle banche

Europa delle banche

Davide Giacalone – Libero

Ecco una frase fatta ed equivoca, utile solo a confondere le idee: l’Europa dovrebbe essere dei popoli e non delle banche. Per essere dei popoli, invece, l’Europa ha da essere anche delle banche. Proverò a dimostrarlo segnalando che un elefante è entrato in cristalleria, s’è mosso in modo inappropriato, ma nessuno sembra essersene accorto, perché tutti gli occhi sono puntati sui cocci dei governi e non su quelli dei cittadini e del sistema produttivo. Seguiamo l’elefante, vedrete che porta anche al Nazareno.

Dunque: agitando la durlindana in una battaglia immaginaria, mentre Manuel Barroso certificava che nessun capo di Stato o di governo ha mai chiesto di modificare i trattati, sicché ciascuno ne richiama l’applicazione facendo finta di mettere l’accento sul duro o sul soffice, ma sapendo tutti che c’è l’uno e l’altro, agitando lo spadone, dicevo, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, s’è indirizzato alla Bundesbank e ha detto: voi fatevi gli affari vostri, non provate a far politica in Italia (più di quella che fecero e fanno? ndr), così come io, del resto, non mi occupo delle Landesbanken e delle Sparkassen. Poi l’elefante è uscito dalla cristalleria e nessuno ne ha messo in adeguata evidenza il passaggio. Eppure è rivelatore e decisivo.

Tornando al luogo comune iniziale, quindi, si dovrebbe così correggerlo: l’Europa sia dei e risponda ai cittadini, non sia dei e risponda solo ai governi. Perché le banche centrali sono i e dei governi, mica i e dei sistemi bancari. Perché tutto il gran dibattito ruota attorno a rigore e flessibilità, ma con esclusivo riferimento al bisogno di ciascun governo di correggere i conti per non incorrere in infrazioni. Semmai qualcuno si sta occupando veramente di sviluppo e crescita produttiva, quindi anche industriale, quella è la Banca centrale europea. Verrebbe da dire: magari l’Europa fosse della Bce. Peccato che sarebbe vagamente non democratica.

Di Landesbanken e Sparkassen, invece, ci dobbiamo occupare eccome. E non per farci gli affari degli altri, ma per farci i nostri e quelli comuni. Cosa sono? Sono banche regionali o locali tedesche (la Germania è uno Stato federale, per questo ha una camera degli stati, quindi quel che noi chiamiamo regionale lì è statale, ma non federale). Sono banche che rispondono a potentati locali, fortemente politicizzate. Banche che accettano il denaro contante come in Italia sarebbe più che sufficiente per chiamare subito la Guardia di Finanza. Ed è (anche) grazie a quel sistema, grazie al fatto che la Germania è il Paese con più pagamenti in contante, che quando rivaluteremo il pil con l’economia sommersa il nostro crescerà di uno o due punti, il loro di tre o quattro. Sono banche con cui hanno sostenuto settori produttivi altrimenti fuori mercato. I tedeschi hanno combattuto la loro battaglia contro gli italiani del tessile proprio utilizzando quel genere di credito. Allora, se l’Europa vuole essere dei popoli, quindi dei lavoratori e degli imprenditori, deve essere anche Europa delle banche, nel senso che le regole non possono ammettere eccezioni. Mi piace dirlo: sia perché suona molto tedesco; sia perché sono i tedeschi ad avere chiesto che quelle loro banche siano tenute fuori dalle regole e dai controlli europei. Nein, non si può fare.

Renzi sbaglia: noi di quelle banche abbiamo il dovere di occuparci, perché devono essere rappresentati gli interessi di tutti i sistemi produttivi, altrimenti si rappresentano solo gli interessi dei ragionieri che redigono i bilanci statali. Che è esattamente l’Europa fallimentare.

Da qui si arriva al Nazareno. A molti piace dirlo e a taluni anche crederlo: la riforma del senato è quel che serve per dimostrare che l’Italia si mette al passo con tempi e mercati. L’accordo fra Berlusconi e Renzi regge, provocando l’ulcera a chi è di sinistra e a chi è di destra, sicché siamo sulla buona strada. Occhio, perché è evidente che a Berlusconi serve mostrarsi decisivo e a Renzi è utile mostrarsi determinato, avendo ciascuno in animo di usare l’argomento in campagna elettorale (che il secondo vorrebbe fare al più presto, mentre il primo deve ancora capire cosa più gli conviene), ma che dalla riforma del senato passi la riscossa dell’Italia non è una favola, è una barzelletta. Provino a usare il Nazareno come vitaminico per porre il problema di un serio, coerente e accettabile sistema bancario europeo: meno giornalisti capiranno, meno tifoserie si animeranno, ma molti più imprenditori e lavoratori avranno l’impressione che s’appresta il miracolo.