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Imprese e fisco, così proprio non va

Imprese e fisco, così proprio non va

Massimo Blasoni – Metro

Dopo il QE (Quantitative Easing) un nuovo acronimo si aggira per l’Europa: TTR, ovvero Total Tax Rate. Si tratta in soldoni (letteralmente) della percentuale sul fatturato che ciascuna impresa devolve ogni anno allo Stato sotto forma di tasse. Non illudetevi: che in questo settore l’Italia resti purtroppo la matrigna d’Europa lo dimostrano le recenti elaborazioni che abbiamo svolto sui dati riferiti al 2014 contenuti nel rapporto “Doing Business 2015” della Banca Mondiale.
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Trappola greca

Trappola greca

Davide Giacalone – Libero

Alexis Tsipras arriva a Roma da capo del governo. In campagna elettorale accompagnava slogan estremisti con dichiarazioni ragionevoli, assicurando che non aveva alcuna intenzione di portare la Grecia fuori dall’euro. Il guaio è che ci finisce comunque, se non cambia musica. E che, finendoci, ci fa marameo e cancella il debito che ha nei nostri confronti. I contribuenti italiani hanno pagato per salvare la Grecia. Oggi è l’occasione per dirgli: scordatelo. Ed è l’occasione per dire agli alleati occidentali: sappiamo che questo bastione Nato non può essere perso, né abbandonato a capitali potenzialmente ostili, ma noi italiani non possiamo pagare più dei tedeschi e contare meno dei greci.

Cancellare il debito è improponibile. Rimodularlo è razionale. Significa che i tempi si allungano, ma i creditori sono garantiti in sede europea e, sebbene abbiano fatto un cattivo affare, almeno non si vedono costretti a cancellare o decurtare il credito, con gravi conseguenze per la finanza pubblica. La cancellazione, inoltre, innescherebbe il desiderio emulativo, sicché le elezioni sarebbero vinte, in giro per l’Europa e a cominciare dalla Spagna, dai partiti che propongono di fare altrettanto. Basti pensare che c’è chi lo dice anche da noi, ignorando che il 65% del debito lo abbiamo con noi stessi. Rinegoziare, ancora una volta, è possibile. Ma i greci non possono far troppo i furbi. Il loro nuovo governo ha provveduto alle riassunzioni di dipendenti statali, ha mollato il già fiacco contrasto all’evasione fiscale e si propone l’aumento dei salari. Spesa pubblica corrente a go-go. In questo modo fuori dall’euro ci vanno da soli. Una volta usciti scoprirebbero che le loro banche sono tutte fallite e per rianimarle si troverebbero a spendere assai più di quel che costa onorare i debiti già contratti.

Un avvenire di certa e crescente miseria, evitabile solo consegnando la sovranità a capitali che incorporano pretese politiche forti. I greci lo sanno talmente bene che dopo avere votato Tsipras hanno fatto ridefluire i loro soldi verso l’estero. Restare nell’eurozona serve a mantenersi agganciati al mondo ricco e civile, ma comporta la rinuncia all’idea di cancellare i debiti. Non così e non unilateralmente, comunque. Però, e ne ho già scritto, c’è il fatto che la Grecia presidia una posizione geopoliticamente rilevante, considerata l’aria che tira in Medio Oriente. Vero, ma questo, giusto per dirne una, comporta che chi la governa non abbia atteggiamenti ostili verso Israele, altrimenti possiamo considerarli già persi. Le parole di Obama, che segnalano all’Unione europea l’inopportunità di una rottura greca, devono essere lette in questa chiave, oltre che nel quadro del negoziato sul libero commercio.

Il fatto è che se si deve tendere la mano ai greci, per ragioni politiche, e credo sia bene farlo, allora deve essere chiaro che anche noi abbiamo qualche problema da risolvere. Qui facciamo finta di non accorgercene, ma l’intero programma quantitative easing, della Banca centrale europea, si basa sul principio dell’acquisto di titoli del debito considerati affidabili. L’ultimo gradino dell’affidabilità è quello in cui l’Italia si trova. Basta scendere di un capello e piombiamo all’inferno. Siccome la cosmesi dei conti può essere venduta alla Commissione europea, se il compratore accetta di crederci, ma non alle agenzie di rating, ecco che su quel fronte non dobbiamo restare né isolati né scoperti. Questa faccenda non si negozia con Tsipras, ma la sua visita è l’occasione per rendere noto che non ci possono essere valutazioni asimmetriche. Tenercelo nell’euro ci conviene, sotto molti aspetti. Ma guai a farsi spingere con lui verso la spazzatura.

Perché la Grecia può farci male

Perché la Grecia può farci male

Emiliano Brancaccio e Gennaro Zezza – Il Mattino

Non si può dire che tra il 2010 e il 2014 la Grecia non abbia «fatto i compiti» assegnati dalla Troika. La pressione fiscale è cresciuta di cinque punti percentuali rispetto al Pil, la spesa pubblica è diminuita di un quarto e i salari monetari sono caduti di venti punti percentuali. La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia e avrebbero rilanciato la competitività. Ma le sue previsioni sull’andamento del Pil greco sono state ripetutamente smentite: in Grecia il crollo della produzione ha fatto registrare un divario rispetto alle stime di Bruxelles che talvolta ha oltrepassato l’imbarazzante cifra di sette punti di Pil. Anche sul versante della competitività, nonostante l’abbattimento dei salari e dei costi, i risultati sono stati diversi dalle attese: il saldo verso l’estero è migliorato, ma molto più per il tonfo del reddito e delle importazioni che per una ripresa dell’export. Né si può dire che le politiche indicate dalla Troika abbiano stabilizzato i bilanci: il deficit pubblico è stato faticosamente ridotto ma la caduta della produzione ha implicato un’esplosione del rapporto tra debito pubblico e Pil di trenta punti percentuali.

Il caso greco, si badi bene, è estremo ma non costituisce affatto un’eccezione. Esso rappresenta la più chiara conferma della previsione del «monito degli economisti» (www.theeconomistswarning.com) pubblicato nel settembre 2013 sul Financial Times: anziché stabilizzare l’eurozona, le attuali politiche europee alimentano una deflazione da debiti, accentuano i divari tra paesi del Nord e del Sud Europa e in prospettiva affossano le probabilità di sopravvivenza dell’Unione monetaria. Molti commentatori ritengono però che un ritorno alla dracma avrebbe ripercussioni ancor più pesanti sull’economia greca. L’ implicazione che ne traggono è che il nuovo governo guidato da Alexis Tsipras non ha alternative: dopo la passerella in Europa e gli incontri con Renzi e Juncker, alla fine il premier greco dovrà accontentarsi delle modeste concessioni sul debito che Bruxelles sarà disposta a offrire.

Ma è proprio vero che la Grecia non ha carte da giocare? In realtà la letteratura scientifica sui costi e benefici di un eventuale abbandono dell’euro fornisce risultati controversi. Il punto su cui gli economisti concordano è che il successo o il fallimento di un ritorno alla moneta nazionale dipenderebbero in ultima istanza dalla capacità o meno della Grecia di rilanciare la domanda e la produzione interna tenendo in equilibrio il saldo delle importazioni e delle esportazioni verso l’estero. Se riuscisse a controllare il saldo estero, la Grecia ridurrebbe la sua dipendenza dai prestiti internazionali e avrebbe quindi una chance in più per gestire la difficile transizione. Il problema è che la crisi ha distrutto una parte importante della base produttiva del paese, per cui un eventuale stimolo alla domanda di beni rischia di determinare un forte aumento delle importazioni e del deficit estero. Spunti interessanti, a tale riguardo, si possono trarre dal modello per l’economia greca elaborato dal Levy Economics Institute (www.levy.org), che ha dato prova di buone capacità di previsione rispetto alle stime delle principali istituzioni internazionali. Il modello mostra che l’attuale miglioramento del conto estero già fornisce spazi di manovra per una politica espansiva. Entro i vincoli di bilancio europei, tuttavia, lo stimolo sarebbe insufficiente a risollevare il Pil e l’occupazione in modo apprezzabile.

Si consideri allora l’ipotesi che in assenza di un sostegno europeo al rilancio dell’economia ellenica, nel 2015 la Grecia attui un default del debito e un ritorno alla dracma, e adotti una politica di bilancio espansiva fino a 10 miliardi. Con assunzioni pessimistiche sulla svalutazione della dracma e sul suo impatto sui prezzi dei beni importati, il modello prevede un consistente aumento del Pil ma anche un miglioramento delle esportazioni modesto, e nel breve periodo un peggioramento sul versante delle importazioni. La conseguenza sarebbe un deficit verso l’estero fino a cinque miliardi di euro – circa il tre percento del Pil – che andrebbe a ridursi lentamente negli anni successivi. Come si potrebbe gestire la fase di aumento del disavanzo estero? In che modo si potrebbe contenerlo? Ed esisterebbero paesi disposti a finanziario? Si tratta di interrogativi cruciali, per Tsipras ma anche per l’intera Europa. Chi si illude che il caso della Grecia possa essere isolato, è stato già seccamente smentito dall’effetto domino degli anni passati. Se il governo greco venisse messo all’angolo e a quel punto ritenesse di poter gestire una eventuale uscita dall’euro, inevitabili sarebbero le ricadute sull’Italia, sul Sud Europa e sulla tenuta complessiva dell’Unione monetaria.

Meritocrazia, Italia maglia nera in Europa

Meritocrazia, Italia maglia nera in Europa

Cristina Origlia – Il Sole 24 Ore

Non si può gestire ciò che non si misura. Un principio che vale per tutto e, ancor più, per ciò che normalmente non si considera misurabile, quegli asset intangibili che ormai sappiamo incidere tanto quanto quelli tangibili sulle performance delle persone e delle organizzazioni, come su quelle di un Paese. Se il Pil degli altri Stati europei più industrializzati sta riprendendo a crescere, mentre quello italiano fa molta fatica a risalire, una ragione c’è e sta nelle condizioni di contesto, che frenano drammaticamente qualsiasi sforzo di governo. Finora nessuno aveva elaborato un indicatore quantitativo di sintesi di tali condizioni e quindi dello “stato del merito” di un Paese – perché di questo si sta parlando – confrontabile con altre realtà e aggiornabile nel tempo. Messo a punto da un’équipe dell’Università Cattolica, per il Forum della Meritocrazia, il Meritometro – che sarà pubblicato in esclusiva su “L’Impresa”, il mensile di management del Sole 24 Ore, in edicola da mercoledì 4 febbraio – è una novità assoluta tra gli strumenti di valutazione delle principali istituzioni di ricerca socio-economica internazionali. Si basa su sette pilastri, considerati prioritari a livello mondiale: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza, mobilità sociale.

I primi risultati ci dicono che tra 12 Paesi europei, i migliori sono quelli scandinavi, seguiti da Germania, Gran Bretagna e Francia. L’Italia è in ultima posizione, con un punteggio di 23,3 che è meno della metà della Finlandia (67,7), Paese europeo più virtuoso, ma anche inferiore di oltre dieci punti alla Polonia (38,8) e alla Spagna (34,9). «Sono risultati che non ci stupiscono – afferma Giorgio Neglia, coordinatore dell’équipe di lavoro e consigliere del Forum -, ma che vista la fotografia impietosa che danno del nostro Paese, ci auguriamo possano contribuire a indirizzare policy e azioni adeguate. Sappiamo tutti che da noi le “conoscenze giuste” in molti casi contano più delle competenze; per ottenere un appalto, spesso devi avere rapporti privilegiati con la Pa; per avviare un’attività, devi superare ancora iter burocratici eccessivi; per lavorare in alcuni settori devi necessariamente elargire favori. Ciò che non capiamo è quanto questa palude ci stia immobilizzando e quanto la meritocrazia, generando ricchezza e maggiori opportunità, sia un fattore strategico per competere: il capitale umano è il driver dell’economia della conoscenza. Se non crei le condizioni per la sua valorizzazione, muore o se ne va».

Non è un caso che l’Economist abbia dedicato l’ultimo numero al tema “An hereditary meritocracy”, interrogandosi sulle ragioni per cui l’american dream stia svanendo dietro al privilegio di nascere in famiglie facoltose, in grado di assicurare la formazione scolastica migliore ai figli. Un trend pericoloso, che potrebbe dirigere il potere nelle mani di un’élite chiusa su se stessa e, quindi, non aperta a includere le menti migliori del Paese, oltre a creare crescenti disuguaglianze. «Oggi tutto si gioca sulle competenze – commenta Neglia -. Se non ne hai una dotazione significativa, non potrai mai affermarti e il Paese si sarà perso il tuo potenziale intellettuale».

Proprio sui pilastri “libertà”, intesa come possibilità di realizzare i propri obiettivi, e “mobilità sociale” il Meritometro registra le maggiori disparità dell’Italia con gli altri Paesi. Siamo pure indietro, in compagnia di Polonia e Spagna, sul fronte “regole” e “trasparenza”. Differenze sostanziali ci allontanano, poi, dal Nord Europa su “attrattività per i talenti” e “pari opportunità”. L’unico pilastro su cui i risultati non sono drammatici è il “sistema educativo”. «In effetti – conclude Neglia – è un ambito in cui, pur posizionandoci comunque ultimi in classifica, riusciamo a esprimere ancora una certa qualità, che si traduce in ricercatori, manager, designer apprezzati in tutto il mondo, che però, spesso, sono costretti ad andarsene per essere valorizzati. È proprio dalla scuola che bisogna partire per avviare una rivoluzione culturale, che metta il merito al centro di una rinnovata educazione civica da insegnare al pari delle altre materie». Consapevoli che non si tratta di un’operazione di breve periodo, ma che richiede una vision politica e la determinazione necessaria per saper aspettare i risultati.

Ma da solo il QE non può bastare

Ma da solo il QE non può bastare

Massimo Blasoni – Metro

Molte imprese non trovano credito perché spesso le banche non le ritengono in grado di restituire gli eventuali prestiti accordati. Un atteggiamento in parte comprensibile ma che tra il 2001 e il 2014 ha però comportato una riduzione del credito pari a circa 70 miliardi di euro. Il Quantitative Easing (QE) deciso dalla BCE potrà cambiare radicalmente questo stato di cose? Difficile.
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L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

L’Europa è tornata a Keynes. Aspettiamoci il peggio

Carlo Lottieri

I tamburi hanno rullato a lungo, annunciando una radicale inversione di tendenza. A seguito della grave finanziaria che dagli Usa (legata ai suprime e alle politiche monetarie) si è presto trasferita in Europa (dove è in relazione piuttosto con gli alti debiti pubblici), hanno finito per avere la meglio quanti hanno voluto rilanciare il ruolo dello Stato nell’economia e moltiplicarne la capacità d’intervento. Non è difficile capire il perché di tutto ciò. C’erano in gioco interessi, certamente, ma anche fattori culturali. Pure in quella remota provincia dell’Impero che è l’Italia, lontana dai centri nevralgici, moltissimi economisti si sono costruiti sulla macroeconomia keynesiana e per anni hanno sofferto in silenzio. Negli anni passati, infatti, ben pochi si erano rivolti a loro per avere indicazioni sul da farsi.
Ora siamo tornati a Keynes e le prospettive politiche dell’Europa – dalla Grecia di Syriza alla Spagna di Podemos – sembrano proprio legate al caratteristico illusionismo di chi pensa che si possa – al tempo stesso – spendere denaro pubblico e costruire un futuro di crescita. Avvisaglie ce n’erano già state e molte, ben prima che la sinistra radicale conquistasse la scena. Negli scorsi anni nel Regno Unito, di fronte alle difficoltà di un settore finanziario nella bufera, il governo londinese non aveva trovato niente di meglio da fare che nazionalizzare (si pensi alla Northern Rock) e anche negli Stati Uniti si sono seguite queste logiche. I maxi-salvataggi sono stati moltissimi e insieme alla volontà di tenere artificiosamente bassi i tassi di interesse – sulla scia di un Giappone che peraltro è in una crisi di cui non si vede la fine – hanno finito per radicalizzare difficoltà che, altrimenti, si sarebbero già superate.
In questi anni, insomma, si sono accantonati tutti i capisaldi dell’economia liberale: iniettando soldi pubblici nei mercati ed evitando il fallimento delle società malgestite. Oltre a ciò, si è pensato di deresponsabilizzare le varie economie, creando meccanismi di stabilizzazione monetaria che nei fatti scaricano sui virtuosi le cattive scelte di chi, invece, dovrebbe pagare il prezzo dei propri errori. Ora ad Atene si annuncia il blocco delle privatizzazioni e si innalza il salario minimo. Una demagogia antiliberale che in questi anni è stata spesso utilizzata anche dalla destra, si pensi a Sarkozy, ora è gestita con maestria dalle forse dell’altermondialismo entrate nella stanza dei bottoni. Non ne verrà nulla di buono.
Lo statalismo dei moderati (conservatori o laburisti) ha aperto la strada allo statalismo dei radicali: l’estrema sinistra in Spagna e Grecia, e forse l’estrema destra in Francia. E tutto questo mentre Mario Draghi ha deciso di abbandonare ogni politica di rigore monetario e punta di fatto a monetizzare progressivamente i debiti pubblici. Ma è ragionevole ritenere che un’iniezione di denaro pubblico emerso dal nulla possa aiutarci a uscire dal guado? Per nulla. Al contrario, bisogna ripartire dai fondamentali e ricreare quelle condizioni istituzionali che possono rimettere in sesto il mercato. E allora bisogna avere una moneta forte e stabile, una proprietà tutelata, una bassa tassazione, un ordine giuridico che tuteli i contratti e una burocrazia ridotta ai minimi termini. Ma non riusciremo a contenere l’espansione delle regole e dell’intrusione dei funzionari se non ridurremo la pressione fiscale. Poteri che sopravvivono sottraendo il 50% e più della ricchezza devono avere sotto controllo l’intera società. Non ci sarà “sburocratizzazione” dell’Europa senza la fine del fiscalismo selvaggio che oggi domina la scena.
Lasciare Keynes e tornare al mercato, per giunta, significherebbe rimettere in piedi un sistema sanzionatorio. In altre parole, è necessario che chi ha gestito malamente un’azienda fallisca. Ma è pure necessario che la Grecia si faccia carico dei propri errori, che gli italiani si guardino nello specchio. Perché solo se chi sbaglia ne risponde ed esce di scena, il sistema può risanarsi e indurre gli operatori a operare correttamente.
Il problema è che la risposta “più Stato” nasce da un’interpretazione erronea di quanto è successo nell’ultimo decennio. Come per la crisi del ’29, si ritiene di essere dinanzi ad una crollo del capitalismo, ignorando in tal modo il ruolo giocato dalla Fed e dalle politiche pubbliche.
Come hanno evidenziato i commenti successi al quantitative easing della Bce, pochi però sembrano consapevoli che se il costo del denaro non è definito dal mercato, ci sono da attendersi crisi a ripetizione. Qualcuno ricorda la bolla finanziaria, legata non all’immobiliare, ma alle dot-com informatiche? Anche allora si accusarono gli operatori finanziari (certo colpevoli di comportamenti imprevidenti), ma non si puntò il dito contro chi – la banca centrale americana – aveva tenuto una politica iper-espansiva e quindi aveva indotto a compiere quegli investimenti. Di qui all’Atlantico il guaio maggiore sta nel fatto che gli europei si sono innamorati del modello “renano” e del welfare State: dimenticando il micidiale differenziale della crescita che da decenni ci separa dall’America, e questo nonostante lo statalismo e gli errori di Kennedy e Nixon, di Bush e Obama.
L’Europa allora non è un modello, ma invece ha bisogno di ripensarsi alla svelta: ne va della possibilità di avere un futuro.
L’Europa non cresce perché ha deciso così

L’Europa non cresce perché ha deciso così

Innocenzo Cipolletta – L’Espresso

Il primo ministro italiano ha un sogno: la parità tra dollaro e euro. Questo significa una svalutazione di almeno il 20% rispetto alla fine del 2014. E non c’è dubbio che la manovra della Bce denominata Qe (quantitative easing) vada in questa direzione. Certo, una svalutazione dell’euro aiuta una parte delle imprese europee (e italiane) che esportano fuori dell’Europa e quelle che temono la concorrenza da parte di paesi dell’area del dollaro, ossia da parte di molti paesi emergenti. Ma una simile svalutazione ha fondamenta economiche?

Facciamo finta di porre questa domanda a un’ipotetica Agenzia di Rating Interplanetaria (Ari) che guardasse la Terra e volesse dare un voto complessivo al nostro Mondo. Ebbene, un analista dell’Ari non avrebbe difficoltà a verificare che i paesi dell’euro (Eurolandia) hanno conti con l’estero attivi (per circa il 2,5% del Pil), ossia esportano più di quanto importino, mentre gli Usa con il loro dollaro hanno un disavanzo di circa un’analoga entità (2,6% del Pil). Se poi guardassero ai costi salariali di produzione, scoprirebbero che Eurolandia sta riducendo il costo unitario del lavoro rispetto ai suoi concorrenti (-0,7% nel 2014), mentre gli Usa lo stanno aumentando (+0,2%). Non solo, ma Eurolandia ha un disavanzo pubblico sotto la famosa soglia del 3% (2,6%), mentre gli Usa la superano alla grande (4.9% ). Di fronte a questi dati, il nostro analista dell’Ari troverebbe bizzarro che gli europei puntino a una svalutazione dell’euro. «Ma come» direbbe l’analista «qua bisogna fare l’inverso: svalutare il dollaro per correggere squilibri nei conti con l’estero americani, mentre l’euro andrebbe rivalutato per le ragioni opposte». Di fronte a queste tendenze. l’analista sarebbe indotto a degradare il rating della Terra per manifesta incongruenza delle azioni dei maggiori governi del Globo!

Anche noi dobbiamo domandarci perché una della aree più ricche del mondo, quella dell’euro, con oltre 300 milioni di abitanti istruiti, protetti da sistemi sociali avanzati, residenti prevalentemente in zone urbane, sofisticati come consumatori e risparmiatori, con i conti pubblici mediamente in buon equilibrio, per crescere debbano puntare solo sulle esportazioni verso un paese indebitato come gli Usa e verso paesi più poveri come quelli dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. E, per raggiungere questo obiettivo, debbano frenare la propria domanda interna per consumi e investimenti, riducendo i salari della propria popolazione e la spesa pubblica. Possibile che abbiamo costruito l’Europa affinché dipenda dalla crescita della Cina o si difenda dalla competitività dei poveri vietnamiti? Dov’è che abbiamo sbagliato e dove continuiamo a sbagliare?

In realtà, paradossalmente, con l’adozione dell’euro non siamo andati avanti nel costruire un’Europa unita, ma siamo clamorosamente scivolati indietro. Siamo tornati ad essere la somma di 19 piccoli paesi (area dell’euro) che, invece di costruire una nuova istituzione sovranazionale, si sono impegnati a “mettere ordine a casa propria”. L’illusione è che la somma di tanti piccoli paesi competitivi dia luogo a un grande paese competitivo. Ma non sarà così. Per essere rapidamente competitivi non si può che comprimere i costi interni (salari e spesa pubblica) e cercare di invadere gli altri mercati, a cominciare da quelli dei vicini. È quello che ha fatto la Germania prima della grande crisi. Se tutti in Europa avessimo fatto come la Germania, nessuno avrebbe ottenuto quei risultati (neppure la Germania), la domanda interna europea sarebbe crollata ed Eurolandia sarebbe sprofondata in una crisi recessiva ben prima della grande crisi finanziaria.

Ma, poiché continuiamo a ripeterci che la salvezza sta solo nell’essere competitivi, ecco che esultiamo per la svalutazione dell’euro che invece impoverisce i nostri paesi. Il modello di sviluppo dell’Ue non dovrebbe essere quello trainato dalle esportazioni come risultante della somma delle competitività dei singoli paesi, ma quello di un grande paese capace di trovare al suo interno il motore della crescita, per migliorare il patrimonio infrastrutturale. la qualità della vita dei propri cittadini, il livello di sicurezza e di benessere generale. Questo non significa affatto rinunciare ad essere competitivi sui mercati mondiali, ma implica assumersi la responsabilità di generare una crescita mondiale che non può che partire dalle aree più ricche della terra.

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Il “bazooka” di Draghi e la saggezza della piccola Svizzera

Carlo Lottieri

Negli scorsi giorni due avvenimenti, peraltro strettamente collegati, hanno dominato la cronaca economica europea.
Il primo riguarda la Svizzera, dato che la Banca centrale elvetica ha deciso di non difendere più il cambio 1,20 tra euro e franco, con la conseguenza che la seconda valuta si è notevolmente apprezzata fino a raggiungere la parità con la moneta comune europea. La mossa è avvenuta un po’ a sorpresa, ma è pur vero che dal 2012 a oggi erano stati in molti a sostenere che un cambio tanto inadeguato prima o poi si sarebbe dovuto abbandonare. In un mondo caratterizzato da una forte domanda di franchi svizzeri, la difesa di quel livello avrebbe finito per rappresentare un costo troppo elevato per Berna.
Cosa però ha indotto gli svizzeri a cambiare strada? È chiaro che essi avrebbero difeso ancora per un po’ quel cambio del tutto artificioso, cedendo alle pressioni lobbistiche di operatori turistici ed esportatori, se non vi fosse stato l’annuncio di una massiccia azione espansiva da parte della Bce. Dinanzi al cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, che si apprestava a immettere – nel corso del tempo – più di mille miliardi di euro, la Bns ha preso atto della realtà e ha lasciato che il mercato dei cambi facesse il suo corso.
Sull’azione di Draghi si è registrato un (quasi) unanime consenso. Si è detto che – finalmente! – le autorità monetarie prendevano iniziative anti-recessione, che questo denaro fresco avrebbe potuto aiutare gli investimenti e le imprese, che in tal modo gli interessi sul debito pubblico potevano diminuire, con grande beneficio per i conti degli Stati gravati da debiti. E poi si è detto che c’era bisogno di contrastare la deflazione con una “buona” inflazione intorno al 2%. Credo che sia opportuno, invece, essere scettici.
Una buona moneta è una moneta stabile, che facilita gli scambi, permette un’efficace contabilità e viene accumulata in vista di investimenti futuri. Queste sono le funzioni essenziali della moneta, ma nessuna di queste è davvero preservata quando chi la gestisce pretende di manipolarla a piacere. Se nel corso della storia passata il processo evolutivo gestito dagli operatori di mercato ha selezionato l’oro, questo è avvenuto proprio perché si trattava di una moneta non facilmente moltiplicabile con una decisione arbitraria come quella assunta qualche giorno fa da Draghi.
Oltre a ciò, Draghi ha agito – come qualche commentatore tedesco ha evidenziato – a vantaggio dei Paesi meno virtuosi e più indebitati (Italia e Francia, in particolare) e a danno di quelli più virtuosi. Questo “premiare” chi fa debiti non soltanto è ingiusto, ma rappresenta un incentivo ad agire in maniera sconsiderata. Per giunta ora si entra in una fase inflazionistica che, dopo la fiammata iniziale, ci obbligherà a fare i conti con tutte le difficoltà che sono caratteristiche di un’economia con una moneta debole.
L’Europa si può in qualche modo permettere di fare questo, illudendosi che non vi sia un prezzo assai salato da pagare, perché è una grande realtà, che unisce centinaia di milioni di persone. Questo processo sarà distruttivo, ma i nodi verranno al pettine negli anni a venire. Al contrario, la dirigenza della banca centrale elvetica – che pure a lungo non si è mostrata più saggia delle dirigenze delle altre banche centrali (americana, europea, giapponese ecc.) – è stata costretta a invertire la propria direzione dalle limitate dimensioni dell’economia del Paese, che in definitiva conta solo otto milioni di abitanti.
Ancora una volta, la Svizzera ha tratto vantaggio dalla propria “piccolezza”. Se alla fine il buon senso ha prevalso e se ora – di conseguenza – gli svizzeri possono contare su un cambio più affidabile (che può orientare gli attori economici a reimpostare su basi maggiormente solide la loro struttura produttiva) è solo grazie al fatto che non hanno potuto diluire la responsabilità dei propri errori e non hanno potuto proseguire in quella politica monetaria dispendiosa e redistributrice che prima li portava ad acquisire euro.
È questa una buona lezione che, in qualche modo, dovrebbe anche indurci a riflettere maggiormente su cosa sta diventando l’Unione europea e sulle conseguenze negative derivanti dall’espansione del suo potere.
Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Perché condonare il debito alla Grecia farebbe bene anche all’Europa

Martin Wolf – Il Sole 24 Ore

A volte, la cosa giusta da fare è la cosa saggia da fare. È così oggi per la Grecia. Se fatta nel modo giusto, una riduzione del debito andrebbe a beneficio della Grecia e del resto dell’Eurozona. Creerebbe delle difficoltà, ma non tante quante ne creerebbe gettare la Grecia in pasto ai lupi. Tuttavia, raggiungere un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi malauguratamente impossibile: per questo chi pensa che la crisi dell’Eurozona sia finita si sbaglia.

Nessuno può essere sorpreso della vittoria di Syriza in Grecia. La «ripresa» del Paese ellenico è fatta di una disoccupazione al 26 per cento e di una disoccupazione giovanile oltre il 50. Inoltre, il prodotto interno lordo ha perso il 26 per cento rispetto al suo massimo antecrisi. Ma il Pil è un parametro particolarmente inappropriato per dare conto della riduzione del benessere economico, in questo caso. Il saldo delle partite correnti nel terzo trimestre del 2008 era attestato su un -15 per cento del Pil, ma dalla seconda metà del 2013 è in attivo: questo significa che la spesa dei greci per beni e servizi in realtà è calata di almeno il 40 per cento.

Di fronte a una catastrofe del genere, non c’è davvero da stupirsi che gli elettori abbiano rigettato il precedente Governo e le politiche che ha portato avanti (un po’ controvoglia) per conto dei creditori. Come ha detto Alexis Tsipras, il nuovo primo ministro, l’Europa è fondata sul principio della democrazia. Il popolo greco ha parlato. Le autorità costituite devono come minimo ascoltare. Eppure tutto quello che si sente in giro lascia intendere che le richieste per un nuovo accordo su debito e austerità saranno respinte senza neanche pensarci su. Dietro a questa reazione c’è una discreta quantità di stupidaggini moralisteggianti. Due in particolare ostacolano le speranze di una risposta ragionevole alle richieste greche.

La prima stupidaggine è che i greci hanno preso in prestito i soldi e perciò sono tenuti a ridarli indietro, a qualunque costo. Era più o meno lo stesso ragionamento alla base del carcere per debiti. La verità però è un’altra: i creditori hanno la responsabilità morale di prestare soldi con accortezza. Se non vagliano in modo accurato la solvibilità dei loro debitori, si meritano quello che gli succederà. Nel caso della Grecia, le dimensioni dei disavanzi con l’estero, in particolare, erano evidenti. Ed era evidente anche il modo in cui era gestito lo Stato greco.

La seconda stupidaggine è sostenere che dal momento in cui è esplosa la crisi il resto dell’Eurozona sarebbe stato straordinariamente generoso con la Grecia. Anche questo è falso. È vero che i prestiti erogati dall’Eurozona e dal Fondo monetario internazionale ammontano alla smisurata somma di 226,7 miliardi di euro (circa il 125 per cento del Pil), più o meno i due terzi del debito pubblico complessivo, pari al 175 per cento del Pil. Ma la quasi totalità di questi soldi non è andata a beneficio dei greci: è stata utilizzata per evitare la svalutazione contabile di prestiti inesigibili a favore del Governo e delle banche del Paese ellenico. Solo l’11 per cento dei prestiti è andato a finanziare direttamente attività del Governo. Un altro 16 per cento è andato a pagare gli interessi sul debito. La parte restante è stata usata per operazioni di capitale di vario genere: i soldi sono entrati e sono usciti fuori di nuovo. Sarebbe stato più onesto soccorrere direttamente i creditori, ma era troppo imbarazzante.

Come i greci fanno notare, l’abbuono del debito è una pratica normale. La Germania, che nel XX secolo è andata più volte in default sia per quanto riguarda il debito interno sia per quanto riguarda quello con l’estero, ne ha beneficiato più volte. Quello che non può essere pagato non sarà pagato. L’idea che i greci debbano accumulare grosse eccedenze di bilancio per una generazione per restituire il denaro che i Governi creditori hanno usato per salvare i creditori privati dalla loro sconsideratezza è un’assurdità.

Che cosa bisogna fare allora? Si può scegliere tra la cosa giusta, la cosa comoda e la cosa pericolosa. Come sostiene Reza Moghadam, ex direttore del dipartimento europeo del Fondo monetario internazionale, «l’Europa dovrebbe offrire un sostanzioso alleggerimento del debito, dimezzando il debito della Grecia e dimezzando il saldo di bilancio richiesto, in cambio di riforme». Una cosa del genere, aggiunge, sarebbe coerente con l’obbiettivo di un debito notevolmente al di sotto del 110 per cento del Pil, concordato dai ministri dell’Eurozona nel 2012. Ma queste riduzioni non dovrebbero essere effettuate in modo incondizionato. L’approccio migliore è quello delineato dall’iniziativa sui «Paesi poveri pesantemente indebitati» avviata nel 1996 dal Fmi e dalla Banca mondiale. Secondo i criteri fissati da questo programma, l’alleggerimento del debito viene accordato solo dopo che il Paese debitore ha soddisfatto criteri di riforma ben precisi. Un programma del genere sarebbe di grande beneficio per la Grecia, che ha bisogno di una modernizzazione politica ed economica.

L’approccio politicamente comodo è continuare a «estendere e pretendere». Sicuramente ci sono modi per rimandare ulteriormente il giorno della resa dei conti. Ci sono anche modi per ridurre il valore attualizzato degli interessi e dei rimborsi senza ridurre il valore nominale. Tutto questo consentirebbe all’Eurozona di evitare di confrontarsi con le tesi di chi sosterrebbe l’opportunità morale di un alleggerimento del debito per altri Paesi colpiti dalla crisi, in particolare l’Irlanda. Ma un approccio del genere non è in grado di produrre quel risultato onesto e trasparente di cui c’è drammaticamente bisogno.

L’approccio pericoloso è spingere le Grecia verso il default, perché una cosa del genere probabilmente creerebbe una situazione in cui la Banca centrale europea non si sentirebbe più nelle condizioni di operare come Banca centrale della Grecia, e questo obbligherebbe il Paese ellenico a uscire dall’euro. Il risultato per la Grecia sarebbe senza dubbio catastrofico nel breve termine; secondo me potrebbe addirittura bloccare qualsiasi progresso verso la modernità per una generazione. Ma il danno non lo subirebbe solo la Grecia: l’uscita di Atene dimostrerebbe che l’unione monetaria europea non è irreversibile, ma soltanto una parità monetaria particolarmente rigida. Sarebbe il peggio dei due mondi: la rigidità dei cambi fissi senza la credibilità di un’unione monetaria. In ogni crisi futura, ci si chiederebbe se è arrivato il «momento dell’uscita». Il risultato sarebbe un’instabilità cronica.

Creare l’Eurozona è la seconda peggiore idea che i suoi membri abbiano mai avuto, ma la peggiore in assoluto sarebbe smantellare l’Eurozona. Eppure è questo lo scenario che potrebbe realizzarsi se spingessimo la Grecia verso l’abbandono della moneta unica. La via giusta è riconoscere la validità di un alleggerimento del debito condizionato alla realizzazione di riforme verificabili. Un politico rigetterebbe questa idea, uno statista la farebbe propria. Sapremo presto se abbiamo a che fare con politici o con statisti.

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Le illusioni da evitare per ristrutturare l’edificio dell’Europa

Michele Salvati – Corriere della Sera

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti – della Germania soprattutto -, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.

Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato – data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare – mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.

La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?

E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.

Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione – e i Paesi più forti dell’eurogruppo – venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?

Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano – quella rappresentata dalla Lega – protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?

Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.