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E lo Stato non paga 61 miliardi

E lo Stato non paga 61 miliardi

di Leonardo Ventura – Il Tempo

«In questi ultimi 2 armi la Pubblica amministrazione non ha ridotto i tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Sulla base delle ultime stime elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro, lo scorso 31 dicembre (2015 ndr.) questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro». È il bilancio di quanto lo Stato deve ancora dare alle aziende che hanno lavorato per lui. Insomma, quando si tratta di pagare non è certo il più puntuale dei creditori. Una cosa che ovviamente fa infuriare i contribuenti che spesso, per versamenti fatti con qualche giorno di ritardo si vedono recapitare multe salate.

Nel 2014 il debito commerciale della Pubblica amministrazione italiana nei confronti dei fornitori privati ammontava a circa 70 miliardi di euro. Un’informazione preziosa, dal momento che dallo scorso 30 gennaio la «Piattaforma per la certificazione dei crediti» del Mef non ha più aggiornato il monitoraggio del pagamento dei debiti maturati dalla Pa al 31 dicembre 201 All’epoca il Governo sosteneva di aver pagato 36,5 miliardi su un totale di 74,2 miliardi di euro: poco meno della metà del dovuto. Il dato non fa che confermare quanto denunciato già a febbraio dal Centro studi ImpresaLavoro e che fa parte del buon senso economico: i debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che beni e servizi vengono forniti di continuo. Pertanto liquidare, solo in parte, i debiti pregressi di per sé non riduce affatto lo stock complessivo: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti che si creano risultino inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Ne consegue altresì che il ritardo del Governo nel pagamento di questi debiti sia costato nel 2014 alle imprese italiane la cifra di 6,1 miliardi di euro. Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra Pubblica amministrazione (così come certificato da Bankitalia), l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti. Elaborando i dati trimestrali di Bankitalia, ImpresaLavoro ha stimato che questo costo aggiuntivo per gli interessi sia stato nel 2014 pari all’8,97% su base annua (in leggero calo rispetto al 9,10% nel 2013).

A questa grave situazione se ne aggiunge anche un’altra che potenzialmente sarebbe ancora più grave: se lo Stato italiano dovesse infatti adeguarsi alla direttiva europea sui pagamenti e riconoscesse ai creditori gli interessi di mora così come stabiliti a livello comunitario, le casse dello Stato sarebbero gravate da un esborso di ulteriori 2,4 miliardi di euro. Per pagare i suoi fornitori lo Stato italiano impiega infatti 41 giorni in più della Spagna, 50 giorni in più del Portogallo, 82 giorni in più della Francia, 115 giorni in più della Germania e 120 giorni in più del Regno Unito.

 

Indice della Libertà Fiscale 2016

Indice della Libertà Fiscale 2016

indicebIntroduzione

Nel 2015 ImpresaLavoro, avvalendosi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, ha elaborato il primo Indice della Libertà Fiscale. Un lavoro, questo, che si proponeva di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente è difficilmente comprensibile senza una riflessione seria sul peso che lo Stato ha assunto nella vita dei cittadini e su quanto il prelievo pubblico sulla ricchezza prodotta rischi di essere il vero tratto che distingue la Vecchia Europa da blocchi di paesi decisamente più dinamici e competitivi del nostro.

Nella versione 2016 dell’Indice della Libertà Fiscale, si è scelto di allargare il numero dei paesi esaminati, passando dai dieci ritenuti rappresentativi del 2015 ai 29 di quest’anno. L’analisi di un numero così ampio di economie permette, rispetto a quanto fatto nel 2015, di allargare lo sguardo e di monitorare efficacemente la questione fiscale in pressoché tutti i paesi che compongono il continente geografico europeo. Non solo: emergono in questo modo anche le differenze tra chi sta dentro il sistema dell’Unione Europea e chi sta fuori, tra i paesi che hanno adottato l’Euro e quelli che, invece, hanno scelto di mantenere la propria autonomia monetaria.

Metodologia

L’Indice della Libertà Fiscale è stato realizzato muovendo da sette diversi indicatori, ognuno dei quali analizza e monitora un aspetto specifico della questione fiscale. Il Paese migliore in un determinato indicatore riceve il punteggio massimo attribuito a quel settore. Alle altre economie viene attribuito un punteggio secondo il meccanismo della proporzionalità inversa: più un Paese si allontana dal migliore, meno punti riceve. Si tratta di una scelta che punta a privilegiare le buone esperienze, anzi: le migliori esperienze, presenti in Europa. Questo perché disegnare a tavolino valori di riferimento e su questi analizzare gli scostamenti da un teorico “sistema fiscale perfetto” portava con sé il rischio di traguardarsi costantemente ad un mondo che non c’è. Si è preferito, invece, partire dai livelli di libertà fiscale già raggiunti e definire quelli come benchmark: se in sette economie europee è possibile contenere la tassazione sulle imprese sotto il 30% degli utili prodotti, allora significa che si può ragionevolmente fare anche negli altri paesi.

La somma dei singoli indicatori restituisce, per ogni economia esaminata, il tasso di libertà fiscale elaborato su base 100. Più alto è il valore ottenuto da uno Stato (più vicino a 100) , più i suoi cittadini sono liberi dal punto di vista fiscale. Il ranking che ne deriva divide i paesi in quattro macro aree: paesi fiscalmente molto liberi (oltre 70 punti su 100), paesi fiscalmente liberi (tra 60 e 69 punti), paesi fiscalmente non del tutto liberi (tra 50 e 59 punti), paesi fiscalmente oppressi (sotto i 50 punti).

Gli indicatori

I primi due indicatori, numero di procedure e numero di ore necessarie a pagare le tasse, si riferiscono al carico burocratico che le imprese devono sostenere per essere in regola con il Fisco del loro paese. Questi indicatori attribuiscono al paese migliore 10 punti.

Il terzo indicatore analizza il Total Tax Rate cui sono sottoposte le imprese dei paesi esaminati. Con questo indicatore si identifica la quota di profitti che una media azienda paga ogni anno allo stato sotto forma di tasse e contributi sociali. Al paese con il Tax Rate più basso sono attribuiti 20 punti.

Il quarto indicatore, Costo per pagare le tasse, stima quanto una media impresa debba spendere in procedure burocratiche per essere in regola con il Fisco. Il tempo che le aziende occupano per sbrigare pratiche burocratiche si traduce in un costo diretto, in questo caso di personale, che incide negativamente sulla competitività di un sistema. Si tratta di una sorta di tassa sulle tasse: il peso dello Stato nelle attività imprenditoriali, infatti, va ben oltre il solo valore nominale del prelievo fiscale. Anche il tempo perso è monetizzabile e rende il sistema fiscale di riferimento più o meno libero. Al paese migliore in questo indicatore sono attribuiti 10 punti.

Il quinto indicatore, la Pressione Fiscale in percentuale del Prodotto Interno Lordo, assegna al miglior paese ben 30 punti. Si tratta dell’indicatore più importante, sia in termini di punteggio che sostanziale, perché misura le dimensioni della tassazione complessiva sulla ricchezza prodotta da un paese.

Il sesto indicatore è sempre riferito alla Pressione Fiscale in percentuale al Pil, vista qui in termini dinamici e non statici, e misura quanto il prelievo complessivo è cresciuto dal 2000 ad oggi. E’ un indicatore particolarmente rilevante perché traccia gli sforzi che un paese sta compiendo (o non sta compiendo) per ridurre il peso dell’oppressione tributaria sui propri cittadini. Per capire l’importanza di questo tipo di indicatore basti riflettere sul fatto che un paese come la Svezia, considerato da tutti come la patria di tasse elevate in cambio di migliori servizi, dal 2000 ad oggi ha tagliato la sua pressione fiscale di quasi 6 punti percentuali di Pil. Al miglior paese in questo indicatore vengono attribuiti 10 punti.

Settimo e ultimo indicatore è quello relativo alla pressione fiscale sulle famiglie, intesa come la percentuale di tasse sul reddito familiare lordo che paga un nucleo tipo (due genitori che lavorano con due figli a carico). Al paese più “family friendly” sono attribuiti 10 punti.

Per realizzare questo indice sono stati utilizzati i database Eurostat e Doing Business (Banca Mondiale).

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Indice delle Libertà Fiscali 2016. Numero di procedure necessarie per pagare le tasseIndice02

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Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Per 11 volte in 14 anni il governo ha previsto una crescita del Pil che non c’è stata

Tredici errori su quattordici: con 11 previsioni sbagliate per eccesso e soltanto due per difetto. Il Centro studi ImpresaLavoro ha preso in esame le previsioni di crescita del Pil (riferite all’anno successivo) contenute nei principali documenti di programmazione economica del governo, dal 2002 al 2015. E le ha confrontate con i numeri effettivi della variazione del Prodotto interno lordo certificati dall’Ocse.

Dai dati raccolti da ImpresaLavoro emerge con chiarezza come – a parte che in tre casi (2006, 2007 e 2010) – le previsioni del governo siano sempre state troppo ottimistiche. Il caso più eclatante è quello che riguarda il 2009, quando a fronte di una previsione di crescita dello 0,9% effettuata un anno prima, il Pil è in realtà calato di 5 punti percentuali e mezzo. Ma non è stata soltanto la crisi a mettere fuori strada gli estensori dei documenti di programmazione economica: nel 2003, invece di crescere del 2,9% il Pil è salito soltanto dello 0,2%; nel 2012, invece di crescere dell’1,3% è addirittura calato del 2,8%. E scarti sostanziali tra previsioni e realtà – con le previsioni sballate sempre per eccesso – sono arrivati nel 2002 (-1,9%), 2008 (-2,9%), 2011 (-1,4%), 2013 (-2,2%) e 2014 (-1,7%).

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Questa distonia tra le ipotesi del governo e i numeri dell’economia reale non può essere spiegata soltanto con una volatilità intrinseca che rende le previsioni molto complicate. Se questa fosse l’unica spiegazione, infatti, alle frequenti sopravvalutazioni dei dati si sarebbe dovuta accompagnare anche una sottovalutazione meno rara di quanto in realtà è accaduto. Stupisce in particolar modo il fatto che, anche durante i periodi di crisi, nessun documento di programmazione economica abbia mai previsto una crescita negativa (che putroppo, invece, si è verificata in 5 anni su 14).

Fatto 100 il Pil del 2001, se le previsioni del governo si fossero avverate, il Prodotto interno lordo del nostro Paese sarebbe dovuto crescere del 23,75% rispetto a quindici anni fa. In realtà, invece, il Pil italiano è fermo al 97,84% di quello del 2001.

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«Questi scostamenti dalle previsioni sono preoccupanti – dichiara Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – perché è proprio su ipotesi di questo tipo, spesso per di più pluriennali, che si basano le simulazioni di sostenibilità del nostro debito pubblico e del nostro sistema pensionistico. Ma se i governi non riescono a fare previsioni accurate per l’anno successivo, come possiamo pensare che ci riescano con orizzonti temporali più ampi?».

 

Investimenti pubblici giù: crescita a rischio

Investimenti pubblici giù: crescita a rischio

IL GIORNALE del 17 febbraio 2016

L’Italia sembra prendersi cura del cuore della propria economia alle prese con la crescita mancata abbassando i livelli di colesterolo buono. Il tutto mentre il premier Matteo Renzi, nonostante la doccia gelata della frenata del Pil a fine anno, continua a vedere un Paese «in crescita». A testimoniare una strategia non esattamente lungimirante del governo sono i dati Eurostat elaborati in uno studio da ImpresaLavoro, che rimarcano come, tra l’epicentro della crisi e il 2014, l’Italia abbia lavorato con l’accetta sulla spesa pubblica per investimenti, ostacolando lo sviluppo invece di concentrare la spendíng review su settori e centri di spesa che non contribuiscono certo all’uscita dalla crisi.

Le cifre sono impietose. Nel 2009 gli investimenti pubblici ammontavano a 54,1 miliardi di euro, ma in cinque anni sono scesi di poco meno di 20 miliardi, attestandosi, nel 2014, a 35,6 miliardi. Un calo del 34,1 per cento, in conseguenza del quale solo il 2,2 del Pil italiano viene insomma speso in investimenti, in caduta libera anche rispetto al rapporto con il prodotto interno lordo: -1,2 per cento sul 2009. È vero però che il trend non è solo italiano, ed è comune al Vecchio continente. L’Eurozona ha visto una contrazione della spesa per investimenti pubblici di 62 miliardi e mezzo di euro, mentre la frenata nell’Unione europea è più contenuta (-47,770 miliardi). Ma il «taglio» italiano pesa per il 38 per cento del totale Ue e per il 30 per cento dell’area Euro, e anche il calo nel rapporto tra investimenti e Pil da noi è superiore alla media europea (-0,9 nell’Eurozona, -0,8 nell’Europa dei 28).

Nel dettaglio, in valore assoluto il colpo d’ascia agli investimenti pubblici è inferiore solo alla Spagna (-33,3 miliardi), mentre il calo della spesa in rapporto al Pil all’1,2 per cento ci vede appaiati alla Grecia. Oltre a Madrid, sul fronte della spesa pubblica per investimenti hanno fatto peggio di noi solo Cipro, Portogallo, Croazia, Irlanda, Romania, Estonia e Repubblica Ceca. Germania, Francia e Gran Bretagna, invece, ci precedono, tutte con un indice di investimenti rispetto al Pil migliore delle medie europee.

Che il punto sia decisivo per l’uscita dalla crisi lo ha rimarcato anche il presidente della Bce Mario Draghi, ricordando come la blanda ripresa finora abbia avuto proprio la banca centrale dell’Ue come unico pungolo: «Circa la metà della ripresa degli ultimi due anni – ha spiegato Draghi due giorni fa alla Commissione per gli Affari economici del Parlamento europeo – è stata dovuta alla nostra, unica, politica di stimolo. L’altra metà della crescita del Pil della zona euro è stata dovuta al basso prezzo del petrolio». Gli investimenti invece «restano deboli», ha ricordato Draghi, auspicando che «le politiche di bilancio» si preoccupino di fare la loro parte nel sostenere la ripresa «tramite investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il messaggio, forte e chiaro, sembra diretto a Matteo Renzi. Non si tagliano i costi burocratici e di gestione, facendo così gli interessi delle caste pubbliche, mentre si toglie respiro alle imprese. Quello che l’Italia al tempo di Renzi sta perdendo è il futuro.

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Dal 2009 al 2014 l’Italia ha tagliato il 34,1% della spesa pubblica per investimenti

Lunedì scorso Mario Draghi ha sostenuto che la ripresa nell’Eurozona è «moderata» e sostenuta principalmente» dalle politiche di stimolo della Bce. «È sempre più chiaro – ha concluso – che i governi dovrebbero sostenere questa ripresa con investimenti pubblici e una tassazione più bassa». Il suo monito arriva in un contesto storico nel quale, nell’Unione Europea, il calo degli investimenti pubblici è di 47,7 miliardi rispetto ai massimi registrati nel 2009 (454,9 miliardi di euro).  Nell’area euro, invece, il calo è ancora più marcato: dai 337,7 miliardi del 209 si è passati ai 275,3 miliardi del 2014. In termini reali siamo quindi tornati ai valori del 2005, con investimenti pubblici pari 2,9% del Pil nell’Unione Europea a 28 (rispetto al 3,7% del 2009).

L’Italia ha tagliato del 34,1% la spesa pubblica per investimenti, passando dai 54,1 miliardi del 2009 ai 35,6 miliardi del 2014, con una riduzione di circa 18,5 miliardi di euro. Tradotto su basi relative, l’Italia spende ora solo il 2,2% del Pil per investimenti pubblici, con un calo dell’1,2% rispetto al 2009. Si tratta del valore più basso fatto registrare dal 2004 ad oggi. Dal 2009 al 2014 la spesa pubblica per investimenti è calata ogni anno.

Si confermano le differenze tra i paesi cosiddetti “virtuosi” e quelli periferici dell’Eurozona. Tra i paesi dell’aerea euro che hanno ridotto in misura più marcata la spesa pubblica per investimenti, insieme all’Italia, compaiono infatti la Spagna (-3,0% in rapporto al Pil), Cipro (-2,2%) e Portogallo (-2,1%), con la Grecia appaiata all’Italia (-1,2%) ma in ripresa rispetto al 2013 (-2,0%). Tendenza positiva, invece, per paesi dell’area Euro come Finlandia (+0,2% sul Pil) e Malta (+1,4%), mentre il calo è più limitato in Germania (-0,2%), Austria (-0,4%) e Francia (-0,6%). Al di fuori dell’Eurozona, si va dal +2,1% dell’Ungheria al -1,8% della Croazia, passando per il +0,8% della Danimarca, il -0,7% del Regno Unito e la sostanziale invarianza della Svezia (0,0%).

«Le parole del governatore Draghi mettono il dito nella piaga della mancata crescita economica del nostro Paese» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Da noi si continua insomma a voler seguire una ricetta tanto logora quanto perdente: ostacolare lo sviluppo delle imprese, tagliare gli investimenti pubblici, rinviare sine die ogni azione politica di spending review (nonostante da tempo siano stati ben individuati i centri di spesa da eliminare) e consentire un aumento costante incontrollato della spesa pubblica corrente».

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Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

Spesa pubblica: solo l’1,03% del Pil italiano a favore di famiglie e bambini

L’Italia investe appena l’1,03% del proprio Prodotto interno lordo nella spesa pubblica a favore di “famiglie e bambini”. Meno di Portogallo, Malta e Cipro; meno della metà di Ungheria, Austria e Bulgaria; meno di un terzo di Norvegia e Finlandia; un quinto rispetto alla Danimarca. È questo il risultato di una ricerca del Centro Studi “ImpresaLavoro”, su dati Eurostat, che ha preso in esame la categoria “family and children” nella classificazione della spesa pubblica Cofog (Classification Of Function Of Government), lo standard internazionale adottato dal Sec95 (sistema europeo dei conti nazionali e regionali).

In pratica si tratta di quella parte di spesa pubblica destinata a:  protezione sociale a favore di famiglie con figli a carico; indennità o sovvenzioni per maternità, nascita di figli o congedi per motivi di famiglia; assegni familiari; sovvenzioni per famiglie con un solo genitore o figli disabili; sistemazione e vitto fornito a bambini e famiglie su base permanente (orfanotrofi, famiglie adottive, ecc.); beni e servizi forniti a domicilio a bambini o a coloro che se ne prendono cura; servizi e beni di vario genere forniti a famiglie, giovani o bambini (centri ricreativi e di villeggiatura).

Ordinando il totale della spesa di ogni singolo Paese in percentuale al Pil, l’Italia si piazza – con il suo 1,03% – in 24° posizione (sulle trentuno nazioni prese in considerazione da Eurostat), nettamente al di sotto della media dell’Unione europea (1,71%) e dell’area euro (1,64%). Spendono meno di noi per famiglie e bambini la Svizzera (0,55%), la Spagna (0,61%) e la Grecia (0,67%). Spendono di più, invece, le altre grandi economie del continente: Germania (1,55%), Regno Unito (1,65%) e Francia (2,50%). Molto distanti, infine, i paesi scandinavi: Svezia (2,54%), Norvegia (3,32%), Finlandia (3,34%) e Danimarca (5,00%).

La posizione dell’Italia in questa classifica cambia leggermente se, invece che come percentuale del Pil, la spesa è calcolata pro-capite. In questo caso il nostro Paese sale dal 24° al 17° posto (sempre su 31). A fronte di una spesa media di circa 458 euro all’anno nell’Unione europea (che sale a 481 euro nell’area euro), in Italia ci fermiamo a circa 277 euro. Un dato molto distante da quello delle altre economie avanzate del continente – Francia (807 euro), Germania (533 euro), Regno Unito (528 euro) – con la sola eccezione della Spagna (135 euro). Sempre lontani anni-luce i paesi scandinavi: Svezia (1.157 euro all’anno), Finlandia (1.251 euro), Danimarca (2.278 euro) e Norvegia (2.582 euro).

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Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

Dal 2008 al 2013 sono emigrati più di mezzo milione di italiani

ANALISI
Il perdurare della crisi economica costringe un numero crescente di nostri connazionali a trasferirsi stabilmente oltre confine alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Dal 2008 al 2013 gli emigrati italiani sono stati complessivamente 554.727, di cui 125.735 soltanto nel 2013 con una crescita rispetto al 2008 del 55% su base annua. Il 39% di questi italiani (214.251, di cui 47.048 soltanto nel 2013) sono giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni. Anche in questo caso si segnala un trend in rapida crescita: rispetto al 2008 i giovani che hanno scelto di trasferirsi oltre confine sono aumentati del 40%. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro su elaborazione dei dati Eurostat.
TABELLA IMMIGRAZIONE
In questi ultimi sei anni la destinazione più gradita è stata la Germania (che ha accolto 59.470 nostri connazionali, di cui 13.798 solo nel 2013), seguita dal Regno Unito (51.577 emigrati, di cui 14.056 solo nel 2013), dalla Svizzera (44.218 emigrati, di cui 10.537 solo nel 2013), dalla Francia (38.925 emigrati, di cui 9.514 solo nel 2013) e dalla Spagna (25.349 emigrati, di cui 4.537 solo nel 2013). Fra i giovani di età compresa tra i 15 e 34 anni la meta preferita è diventata invece il Regno Unito (27.263 emigrati, pari al 53% del totale), che precede in questa classifica la Germania (24.445, pari al 41% del totale), la Svizzera (16.653), la Francia (14.682) e la Spagna (11.377).
Nello stesso periodo di tempo molti altri nostri connazionali hanno invece preferito stabilirsi negli Stati Uniti: 26.072 italiani (fra questi 9.104 giovani), di cui 5.560 soltanto nel 2013. Sempre dal 2008 al 2013, altre mete di destinazione dei nostri emigrati sono state nell’ordine il Belgio (12.064 connazionali, di cui 4.457 giovani), l’Albania (9.470, di cui 3.442 giovani) e la Slovenia (1.629, di cui 351 giovani).
Tabella emigrazioneper paese
[clicca per ingrandire]
“I nostri emigranti – ha spiegato Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – scelgono in larghissima parte di continuare a vivere all’interno dell’Unione europea, spostandosi in Paesi che garantiscono loro un sistema formativo e un mercato del lavoro decisamente superiori a quelli italiani”.

 

 

Il sospetto ricorrente

Il sospetto ricorrente

Sergio Romano – Corriere della Sera

Fra i dati sull’Italia, elaborati periodicamente dall’Istat e da Eurostat, manca quello sulla fiducia. Se esistesse, scopriremmo che i nostri partner, indipendentemente dalle pubbliche dichiarazioni dei loro governi e dai comunicati ufficiali alla fine di un incontro bilaterale, non credono nel nostro Paese. Alcune ragioni sono storiche: le guerre fatte a metà, i cambiamenti di campo, il continuo divario fra il Nord e il Sud, gli impegni non rispettati, il familismo amorale, la giungla burocratica, la democrazia clientelare, il peso della criminalità organizzata sulla vita politica e sociale. Altre sono più recenti e più importanti. Come tutti i membri dell’Unione europea, l’Italia è passata attraverso le crisi della modernità, da quella sociale e generazionale del ’68 a quella delle nuove tecnologie, dal ritorno ai mercati dopo il declino dello Stato assistenziale negli anni Ottanta alla crisi del credito nel primo decennio del nuovo secolo.

Gli italiani, a tutta prima, sembrano consapevoli della necessità di cambiare, ma il loro sistema politico, a differenza di quelli dei partner maggiori, ritarda i mutamenti o finisce per annegarli in un diluvio di norme insufficienti e contraddittorie. Le Commissioni bicamerali per una nuova Costituzione muoiono senza avere prodotto alcun risultato. Berlusconi fa promesse che non verranno mantenute. Ogni riforma, da quella del lavoro a quella della giustizia, trova sulla sua strada un partito della contro-riforma, composto da corporazioni che difendono i loro privilegi chiamandoli ampollosamente «diritti acquisiti». Le leggi, quando vengono approvate, sono redatte in modo da produrre risultati parziali e mediocri. Da Tangentopoli a oggi sono passati ventidue anni: una generazione perduta.

Vi sono momenti in cui i nostri partner sarebbero felici di credere nell’Italia. Mario Monti è stato accolto entusiasticamente. Enrico Letta, agli inizi del suo governo, godeva di molte simpatie e di grande comprensione. Ma la rapidità con cui entrambi sono stati espulsi dal sistema politico trasforma il credito iniziale in nuovo pessimismo e in più radicale sfiducia. Matteo Renzi ha acceso qualche nuova speranza, ma il modo in cui saltella da un annuncio all’altro e sembra essere continuamente alla ricerca di un nuovo obiettivo, a maggiore portata di mano, comincia a creare diffidenza e scetticismo anche negli ambienti che lo avevano salutato come il Tony Blair italiano.

Niente è irreparabile. In un libro recente, apparso in Italia presso il Mulino e in Inghilterra presso la Oxford University Press, un economista, Gianni Toniolo, dimostra che l’Italia è quasi costantemente cresciuta dagli anni Novanta dell?Ottocento agli anni Novanta del Novecento. Ma non si cresce, nel mondo d’oggi, senza la fiducia dei mercati internazionali e i capitali degli investitori stranieri. E non si crea fiducia se il governo non riesce a sconfiggere con qualche cambiamento reale e immediatamente visibile, quei partiti della contro-riforma che sono da troppo tempo i veri padroni dell’Italia.  

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani

SINTESI DEL PAPER

L’analisi dei tassi di occupazione degli stranieri in Europa ci consegna un dato davvero curioso: l’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea in cui gli stranieri sono occupati più e meglio dei cittadini nazionali. Lo rivela un’elaborazione del Centro Studi “ImpresaLavoro” sulla base dei dati Eurostat del 2013.
L’Italia sconta un basso tasso di attività tra i suoi cittadini residenti (59,5%), di circa 9 punti inferiore alla media europea. Quel che colpisce maggiormente è però il fatto che, all’interno di un mercato del lavoro così complesso, il nostro Paese sia uno dei pochi in grado di garantire agli stranieri residente un tasso di occupazione migliore (61,9%) di quello che riescono a far segnare i cittadini italiani. Si tratta di un dato in controtendenza con tutti i maggiori Paesi dell’Europa a 28. Ad esempio il confronto tra il tasso di occupazione dei francesi (70,6%) e quello degli stranieri residenti in Francia (55,9%) segna un -14,7%; quello tra il tasso di occupazione dei tedeschi (78,7%) e degli stranieri residenti in Germania (65,0%) segna un -13,7%; quello tra il tasso di occupazione degli spagnoli (59,5%) e degli stranieri residenti in Spagna (52,8%) segna un -6,7%; quello tra il tasso di occupazione dei britannici (75,4%) e degli stranieri residenti nel Regno Unito (70,4%) segna un -5,0%; quello tra il tasso di occupazione dei greci (53,4%) e degli stranieri residenti in Grecia (50,3%) segna un -3,1%.
Il dato è particolarmente significativo se si osserva il confronto relativo ai cittadini extracomunitari. Solo altri tre paesi – oltre all’Italia – hanno tassi di occupazione più alti tra la popolazione extracomunitaria rispetto a quanto avviene per i propri connazionali. In Svezia il tasso di occupazione dei soggetti extracomunitari è più basso del 31% rispetto a quello degli svedesi. E il dato è molto simile anche nelle economie che sono per noi un benchmark naturale: nel Regno Unito la differenza è del 13,5%, in Germania del 20,2%, in Francia del 22%, in Spagna del 9,5%, in Grecia del 3,7%. In media, i paesi dell’Unione a 28 registrano tassi di occupazione tra i loro cittadini di circa 13 punti percentuali superiori a quelli degli extracomunitari residenti. L’Italia, come detto, fa eccezione e seppur di poco il tasso di occupazione dei cittadini extracomunitari (60,1%) supera quello dei cittadini italiani (59,5%) ponendo il nostro Paese al quarto posto in Europa, dietro soltanto a Cipro, alla Repubblica Ceca e – di pochissimo – alla Lituania.
Anche i soggetti che vengono in Italia da altri paesi UE sembrano avere una maggior capacità di collocamento rispetto ai nostri connazionali. Il tasso di occupazione degli stranieri comunitari nel nostro Paese (65,8%) è infatti di ben 6,3 punti superiore a quello dei cittadini italiani (59,5%). Davanti a noi, in Europa, ci sono solo la Polonia e la Slovacchia. Anche in questo caso, larga parte delle economie continentali avanzate riesce ad occupare meglio i propri connazionali che gli stranieri comunitari con differenziali che vanno dal 15% della Slovenia al 3,5% della Germania, passando per lo 0,5% della Francia e l’1,3% della Spagna. Fa eccezione, in questo caso, la Gran Bretagna che riscontra un tasso di occupazione tra i cittadini comunitari di quasi 4 punti superiore a quello dei sudditi di Sua Maestà.
Scarica gratuitamente il Paper con tutte le tabelle dati elaborate dal Centro studi ImpresaLavoro “Lavoro in Italia: gli stranieri trovano un’occupazione più facilmente rispetto agli italiani“.
Rassegna stampa:
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Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.