federico fubini

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Disoccupati nascosti e produttività a terra, così il Paese perde colpi

Federico Fubini – La Repubblica

Uno dei più bassi livelli di occupazione al mondo, dentro uno dei sistemi che protegge di più il posto di chi un impiego permanente lo ha. Una disoccupazione giovanile senza paragoni con qualunque altro Paese, in proporzione alla quota generale dei disoccupati. Un aumento di stipendi e salari più rapido che in Germania, unito a un crollo dei consumi che invece in Germania continuano ad aumentare.

Più che un mercato del lavoro, lo si potrebbe definire un suk di contraddizioni. Gli obiettivi e gli esiti delle norme che governano l’impiego sembrano procedere in direzioni opposte: all’impegno all’equità e al benessere iscritto nelle leggi corrisponde una fabbrica di esclusione, inattività e impoverimento chiamata oggi Repubblica italiana. Certo non è solo colpa delle regole, ma a sei mesi da quando il governo varò la legge delega sul lavoro uno dei suoi obiettivi è chiaro: arrivare a una situazione diversa da questa. I dati dell’Ocse sull’occupazione e quelli di Eurostat sull’andamento sulle remunerazioni fanno sospettare che dev’esserci qualcosa di profondamente sbagliato in Italia. Difficile altrimenti capire perché il quadro sia peggiore anche rispetto ad altri Paesi colpiti dalla crisi. O perché risultino false alcune delle credenze che, in questo Paese, molti considerano semplicemente ovvie.

Una di queste è che l’Italia ha una disoccupazione elevata, ma molto meno della Spagna e semmai come la Francia. Questa opinione deriva dal fatto che in Spagna la disoccupazione ufficiale è al 24,5%, in Italia al 12,6% e in Francia al 10,3%. Benché non venga mai detto, però, questi dati non sono paragonabili perché non lo sono le istituzioni alla loro base: in Spagna tutti i disoccupati godono di un sussidio e dunque hanno interesse a dichiararsi tali, mentre in Italia spetta quasi solo ai cassaintegrati, i quali però per le statistiche sono «occupati». Gli altri, il grosso dei senza lavoro, spesso non si iscrivono agli uffici per l’impiego perché lo considerano inutile.

Un quadro più realistico viene dai dati dell’Ocse sulla popolazione attiva in proporzione al totale dei residenti: Italia e Spagna sono entrambe appena al 36%, cioè lavora uno su tre e fra solo la Grecia è di poco sotto; la Francia è molto sopra, al 45%. Se poi si guarda alla popolazione attiva fra quella in età da lavoro (fra i 15 e i 64), la Spagna è al 74%, la Grecia al 67,3% e l’Italia è staccata al 63,5%. In altri termini, questi numeri dicono che i dati dell’Istat presentano un quadro della disoccupazione più roseo rispetto alla realtà. La popolazione attiva in Italia è pari o persino minore rispetto a Paesi con tassi di disoccupazione doppia o più. Il sistema produce più esclusi di quanto non raccontino i numeri ufficiali.

Disattenzione c’è spesso su un altro aspetto nel quale l’Italia spicca per il risultato peggiore al mondo: la sproporzione, a sfavore dei giovani, fra la quota totale dei senza lavoro e quelli delle nuove generazioni. In nessun altro Paese la percentuale dei disoccupati giovani (fino a 25 anni) è così alta rispetto al totale: nessun altro Paese penalizza tanto, in proporzione, le ultime generazioni. In Italia il tasso di disoccupazione giovanile è 3,4 volte più alto di quello generale, più del triplo; in qualunque altro Paese Ocse, Spagna, Grecia, Portogallo inclusi, tende invece ad essere il doppio o poco più.

Altrettanto falsa (e diffusa) del resto è la credenza che spiega il recente successo della Spagna nel creare molti più posti dell’Italia con il fatto che quelli iberici sono soprattutto precari. È vero il contrario: la Spagna ha sì un’incidenza più alta di contratti a tempo, il 23% contro il 13% dell’Italia, ma dall’anno duemila non fanno che diminuire sul totale dei contratti mentre è proprio in Italia che da allora sono sempre in aumento, anno dopo anno.

C’è poi un’ultima «verità» italiana, che i dati di Eurostat non confermano: maggiori aumenti di salari e stipendi sostengono i consumi, dunque giovano all’economia. Il confronto con la Germania sembra indicare che non è così. Nei sedici anni da quando nel 1997 furono fissate le parità di cambio in vista dell’euro, i salari nell’industria manifatturiera in Italia sono saliti del 54,5% e in Germania del 39,8%; gli statali italiani hanno avuto aumenti del 48,6% e i tedeschi del 30%. Nel frattempo però la produttività in Germania è cresciuta del 50%, mentre in Italia solo del 10%. Il risultato è che le imprese italiane hanno reagito a questa pressione sui costi chiudendo o espellendo dipendenti, al punto che in questo Paese ormai lavora appena una persona su tre. In Germania invece lavora più di una persona su due, perché le imprese hanno assunto, e lì dal 2008 i consumi sono saliti del 6% mentre qui sono crollati del 13%. Se vuole davvero riformare il lavoro, questo governo avrà molto da fare.

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Privatizzare: molte parole, nessuna politica

Federico Fubini – Affari & Finanza

Un’occhiata all’indietro dà l’idea della strada che ci siamo lasciati alle spalle. Se le privatizzazioni di cui si parla oggi fossero state fatte prima della crisi finanziaria, sarebbe andata come segue: dalla vendita del 5% dell’Eni lo Stato avrebbe ricavato circa cinque miliardi di allora, cioè in termini reali tenuto conto dell’inflazione – più di quando si spera di raccogliere oggi vendendo il 5% sia di Eni stessa che di Enel. E una cessione di una quota del genere della società elettrica avrebbe prodotto due miliardi in più. Se non altro, forse la crisi del debito avrebbe agguantato l’Italia più tardi e sarebbe durata meno. Com’è noto la storia non si fa con i «se», neanche quella finanziaria. Ma guardare da dove veniamo, stimare l’enorme perdita di valore delle imprese a controllo pubblico in questi anni (esempio: nel 2006 Finmeccanica valeva il doppio di oggi) può aiutare ad affrontare il bivio al quale siamo di fronte. Vero è che il messaggio contenuto nelle occasioni perdute del passato resta ambivalente. Può dare ragione a Pier Carlo Padoan, quando il ministro dell’Economia sostiene che bisogna andare avanti senza soste con le cessioni di società e beni pubblici per arginare il debito. Ma può rafforzare anche la posizione di Matteo Renzi, che vuole prima far crescere il valore delle imprese ai livelli di quale anno fa e solo dopo venderne le quote. L’impressione è che per ora il premier abbia stoppato il proprio ministro più autorevole, proprio quando questi pensava di avere già il suo via libera.

Questa settimana i due continueranno a parlarne. Padoan dirà a Renzi che i ricavi da privatizzazioni di Eni e Enel, gli unici possibili in tempi brevi, servono quest’anno per non far saltare le metriche di contenimento del debito. Insisterà perché il piano non slitti. Probabilmente prospetterà al premier un compromesso: fra le banche d’affari di Londra c’è già la fila per proporre al governo varie tecniche di ingegneria finanziaria in modo da portare al Tesoro gli incassi da cessioni subito (come vuole Padoan) ma vendere le quote dopo (come dice Renzi). Si può lavorare con dei bond convertibili in azioni dei due grandi gruppi. Si può effettuare una vendita a termine. Di certo, sono tutti sistemi con i quali i banchieri della City incaricati dell’operazione finirebbero per guadagnare due volte a spese del contribuente: ricche commissioni al primo passaggio, quello dell’anticipo di cassa, e poi al secondo con la vendita vera e propria delle quote. Si può dunque essere scusati se si viene assaliti da un sospetto: quando le situazioni diventano così ingarbugliate, è perché nel Paese resta un’ambiguità di fondo. Non si è mai fatta chiarezza sull’uso migliore del patrimonio pubblico o sulla presenza dello Stato nei soli grandi gruppi rimasti. Non si riesce a decidere se la vogliamo o no, e perché. Si va avanti a fari spenti, un po’ a tentoni: il modo migliore per restare incagliati.  

Eurolandia non si fida dell’Italia

Eurolandia non si fida dell’Italia

Federico Fubini – La Repubblica

Se c’è un’istantanea dell’Italia che resta nella testa di Angela Merkel è quella dell’agosto 2011. Non è la foto da uno dei suoi tanti soggiorni a Ischia. È il ricordo di quello che la cancelliera visse come un tradimento. A quell’epoca, con una lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet sul tavolo, il governo italiano promise misure importanti in cambio del soccorso della Bce. L’aiuto di Francoforte arrivò, le promesse di Roma finirono in soffitta poche ore più tardi.

In Italia di quell’episodio oggi si ricorda il fatto che fu Silvio Berlusconi, allora premier, a determinare il voltafaccia. In Germania invece si continua a pensare che responsabile ne fu semplicemente l’Italia, anche perché da allora tutti i governi seguiti a Berlusconi hanno omesso gran parte degli impegni. Quel passaggio del 2011 torna attuale nella mente della Merkel ora che, di nuovo, in Europa si parla di grandi compromessi. Interventi in Italia o in Francia per mettere le due economie in condizioni di competere, in cambio di un po’ di più pazienza a Bruxelles. Un taglio di spesa e di tasse sulle imprese, insieme a nuove regole sul lavoro, in contropartita a una certa tolleranza sul deficit e sul debito pubblico.

Varie versioni di proposte di questo tipo circolano fra i governi da almeno un anno. C’è però un dettaglio che passa quasi inosservato a Roma, mentre a Berlino resta la tessera centrale del mosaico: niente più concessioni all’Italia in cambio di impegni solenni o altri esercizi verbali. Qualunque accordo sulla “flessibilità”, cioè la speranza per l’Italia di non rischiare una multa e una sorveglianza stringente a Bruxelles, prevede prima i fatti. Precise riforme dell’economia approvate come leggi, tradotte in provvedimenti, applicate nella vita reale del Paese. Nient’altro basta ad avviare un negoziato in buona fede su come applicare il Fiscal Compact, cioè le regole di bilancio, in maniera meno burocratica. Forse perché in Italia sono cambiati quattro governi in meno di tre anni, spesso sfugge alla classe politica come l’erosione della credibilità in Europa oggi riguardi l’intero Paese: non il primo ministro di turno o quello appena sostituito da uno nuovo, forte o debole nei sondaggi che sia. È praticamente certo che di questi argomenti Merkel non parli esplicitamente con Draghi. Il canale di comunicazione diretta fra la cancelliera e il presidente della Bce da anni è aperto e funziona benissimo, fondato com’è sul rispetto dei rispettivi ruoli. Due anni fa, Draghi sapeva di avere l’as- senso di Merkel quando salvò l’Italia dal collasso annunciando che avrebbe fatto «qualunque cosa» per preservare l’euro. Anche oggi il banchiere centrale e la cancelliera la vedono in modo simile, almeno su un argomento: l’Italia, la sua stasi e la depressione in cui si dibatte da cinque anni. Entrambi vorrebbero vedere subito progressi nelle norme sul lavoro e nel taglio fiscale al costo di fare impresa, perché nel frattempo il Paese sta restando indietro anche rispetto alle economie più fragili o ai suoi stessi alleati.

La Francia di François Hollande, in teoria in “asse” con Roma, si è messa in marcia. Manuel Valls, il premier, ha espulso dal governo i dissenzienti e ora procede verso un piano di tagli di spesa da 50 miliardi di euro e riduzioni di tasse sulle imprese da 40 miliardi. Se lo porterà a termine tra tre anni, come da programma, l’export transalpino avrà guadagnato competitività su quello dell’Italia per qualcosa come il 2% del Pil francese. Le imprese francesi torneranno ad assumere, quelle italiane, surclassate, continueranno a chiudere. Quanto alla Spagna, è già avanti nel cambiamento e da anni gode della “flessibilità” di cui parla Matteo Renzi. Il deficit di Madrid viaggia intorno al 7% del Pil, ma il Paese non rischia sanzioni da Bruxelles. Nel frattempo, ha cambiato in profondità le regole sul lavoro e sui rischi d’impresa. Le procedure di fallimento delle aziende piccole e medie sono rapide, concluse senza giudici e a basso costo: gli investitori possono mettersele alle spalle e ripartire. I contratti di lavoro sono commisurati alla capacità di un’impresa di stare sul mercato e guadagnare. I licenziamenti per ragioni economiche o organizzative ora sono più facili, eppure la Spagna sta creando nuovi posti di lavoro ogni mese. L’Italia invece ne distrugge e resta in recessione – non il modo migliore di difendere i diritti acquisiti – mentre la Spagna cresce al ritmo del 2% annuo.

È di fronte a queste realtà che Draghi e Merkel fanno i conti e si trovano d’accordo. La cancelliera deve gestire le pressioni verso il rigore da parte della sua Corte costituzionale tedesca, del suo ministro finanziario Wolfgang Schaeuble e dell’opinione pubblica. Ma, come Draghi, sa che l’Italia è troppo grande per non essere aiutata: l’Italia che fa, ovviamente. Non quella che promette.

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Se lo stato perde i colossi Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Non c’è più tempo e il ministero dell’Economia si sta preparando a muovere in autunno. Fra la seconda metà di settembre e fine novembre, nel momento più adatto in base alle condizioni di mercato, le privatizzazioni entreranno nel vivo. Questa almeno è la tabella di marcia sulla quale stanno lavorando i tecnici del Tesoro. Si punta a partire con ciò che resta dei gioielli della corona, Eni e Enel, senza reti di sicurezza intrecciate grazie all’arte dell’ingegneria finanziaria pur di mantenere il controllo legale delle due società.

Nel Paese dell’Iri, dell’Efim e delle oltre diecimila partecipate di questi anni, per la prima volta un governo italiano è pronto a scendere sotto le soglie dello “Stato padrone” delle società più strategiche. Di entrambe oggi il governo detiene in modo diretto o indiretto appena più del 30%, la quota che permette in linea di diritto di controllare l’assemblea degli azionisti. Entro i prossimi tre mesi, però, dovrebbe andare in vendita il 5% sia di Eni che di Enel, per ricavi da circa 5 miliardi da reclutare a contenimento del debito pubblico.

Non sarà un passo a cuor leggero per le strutture di Via XX Settembre, eredi di una tradizione quasi secolare di controllo pubblico delle imprese. Se ci si sta arrivando, è perché la mano di carte in mano al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan non dà molta scelta. È passato più di un anno da quando il suo predecessore, Fabrizio Saccomanni, iniziò a mettere in cantiere un nuovo programma di privatizzazioni per contrastare il continuo aumento del debito. E sono passati sei mesi da quando Padoan stesso ha stilato una tabella di marcia anche più ambiziosa, che prevede vendite di attività per dieci miliardi l’anno da adesso fino al 2017. Di questi progetti sono stati riempiti molti documenti del governo, inclusi quelli mandati a Bruxelles. Ma dai primi annunci di oltre un anno fa, il Tesoro è riuscito a incassare appena 350 milioni da Cassa depositi e prestiti per la cessione parziale di Fincantieri: il piano originario sulla società di costruzioni navali aveva previsto entrate per 600 milioni.

Per adesso è mancata soprattutto la qualità degli attivi da mettere sul mercato. Il piatto forte quest’anno avrebbe dovuto essere Poste Italiane, di cui il Tesoro intendeva iniziare a cedere il 40%. Ma Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, questa primavera ha scoperto di aver rilevato dal predecessore Massimo Sarmi un’azienda tutt’altro che in condizioni di essere quotata in Borsa. Le attività postali tradizionali viaggiano in una perdita fin qui in qualche modo resa meno visibile dai buoni risultati del Banco Posta. Nei settori più promettenti, soprattutto la spedizione di pacchi, le Poste in Italia hanno una quota di mercato molto inferiore alle omologhe ex monopoliste degli altri Paesi europei. E con i tassi d’interesse ai minimi, anche il Banco Posta fatica a garantire la redditività degli anni passati. Quotare in Borsa l’azienda adesso avrebbe comportato il rischio di un flop.

Caio ha chiesto tempo al governo per ristrutturare l’azienda e ora al Tesoro si conta sul fatto che nel 2015 si possa procedere alla cessione del primo 40% delle azioni. Gli introiti sperati dovrebbero arrivare a quattro o cinque miliardi. In seguito, se tutto andrà per il meglio, lo Stato dovrebbe gradualmente continuare a scendere nel capitale del gruppo di Caio e portare nuovi fondi a contenimento del debito pubblico.

Simile il processo previsto per Enav. L’Ente di navigazione aerea non è in condizioni di attrarre investitori privati oggi, ma si conta che lo sia tra un anno per ricavi da circa un miliardo. Per Sace invece i calendari del ministero dell’Economia sembrano prevedere tempi ancora più lunghi.

Di qui la decisione di accelerare su Eni e Enel, per schierare ricavi a contrasto dell’aumento del debito già da quest’anno. Della società elettrica, che capitalizza circa 31 miliardi di euro, il ministero dell’Economia ha il 31,2% e scenderebbe al 26%. Del gruppo dell’energia, che vale circa 66 miliardi, ha il 3,9% e la Cassa depositi e prestiti (del Tesoro all’80%) controlla un altro 26,3%. La sfida da ora in poi per lo Stato sarà continuare a esercitare il controllo di fatto anche senza il vincolo legale nell’assemblea degli azionisti: un passo in Italia impensabile per gran parte degli ultimi 80 anni, da circa metà dell’era fascista.

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Risparmi e rendite più forti della crisi, imprese in ginocchio, a picco gli attivi

Federico Fubini – La Repubblica

È un’italia a tre velocità quella che riemerge dai sette anni più turbolenti per l’economia. Dal giorno in cui Lehman Brothers portò i libri in tribunale, alla fine dell’estate del 2008, il Paese ha iniziato la sua traversata del deserto marciando in tre direzioni diverse: si è molto rafforzato il patrimonio lordo delle banche; ha resistito egregiamente quello, già cospicuo, delle famiglie; è crollata invece la ricchezza delle imprese, già in partenza anormalmente ridotta. Giunto al settimo anno di crisi, questo è insomma un Paese che sembra vivere più di rendite finanziarie o familiari che di produzione pura e semplice, quella che in teoria dovrebbe creare fatturato, nuove opportunità, posti di lavoro.

La foto di gruppo la scatta Eurostat, che ha appena aggiornato i conti finanziari degli italiani a tutto il 2013. Poiché i dati sull’Italia figurano accanto a quelli del resto d’Europa, il confronto mette in luce le anomalie del Paese e le aree nelle quali invece le sue dinamiche appaiono perfettamente normali. E se c’è un punto sul quale l’Italia non si discosta dalle medie europee e del suo stesso passato, è proprio nel risparmio delle famiglie. La recessione più lunga della storia l’ha eroso e intaccato, non l’ha distrutto o messo in pericolo. Gli attivi puramente finanziari degli italiani – immobili esclusi – valevano nel complesso 3.771 miliardi di euro nel 2008 e alla fine del 2013 erano scesi di circa 60 miliardi a 3.717 miliardi. E un calo da circa mille euro per abitante in sei anni, ma il risparmio delle vale ancora più di due volte il Prodotto interno lordo e resta elevato: in media sono 61 mila euro per ogni residente in Italia, appena sopra la media dell’area euro, più che in Germania ( 57.021 per abitante), in linea con la Francia ( 61.155) e molto sopra alla Spagna ( 37.450). Gli anni della tripla ricaduta in recessione coincidono dunque con cambiamenti minimi per la grande risorsa nazionale, il risparmio delle famiglie: gli italiani riducono appena la loro esposizione azionaria, da 1.200 a mille miliardi di euro, si spostano un po’ i verso i conti di deposito e verso le polizze o i fondi pensione, ma nel complesso continuano a difendere le loro posizioni anche se intorno a loro l’economia arretra di quasi un decimo della sua taglia di prima. Aiuta anche il fatto che, nel frattempo, i vari governi vara-no i loro unici sgravi fiscali proprio a favore delle famiglie: quello di Enrico Letta abolisce mu per circa 5 miliardi, quello di Matteo Renzi taglia l’imposta sui redditi medio-bassi per altri dieci.

Anche più visibile il tocco delle politiche pubbliche dietro i conti conti finanziari delle assicurazioni e delle banche. Lì le dimensioni dei bilanci esplodono, in linea con le enormi iniezioni di liquidità varate dalla Banca centrale europea a favore gli istituti di credito per rispondere all’emergenza. Gli attivi dell’industria finanziaria italiana valevano 4.760 miliardi di euro nel 2008, ma l’anno scorso erano già saliti a seimila: una crescita in euro pari all’intero fatturato italiano di un anno, per un totale di beni delle banche e assicurazioni oggi pari a quattro volte il Pil. Anche in questo l’Italia non si comporta in modo diverso dagli altri Paesi europei: ovunque gli istituti di credito aspirano sempre liquidità dalla Bce, allargano la taglia del loro bilancio, quindi reinvestono in prestiti o soprattutto in titoli di Stato. Dove l’Italia diverge radicalmente dal resto d’Europa è nella ricchezza delle imprese. A confronto con gli altri Paesi era già ridotta in modo anomalo prima del trauma di Lehman, ma da allora subisce un tracrollo. I numeri sono impietosi: il patrimonio finanziario delle imprese in Italia nel 2008 era di 1.700 miliardi e si è eroso 1.541 al 2013. Si tratta di un calo pari circa al 10% del Pil italiano, non casualmente uguale alla contrazione dell’economia del Paese in questo settennato: sono i fallimenti, gli investimenti finiti in nulla, l’erosione dei patrimoni dopo anni di perdite.

Non colpisce solo il fatto chela ricchezza delle imprese in Italia valga meno della metà del risparmio delle famiglie: segno certo che molti imprenditori medi, piccoli e grandi hanno preferito depauperare l’azienda e trasferire le risorse sui propri conti personali, nelle auto di lusso, le ville proprie e dei figli, le tranquille rendite dei discendenti. Ma colpisce ancora di più la crescente divergenza dal resto d’Europa: l’economia spagnola è poco più della metà di quella italiana per fatturato, ma il patrimonio delle imprese iberiche ( 2.100 miliardi ) supera sia il patrimonio delle imprese italiane che il risparmio delle famiglie spagnole. Nessuna grande economia ha una sproporzione così vasta come l’Italia nella ricchezza di famiglie e imprese. E in Francia e Germania queste ultime controllano patrimoni che sono rispettivamente il triplo e il doppio di quelli del settore produttivo in Italia.

Dal punto di vista finanziario, questo Paese si presenta come un corpo con due polmoni non efficienti ma molto gonfi (banche e famiglie) e gambe rachitiche che dovrebbero farlo camminare. Che la ripresa tardi dunque non è strano. Sorprende di più la speranza del governo che possa propiziarla il bonus Irpef alle famiglie, invece che incentivi fiscali che rafforzino le imprese. I dati Eurostat dicono che agli italiani non manca il denaro per i consumi, ma la capacità di creare nuovo reddito producendo qualcosa. Con l’ultima ricaduta in recessione, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha incoraggiato gli italiani a spendere il bonus da 80 euro «con fiducia», mentre lui cerca ancora le coperture di bilancio per renderlo permanente. Quasi che bastasse una (costosa) cura dei sintomi, non delle cause del crollo dell’economia.

Il superbanchiere e la deflazione

Il superbanchiere e la deflazione

Federico Fubini – La Repubblica

Nelle otto conferenze stampa che ha tenuto dall’inizio dell’anno, Mario Draghi ha sempre parlato della ripresa in arrivo. Cambiavano giusto gli aggettivi scelti dal presidente della Bce per descriverla. Da gennaio a marzo era “lenta”. Ad aprile questa sfumatura di cautela è caduta, quasi che le nubi si stessero sollevando. A giugno però la ripresa è diventata di colpo “un po’ più debole del previsto” e a inizio agosto “moderata e diseguale”. Poi a metà agosto l’Europa ha capito che la ripresa semplicemente non esisteva: crescita zero. Sarebbe facile ora rimarcare che nell’ultimo anno e mezzo lo staff della Banca centrale europea ha regolarmente sbagliato i suoi calcoli. Ha sempre previsto una crescita superiore a ciò che poi è successo e non ha mai messo in conto che l’intera zona euro si sarebbe trovata sull’orlo della deflazione.
Se queste previsioni erano la base delle scelte,non sorprende che la Bce stia fallendo nel suo compito principale: garantire la stabilità dei prezzi, cioè un’inflazione “vicina ma sotto al 2%” nel medio periodo. Quest’estate i prezzi sono in caduta in Spagna, Portogallo, Grecia e di fatto anche in Italia, mentre nella media dell’area l’inflazione (in frenata) è ad appena lo 0,4%. Angel Ubide dal Peterson Institute nota che i mercati non credono affatto che i prezzi ripartiranno: i valori impliciti nei tassi forward – stime di mercato sul futuro – danno un ritorno alla normalità non prima di un decennio. Le conseguenze sono note. Famiglie e imprese rinviano consumi e investimenti in attesa di prezzi ancora più bassi domani. L’economia ristagna più a lungo. E poiché con un’inflazione a zero il peso reale dei debiti aumenta, l’intera contabilità di famiglie, imprese e governi in Europa sta già cambiando in peggio. Oggi circolano obbligazioni emesse in euro da europei per 13.300 miliardi (quasi un terzo del Pil del mondo), di cui 7.300 miliardi a carico degli Stati dell’area. Tutti coloro che si sono sobbarcati dei debiti in questi anni, lo hanno fatto nell’idea che la Bce avrebbe rispettato il proprio impegno a difendere un’inflazione attorno al 2%. Non a quota zero. Ora quell’impegno viene meno e rende la gestione di tutti i debiti molto più pesante: gli interessi restano uguali, i ricavi per pagarli scendono. Lo stesso Fiscal Compact diventa più difficile da rispettare e meno credibile, quasi nato morto.

Sarebbe facile notare adesso questi errori della Bce, non fosse che nessuno si illude che una banca centrale possa sempre evitarli. Non succede mai. Dall’inizio di questa crisi la storia dell’Eurotower è piena di errori commessi e poi corretti. Soprattutto è piena di errori della Bundesbank e delle persone espresse dalla banca centrale tedesca nell’Eurotower, sempre convinte che creare moneta e allargare il bilancio della Bce avrebbe creato troppa inflazione. Non è mai andata così: al suo massimo il bilancio dell’Eurotower è quadruplicato, eppure l’inflazione è scesa. Nel 2007 Jürgen Stark, tedesco nell’esecutivo Bce, si lamentò quando la banca lanciò le prime iniezioni di liquidità con la crisi dei subprime; la storia ha dimostrato che si sbagliava. Nel 2010 e nel 2011 lo stesso Stark e Axel Weber, allora presidente della Bundesbank, votarono contro gli acquisti di titoli di Grecia, Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna, furono messi in minoranza e anche questa volta la storia ha dato loro torto. Lo stesso vale per Jens Weidmann, successore di Weber alla Buba, quando nel 2012 si oppose alla svolta con cui Draghi promise sostegno illimitato ai Paesi che avessero accettato un programma di riforme. Quella promessa non costò un euro, salvò l’Italia e la moneta unica e dimostrò che la Buba si sbagliava e andava messa in minoranza.
Se questa storia ha ancora un senso, è perché continua: la banca centrale tedesca si oppone a ciò che serve per scongiurare la deflazione. Come hanno già fatto la Federal Reserve americana, la Banca del Giappone e quella d’Inghilterra, per fare il suo dovere oggi la Bce ha bisogno di creare almeno mille miliardi di euro e comprare a tappeto titoli pubblici e privati dei Paesi dell’area euro. È il cosiddetto “quantitative easing”, inaugurato dalla Fed nel 2009. Avrebbe già dovuto farlo, risparmiando un po’ dei problemi di debito, crollo degli investimenti e stallo dell’export che oggi affliggono l’Italia e altri Paesi. Non è successo perché Draghi non ha voluto muovere un passo del genere contro la Bundesbank.

Il presidente italiano della Bce ha due ottimi argomenti dalla sua. Il primo è che già la sua promessa del 2012 di difendere l’euro a tutti i costi, ricreando fiducia, ha di fatto prodotto un effetto “quantitative easing”: da settembre 2012 a marzo 2014 le banche private estere hanno riportato in Italia 163 miliardi di dollari (dati Bri), eppure il paziente non si riprende. La differenza è che nuovi interventi della Bce svaluterebbero l’euro e darebbero finalmente ossigeno all’export, mentre gli afflussi di denaro privato invece rafforzano il cambio.
Il secondo argomento di Draghi è anche più serio: poiché la Germania è di gran lunga il primo azionista Bce, è difficile imporle il rischio di sobbarcarsi debito italiano per centinaia di miliardi contro la sua volontà. In questo l’Italia può aiutare, cercando di ricostruire una credibilità che in Europa ha perso da un pezzo. Ma per la Bce combattare la deflazione è un dovere. È stata creata apposta: se condizionasse le sue scelte in proposito a quelle dei governi, di fatto rinuncerebbe all’indipendenza.

Ormai Draghi è davanti a un bivio, forse il più difficile della lunga carriera di successi. Può fargli comodo un consiglio contenuto nelle memorie di un suo vecchio amico, l’ex segretario al Tesoro Usa, Tim Geithner: meglio prendersi la colpa dei propri errori, che di quelli degli altri. Inclusa, al solito, la Bundesbank.

Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Spending review, ecco tutti gli sprechi di enti e ministeri

Federico Fubini – La Repubblica

C’è un colpevole seriale di malagestione come il comune di Roma, insieme a giunte del Centro e del Nord come Perugia, Pesaro e Urbino, Verona, Udine, Sondrio, Trieste o Bolzano. Spunta anche la Statale di Milano, con l’università di Genova. Ci sono aziende sanitarie dalle procedure d’appalto singolari, in Sardegna o Campania. E non mancano neanche coloro che dovrebbero tenere al rispetto della legge più di ogni altro ramo dello Stato: i carabinieri, la polizia, il ministero della Difesa. Tutti destinatari delle lettere di Raffaele Cantone e Carlo Cottarelli alle amministrazioni che – è il sospetto – hanno violato le norme sugli appalti da tenere solo ai prezzi più convenienti per il contribuente. Cottarelli e Cantone sono, rispettivamente, commissario straordinario alla revisione della spesa e presidente dell’Autorità anti-corruzione. Già solo i loro ruoli rendono la lettera partita a giugno un atto pieno di significato. E, potenzialmente, pieno di conseguenze per chi non sta alle regole. Non solo perché i due minacciano sanzioni ai funzionari che esitano a rispondere (25 mila euro) e a quelli che “forniscono dati non veritieri” (51 mila). Quell’intervento di Cottarelli e Cantone è soprattutto il segnale di una svolta che può arrivare se solo si rispettassero le leggi esistenti. Una serie di decreti approvati fra il 2006 e il 2012 obbliga infatti gli uffici dello Stato e le società “in house”, controllate al 100%, a non sprecare un centesimo quando comprano sette categorie di beni e servizi essenziali: elettricità, gas, carburanti, combustibili da riscaldamento e contratti di telefonia fissa, cellulare o per traffico dati. Per ordinare da questo menù, tutti dovrebbero servirsi della centrale nazionale degli acquisti Consip o delle centrali regionali. Facile capire perché: i grandi acquirenti hanno le competenze e sono in grado di spuntare i prezzi migliori. La legge tollera eccezioni, cioè amministrazioni che fanno shopping da sole, solo se un ufficio compra a meno dei prezzi garantiti da Consip.

Poiché tutti devono registrare i contratti sul portale dell’Autorità anti-corruzione (ex Autorità di vigilanza sui contratti pubblici), il lavoro di intelligence è partito subito. Ministero dell’Economia, Guardia di Finanza, la squadra di Cottarelli e quella di Cantone hanno incrociato i dati ed è venuta fuori la lista dei sospetti. Prima cento, poi cresciuti a duecento. Tutti enti locali, ministeri, aziende sanitarie o università che nel 2012 e nel 2013 si sono comprate elettricità, gas, benzina o telefonate da soli, disinteressandosi della legge. Si sospetta che l’elenco possa crescere fino a tremila amministrazioni. Ma i nomi in quella lista, e i costi delle forniture, riservano già da ora più di una sorpresa.

Il ministero dell’Interno per esempio si è visto recapitare almeno due lettere, di cui la prima per il pingue contratto di telefonia mobile da 4,4 milioni di euro della Polizia di Stato. I dati del ministero dell’Economia dimostrano che in media il costo è fino a oltre l’80% inferiore quando a comprare è Consip, la centrale nazionale. Ma nel 2012 il Viminale (ministro, Anna Maria Cancellieri) procede ad assegnare un appalto per i cellulari della Polizia di Stato, peraltro è tuttora in vigore. Lo fa in perfetta solitudine, senza coinvolgere Consip. E sbriga la pratica con una “procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando”, si legge nel sito dell’anti-corruzione. Il ministero offre poi il bis e il tris con contratti per i cellulari dei Carabinieri (3,1 milioni) e per il traffico dati dell’Arma (2,2). Ora il Viminale ha dovuto fornire spiegazioni a Cottarelli sul perché l’ha fatto, con il rischio di sanzioni se davvero quei prezzi risulteranno superiori a quelli di Consip.

Singolare anche la tecnica con cui l’Aeronautica militare, cioè il ministero della Difesa, si approvvigiona di energia elettrica per illuminare l’aeroporto di Pratica di Mare. Dal gennaio del 2012 a quello del 2013 conclude la bellezza di 12 contratti d’appalto, uno al mese. Nel complesso finisce per spendere circa 2,5 milioni di euro, una somma faraonica per un solo scalo, ma ogni singolo appalto resta intorno ai 200 mila. Anche l’Aeronautica militare però adesso ha risposto alla vigilanza di Cottarelli e Cantone e la sua replica o è all’esame dei due commissari. Il record nella lista dei primi cento sospetti spetta però tutto al comune di Perugia: la bellezza di 10,5 milioni di euro pagati per dare luce alla città, con gara scaduta a luglio 2013. Anche qui, ignorando del tutto l’opportunità di comprare a meno le stesse quantità di energia elettrica tramite le grandi centrali pubbliche di fornitura. Non da meno è la Verona del sindaco leghista Flavio Tosi, che in un anno (da metà 2013 a metà 2014) riesce a spendere 7,9 milioni in lampioni e lampadine comunali: un posto sicuramente illuminato bene. È curioso però che ci sia un’università che riesce a spendere in energia tanto quanto una città di quasi 300 mila abitanti: è l’Università degli Studi di Milano che, a quanto pare disinteressandosi della legge, ha concluso di propria iniziativa un contratto da 7,5 milioni per le forniture elettriche dell’anno conclusosi a giugno scorso. Anche la Statale, al pari delle università di Perugia, Genova e Roma 3, ora avrà qualcosa da spiegare.  Né potevano mancare nella lista dei destinatari della lettera le aziende sanitarie locali. La Asl 8 di Cagliari, chissà come, riesce a pagare a Telecom Italia qualcosa come 1,8 milioni di euro solo in “servizi per la telefonia fissa”. La Asl 2 di Olbia investe 1,2 milioni in energia elettrica, con una prassi singolare: a gennaio di quest’anno, senza bandi precedenti, ha assegnato un contratto a valore retroattivo per una fornitura partita nel 2013.

Ma non sorprende che siano soprattutto i comuni a riempire la lista di Cottarelli e Cantone, perché è lì il cuore del rapporto (spesso) clientelare fra politica e piccoli oligarchi fornitori di voti locali. Nell’elenco finiscono la Roma della gestione di Gianni Alemanno (5,9 milioni per tre mesi di elettricità) e città del Nord come Bolzano per i due milioni pagati per il gas naturale, Como, Sondrio o Trieste: qui il comune riesce a spendere più di 600 mila euro per l’uso dei telefoni cellulari. E dalla provincia di Pescara al comune di Udine, la lista potrebbe continuare e lo sta facendo nel lavoro di Cantone e Cottarelli. Il loro tono ai destinatari è decisamente ultimativo: chiedono copia del contratto d’appalto e il relativo decreto di approvazione, “nonché eventuali atti amministrativi posti a motivazione della mancata adesione alle convenzioni vigenti della Consip”. E ricordano: “Il termine ultimo per fornire i documenti richiesti viene fissato in 15 giorni”. Il messaggio di fondo dei due al resto dell’apparato dello Stato è che la ricreazione è finita. I prossimi mesi diranno se è finita la ricreazione, cioè il disinteressarsi della legge quando si possono spendere soldi dei contribuenti; oppure è finita la missione ora affidata a Cottarelli e prima di lui a Enrico Bondi e Mario Canzio: questa spending review ha già cambiato più allenatori di una squadra sull’orlo della retrocessione.

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Spending review azzoppata: addio centrali uniche di acquisto, i sindaci ottengono il rinvio

Federico Fubini – La Repubblica

La scure era arrivata in un passaggio del decreto Irpef del 24 aprile scorso, all’articolo 9, comma 5. Senza sconti per nessuno: «Il numero complessivo dei soggetti aggregatori presenti sul territorio nazionale non può essere superiore a 35». In altri termini, bisognava chiudere una volta per tutte con la vecchia abitudine delle 34mila piccole centrali d’acquisto distribuite per Province e Comuni d’Italia e capaci di distribuire a pioggia appalti, contratti pubblici di fornitura, incarichi di consulenza per conto delle amministrazioni pubbliche. Questa riforma era, e resta, un architrave della spending review e dunque della legge di Stabilità da presentare dopo l’estate: niente più piccole commesse pulviscolari dai costi spesso superiori al necessario, ma solo operazioni uniche per gli uffici pubblici condotte attraverso grandi centri d’acquisto specializzati. Più scrivanie, computer, stampanti e benzina per le giunte comunali si comprano allo stesso tempo, tramite un unico acquirente, meno le si paga.

Fin qui la teoria. Nella pratiche invece le migliori intenzioni del governo si sono già arenate sulla resistenza del partito dei sindaci, che è riuscito con un’abile azione di lobby a rinviare la riforma delle centrali d’acquisto. È avvenuto un po’ alla chetichella lo scorso 10 luglio, ma in una sede altamente formale: presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, nella conferenza tra Stato, città e autonomie locali. L’incontro, presieduto per il governo dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, era stato preceduto da una mossa dell’Anci, l’associazione dei Comuni d’Italia guidata da Piero Fassino. L’Anci ha scritto al governo e ha fatto presente che la riforma delle centrali d’acquisto, che doveva entrare in vigore un mese fa, è inapplicabile. La tesi è che i Comuni non capoluogo di provincia non avrebbero avuto tempo di coalizzarsi in grandi centrali appaltanti. In questo caso la legge prevederebbe che si riforniscano di ciò che serve presso la Consip, la società del Tesoro che funge da maxi acquirente unico per lo Stato a prezzi molto competitivi. Purtroppo però per l’associazione dei sindaci neppure questo è possibile: «Consip e le altre principali centrali d’acquisto non coprono tutte le esigenze degli enti locali».

Si può cercare di immaginare quale specifico tipo di fotocopiatrice o sedia di ufficio, che la Consip non può fornire, richieda un certo Comune da 800 abitanti sull’Appennino tosco-emiliano o sulla Sila. Ma la sostanza non cambia: la conferenza Stato-città ha già ottenuto il primo rinvio della riforma appena varata. L’aggregazione dei centri di spesa viene posticipata di sei mesi per gli acquisti di beni e servizi, di un anno intero per gi appalti sui lavori pubblici. I Comuni anche più piccoli potranno continuare a determinare da soli le proprie commesse, ovviamente pagando più del necessario, presumibilmente premiando imprenditori amici e grandi elettori dei sindaci. Le centrali uniche d’acquisto dovevano debellare i sistemi clientelari locali e ridurre gli sprechi di denaro del contribuente, ma per ora non succederà.

La marcia indietro del governo c’è stata. In teoria l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone non avrebbe dovuto concedere i codici per eseguire gli appalti ai Comuni che non si fossero adeguati alle maxi centrali d’acquisto. Ma anche questo divieto è stato congelato. Non è un segnale positivo per la finanza pubblica. Il passaggio da 34mila a sole 35 centrali pubbliche d’acquisto in Italia dovrebbe far risparmiare almeno il 10% dei circa 130 miliardi che lo Stato ogni anno spende in acquisti di beni o servizi e in appalti. Per certe categorie di merci – arredamento, computer, convenzioni telefoniche – comprare tramite Consip può far risparmiare fino all’85% del costo. Ma soprattutto la riforma delle centrali d’acquisto era un esame per misurare la capacità del governo di avanzare sulla spending review contro la resistenza dei vari gruppi d’interesse. La legge di Stabilità del prossimo autunno, quanto a questo, prevede tagli di spesa per circa 14 miliardi. E a giudicare dalle prime mosse, non sarà una passeggiata.

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Agenzia Entrate sotto accusa: i bonus offerti ai funzionari favoriscono l’aggressione fiscale

Federico Fubini – La Repubblica

Umberto Angeloni e Gustavo Ascione non si conoscono, ma da qualche anno le loro vite scorrono in parallelo. All’inizio della crisi entrambi hanno puntato tutto sul made in Italy, hanno esportato e creato (o difeso) dei posti di lavoro. Quando poi credevano di avercela fatta, hanno ricevuto una visita dell’Agenzia delle Entrate e delle contestazioni tali che a entrambi è parso di entrare in una sorta di mondo kafkiano.

È probabile che di casi come i loro si parli oggi, quando il nuovo direttore dell’Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi farà il suo debutto in un’audizione parlamentare. Non sono esempi isolati, a giudicare dalle cifre del ministero dell’Economia. Nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con esito favorevole ai contribuenti contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi di euro: una somma lievemente superiore a quella su cui la vittoria è stata invece dello Stato. L’anno scorso gli imprenditori in Italia hanno presentato 250mila ricorsi contro accuse di evasione, affrontando costi e rischi legali, evidentemente perché ritengono di poter vincere. Almeno una parte di loro fa parte del popolo di mezzo, quello dei produttori schiacciati fra un’evasione endemica che supera i 100 miliardi e gli uffici incaricati dal governo di falcidiarla. Il problema sorge quando il diserbante non colpisce solo i parassiti ma anche le piante più sane e produttive.

Angeloni ha rilevato nel 2007 la Caruso Menswear di Parma, un’azienda di 600 addetti che produce moda da uomo per alcuni dei grandi gruppi globali del lusso. In quattro anni l’ha riportata in utile, ha fatto entrare con il 35% Fosun, il più grande fondo privato cinese, e ha sviluppato un marchio proprio. Fino a quando l’Agenzia delle Entrate ha suonato alla porta questa primavera. I controlli in azienda sono durati due mesi e al termine le accuse si sono concentrate su certi incarichi per la comunicazione affidati nel 2009 a consulenti esterni. Le imprese di moda di solito spendono in promozione fra il 5% e il 10% del fatturato, la Caruso appena l’1%. Ma l’Agenzia delle Entrate nel suo verbale giudica il piano di comunicazione della Caruso «non determinante per la strategia aziendale» e definisce le prestazioni dei consulenti «impersonali e generiche», tale che «potrebbero essere attribuite a qualunque soggetto sia esso esterno o anche interno alla stessa struttura aziendale». Suona come una valutazione di merito sugli spazi commerciali comprati dalla Caruso, ma su questa base è partita una richiesta di versare al fisco circa 100.000 euro in più. Per l’Agenzia delle Entrate, in altri termini, quell’investimento in comunicazione era «non determinante» e quindi fittizio. «Mettere in discussione la strategia dell’azienda per poi rigettarne le spese viola lo spirito della legge, lascia l’impresa vulnerabile all’abuso e distrugge la fiducia fra l’autorità fiscale e il contribuente» ribatte Angeloni, che ne frattempo ha speso già 50mila euro per difendersi.

Ancora più del collega, Gustavo Ascione è rimasto colpito dalla sordità dei funzionari dell’Agenzia quando ha avuto un accertamento nel 2012. Ascione ha fondato nel 2007 la Silk&Beyond, un’azienda casertana di 9 addetti che esporta tessuti da arredamento in Russia e Medio Oriente. Sulla base dei chili di filo ordinati e dei metri di tessuto venduto, gli hanno contestato una produzione in nero e chiesto di pagare oltre 60mila euro. La multa poteva far chiudere l’azienda. «Ho cercato di spiegare che i tessuti hanno pesi e orditi diversi secondo le tipologie e che del filo avanza sempre in fondo ai rocchetti. Ma non mi hanno ascoltato» dice.

L’Agenzia delle Entrate non commenta su questi casi e, di certo, il suo ruolo è stato determinante nell’evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi del debito. Gli incassi da «attività di controllo» in un Paese piagato dall’evasione sono saliti da 2,1 miliardi nel 2004 a 13,1 nel 2013. Alcuni però pensano che offrire bonus ai funzionari dell’Agenzia in base alle somme che riscuotono sia un errore. «Non dovrebbero avere incentivi per fare quello che è il loro dovere e per cui sono pagati comunque» osserva Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione. Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze del centrosinistra, è anche più critico: «Spero che Orlandi, il nuovo direttore, cambi linea rispetto al passato: pagare gli ispettori in base ai risultati può portare ad atteggiamenti molto aggressivi. Si costringono sotto ricatto gli imprenditori a fare adesioni (patteggiamenti sulle multe, ndr) in base a violazioni che in parte non c’erano o non c’erano per niente».

Anche su questo l’Agenzia non commenta e sicuramente è difficile attrarre professionalità di alto livello nella lotta all’evasione senza paghe adeguate. Ma solo per il 2011, ultimo anno reso noto, per i dirigenti di seconda fascia dell’Agenzia la spesa nella parte fissa è stata di 30 milioni di euro e quella dei bonus variabili di 25. I premi sono legati alle somme passate in giudicato e con Ascione non ha funzionato: ha speso 7mila euro in avvocati e moltissimo tempo sottratto alla cura del prodotto e dei mercati, ma una commissione tributaria ha prima sospeso e poi annullato la contestazione contro di lui. Angeloni invece è a un bivio: si ritiene innocente e sa che, se ricorre, dovrà comunque pagare un terzo dell’ammenda in via preliminare, poi scatteranno le stesse multe anche sugli anni dal 2010 al 2013. C’è però una buona notizia. Nel 2010 ha vinto un ricorso per 50mila euro di tasse non dovute. Quattro anni dopo aspetta ancora con fiducia il rimborso.

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Supermunicipalizzate e pochi investimenti, così sta morendo il capitalismo italiano

Federico Fubini – La Repubblica

Cambia il controllo di Frette, il produttore di biancheria di lusso che fornì le lenzuola all’Orient Express e al Titanic, ma la notizia non è che ora apparterrà a un investitore straniero. Era già così. L’antica casa milanese viene infatti ceduta da un fondo di San Francisco a uno di Londra. La notizia è che non c’era un investitore italiano disposto o capace di presentare un’offerta o un progetto industriale migliori.

È già successo negli ultimi anni, in vari settori. Dall’alimentare con Parmalat acquisita dai francesi di Lactalis, alla Ducati passata al gruppo Volkswagen, alle conquiste del gruppo transalpino Lvmh su Bulgari, Loro Piana o la pasticceria Cova, fino alla recente cessione del controllo di Indesit agli americani di Whirlpool. Difficile spiegare ai dipendenti delle società vendute che ciò sia un male, se ora vedono più investimenti, nuove competenze e la conquista di mercati prima irraggiungibili. Per loro la sicurezza del posto in futuro fa premio sul prefisso telefonico dell’azionista di controllo. Per i neolaureati che adesso possono mandare un curriculum nella speranza di una vera chance, ancora di più. Resta giusto un dubbio sull’asimmetria. Il valore delle fusioni e acquisizioni nel mondo quest’anno è già a 1.500 miliardi di dollari e forse il 2014 batterà il record del 2007. Dalla farmaceutica all’energia, da Pfizer e General Electric, tornano le offerte per creare i cosiddetti Mammuth. Ma l’Italia è molto più preda che predatrice. Le sue imprese non sono quasi mai alla testa ma schiacciate in mezzo alle catene di fornitura dei milioni di componenti che generano aerei, auto o gadget elettronici; dunque per lo più vengono acquistate, ma molto di rado acquistano le altre.

Una ricerca di Roland Berger Italia per Repubblica fa capire perché: dal fondo della crisi globale nel 2009 il made in Italy manifatturiero ha sì abbozzato una ripresa ma non riesce a produrre la cassa necessaria a preparare il futuro. Quella che crea basta a fatica a sostenere i debiti del passato. Da quando l’economia italiano crollò del 5% subito dopo il crac di Lehman, gli investimenti industriali in Italia sono addirittura scesi di un altro 9%: difficile restare competitivi così, se non cambia il modo di finanziamento e con questo la struttura stessa delle imprese. I dati della Roland Berger, il gruppo di consulenza, mostrano come questa crisi stia portando con sé la fine del capitalismo all’italiana fondato sulle medie imprese familiari che restano indipendenti e si finanziano in banca. Non un male, se sarà sostituito con un modello più adatto ai tempi. «Ci sono molte medie aziende per le quali nuova finanza è pronta ad arrivare dai fondi esteri o italiani o da grandi investitori istituzionali» dice Andrea Marinoni di Roland Berger Italia. «Ma solo a patto che ci siano fusioni, spacchettamenti di settori e filiere produttive, progetti fra più gruppi. Non più ognuno per sé come in passato».

Certo come oggi non può continuare. Non è più sostenibile, per esempio, il peso predatorio delle municipalizzate sul sistema produttivo. La Roland Berger mostra che dal fondo della crisi nel 2009 il settore il cui fatturato è cresciuto di più in Italia, da 44 a 72 miliardi, è quello delle società partecipate dagli enti locali che forniscono servizi come acqua o elettricità. Il loro giro d’affari è esploso nel 63%, pesa dieci volte più del settore auto in Italia e almeno il doppio rispetto a qualunque comparto leader del manifatturiero, dalla meccanica all’alimentare. Vista così, il settore trainante del Paese sembra il parassitismo delle mille piccole Iri di provincia. Un gigante sostenuto dagli aumenti continui delle tariffe, che tuttavia fatica a stare in piedi: malgrado il boom delle rendite estratte dal mondo produttivo, la redditività delle municipalizzate non cresce e i loro investimenti addirittura cadono. Questa tassa impropria sul resto dell’economia a sua volta alimenta, ma non determina da sola, le difficoltà del manifatturiero. Non che tutto vada male, perché un po’ di ripresa c’è stata. Dal punto basso del 2009 al 2012 il fatturato del settore alimentare è salito da 24,6 a 26 miliardi, quello del settore auto (molto più piccolo) da 6,3 a 7,1 miliardi. E cresce la meccanica, con un aumento delle vendite da 24 a quasi 33 miliardi. In calo ulteriore del 17% dopo la frana del 2009 risulta solo il comparto tessile e abbigliamento, che nel 2012 ha fatturato appena un terzo del settore alimentare. Il problema dunque non è la capacità di queste imprese di vendere i loro prodotti nel mondo, ma quella di guadagnare denaro facendolo. Il carico fiscale, il costo dell’energia, la burocrazia e gli interessi sui forti debiti bancari erodono sempre più il margine operativo lordo. Nell’alimentare è caduto del 6%, nel farmaceutico del 10%, nel tessile e abbigliamento del 37%. Meglio solo la meccanica dove sale al 2,7% del fatturato, anche e resta ridotto quasi all’osso. Non stupisce che in praticamente tutti i settori industriali italiani (meno l’abbigliamento) gli investimenti calino in proporzione al fatturato persino rispetto al nadir del 2009. In sostanza le aziende industriali d’Italia, il Paese che si gloria di essere il secondo produttore manifatturiero d’Europa dopo la Germania, non guadagnano abbastanza per preparare il loro futuro. I loro concorrenti esteri investono di più.

Per capirlo la Roland Berger ha esaminato un campione di 590 imprese italiane con un fatturato di più di 200 milioni di euro (di queste, circa due terzi sono manifatturiere). Vengono fuori le differenze con le loro avversarie nel resto d’Europa. Nel made in Italy tra aziende su quattro vedono nelle banche le loro fonti di finanziamento più importanti (in Europa solo la metà), eppure il credito allo sportello è in continuo calo e non dà segnali di inversione. Significa che il mondo produttivo non può più andare avanti come prima e forse è alla vigilia di una svolta. «Le imprese devono aprirsi al capitale da nuove fonti e di conseguenza cambiare la loro struttura di controllo» nota Marinoni. Se possibile, senza continuare a pagare il pedaggio alla municipalizzate.