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Poste, Enav, demanio: privatizzazioni a rilento. Padoan ora punta sul 5% di Eni e Enel

Poste, Enav, demanio: privatizzazioni a rilento. Padoan ora punta sul 5% di Eni e Enel

Federico Fubini – La Repubblica

Quando la mongolfiera non ce la fa, il pilota mette la zavorra fuori bordo. Il piano di privatizzazioni che Matteo Renzi ha ereditato da Enrico Letta minaccia di afflosciarsi al suolo subito dopo il decollo e ormai al Tesoro non resta che una soluzione: spezzare il tabù della quota di controllo del 30% in mano allo Stato e liberarsi, già quest’anno, delle risorse più pesanti. Pacchetti del 5% di Eni e di Enel possono andare sul mercato in autunno. Per far prendere quota alle privatizzazioni e contrastare l’aumento del debito non è (quasi) rimasta alternativa.

Non doveva andare così, non subito almeno. Il primo obiettivo del piano di dismissioni è arrivare a dieci miliardi di ricavi quest’anno e poi su ciascuno dei tre anni seguenti. Se l’operazione riuscisse, toglierebbe due punti e mezzo dal rapporto fra debito e Pil: la sostenibilità della posizione finanziaria dello Stato si gioca dunque anche su questo programma. Fabrizio Saccomanni lo aveva avviato da ministro dell’Economia di Letta; il suo successore Pier Carlo Padoan ora vuole ampliarlo, anche perché il debito sta salendo più in fretta del previsto.

Il problema è che nessuna delle attività designate per il mercato nel 2014 sembra pronta. Non se dalla vendita si vogliono generare sufficienti risorse. Da Poste Italiane a Enav, passando per i problemi di questi giorni nel collocamento di Fincantieri, le prime imprese da privatizzare ora non sembrano in grado di attirare l’interesse degli investitori privati. E anche quelle gestite meglio, a partire da Sace, sono gravate di compiti assegnati dall’azionista di controllo che ne ostacolano lo sbarco sul mercato.
Emblematico il caso Fincantieri, che ha dovuto ridurre la quota in vendita da 600 a 350 milioni di euro. Il gruppo di costruzioni navali è controllato al 99,3% da Fintecna, che fa capo alla Cassa depositi e prestiti. Questo doveva essere il progetto-pilota della nuova stagione delle privatizzazioni, ma qualcosa è andato storto. Durante la presentazione dell’offerta di azioni, l’amministratore delegato Giuseppe Bono ha parlato di una prossima sospensione dei dividendi per tre anni; il presidente di Cdp Franco Bassanini ha aggiunto che in futuro «non si può escludere un altro aumento di capitale», che avrebbe diluito i soci esistenti. Certo non il modo migliore di attrarre investitori privati, che hanno sospettato una certa fragilità finanziaria nel gruppo. In più restano dubbi sui sussidi pubblici che riceve Fincantieri e sul fatto che il suo debito sembra più basso perché – precisa l’azienda non viene calcolato secondo i criteri europei di contabilità. Il risultato è che molti grandi investitori si sono sottratti. Generali sembra aver comprato un pacchetto solo dopo un «suggerimento » di Cdp, azionista di controllo di Fincantieri e secondo socio della compagnia di Trieste con il 4,4%. Ma alla fine l’operazione non ha dato l’esito sperato.
Anche per questo la cessione del 40% Poste, che in teoria dovrebbe fruttare fra 4 o 5 miliardi, di fatto è rinviata. Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, non ha trovato un’azienda in condizioni per interessare ai privati. Il settore postale è in rosso e in caduta: Caio punta a un accordo con i sindacati per distribuire le lettere solo a giorni alterni, con relativi tagli.

C’è molto da fare anche per far crescere l’area della consegna pacchi, la più promettente; ma qui l’azienda è in ritardo, con un’attività minima rispetto alle omologhe europee. E con i tassi d’interesse così bassi, anche Banco Posta non potrà rendere in futuro come ha fatto in passato. Insomma Poste non è l’azienda in salute che forse qualcuno credeva e servirà tempo per renderla attraente agli investitori. Simili valutazioni valgono anche per Enav, l’ente di navigazione aerea. Resterebbero le vendite di immobili, ma anche qui si va a rilento. Una recente asta del Demanio per cinque beni «di pregio », dall’isola veneziana di Poveglia a un ospedale militare dell’800, è andata quasi tutta a vuoto: poche offerte e troppo basse. Dato l’alto debito pubblico, gli investitori temono nuove tasse sul mattone in futuro.

Padoan però non demorde. Fonti del Tesoro ricordano che «altre attività possono rientrare nelle cessioni quest’anno». Oltre al 5% di Eni e Enel, con lo Stato che rinuncia al controllo legale, c’è un piano anche per Stm. Il Tesoro è pronto a cedere per 750 milioni a Cdp la sua quota nel gruppo tecnologico: non è una vera privatizzazione, perché la Cassa è controllata dal Tesoro al 70%. Ma è fuori dal bilancio pubblico. E con un debito al 135% del Pil, non è più il caso di andare tanto per il sottile.

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Fare la guerra al fisco paga. Per oltre la metà degli importi è il contribuente a vincere

Federico Fubini – La Repubblica

Lo Stato ha sempre ragione, salvo quando ha torto. E gli succede di aver torto molto spesso quando accusa un’impresa, specie se piccola, di evadere le tasse: più di un euro su due, in caso di contenzioso legale, risulta reclamato dall’Agenzia delle Entrate o dalla Guardia di Finanza al contribuente in modo illegittimo. I numeri pubblicati alla fine di giugno dal ministero dell’Economia rivelano tutta l’intensità della battaglia fra gli uffici del fisco e le imprese. Solo nei primi tre mesi di quest’anno si sono conclusi con un esito completamente favorevole ai contribuenti dei contenziosi tributari per un valore di 3,6 miliardi. Una somma maggiore rispetto a quella per la quale la vittoria in tribunale è andata agli uffici dello Stato, che è di 3,5 miliardi. Anche quando alla fine i giudici le danno ragione, episodi del genere non sono affatto facili da affrontare per un’azienda. Lo stesso ministero dell’Economia calcola come in media, quando è trascinato nella lite fiscale, l’imprenditore deve combattere con tribunali e parcelle degli avvocati per 865 giorni. Specie nelle piccole imprese, è tutto tempo sottratto alla produzione, alla ricerca e allo sviluppo di nuovi prodotti o all’apertura di nuovi mercati. E nella società italiana si tratta di un fenomeno endemico: solo l’anno scorso gli imprenditori hanno presentato più di 250mila ricorsi fiscali perché si sentivano ingiustamente accusati di evadere qualcosa come 35 miliardi di tasse reclamate dallo Stato. In questo momento, le cause di natura tributaria aperte in Italia sono oltre 650mila: un’impressionante drenaggio di risorse, di tempo e denaro dalla produzione alle dispute su conti bancari, fatture e cartelle esattoriali.

Naturalmente l’evasione resta un’emergenza del Paese: secondo le stime più accettate, ogni anno vengono sottratti al fisco circa 120 miliardi ed è dunque evaso un euro ogni quattro pagati (come documentato da Repubblica il 18 aprile 2014). Ma gli ultimi dati pubblicati dal Tesoro sullo stato del contenzioso tributario obbligano a chiedersi se la strategia del fisco stia funzionando. Non ci sono solo i numeri a farne dubitare, benché questi siano di per sé già eloquenti. L’anno scorso il 45% dei ricorsi con esito di merito si è concluso a favore del contribuente, contro il 41% a favore degli uffici pubblici. Soprattutto nelle cause fiscali fino a 20mila euro, quelle che riguardano piccole o minuscole aziende familiari in lotta per sopravvivere, quasi una volta su due lo Stato alla fine risulta aver torto. Ma appunto, non ci sono solo i numeri. Alla radice di questa endemica litigiosità tributaria nella società italiana ci sono metodi che spesso rischiano di accomunare una democrazia del gruppo dei paesi industrializzati ad uno Stato autoritario. Con l’effetto di erodere la base fiscale, perché le imprese colpite dagli accertamenti chiudono anziché far emergere gli abusi. Negli ultimi anni, fin da quando Giulio Tremonti era ministro dell’Economia, le agenzie dello Stato si sono dotate di strumenti di potere assoluto. Oggi è possibile reclamare versamenti al fisco sulla base di presunzioni astratte: la Guardia di Finanza o l’Agenzia delle Entrate, a sorpresa, possono chiedere a un’azienda di giustificare tutti i movimenti bancari di molti anni prima entro due settimane e, se mancano le carte, mandare subito una cartella esattoriale. Se l’imprenditore è in regola, potrà poi vincere il contenzioso all’ultimo grado di giudizio in Cassazione. Ma intanto avrà pagato, sostenuto le spese legali e riavrà indietro il proprio denaro in media dopo dieci anni. Non sempre le regole sono simmetriche. Quando è l’ufficio pubblico a vincere la causa in tribunale, ha diritto a un terzo della somma in gioco subito, a un terzo dopo il primo grado e al saldo in appello. Al contrario, l’imprenditore inizierà a essere rimborsato solo dopo aver vinto in Cassazione.

C’è poi una norma, introdotta sotto Tremonti, che continua a provocare la chiusura di un gran numero di imprese. Lo Stato può imporre un sequestro preventivo dei beni dell’impresa anche se presume l’evasione senza indizi specifici e vi aggiunge un’ipotesi di reato penale. Basta una notifica della Guardia di Finanza o dell’Agenzia delle Entrate a una Procura. In quel caso scattano i sigilli sull’azienda, l’imprenditore è già un presunto colpevole e subito le banche ritirano i finanziamenti perché mancano le garanzie. La società di conseguenza chiude i battenti, licenzia e non produce più un solo euro di tasse negli anni seguenti: un’iniziativa dello Stato che mirava a far emergere del gettito fiscale finisce per far inaridire e distruggere posti di lavoro.

Non che poi presentare ricorso sia così semplice. Per fare causa allo Stato su un contenzioso fiscale si doveva pagare una tassa di circa 150 euro fino a pochi anni fa ma ora è diventata un “contributo unificato” da 4.500 euro. L’evasione in Italia resta dunque una piaga, ma a volte una cura sbagliata può anche aggravare la malattia.