fisco

Bella sinistra

Bella sinistra

Davide Giacalone – Libero 25 luglio 2014

Il Paese è in crisi, impallato, non riesce a crescere e a scrollarsi di dosso la paura. Vero. Sono necessarie riforme strutturali, capaci di ridare potenza al motore. Giusto. La sinistra non deve restare legata ad anacronistici tabù, deve accorgersi che la globalizzazione ha cambiato le carte in tavola e deve tradurre i propri ideali in ricette assai diverse da quelle del passato. Parole sante. Ed ecco, dopo queste premesse, quel che ha in animo di fare il nuovo capo del governo, uomo di sinistra: a. sgravi fiscali alle imprese; b. diminuzione del costo del lavoro, per un totale di 40 miliardi; c. riduzione del debito pubblico per un ammontare di 50 miliardi in tre anni. Sono qui in piedi che applaudo. Quando avrò finito mi mangerò le mani, perché non è il capo del governo del mio Paese, ma della Francia.

Prendiamo quei tre punti, per misurare quanto il governo italiano sta andando in direzione opposta: 1. gli sgravi fiscali, sotto forma di bonus, sono andati a una parte dei lavoratori, non alle imprese che, invece, hanno visto crescere la pressione fiscale, a vario titolo (a fronte della leggera limatura del cuneo sono diminuite le deducibilità, aumentate le tasse sul risparmio, aumentate quelle sulle banche, gli immobili, gli investimenti energetici, etc.); 2. avendo dato il bonus il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato, non per le imprese, ma per il sistema Italia, il che, quindi, non ci ha fatto guadagnare produttività, mentre l’effetto sui consumi deve ancora vedersi; 3. non solo il debito pubblico sale, non solo non ci sono piani di abbattimento, ma la querula petulanza sull’elasticità e la flessibilità lasciano intendere che l’Italia preme sul tetto del deficit, che poi si traduce in debito crescente.

Qui ci siamo spesi per dimostrare, negli anni, quanto la condizione dell’Italia non fosse peggiore di quella di altri, anzi. Abbiamo più volte sottolineato quanto fragile sia la condizione della Francia e delle sue banche. Ma quando leggo le parole di Manuel Valls, capo del governo francese, misuro il loro vantaggio politico: hanno capito e si muovono nella giusta direzione. Noi animiamo la tragicommedia del Senato e facciamo finta di dimenticare che gli appuntamenti autunnali sono ineludibili, mentre i provvedimenti fin qui adottati sono sbagliati, o inutili. Il resto è mera declamazione.

Possibile che a palazzo Chigi non se ne rendano conto? Credo lo sappiano. Lo sanno al punto che hanno idee diverse e contrastanti, su quel che occorre fare. C’è la ricetta Padoan, destinata a trovare spazi di solidarietà in sede europea e internazionale. Quella Delrio, che lancia messaggi di consapevolezza e invita a non fare promesse che non potranno essere mantenute. C’è Calenda, che gradisce la cucina francese, rivendicando la sua coerenza (la riconosco), ma dimenticando che i governi hanno solo responsabilità collegiali e collettive, non individuali (quelle sono penali, tema diverso). Su tutti vola Renzi, che cerca la rissa per avere un colpevole da massacrare, nel frattempo sostenendo tesi più da campagna elettorale che da governo. Fin dall’inizio ha un solo partner, Berlusconi. Connubio che non s’incrina sul Senato, giacché non è la sensibilità costituzionale il loro forte, ma sarà messo alla prova sul terreno dell’economia. Che non può essere imbrogliato a sole parole.

Su quel terreno mi pare che l’atteggiamento italiano conta su un’unica sponda: se si dovesse arrivare alle maniere ruvide, se il trivio fosse fra far finta di non vedere che i conti italiani sono taroccati, costringere l’Italia a un’ulteriore botta fiscale, o, infine, prendere atto degli sfondamenti e avviare una procedura d’infrazione, se si arriva a quello allora il bersaglio diverrebbe la Banca centrale europea, e per essa Mario Draghi. Verrebbe messo su quel conto l’avere comperato tempo rivelatosi inutile. S’indebolirebbe chi, in Germania, ancora considera l’Ue un disegno da completarsi, non da scolorirsi. Con la Bce s’azzopperebbe l’unica cosa che ha funzionato. Può darsi che ciò non rompa l’asse Mineo-Minzolini, e manco quello Berlusconi-Renzi. Scasserebbe tutto il resto, però. Ove mai a taluno interessi. L’alternativa c’è. Valls ne è una dimostrazione. E su quello sì che il connubio sarebbe virtuoso. Meritevole d’essere accostato a quello che, in un lontano passato, tagliò gli estremismi e mise in sicurezza l’Italia.

Equitalia, 475 miliardi da recuperare

Equitalia, 475 miliardi da recuperare

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Valgono un quinto del debito pubblico le somme che i contribuenti italiani devono pagare a Equitalia: 474,5 miliardi di euro. Una cifra enorme, in gran parte derivante dall’evasione fiscale, e che tra l’altro conteggia solo i ruoli affidati al concessionario dalle Entrate alla data del 31 dicembre 2013. Ma in alcuni casi si sa già che il recupero sarà quasi impossibile: il 25% dei debiti con il Fisco – oltre 120 miliardi – è a carico di soggetti falliti. I numeri sono stati forniti ieri dal sottosegretario all’Economia, Enrico Zanetti, nel question time in commissione Finanze alla Camera, e danno l’esatta dimensione di uno stock sul quale nei giorni scorsi erano circolate le cifre più diverse. Al totale si arriva conteggiando, oltre alle imposte non versate, anche le sanzioni e gli interessi. Due voci che costituiscono la metà del “carico netto” di Equitalia. Gli interessi, in particolare, arrivano a 39,7 miliardi e corrispondono al 17,4% dei tributi non pagati.

Contando anche le società di capitali, le società di persone e gli enti non commerciali, in media ogni contribuente italiano deve versare a Equitalia quasi 12mila euro per debiti con l’agenzia delle Entrate, ma di fatto in 13 regioni su 20 gli importi stanno nella forbice tra 7mila e 10mila euro, e senza neppure grandi differenze tra Nord e Sud. Ad alzare la media sono il Lazio (21mila euro), la Campania (15mila) e la Lombardia (14mila). Regioni nelle quali storicamente il debito con Equitalia è più alto, ma per le quali vanno ricercate anche spiegazioni diverse: in Lazio e Lombardia potrebbe pesare la presenza della sede di grandi imprese o, comunque, di debitori con importi maggiori. In Campania, invece, ci sono soltanto 3,2 milioni di contribuenti su 5,7 milioni di abitanti, e questo si riflette sulle statistiche.

Oltre alle somme che dovrebbero essere versate da società e imprenditori falliti – e che sarà quasi impossibile recuperare – ci sono anche una ventina di miliardi per i quali i giudici tributari hanno decretato la sospensione della riscossione durante il processo. Anche escludendo queste cartelle, però, resta una cifra altissima – superiore ai 330 miliardi – che appare fuori scala rispetto ai 3,7 miliardi riscossi da Equitalia nei primi sei mesi di quest’anno, secondo i dati diffusi ieri dallo stesso agente. Di questo passo, insomma, servirebbero 40 anni per abbattere lo stock, sempre a patto che altri debiti non diventino nel frattempo inesigibili. D’altra parte, Equitalia – da quando esiste – ha moltiplicato gli importi riscossi rispetto all’attività dei vecchi concessionari, e non si può dimenticare che dal 2011 Governo e Parlamento hanno introdotto una serie di norme per allentare la presa su aziende e contribuenti, già provati dalla crisi. Nel primo semestre 2014, ad esempio, gli importi recuperati sono rimasti in linea con quelli dell’anno scorso nonostante la possibilità di riscossione sia stata di fatto congelata dalla rottamazione dei ruoli scaduta a fine maggio. Senza dimenticare – ultima misura in ordine di tempo – la chance di essere riammessi alla rateazione fino a un massimo di sei anni anche per chi era decaduto al 22 giugno dell’anno scorso.

Il problema, insomma, non è tanto nell’attività di riscossione, ma nell’entità del debito, oltre che nella situazione economica. La stessa Equitalia ieri ha comunicato che al 30 giugno scorso al risultavano attive più di 2,3 milioni di rateazioni (in questo caso fino a un massimo di dieci anni) per un ammontare di 25,6 miliardi di euro.

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Tasse e fatture digitali, fisco più semplice

Enrico Marro – Corriere della Sera

Obiettivo Fisco amico, soprattutto delle piccole imprese. Varati i primi due schemi di decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, uno sulle semplificazioni e la dichiarazione precompilata e l’altro sulla riforma del catasto, il governo sta preparando un terzo decreto su «abuso di diritto» e riordino delle sanzioni, che potrebbe approdare in Consiglio dei ministri ai primi di agosto. A settembre, invece, arriverà un quarto decreto che rivoluzionerà la tassazione per le piccole imprese che usano i regimi fiscali semplificati: circa 4 milioni di contribuenti per i quali dovrebbe arrivare la tassazione per cassa e non più per competenza.

Il reddito d’impresa si calcolerà cioè su entrate ed uscite effettive e non su costi e ricavi teorici. In questo modo si dovrebbe superare il problema dei mancati incassi dovuti ai ritardi nei pagamenti. Le tasse, in altri termini, si pagheranno solo su quanto realmente incassato. La novità sarà accompagnata dall’incentivazione della fatturazione elettronica anche tra privati (registri e adempimenti semplificati), che dovrebbe appunto accorciare i termini di pagamento. Inoltre, per favorire la capitalizzazione delle piccole aziende è in arrivo una importante novità: le società individuali e di persone si vedranno tassare il reddito che resta in azienda in base alla nuova Iri (Imposta sul reddito imprenditoriale, prevista dalla delega) secondo l’aliquota proporzionale allineata all’Ires (società di capitali), cioè il 27,5%, mentre solo la parte di reddito che verrà prelevata dall’imprenditore e dai soci subirà l’aliquota Irpef di competenza, concorrendo alla formazione dell’imponibile complessivo. Infine, arriveranno anche un nuovo regime forfettario al posto del regime dei minimi articolato secondo il settore economico di attività e un sistema semplificato per le imprese di nuova costituzione.

Il cronoprogramma di attuazione della riforma fiscale prevede quindi a ottobre la presentazione del decreto legislativo di riordino della giungla delle agevolazioni fiscali. Il provvedimento sarà collegato alla legge di Stabilità 2015 perché da questo capitolo dovrebbero arrivare alcuni miliardi di risparmi. Una partita che si trascina da diversi anni e che nessun governo è riuscito a chiudere. Il processo di riforma sarà quindi completato con i decreti sul nuovo processo tributario, con la revisione della riscossione nazionale locale, che dovrebbe separare i destini dell’Agenzia delle entrate e di Equitalia (oggi posseduta al 51% dalla prima) e col riordino del regime di tassazione trasnazionale. Il tutto sarà accompagnato da un’azione dell’Agenzia delle entrate più concentrata a prevenire l’evasione fiscale.

In questo senso il decreto sull’abuso di diritto e le sanzioni che dovrebbe essere approvato all’inizio di agosto è decisivo. Si tratta infatti di disinnescare la causa di una parte importante del contenzioso fiscale che poggia appunto sulla difficoltà interpretativa delle norme, aprendo da un lato spazi all’elusione e all’evasione e dall’altro a comportamenti vessatori dell’amministrazione fiscale. Per questo si tratta di fare chiarezza distinguendo nettamente, per esempio, tra condotte legittime in quanto finalizzate a pagare meno imposte possibili e condotte invece che hanno come scopo l’evasione. La definizione dell’abuso di diritto verrà accompagnata da una depenalizzazione delle fattispecie minori. Per esempio la dichiarazione infedele per piccoli importi non dovrebbe più far scattare un processo penale ma verrebbe punita con sanzioni amministrative. Decisioni che il governo si aspetta portino a un aumento del grado di fedeltà dei contribuenti e a una diminuzione delle liti giudiziarie.

L’intero processo di riforma va però accelerato. La legge delega 23 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale l’11 marzo ed è entrata in vigore il 27. I primi due decreti attuativi (semplificazioni e catasto) sono stati licenziati dal governo a fine giugno, ma non sono ancora definitivi. I decreti infatti passano all’esame delle commissioni parlamentari competenti, che deve concludersi entro un mese, e poi tornano in Consiglio dei ministri per l’approvazione conclusiva. La riforma prevede che tutti i decreti legislativi debbano essere approvati entro un anno. I provvedimenti da emanare sono numerosi. Tra gli altri anche quelli sul riordino dei giochi, e sul potenziamento della lotta all’evasione, oltre che la stima e il monitoraggio della stessa: una novità assoluta in Italia. La riforma del Fisco è appena agli inizi.

L’attesa

L’attesa

Davide Giacalone – Libero

 Si vive con un senso di attesa. Ogni tanto si butta un occhio agli indici che segnalano gli umori del mercato, ma solo per capire se gli anestetici dispensati dalla Banca centrale europea funzionano ancora. Non è detto che debba succedere qualche cosa di drammatico, ma è drammatico che da noi non succeda niente. Che si parli del nulla. Che ancora siano sulla scena le dirette streaming, capaci non certo di portare trasparenza, ma di rendere trasparente il vuoto, il vaniloquio. Sulla scena non c’è più la risata scomposta e volgare di un Sarkozy alterato, incosciente e prossimo alla fine, ma non per questo s’è fatto diverso l’atteggiamento di molti che ci osservano, da fuori. Dicono: ci fidiamo delle riforme e dei conti italiani. Lo dice anche Wolfgang Schäuble, ministro tedesco dell’economia e falco vero, appositamente travestito da colomba. Ci fidiamo. E’ una trappola, perché sappiamo tutti che i conti non sono in linea con gli obiettivi e le riforme sono solo un suono, senza che nessuna andrà in porto prima della chiusura del bilancio 2014. Per non dire dei loro effetti.

È incredibile la velocità con cui Matteo Renzi ha vinto la sua partita politica, radendo al suolo il gruppo dirigente del Partito democratico, conquistando palazzo Chigi e portando a casa il solo successo elettorale di un governante europeo. È stato bravissimo. È non meno incredibile la velocità con cui sta sprecando le occasioni di far pesare e fruttare questi successi, la supponenza, anche mimica, con cui dimostra di pensare che la politica europea sia la proiezione continentale delle camarille pidiessine, l’infantile convinzione che se la palla ora è sua può anche portarsela via. Un gigantesco falò di opportunità, una pira il cui orrendo foco è destinato a riscaldare le gesta di chi ha osservato e amato la politica nell’era in cui la televisione induceva confusione fra fama e potere, fra l’essere famosi e l’essere qualcuno.

Incredibile anche la condotta della destra. Privi di un leader hanno scoperto di non avere mai avuto una politica. E lo dimostrano proprio sul terreno che dovrebbe essere il cortile della loro casa culturale: l’economia. Il nuovo commissario europeo all’economia è un quarantatreenne finlandese, popolare, già premier. Si chiama Jyrki Katainen e ha detto: «Talvolta mi pare difficile capire come mai la disciplina fiscale sia vista come una politica dura e contraria all’economia sociale di mercato: la mia esperienza indica l’esatto contrario». Bravo. È comprensibile che un leader della sinistra, quale è Renzi, punti alla redistribuzione della ricchezza. Anche se finirà con il ridistribuire la miseria. È incomprensibile, inammissibile, insensato che da destra non s’imposti una politica esplicitamente indirizzata al taglio profondo della spesa pubblica, all’abbattimento del debito, quindi a un abbassamento delle tasse. Sanno dire solo l’ultima cosa, in questo ritrovandosi al fianco della sinistra: sia nel dirlo che nel fare il contrario.

Hanno tutti paura. Biascicano un moralismo da strapazzo, con il quale alimentano il veleno anti-partitico e anti-istituzionale, salvo poi praticare riforme costituzionali che consegnano tutto il potere manco ai partiti, ma a chi li capeggia. Ma hanno paura di dire che la spesa da tagliare è oggi catalogabile anche in quella sociale, non solo in quella degli sprechi e delle ruberie. È il sociale a coprire sprechi e ruberie. Prendete la scuola: ci sono regioni che stanno inzeppando le famiglie di ferraglia informatica, destinata agli studi, ma senza fornire né sistemi operativi né contenuti. Soldi buttati. A cura della destra e della sinistra. Certo che la scuola va resa digitale, ma quella è la via che la rende più costosa, lasciandola analogica. Il digitale ha senso se taglia le spese e aumenta la potenza culturale, qui si fa il contrario. Stesso discorso per la sanità. Ha ragione Katainen: il rigore dei conti è la cosa più sociale che si possa immaginare, in un Paese che ha un debito spaventoso e solo un terzo dei cittadini che lavorano.

Ma si resta in attesa. Qualche cosa accadrà. Magari ci concedono la flessibilità. Così potremo fare qualche altro investimento sociale. Forse arrivando, dopo congrua spesa, a conquistare il glorioso successo dei certificati on line. In un mondo in cui, con il digitale, i certificati non dovrebbero neanche esistere.

 

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

L’Italia è un Paese tossico per le multinazionali di successo

Edoardo Narduzzi – Il Foglio

E se l’Italia fosse già diventata un semplice mercato, una country, una semplice linea di affari nel bilancio consolidato di una multinazionale di successo nel mercato globale? Mentre proseguono le inutili polemiche post acquisizione della Indesit da parte della Whirlpool con le solite grida «Al lupo! Al lupo!» per segnalare il pericolo di un made in Italy sotto attacco da parte dei predatori internazionali, si registrano altre fughe dal Belpaese di multinazionali macina utili. L’italianissima Gtech, un tempo Lottomatica, ha appena concluso l’offerta sull’americana Igt, leader mondiale dei casinò e nel social gaming, per 4,6 miliardi. Ne nasce il gruppo più importante del pianeta nel settore del gioco, anche di quello digitale. Contestualmente all’acquisto Gtech ha annunciato che sposterà la sede fiscale del gruppo dall’Italia a Londra e che procederà al delisting del titolo da Piazza Affari. Qualche mese prima era stata la Fiat di Sergio Marchionne a muovere la sede fiscale del nuovo gruppo nato dalla fusione con Chrysler, Fca, a Londra e quella legale in Olanda.

I commentatori banali si fermerebbero a evidenziare il solo shopping fiscale come ragione prevalente, se non unica, della fuga dall’Italia. La realtà, purtroppo, è ben più negativa per l’Italia e il motivo fiscale è solo uno dei tanti. Certo, l’Irap che esiste e si paga solo in Italia e che è incomprensibile alla totalità dei manager internazionali nelle sue logiche di calcolo e nella sua peculiare base imponibile, che ne fa una patrimoniale sulle imprese, non aiuta a trattenere le multinazionali. Certo, il tax rate fino a 10 punti più alto di quello che offre il Regno Unito di Dabid Cameron, che ha per ben due volte ridotto l’aliquota sugli utili societari, è una sirena alla quale è difficile resistere. Certo, il cuneo fiscale più alto perfino di quello tedesco non può non fare da acceleratore della fuga. Ma, se l’Italia avesse una Pubblica amministrazione degna nella sua qualità media e nei suoi meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, gran parte dei problemi fiscali potrebbero essere gestiti. Le multinazionali di successo scappano da un paese con una giustizia civile da quinto mondo e con una macchina burocratica pensata per essere un postificio, un atipico strumento di politica occupazionale keynesiana capace solo di scavare buche laddove strade e ponti non saranno mai costruiti. La Pa italiana non garantisce i servizi essenziali per le multinazionali contemporanee in termini di qualità media e tempi di lavorazione e le nostre multinazionali fanno shopping burocratico all’interno della Ue. Eppoi, le multinazionali italiane di successo scappano anche da un mercato dei capitali periferico e da un sistema bancario nel quale il credito è non solo rarefatto ma anche senza grandi protagonisti internazionali in grado di accompagnare il business dall’America alla Cina, dalla Russia al Canada.

Gtech in qualche modo è l’idealtipo del made in Italy di successo nell’high tech. Apparentemente è una società che fa business con lotterie e gratta&vinci, nella realtà una formidabile Amazon del gioco digitale capace di anticipare i megatrend mondiali del settore. In parte grazie alla deregolamentazione del comparto dei giochi adottata nel passato dall’Italia (liberalizzare fa sempre bene e produce crescita e sviluppo), in parte grazie a un management di ottima qualità, negli anni Lottomatica ha saputo costruire delle piattaforme proprietarie per gestire i suoi tanti giochi e capire che le stesse potevano facilmente diventare degli erogatori di servizi nei vari mercati della globalizzazione. L’evoluzione della tecnologia nella direzione del cloud e delle app ha consacrato questa visione di business.

Gtech e Fca che fanno rotta all’estero segnalano quanto sia concretamente difficile fare business per una multinazionale che oggi si presenta sui mercati internazionali a raccogliere capitali con base in Italia e strategia operativa a livello globale. Gli azionisti, in primis quelli istituzionali operativi nei vari continenti, non amano avere in portafoglio titoli o azioni made in Italy. Su questi titoli, stante la comprovata atipicità italica, chiedono un premio per il rischio aggiuntivo per investire. Premio che non ha senso pagare e che nessuna multinazionale che vuole essere davvero competitiva si può permettere di pagare.

Ecco spiegato perché, mentre a Palazzo Chigi vengono presentate e illustrate le dettagliate slide che spiegano le molte riforme di cui l’Italia ha bisogno, i ritardi accumulati nel passato spingono alla delocalizzazione le nostre migliori multinazionali. Ovviamente, la colpa non è del bravo e determinato premier che è arrivato al governo da soli quattro mesi. Ma è altrettanto ovvio che di tempo Matteo Renzi non ne può più guadagnare: o riforma per davvero e rapidamente oppure si ritrova a governare un paese condannato a crescere dello zero virgola ogni anno.

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

La flessibilità serve a poco: bisogna abbassare le tasse

Renato Brunetta – Il Giornale

#matteohurryup: chi di ashtag ferisce di ashtag perisce. L’Economist ha elogiato negli ultimi giorni l’abilità di Matteo Renzi nell’uso dei social network. Ma non basta per essere un buon presidente del Consiglio. L’analisi dei primi 4 mesi di governo, infatti, è feroce: «A parole, Renzi è favorevole a ampie riforme e mercati più liberi. L’Italia deve cambiare per cambiare l’Europa, dice. Ma la sua promessa di una riforma al mese non è andata in porto. Ora Renzi dice di avere bisogno di 1000 giorni per fare la differenza, non più 100. Renzi è giovane ed energico, ma su di lui pesano anche inesperienza, improvvisazione e momenti di vacuità. Questa settimana ha pubblicato su Twitter una foto della sua scrivania che voleva dimostrare il suo duro lavoro, ma alcuni vi hanno visto solo un ammasso disorganizzato di carta e penne». E ancora: «L’attenzione sulle riforme istituzionali sta distraendo Matteo Renzi dalle riforme molto più urgenti sull’economia in stagnazione e la burocrazia asfissiante. Centinaia di leggi e decreti sono già stati adottati senza essere stati attuati. Il successo di Renzi in termini di riforme istituzionali non conterà nulla se non riuscirà a resuscitare l’economia. Ma lui spende troppo tempo a fare lobby a Bruxelles per più flessibilità sulle regole di bilancio, e troppo poco a parlare di più flessibilità nel mercato del lavoro e dei prodotti in Italia. Invece di chiedere esenzioni per alcune categorie di spesa, come gli investimenti nella tecnologia, dovrebbe fare di più per tagliare gli sprechi». Poi apprendiamo dai giornali nazionali che «È il numero magico del Pil a tormentare Renzi, non quello dei 2/3 in Parlamento sulla modifica del bicameralismo. L’enfasi usata per commentare le tensioni sulle riforme istituzionali è stata un modo per coprire le difficoltà sui conti pubblici e allentare la presa di quanti teorizzano la necessità di una manovra correttiva entro l’anno»; che «Sarà l’economia a determinare la tenuta o la caduta della popolarità del presidente del Consiglio». E, dulcis in fundo, che il presidente del Consiglio ha un suo libro preferito, sempre sottomano, un “livre de chevet”: il riassunto del bilancio dello Stato.

Insomma, Renzi comincia a rendersi conto che la vera partita si gioca sul campo dell’economia, e, oltre a definire la strategia di politica economica per i prossimi anni, deve porre rimedio alle misure in deficit varate dall’inizio del suo governo a oggi. Una per tutte: gli 80 euro. I risultati della Spending review tardano ad arrivare; l’Ecofin ha bocciato la richiesta di rinvio di un anno del pareggio di bilancio, dal 2015 al 2016, e ha chiesto all’Italia «sforzi aggiuntivi» per rispettare il Patto di Stabilità e crescita. La situazione non è per niente buona. Fa bene il presidente del Consiglio a svegliarsi alle 5 del mattino, sabato incluso, per cercare una soluzione. Anche perché tutto quanto sopra assume una valenza ancora maggiore in conseguenza della circostanza per cui dal 1° luglio e fino a dicembre l’Italia ha l’onore e l’onere della presidenza di turno del semestre europeo.

#matteononpuoisbagliare

In questo contesto, inutile insistere con le richieste di flessibilità. Si facciano le riforme in Europa e in Italia e la Germania reflazioni. La flessibilità ne sarà la diretta conseguenza. Senza neanche bisogno di chiederla. È nelle cose. Ecco la nostra soluzione per “superare” la soglia del 3% rimanendo europeisti. L’Italia non come eccezione, ma come strategia. Dicevamo: reflazione. Vale a dire aumento della domanda interna, quindi dei consumi, degli investimenti, dei salari, delle importazioni e, di conseguenza, della crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. È questa la parola d’ordine che deve segnare il cambio di passo nella politica economica europea. La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni della Commissione europea nei suoi confronti a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti (netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni). Gli altri paesi devono farlo per cambiare la politica economica germano-centrica dell’austerità e del rigore cieco ed imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, tanto al proprio interno quanto a livello di intera eurozona (conseguenza della crescita in ogni singolo Stato). Se tutto ciò avverrà a livello europeo, e non di singolo Stato, le risorse necessarie per l’avvio di riforme volte a favorire la competitività di ciascun “sistema paese” potrebbero non rientrare nel calcolo del rapporto deficit/Pil ai fini del rispetto del vincolo del 3% e cadere nell’alveo dei cosiddetti “fattori rilevanti” per quanto riguarda i piani di rientro definiti dalla Commissione europea per gli Stati che superano la soglia del 60% nel rapporto debito/Pil. Concretamente, ciascun paese definisce, sulla base delle proprie caratteristiche e specificità, le riforme da implementare al proprio interno, per 1-2 punti di Pil, con relative scadenze temporali; ciascun paese adotta, poi, simultaneamente le riforme definite con la Commissione europea; e beneficia, quindi, degli effetti positivi tanto delle proprie riforme, quanto di quelle adottate dagli altri Stati, attraverso l’aumento delle esportazioni. Risultato: ogni singolo Stato tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive; l’intera eurozona tornerà a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un gioco a somma positiva. Per tutti.

#matteoattentoalbund

Mentre la politica italiana discute, si dilania e si spacca sulle riforme istituzionali, gli avvertimenti dei mercati diventano sempre più frequenti e più pesanti. Borse giù e spread su. Almeno 5 i fattori: la crisi del Banco Espirito Santo scopre i punti deboli del sistema bancario portoghese; in Bulgaria è corsa agli sportelli della Banca Centrale Commerciale e della First Investment Bank; il bollettino della Bce prevede «Una ripresa molto graduale in Europa nel secondo trimestre 2014 e rischio di revisioni a ribasso delle stime in tutti i paesi dell’eurozona»; i dati macroeconomici relativi all’Italia sono disarmanti e, per dirla con il Centro Studi Confindustria: «Si riducono le possibilità che la chiusura del 2014 rispetti le previsioni del governo di un Pil in crescita dello 0,8%» (per la cronaca: per il governo nel 2014 sarà dello 0,8%; per la Commissione europea dello 0,6%; per l’Ocse dello 0,5%; per Confindustria dello 0,2%. Se chiudiamo a 0 siamo pure fortunati); la Federal Reserve ha annunciato per dopo l’estate la fine del Quantitative easing. Evento che i mercati hanno già cominciato a scontare.

Cos’altro deve succedere per far suonare l’allarme in Europa? Stiamo raccogliendo oggi i frutti amari delle politiche economiche sbagliate imposte ai paesi dell’Eurozona dalla Germania di Angela Merkel negli ultimi 5 anni. E le economie nazionali non sono pronte per affrontare un altro ciclo di speculazione finanziaria e di crisi. L’unico Stato che riesce a trarre vantaggio da questa situazione catastrofica è, ancora una volta, quello tedesco, che vede i tassi di interesse sui Bund tornare ai livelli minimi dell’estate del 2012, intorno allo zero. È di fatto ricominciata la corsa ai titoli del debito pubblico tedesco, considerati bene rifugio. Non è un buon segnale: sappiamo tutti come è andata a finire 2 anni fa. Che fare, allora, perché la storia non si ripeta? Innanzitutto agire tempestivamente. A livello europeo: 1) La Banca Centrale Europea deve cambiare il suo Statuto per poter attuare una politica monetaria più espansiva. 2) Le altre istituzioni europee (Consiglio, Commissione e Eurogruppo), anche in occasione del rinnovo dei propri rappresentanti: portino a termine le quattro unioni (bancaria, politica, economica e di bilancio); avviino un processo di mutualizzazione del debito pubblico europeo attraverso l’emissione di Eurobond/Union Bond; stimolino, come abbiamo detto, tutti gli Stati membri a un processo di riforme strutturali, dei cui effetti positivi beneficiano non solo i singoli Stati al loro interno, ma l’Eurozona nel suo complesso; in particolare, chiedano alla Germania di reflazionare, vale a dire aumentare la domanda interna, quindi i consumi, gli investimenti, i salari, le importazioni e, di conseguenza, la crescita, per il proprio paese e per gli altri paesi. 3) La Banca europea degli investimenti deve essere ricapitalizzata per l’emissione di Project bond finalizzati a finanziare investimenti specifici in ricerca e infrastrutture.

D’altro canto, in Italia serve: 1) una vera riforma fiscale che preveda, per esempio, una aliquota unica per tutti i contribuenti, semplificando il sistema, riducendo la pressione fiscale e, allo stesso tempo, aumentando il gettito per lo Stato attraverso il recupero dell’evasione; 2) la riduzione delle tasse sulla casa che, triplicate nel 2014 rispetto al 2011 hanno causato il crollo del mercato immobiliare e di un settore, quello edile, fondamentale per l’economia; 3) una vera riforma del mercato del lavoro, che aumenti la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, favorendo la competitività del “sistema Italia”. Senza crescita e con il rischio di una esplosione estiva della crisi, inutile insistere con l’Europa per avere flessibilità per l’Italia, che tra l’altro non è credibile in questa richiesta perché non riesce a usare neanche i margini che le sono già stati riconosciuti (es. per il pagamento dei debiti della Pa, per il contrasto alla disoccupazione giovanile e come fondi

strutturali). La strada da seguire è un’altra. L’ha indicata il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi: «Ci vuole una governance europea per le riforme strutturali». In questo articolo abbiamo illustrato le nostre proposte. #matteofatteneunaragione.

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Burocrazia ammazza imprese: 12mila euro l’anno in scartoffie

Fabrizio Ravoni – Il Giornale

Un mese di lavoro per correre dietro alle scartoffie. Per rispettare gli impegni burocratici e fiscali, una piccola e media impresa dedica 30 giorni lavorativi all’anno. Ed una spesa media che oscilla fra i 7mila e i 12mila euro. E chi paga di più sono proprio le aziende di più piccole dimensioni: quelle sotto i 50 dipendenti. Per questo tipo di aziende il costo è cresciuto del 19% negli ultimi 7 anni. Per quelle con meno di 250 occupati la spesa stimata è di 7mila euro. Nel complesso, la “mano morta” della burocrazia comporta un costo complessivo a carico delle piccole e medie imprese calcolato in 31 miliardi di euro. Rispetto al 2007 la crescita del tempo dedicato a sbrigare il carico burocratico è aumentato del 26,4%. Le stime vengono dalla Cgia di Mestre. «Si pensi – spiega Giuseppe Bortolussi – che, secondo l’indagine annuale Promo Pa Fondazione, l’81% delle imprese con meno di 50 addetti è costretto a rincorrere a consulenti esterni per fronteggiare questo nemico invisibile: ovvero la cattiva burocrazia». Il 70% delle imprese deve ricorrere a professionalità esterne ad integrazione degli uffici amministrativi, e l’11% affida a terzi tutte le incombenze. «È evidente – commenta il presidente della Cgia di Mestre – che se non si mette immediatamente mano a quel labirinto di leggi, decreti e circolari varie che rendono la vita impossibile a milioni di piccoli imprenditori, corriamo il pericolo di soffocare la parte più importante della nostra economia».

La burocrazia, comunque, non colpisce soltanto le aziende ma anche i cittadini che, quotidianamente devono affrontare la fila allo sportello. Sempre la Cgia di Mestre segnala che negli ultimi 10 anni il numero di persone che attendono più di 20 minuti agli sportelli dell’ufficio anagrafe è cresciuto del 43,7%. Infatti, nel 2003 12,6 persone su 100 lamentavano tempi di attesa superiori ai 20 minuti: 10 anni dopo la coda all’anagrafe è arrivata a durare più di 20 minuti per ben 18,1 persone su 100. La soglia dei venti minuti, poi, colpisce anche il pianeta della Sanità. Se nel 2003 ben 41 persone su 100 avevano riscontrato un’attesa allo sportello dell’Asl superiore ai venti minuti, dieci anni dopo la fila si è idealmente “allungata” di 8 persone. In altre persone, nel 2013 ben 49,7 persone su 100 hanno denunciato di aver atteso più di 20 minuti di fronte agli sportelli delle aziende sanitarie locali. Condizione drammatica nel Centro Sud. La Calabria guida la graduatoria dei cittadini che restano più tempo davanti a uno sportello della Asl. Il 70% dichiara di aver atteso oltre i 20 minuti. Così come il 66,6 per cento dei siciliani e il 62,5 per cento degli abitanti del Lazio. Per le code all’anagrafe, invece, la graduatoria si ribalta. E i laziali guidano la non certo invidiabile classifica. Il 38,5% dichiara di aver atteso più di 20 minuti per un certificato. Seguono i toscani con il 22,3%. Al terzo posto i sardi. Negli ultimi dieci anni la situazione, ancorché migliorare (grazie a una più diffusa informatizzazione della pubblica amministrazione) è peggiorata. Tant’é che la percentuale di chi segnala lunghe file allo sportello è più che raddoppiata (+112;4%). «I cittadini e le piccole imprese per ottenere un certificato sono ormai sottoposti ad una vera e propria Via Crucis» commenta Bortolussi. «Per colpa – sottolinea – di leggi, decreti e circolari scriteriate e spesso in contraddizioni tra loro è aumentata la burocrazia; complicando la vita dei cittadini e, in molti casi, anche quella dei dipendenti pubblici».

La burla del 730 “a domicilio”

La burla del 730 “a domicilio”

Franco Bechis – Libero

La dichiarazione dei redditi dell’anno prossimo (quella relativa al 2014) non arriverà a casa dei contribuenti, come più volte annunciato da Matteo Renzi. Sarà disponibile solo per via telematica, e per leggersela bisognerà effettuare tutte le procedure di registrazione presso il sito Internet dell’Agenzia delle Entrate, passaggio questo che risulterà particolarmente ostico a una parte della platea a cui la semplificazione è rivolta: quella dei pensionati. La stessa condizione riguarderà i lavoratori dipendenti, unici altri ammessi al beneficio della dichiarazione dei redditi precompilata. La novità emerge dal testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali trasmesso al Senato dal governo lo scorso primo di luglio. Un testo di 34 articoli ben più complesso e insidioso di quel che appariva dalle premesse.

L’idea di Renzi era quella di sollevare una parte dei contribuenti italiani dal milione di contestazioni formali che arrivano ogni anno dall’Agenzia delle Entrate, facendo arrivare loro a casa una dichiarazione dei redditi precompilata dal fisco italiano, che è in grado di attingere alle varie banche dati del Grande Fratello fiscale anche per controllare già le detrazioni e le deduzioni cui il contribuente avrebbe diritto. Idea semplice, che Renzi ha rubato ad uno dei suoi alleati (la proposta era di Angelino Alfano), facendola sua e rivendendosela subito all’opinione pubblica. Ma quella semplicità si è complicata molto con il decreto attuativo che la fa entrare in vigore in parte dal 2015 (quando anche le spese mediche saranno calcolate dall’Agenzia). Perché il testo arrivato in Parlamento fa entrare i contribuenti in un vero e proprio labirinto, causa non pochi problemi alle aziende da cui dipendono e che fungono da sostituti d’imposta, e rischia di provocare una rivolta da parte degli intermediari fiscali, siano essi Caf o commercialisti. Non solo, ma grazie alla apparente “semplificazione” del governo il costo della dichiarazione dei redditi rischia di lievitare per gran parte dei contribuenti, a meno che rinuncino alla dichiarazione precompilata e continuino a presentarla come hanno fatto in tutti gli anni precedenti.

La prima novità che sicuramente causerà disagio alle imprese sarà l’obbligo di trasmettere all’Agenzia delle Entrate entro il «7 marzo di ogni anno i dati relativi alla certificazione unica che attesta l’ammontare complessivo delle somme erogate, delle ritenute operate, delle detrazioni d’imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali trattenuti». Significa un anticipo di un mese e mezzo rispetto ad oggi, e con le imprese che devono chiudere i bilanci dell’anno precedente e ottemperare agli altri adempimenti consueti sarà non piccolo il problema. In caso di ritardo o di errata trasmissione, alle imprese sarà comminata una multa fissa di 100 euro per ogni dipendente. Tra gli anticipi obbligatori anche la modifica del termine (dal 30 aprile attuale al 28 febbraio che scatterà nel 2015) «per la trasmissione all’Agenzia delle Entrate dei dati relativi ad alcuni oneri deducibili e detraibili sostenuti nell’anno precedente, quali interessi passivi sui mutui, premi assicurativi, contributi previdenziali, previdenza complementare». Raccolti tutti i dati entro il 15 aprile, per i lavoratori dipendenti e pensionati sarà disponibile solo per via informatica la dichiarazione precompilata da parte dell’Agenzia delle Entrate. I contribuenti che potranno accedervi avranno due opzioni: accettarla così com’è o cambiarla, inserendo detrazioni o deduzioni che non erano state previste. Ma anche se si accetta così com’è, la storia è appena all’inizio. Perché quella dichiarazione precompilata va poi presentata alla stessa Agenzia. Come? Da soli, sempre per via telematica. O chiedendo al proprio datore di lavoro di prestare assistenza fiscale. Oppure attraverso un Caf o tramite il proprio commercialista. In questi due casi però quella dichiarazione che resta intonsa rispetto a come era stata compilata dall’Agenzia delle Entrate dovrà essere accompagnata da visto di conformità del Caf o del commercialista. E se risulteranno errori l’Agenzia delle Entrate multerà e sanzionerà il commercialista o il Caf, e non il contribuente. È un aspetto grottesco della rivoluzione di Renzi: lo Stato compila la dichiarazione dei redditi del cittadino, il commercialista deve dire se lo Stato ci ha preso o no, e se questo suo giudizio è errato verrà punito lui e non lo Stato che ha inserito un dato errato. Che cosa significa questo? Che di fatto Caf e commercialisti avranno la responsabilità civile di quelle dichiarazioni dei redditi che però sono compilate dall’Agenzia delle Entrate. Cercheranno quindi di assicurarsi, e trasferiranno quel costo suppletivo sulla clientela. Non solo: pretenderanno dal contribuente ogni documentazione immaginabile per controllare i dati dell’Agenzia, perché sono loro a poterci rimettere le penne in caso di errore. E il possibile errore dello Stato non è eventualità remota: già oggi quasi tutti gli avvisi bonari e le contestazioni dell’Agenzia si basano su dati errati. Proprio per questo non ha senso scaricare sui professionisti la responsabilità di uno Stato che lavora male. Più che una semplificazione, quindi, una presa in giro.

La guerra dei trent’anni con il fisco per un rimborso

La guerra dei trent’anni con il fisco per un rimborso

Vittorio Da Rold – Il Sole 24 Ore

Facciamo un salto nel passato fino al 1984 quando non c’erano ancora i telefoni cellulari e Internet muoveva i primi passi ma iniziava un contenzioso con il fisco italiano che forse finirà nel 2014, una sorta di guerra dei trent’anni con il Fisco. Sembra incredibile, ma purtroppo vero. Ripercorriamo la vicenda.

Nell’aprile 1984 il contribuente S.L. subisce un’indebita ritenuta Irpef al momento dell’erogazione di un acconto sul Tfr, l’indennità di fine rapporto. Poco male – pensa il nostro malcapitato – ma non sarà così. Il 7 novembre 1984 il contribuente presenta all’Intendente di Finanza di Milano una richiesta di rimborso, ottenendo il cosiddetto silenzio-rifiuto (un no senza motivazioni). Il 30 marzo 1985 il contribuente presenta ricorso alla Commissione provinciale di Milan, che con sentenza del 17 giugno 1987 accoglie il ricorso. Ma il Fisco non si arrende e l’Ufficio presenta appello. Il primo ottobre 1992 (e sono già trascorsi sei anni) la Commissione tributaria regionale conferma la sentenza di primo grado, dando nuovamente ragione al contribuente. Ma il Fisco non demorde e il 9 luglio 1993 l’Intendenza di Finanza di Milano presenta ricorso alla Commissione tributaria centrale. Il calvario giudiziario continua. Il 19 dicembre 2008 (e sono già trascorsi 24 anni), nonostante le precedenti condanne, l’Agenzia delle Entrate deposita alla Commissione tributaria centrale (soppressa da anni ma ancora in funzione per smaltire l’arretrato!) dichiarazione di persistenza dell’interesse alla definizione del giudizio. Così si va avanti nella contesa. Il 28 novembre 2011 la Commissione tributaria centrale condanna definitivamente l’Agenzia delle Entrate. La vicenda è finita? Non ancora. Il dispositivo della sentenza viene notificato per raccomandata a.r nel dicembre 2011 al domicilio eletto, 27 anni prima, presso lo studio dell’avvocato che allora assistette il contribuente e che ora è difficilmente reperibile per motivi di età. Il contribuente, quindi, ancora non sa delle definitiva vittoria. Solo nel marzo di quest’anno il contribuente riceve una comunicazione, datata 6 febbraio 2014, con la quale il Team Rimborsi chiede al contribuente di esibire il “Modello 102”, documento oggi sconosciuto e che forse fu rilasciato nel 1984 dal datore di lavoro (una società oggi in Italia estinta) per poter procedere al rimborso. A questo punto il contribuente (ormai settantaduenne ma ancora tenace e combattivo) si affida alla Consilium (www.consilium.mi.it) nella persona del commercialista Franco Formenti. Il professionista, dopo lo concerto iniziale (che sarà il “Modello 102”?), cerca di prendere contatto con il funzionario responsabile del Team Rimborsi per far presente che tutta la documentazione di supporto del credito è già a loro disposizione, essendo stata depositata nel fascicolo della causa che loro ovviamente ben conoscono; si vorrebbe evitare di dover avviare il giudizio di ottemperanza (nuovo ricorso e altri costi). Ma si scopre che il numero di telefono indicato in calce alla comunicazione dell’Agenzia è inaccessibile e il numero di fax, anch’esso indicato in calce alla medesima comunicazione, non riceve i messaggi. Situazione kafkiana.

A oggi il contribuente è in attesa di ricevere risposta al messaggio e-mail inviato al Team Rimborsi (per via normale perché i singoli Uffici non hanno un indirizzo d posta certificata) e all’indirizzo Pec della Direzione provinciale II di Milano. Il contribuente attende, sperando di ricevere i suoi 12.269,55 euro oltre gli interessi maturati in trent’anni avendo rinunciato al rimborso delle spese. Nel frattempo il cittadino ha venduto dei titoli per pagare l’Imu e la Tasi che naturalmente sono scadenze che non aspettano.

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Meno spesa e meno tasse, due cose da fare insieme

Roberto Perrotti – Il Sole 24 Ore

Matteo Renzi è andato al Parlamento europeo e ha fatto quello che si era ripromesso e che gli suggeriva il suo enorme fiuto politico: «Battere i pugni sul tavolo in Europa», come tanti vogliono in Italia. Ha suscitato la reazione di parlamentari, ministri e banchieri centrali tedeschi: che cosa c’è di meglio per la sua immagine in Italia?
Compiuta la missione, bisogna però tornare alle cose concrete. Renzi deve programmare la strategia per i prossimi anni di governo. Per farlo, deve lasciar perdere le solite diatribe tra filo- e anti-tedeschi, europeisti e anti-europeisti, fautori del rigore e fautori della flessibilità.

Deve semplicemente chiedersi: supponiamo che non esistano il Trattato di Maasticht, il Patto di stabilità e crescita, il Six- e il Two-pack, il Fiscal compact: che cosa vorrei fare per l’Italia nei prossimi tre anni? Le regole europee, diciamo la verità, sono quasi irrilevanti. Se l’Italia sfora il 3 per cento del disavanzo, o non riduce il rapporto debito/Pil del 5 per cento l’anno, gli altri paesi non possono mandarle i carri armati. Qualche burocrate della Commissione avrà il suo giorno di gloria bacchettando il governo italiano, qualche politico tedesco o finlandese rilascerà una dichiarazione, e finirà tutto lì. Chiunque abbia letto il testo dei trattati attentamente sa che non c’è nient’altro di importante che può succedere (eccetto, alla fine di una trafila lunghissima e che non verrà mai intrapresa, una multa massima dello 0,1 per cento del Pil).

Personalmente, credo che la risposta che Renzi si darà alla domanda di partenza sarà molto semplice. L’Italia è strangolata dalle tasse: bisogna ridurle.
Ma come? Renzi, anche perché giustamente preso dalle riforme istituzionali, ha scelto un approccio rischioso: tagliamo prima le tasse, e poi si vedrà. È rischioso, perché i governi italiani hanno una lunga tradizione di annunci roboanti di tagli di tasse, che poi si sono dovuti rimangiare. Ancora peggio se taglio delle tasse ma contemporaneamente ne alzo altre, come purtroppo è successo.

L’unica strategia che funziona e che dimostra una decisa discontinuità con il passato è quella di ridurre le tasse assieme alla spesa pubblica. È un approccio lento, perché per ridurre la spesa pubblica ci vuole tempo. Ma ha anche l’enorme vantaggio che crea, per la prima volta in Italia, un gruppo di pressione, una constituency, in favore della riduzione di spesa, sia nel paese sia all’interno del governo. Per attuare questa strategia, Renzi deve rinunciare all’illusione che la politica di bilancio possa fare uscire l’Italia dalla crisi con il botto. La famosa «scossa» è un’illusione pericolosa. Certo, non c’è niente di più facile che creare una crescita effimera con la politica di bilancio, riducendo le tasse di 50 miliardi o aumentando la spesa di altrettanto. I paesi sudamericani negli anni 80 e 90 erano maestri in queste operazioni: ogni nuovo presidente, appena eletto, le faceva, e poi le ripeteva a un anno dalla fine del mandato per cercare di essere rieletto. All’inizio funzionava, ma poi arrivava il redde rationem e il paese si ritrovava in ginocchio. E si fa sempre l’esempio dei tagli alle tasse di Ronald Reagan, all’inizio del suo mandato: ma ci si dimentica che poco dopo fu costretto a rialzarle più di prima, perché non era stato capace di ridurre la spesa (soprattutto quella militare).

Se vuole rendere un servizio al paese, e a se stesso, Renzi deve prenderesi un orizzonte un po’ più lungo. Non deve cedere alle sirene che gli suggeriscono di tagliare trenta miliardi di tasse subito, tanto poi i tagli di spesa si troveranno. Dimostri invece, per la prima volta in Italia, che la riduzione della spesa pubblica concreta, seria, vera, continua, duratura, è possibile. Sarà un lavoro lungo, oscuro, puntiglioso. Per gli economisti è facile dire: «Bisogna tagliare trenta miliardi di spesa pubblica», senza dire dove e come. Nella realtà si tratta di trovare venti milioni (non miliardi!) qui e trenta là, giorno dopo giorno. Per questo il lavoro del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, e dei suoi collaboratori è fondamentale e dev’essere la priorità del governo.