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Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Repubblica.it

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per sbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat.

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Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Fisco: per pagare le tasse un’impresa italiana spende in media 7.559 euro l’anno

Nota

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda di medie dimensioni spende in media ogni anno 7.559 euro per disbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.
Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat. Un’azienda italiana, mediamente, deve infatti dedicare ogni anno 269 ore per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Questo tempo comporta ovviamente un costo, che Eurostat stima mediamente in 28,1 euro l’ora. L’assorbimento di dipendenti dedicati a queste mansioni e quindi distolti dall’effettiva produzione costa così ogni anno alle aziende 7.559 euro.
Vincere in questa classifica è tutt’altro che prestigioso e per una volta riusciamo a battere anche la Germania che, nonostante un costo orario del lavoro più alto di 3 euro rispetto al nostro, con “solo” 218 ore necessarie a pagare le tasse chiede alle sue imprese uno sforzo di 736 euro inferiore al nostro. Superiamo anche la Francia che, pur avendo un sistema fiscale pesante come il nostro in termini quantitativi, richiede solo 137 ore all’anno per svolgere tutti gli adempimenti. È pur vero che in Europa vigono anche sistemi più complessi del nostro: ad esempio quello bulgaro, quello ungherese o quello della Repubblica Ceca. Il basso costo del lavoro rende però decisamente meno oneroso impiegare risorse in compiti burocratici.
«Quando analizziamo il total tax rate cui sono sottoposte le imprese italiane – commenta il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – molto spesso ci dimentichiamo che le tasse emerse non rappresentano il totale del peso che le aziende devono sopportare. La burocrazia non è solo un laccio che blocca lo sviluppo e gli investimenti privati: è anche un costo. Per questo è sempre più necessario agire rapidamente per semplificare il nostro sistema, partendo da quello fiscale. Si tratta di una riforma urgente e che può essere realizzata a costo zero. Basta volerlo».

 

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Tartassati e ripudiati

Tartassati e ripudiati

Lorenzo Baffo – Effe

È tempo di bilanci. Per l’investitore­-risparmiatore quello degli ultimi anni anni è stato comunque negativo, al di là delle performance registrate in termini di operatività. A determinare il segno meno ha contribuito infatti il peso del fisco, con un incremento di prelievi dell’ordine del 130% nel periodo 2011 ­2015. Sì, proprio del 130%, una stangata meditata, voluta e adottata dagli ultimi tre Governi, convinti che il risparmio sia un limone da spremere. Gli italiani ancora una volta hanno sopportato, proprio mentre poco o nulla si faceva per colpire evasori e corrotti. La scelta di centrare i portafogli era facile poiché ­ essendo detenuti da intermediari professionali ­ le possibilità di sottrarsi al pagamento di imposte e prelevamenti risultavano quasi nulle. E lo si è fatto con l’accetta, attuando un incremento delle riscossioni da ben 9 miliardi di euro. Lo dimostra una documentata e analitica indagine del centro studi di ImpresaLavoro, iniziativa di ispirazione liberale nata su idea dell’imprenditore friulano Blasoni. Pochi “media” hanno dedicato attenzione alla ricerca, perché affrontare il tema del rapporto fra fisco e risparmio appare oggi inopportuno, in un approccio servile nei confronti di chi governa. “F Risparmio & Investimenti”, grazie alla sua totale indipendenza, vuole mettere in evidenza i risultati del lavoro, per avviare un approfondimento e un dialogo con i propri lettori.

Da dove si parte

Chiunque disponga di risparmi sa cosa è successo. Vale però la pena riassumere l’evoluzione delle aliquote fiscali sui redditi di natura finanziaria per capire come sia stato possibile strappare dalle tasche degli italiani 9 miliardi di euro in più. Il grafico alla pagina successiva potrebbe anche tradire, nel senso che non evidenzia totalmente il peso della stangata, apparentemente relativa solo all’operatività con azioni e obbligazioni. Occorre evidenziare invece come, in un periodo di forte crisi della finanza, molti piccoli e medi investito­ri-risparmiatori si siano concentrati sulle offerte bancarie, con conto deposito e bond degli stessi istituti, tutti ormai gravati dell’aliquota al 26%. Effetto pesante anche per fondi e polizze, cosi come per le forme pensionistiche, sulle quali è solo iniziato un lavoro di penalizzazione fiscale che probabilmente proseguirà nei prossimi anni. La tosatura è poi proseguita con l’imposta di bollo sui conti correnti e sui depositi titoli, nonché con l’entrata in vigore di Tobin Tax e aggravi sulle gestioni previdenziali. Chi detiene un patrimonio, piccolo o grande che sia, sa bene quanto abbia inciso tutto questo sui suoi risparmi, fra l’altro nel dileggio di premier, ministri, politici e sindacalisti vari, soddisfatti di aver colpito il risparmio degli italiani, equiparandoli a speculatori ed evasori fiscali, quelli magari con capitali all’estero. Tutto questo è noto, ma molto meno lo è l’insieme di storture che la tassazione adottata comporta, senza che nessuno ne approfondisca gli aspetti.

Ecco cosa non funziona

Lo studio di ImpresaLavoro evidenzia, oltre agli aspetti punitivi delle politiche fiscali adottate dagli ultimi tre Governi, con le stangate maggiori decise da Monti e Renzi, nei confronti del risparmio, anche altri punti non adeguatamente presi in considerazione, che aggravano il peso sopportato dagli investitori. Uno, più volte messo in evidenza da “F Risparmio & Investimenti”, riguarda l’aspetto della doppia tassazione, che assume connotati ampi. La ricerca ne mette in luce una parte. È quella relativa agli utili riutilizzati dalle società di capitali, tassati una prima volta a titolo di imposta sui redditi delle società (Ires) e una seconda volta quando gli stessi vengono distribuiti ai detentori delle quote. Il problema interessa sia le partecipazioni cosiddette rilevanti ­ cioè chi detiene quote consistenti ­ sia il piccolo risparmiatore, che viene a pagare una doppia imposizione, perché per lui la seconda parte si manifesta con il prelievo del 25% sulle rendite finanziarie. Non solo: i dividendi come tutti i redditi di capitale ­ non sono compensabili nel regime del risparmio amministrato e pertanto soggetti a tassazione anche in presenza di perdite precedenti. Le norme non lo prevedono nemmeno se ci sono minusvalenze realizzate sui medesimi titoli da cui deriva il provento, anomalia che i tanti consulenti (perfino cosiddetti finanzieri!) dell’attuale e dei precedenti Presidenti del Consiglio non hanno evidenziato agli estensori delle normative. Un altro aspetto discutibile, che evidenziamo noi, è quello della doppia tassazione sui dividendi riferiti ad azioni straniere. Quelli distribuiti da società non residenti in Italia sono comunemente assoggettati a ritenute fiscali nel Paese di quotazione della società che li assegna (consiste nella ritenuta alla fonte); sull’ammontare netto è poi applicata la “ritenuta Italia”, salvo in alcuni casi, riguardanti soprattutto specifici titoli Usa. In realtà sulla ritenuta alla fonte interverrebbero ­ per specifici accordi ­ delle limitazioni sulle aliquote. Sulla parte eccedente bisognerebbe quindi chiedere un rimborso, con procedure però complesse, che pochi risparmiatori attuano. Su quest`aspetto ­ assai specialistico ­ nessuno è intervenuto a difesa dell’investitore italiano, che si vede costretto a versare più di quanto non dovrebbe. C`è chi osserva come questa stortura sia voluta per favorire il posizionamento sulle azioni italiane, poiché sottoposte al solo prelievo del 26%. Se cosi fosse la scelta sarebbe grottesca, trattandosi di un’ulteriore stortura nei confronti di un libero mercato realizzato solo a parole.

Meccanismo distorto

Un sistema normativo altrettanto contorto e punitivo riguarda le compensazioni da perdite pregresse, possibili soltanto per i cosiddetti redditi diversi, con limiti temporali (i quattro anni, al cui rispetto provvedono gli intermediari, senza nessuna possibilità di errore) e quantitativi, poiché “minus” realizzate prima del 2012 sono utilizzabili solo al 48,07% del loro ammontare e al 76,92% per quelle riferite dal 1 gennaio 2012 al 30 giugno 214. di eventuali guadagni futuri. Lo studio di ImpresaLavoro ricorda il caso più significativo di tale distorsione, riguardante i fondi. Rappresentando un reddito da capitale, se si realizza un utile ­ anche modesto ­ proveniente dalla vendita di questa tipologia di strumenti finanziari si deve comunque pagare la relativa tassazione e non si può compensarlo con eventuali perdite relative per esempio alla cessione di un’azione o di un’obbligazione. Un caso altrettanto assurdo riguarda proprio i bond: le cedole sono comunque tassate anche se il titolo cui si riferiscono viene per esempio rimborsato per un importo interiore a quello riferito all’investimento, il che avviene se lo si è pagato sopra il prezzo di emissione. La “minus” derivante verrà portata a compensazione esclusivamente di eventuali guadagno futuri. Che il legislatore abbia una visione travisata delle cose lo dimostra anche il vantaggio di aliquota fiscale previsto per i titoli di Stato, altra anomalia che potrebbe portare a complesse vicende legali. Non si vede infatti per quale motivo la tassazione su un Btp debba essere al 12,5% e quella su un’obbligazione per esempio di un’azienda di Stato lo sia al 26%. Certo si vuole così agevolare il risparmio incanalandolo verso il debito pubblico, ma allo stesso tempo si penalizza quello indirizzato verso le aziende e le banche con un’altra assurda deformazione delle regole di mercato. Ha senso per esempio che chi fa trading con i Btp sia sottoposto a un’aliquota inferiore di oltre la metà rispetto a quella cui è soggetto chi mette i propri risparmi a lungo termine su bond Enel o Eni? Ciascuno si dia la sua risposta.

L’altro fronte

A tutto questo si aggiunge l’aggravio di fiscalità sui beni immobili, che sta progressivamente penalizzando il mercato, con gli stranieri in particolare sempre meno interessati ad acquistare case in Italia, preferendo alternative molto più concorrenziali, quali Grecia, Spagna e Portogallo. Se l’investitore finanziario dal 2011 a oggi ha visto aumentare la tassazione del 130%, quello posizionato sul mattone ha sofferto una grandinata di aumenti da far paura. Nello stesso periodo il secondo ha pagato sugli immobili, diversi da abitazione principale, qualcosa come un +236% sulle seconde case locate a canone concordato, un 150% sulle seconde case affittate a canone libero, un +144% sugli uffici, un +140% sui negozi, un +115% sulle seconde case sfitte, un +108% sui laboratori artigianali e un +96% per strutture alberghiere e capannoni. In questo caso i dati sono stati forniti dall’ufficio studi della Cgia di Mestre, molto arriva nel seguire il comparto immobiliare. La ricerca annota che tuttavia per alcuni settori si sono registrate agevolazioni fiscali: per esempio la Tasi è stata resti totalmente deducibile dal reddito di impresa. Il motivo di incrementi così rilevanti dipende dalla scelta di molti sindaci di alleggerire il carico sulle prime case e di spostarlo su immobili a uso produttivo e su abitazioni diverse da quella principale.  Anche in questo caso si è pertanto pensato che chi possiede qualcosa sia un facoltoso speculatore da colpire in ogni modo.

Puniti, anzi strapuniti

Il criterio, con cui la problematica della tassazione sui patrimoni è stata affrontata in Italia dimostra un approccio punitivo che si traduce in immobilismo per chi ha capitali da investire, piccoli, medi o grandi che siano. In un quadro generalizzato di crisi e di sfiducia, il “gruzzolo” diventa sempre più tale e si tende a difenderlo in maniera conservativa, non reimmettendolo nel sistema produttivo attraverso l’acquisto di azioni, obbligazioni e case. Proprio le stangate fiscali hanno un impatto nefasto da questo punto di vista. Si traducono in immediato flusso in entrata per le casse dello Stato, ma rallentano la crescita. Il problema è che per i politici ­ tutti impegnati in visioni di breve termine, soprattutto in Italia ­ quella di tappare la voragine è l’unica soluzione possibile. Ecco perché i risparmi finiscono per essere tartassati e ripudiati, una terra di conquista in cui far pascolare le mandrie affamate e assetate dei burocrati legislativi, capaci di incrementare le aliquote ma non di risolvere lo carenze normative, spesso vistose. Finora i Governi dei grandi tassatori sono durati poco. Cosa faranno il prossimo e poi il successivo? Staremo a vedere.

Caccia aperta al contribuente

Caccia aperta al contribuente

Carlo Lottieri – L’Intraprendente

Non può sorprendere più di tanto il dover constatare che, entro una classifica realizzata individuando una decina di Paesi rappresentativi delle varie aeree d’Europa, l’Italia finisca all’ultimo posto per lo scarso rispetto che riserva ai propri contribuenti. Grazie al contributo di ricercatori universitari di dieci diverse realtà (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera), il centro studi “ImpresaLavoro” ha esaminato il sistema fiscale in Europa e la conclusione a cui è giunto è che in un continente oppresso dalle imposte l’Italia si trova proprio in fondo alla classifica. La ricerca condotta dall’istituto friulano ha infatti individuato quattro fattori, diversamente pesati, e sulla base di questi (la pressione complessiva, l’ITR in relazione al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la semplicità delle procedure per l’adempimento degli obblighi tributari; la localizzazione e la responsabilizzazione del prelievo) ha stilato una graduatoria che pone la Svizzera al primo posto e l’Italia all’ultimo, un po’ peggio della stessa Francia.

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Ranking della Libertà Fiscale in Europa

Ranking della Libertà Fiscale in Europa

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE IN EUROPA

Indicatori analizzati
1. La struttura e il peso della tassazione in termini percentuali rispetto al PIL, inclusi i contributi sociali (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
2. La struttura della tassazione intesa come Implicit Tax Rate (ITR) in percentuale del reddito imponibile su lavoro, capitale e consumo (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
3. La complessità amministrativa del sistema fiscale in termini di procedure burocratiche e impegno di risorse umane (punteggio massimo attribuito: 30 punti)
4. Livello di decentramento fiscale, l’autonomia fiscale ed impositiva dei governi locali rispetto al governo centrale, il grado di responsabilizzazione dei livelli di governo (punteggio massimo attribuito: 10 punti)
RANKING GENERALE

ranking tabella 1

DETTAGLIO INDICATORI

pressione fiscale

itr

complessità sistema fiscale

 

livello decentramento fiscale

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

INDICE DELLA LIBERTÀ FISCALE 2015

ABSTRACT

La ricerca promossa da ImpresaLavoro, avvalsasi della collaborazione di ricercatori e studiosi di dieci diversi Paesi europei, si è proposta di monitorare la “questione fiscale” in Europa muovendo dall’assunto che la crisi che sta conoscendo il Vecchio Continente sia difficilmente comprensibile senza una riflessione su questo tema di primaria importanza. Da qui l’idea di elaborare un Indice della libertà fiscale, che aiuti a comprendere la drammaticità della situazione e la necessità di vere riforme che riducano la presenza dello Stato nella vita produttiva e allarghino gli spazi di libertà.

INDICE

Dalla parte dei produttori Massimo Blasoni
Le tasse che distruggono l’economia europea Simone Bressan e Carlo Lottieri
Indice della libertà fiscale

TASSAZIONE E LIBERTÀ IN DIECI ECONOMIE D’EUROPA

BULGARIA a cura di Petar Ganev (BULGARIA_ENG; BULGARIA_ITA)
FRANCIA a cura di Pierre Garello (FRANCE_ENG; FRANCIA_ITA)
GERMANIA a cura di Alexander Fink (GERMANY_ENG; GERMANIA_ITA)
ITALIA a cura di Pietro Monsurrò (ITALY_ENG; ITALIA_ITA)
LITUANIA a cura di Kaetana Leontjeva (LITHUANIA_ENG; LITUANIA_ITA)
REPUBBLICA CECA a cura di Pavol Minárik (CZECH REPUBLIC_ENG; REPUBBLICA CECA_ITA)
ROMANIA a cura di Radu Nechita (ROMANIA_ENG; ROMANIA_ITA)
SVEZIA a cura di Dan Johansson, Arvid Malm e Mikael Stenkula (SWEDEN_ENG; SVEZIA_ITA)
SVIZZERA a cura di Pierre Bessard (SWITZERLAND_ENG; SVIZZERA_ITA)
REGNO UNITO a cura di Alex Wild (UNITED KINGDOM_ENG; REGNO UNITO_ITA)

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Rassegna stampa

Il Giornale
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Il Foglio.it
L’Intraprendente
Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Il vero nemico è l’esattore, non l’evasore

Nicola Porro – Il Giornale

Di fisco si parla molto. Qualcuno può pensare anche troppo. Ma il punto di vista da cui si parte, per carità sacrosanto, è quasi sempre tecnico. Possiamo dividere in due gli approcci. Il primo è quello microeconomico, per così dire ragionieristico: l’Irap è una tassa assurda perché colpisce anche il costo del lavoro e gli interessi passivi, oppure la progressività delle imposte sulle persone è eccessiva. Un secondo approccio è più macro: la pressione fiscale deprime i consumi, l’aumento delle imposte indirette potrebbe distorcere il mercato.

È molto più difficile assistere ad un dibattito più filosofico sul tema delle imposte. Meno economico e più culturale. In una certa misura la sinistra è stata più abile in questo campo. Ha cercato di dare una giustificazione sociale all’imposizione: le tasse sono belle; grazie ai tributi si sostengono i più deboli; è necessaria una redistribuzione dei redditi. Ecco. Una delle battaglie oggi dovrebbe essere proprio la riscoperta dei fondamenti filosofici e culturali per i quali un liberale non può che essere allergico alla natura stessa dell’imposizione fiscale. La circostanza fortunata per la quale l’eccesso di tasse riduce gli incentivi a produrre e lavorare e dunque ad accrescere la ricchezza di un Paese è solo il risvolto pratico di una critica ben più profonda che dovremmo fare alle tasse in sé. Per farla breve, il fatto che le troppe tasse facciano ammalare un’economia (cosa su cui oggi a parole praticamente tutti concordano) ha il valore di una tacca sul termometro di mercurio: il vero problema è la malattia. E adesso la scopriamo.

Il più lucido in Italia a scrivere di questi argomenti è, ed è stato, Antonio Martino. Vi citiamo solo qualche passaggio di “Stato padrone” (Sperling & Kupfer): «Vi è una relazione inversa tra Fisco e libertà personale. Il fatto che la fiscalità abbia una forma monetaria non dovrebbe trarre in inganno: per poterci procurare i soldi da versare all’erario dobbiamo lavorare». Il principio è semplice: la tassazione equivale da un punto di vista logico alla sottrazione dei propri spazi di libertà. Se per sei mesi l’anno lavoro per procurarmi le risorse da fornire allo Stato sono di fatto un suo schiavo, anche se a mezzo servizio. Questa impostazione comporta molte conseguenze. In modo apodittico, ma chiaro Martino scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il nostro vero nemico non è l’evasore, ma l’esattore. Se la fiscalità è eccessiva, ciò non è certo dovuto al fatto che gli altri non pagano o pagano poco, ma al livello esorbitante raggiunto dalla spesa pubblica: la causa dell’iperfiscalità è lo statalismo, non l’evasione». Le principali critiche all’eccesso di tasse non sono dunque economiche, ma filosofiche: esse minano la nostra libertà.

Italia inferno fiscale

Italia inferno fiscale

Carlo Lottieri – Il Giornale

Che l’Italia non fosse un paradiso fiscale era chiaro a tutti da tempo. Ora, una ricerca del centro studi ImpresaLavoro (un think tank di recente costituzione presieduto da Massimo Blasoni) giunge addirittura alla conclusione che il nostro Paese sarebbe la maglia nera in Europa: un autentico inferno fiscale che disincentiva a risparmiare, lavorare, investire.

Frutto dell’elaborazione di indagini appositamente condotte da studiosi (o gruppi di studiosi) di dieci Paesi, la ricerca ha esaminato il sistema tributario del Vecchio continente valutando quattro distinti parametri: la tassazione complessiva; la struttura dell’imposizione così come è descritta dall’Itr in rapporto al reddito tassabile da lavoro, capitale e consumi; la complessità amministrativa delle procedure burocratiche necessarie agli adempimenti tributari; il livello di decentramento e concorrenza tra i governi locali. Il risultato è inequivocabile e colloca al primo posto la Svizzera e, in fondo alla classifica, oltre a noi, anche i cugini francesi.

Nel «pesare» i diversi elementi che definiscono l’indice finale, un rilievo inferiore è stato attribuito alla concorrenza tra ordinamenti fiscali, dal momento che si tratta di un dato che condiziona l’imposizione (dove c’è più competizione territoriale, il prelievo tende a essere minore) e non già di un elemento che descrive l’imposizione stessa. Ma è fuori di dubbio che mettere in concorrenza le amministrazioni locali, come avviene in Svizzera, aiuta a contenere il prelievo. Lasciando da parte il caso elvetico, davvero assai peculiare e comunque esterno all’Unione, lo studio evidenzia come situazioni in qualche misura avvantaggiate siano quelle dei Paesi ex-comunisti: Lituania e Repubblica Ceca, ma perfino Bulgaria e Romania. In vari casi lì si è avuto il coraggio di operare scelte radicali che non disincentivassero le attività economiche (la flat tax , ad esempio) e favorissero una semplificazione del prelievo. Ora i risultati si vedono.

Dallo studio esce anche ridimensionato il luogo comune che tradizionalmente identificava l’Europa settentrionale con i regimi più rapaci. Le vecchie socialdemocrazie scandinave, infatti, hanno ancora un prelievo fiscale elevato, ma hanno saputo fare qualche passo nella giusta direzione. Così la Svezia di oggi è un po’ diversa da quella che obbligava registi e tennisti ad andarsene a Montecarlo e, anche se resta nel gruppo dei Paesi ad alta tassazione, per certi aspetti la sua esperienza può addirittura insegnare come si possa riformare nella giusta direzione una società altamente statizzata. Al di là di questo o quel caso specifico, nell’insieme lo studio mostra come l’Europa intera sia in una grave crisi proprio perché la quota di risorse prelevate dall’apparato pubblico ha raggiunto livelli troppo elevati. In questo senso, l’Italia è all’avanguardia di un processo che, però, sembra davvero risparmiare ben pochi.

Oltre a ciò, lo studio mostra come la crescita dell’Unione (accompagnata per giunta da un processo di espansione verso Est) abbia finito per creare nuovi meccanismi di estrazione e redistribuzione delle risorse. Il lavoro di Petar Ganev evidenzia che oggi il bilancio pubblico di un Paese come la Bulgaria si regga in parte su risorse provenienti da fuori e indirizzate lì da Bruxelles. In altri termini, alla redistribuzione interna si è progressivamente sovrapposta una redistribuzione di marca continentale.

L’esame delle economie europee sembra pure suggerire una solida correlazione tra oneri burocratici ed entità del prelievo. I Paesi a più alta tassazione sono anche quelli in cui la regolazione è particolarmente minuziosa e pervasiva, mentre – ed è comprensibile – le società più liberali tassano meno e regolano meno. Questo però induce a pensare che una larga parte del sistema burocratico (i famosi «lacci e lacciuoli» di cui parlava Guido Carli) sia impossibile da eliminare senza un ridimensionamento di imposte e spesa pubblica. In tal senso, sebbene sia interamente focalizzata sul lato delle entrate, l’indagine del centro studi di Udine aiuta a comprendere come la volontà degli europei di non riformare i propri sistemi di Welfare (costosi e pesanti, oltre che molto inefficienti) ne metta a rischio il futuro. O l’Europa lo comprende alla svelta, o continuerà a declinare.