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Italia, terra di tassator scortesi

Italia, terra di tassator scortesi

Matteo Rigamonti – Formiche

Tra le cause della crisi economica dell’Occidente industrializzato ci sono anche le tasse. È ciò che mette in luce l’Indice della libertà fiscale in Europa, stilato dal centro studi “Impresa lavoro” e di cui Formiche.net è in grado di anticipare i contenuti. L’ipertassazione, peraltro, che secondo il centro studi pregiudica la capacità produttiva di un paese, raggiunge i suoi livelli massimi in Italia, dove l’onere del prelievo è direttamente proporzionale a quello della burocrazia. Due voci sempre da riformare, ma che non cambiano mai. Proviamo a capire perché.

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In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

In Italia il problema non è aver fatto austerity, ma aver fatto l’austerity peggiore d’Europa

Luciano Capone – Il Foglio.it

Nei giorni di SwissLeaks e della diffusione dei dati bancari della sede ginevrina della Hsbc sottratti dal dipendente infedele Hervé Falciani, si ha la sensazione che la Svizzera sia un “paradiso fiscale”, il più grande paradiso fiscale d’Europa. L’idea trova conferma nell’“Indice della libertà fiscale in Europa” realizzato dal centro studi di ispirazione liberale ImpresaLavoro, che verrà diffuso nei prossimi giorni e che il Foglio ha potuto vedere in anteprima. L’indice analizza i sistemi fiscali di 10 paesi europei (Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Lituania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Svezia e Svizzera) che vengono valutati su una scala in centesimi sulla base di quattro parametri utilizzando i dati confrontabili di Eurostat e della Banca mondiale: struttura e peso della tassazione rispetto al pil, Implicit tax rate sul reddito da lavoro, capitale e consumo, complessità fiscale e livello di decentramento fiscale. Se nella classifica che va da 0 a 100 è la Svizzera ad essere il “paradiso fiscale” europeo con un punteggio di 76 (forte di una pressione fiscale al 28 per cento, di un sistema semplificato e decentralizzato), l’”inferno fiscale” dista pochi chilometri, ci si arriva con l’autostrada del San Gottardo, è proprio l’Italia che ha un punteggio di 42, uno in meno della Francia.

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Basta bugie, più imposte anche sulla casa

Basta bugie, più imposte anche sulla casa

Gianluigi Paragone – Libero

«Basta con l’industria della lagna, non è vincente» dice Matteo Renzi. Basta con l’industria delle promesse e delle parole al vento, potremmo replicare noi. Aggiungendo che le bugie alla lunga innervosiscono (e sto buono con le parole). Renzi non ha chiaro che i numeri, alla lunga, sono macigni. Prendiamo le tasse. Dopo averci raccontato che sulla casa avremmo pagato di meno e che i Comuni sarebbero stati accorti agli equilibri sociali, esce fuori che tra Imu e Tasi i Comuni hanno recuperato nel 2014 l’intero gettito del 2012 della sola Imu. Altro che riforma per abbassare le imposte sulla casa: qui stiamo pagando di più. La tassa sui rifiuti è molto più costosa rispetto al passato. Non solo. Chi è uscito penalizzato dal gap fiscale sono proprio le fasce più deboli, visto che i più facoltosi – come dimostreremo oltre – nel 2012 pagarono di meno. Alla faccia degli ottanta euro come mossa sociale…

I numeri, dunque. Partiamo da chi ha rendite catastali più basse. Chi ha pagato tra Tasi e Imu fino a 50 euro ha avuto un incremento pari al 21,7% rispetto al 2012. Chi invece ha pagato tra i 50 e i 100 euro s’è preso una mazzata di un bel più 40,1 per cento. Saliamo ora di livello e prendiamo la fascia di coloro che hanno rendite catastali alte e che hanno pagato tra i 500 e i 600 euro tra Tasi e Imu. Bene, per costoro il risparmio è stato del 32,9%, Meglio ancora se hanno versato oltre 600 euro: quasi meno 50 per cento di differenza rispetto al 2012. Per essere un governo la cui golden share è detenuta da un partito di centrosinistra direi che come asimmetria di gettito non è male. La morale è che dalle parti del Pd la tassazione aumenta, visto che al quadro ora descritto vanno aggiunti aumenti di Iva, imposte di registro e bollo, Irpef fondiaria e sulle locazioni e compagnia cantante. La cantonata sull’Iva infine sarebbe stata talmente forte che il governo ha fatto l’ennesima retromarcia tornando al vecchio regime dei minimi. Evidentemente Renzi ritiene che il jolly degli 80 euro (bonus speso per pagare gli aumenti vari) lo metta al riparo sul fronte sociale. Non è cosi.

Anche il casino generato sul contante da versare in banca è sintomatico della predisposizione di questo governo verso il mondo bancario e a totale svantaggio dei cittadini meno abbienti. La retromarcia di Casero non cancella l’idea di fondo messa già nero su bianco. L’esperienza insegna che quando si passa dalle parole ai fatti significa che a qualcuno è stato promesso qualcosa. E le promesse fatte ai forti si mantengono. Nel caso specifico, il qualcuno sono le banche le quali hanno solo da guadagnarci se si applica un balzello sui versamenti bancari. Dico di più. Assottigliare anche l’uso del contante non risolverà nulla sul fronte della lotta all’evasione (il grande capitale mica è in banconote!), di contro consentirà agli istituti di credito di aumentare i servizi legati alla moneta digitale e – peggio ancora – di agevolare eventuali e futuri prelievi forzosi dai conti corrente come accadde in Italia con Amato e recentemente a Cipro.

Costanti aumenti delle tasse e squilibri sociali nella forbice tributaria sono la molla che spingono all’evasione cosiddetta di sopravvivenza. Più lo Stato mette alle corde i piccoli e più sarà inevitabile scegliere tra il pagamento degli stipendi o il mantenimento della famiglia da una parte e il pagamento delle imposte e delle tasse dall’altro. Se infine ci metti il delirio del grande fratello fiscale ispirato alla esasperazione burocratica e al sospetto del potenziale evasore (poi mi dovranno spiegare perché per Serra vale la presunzione di innocenza rispetto alle operazioni in Borsa sulle popolari mentre su artigiani, commercianti eccetera s’inverte l’onore della prova fiscale obbligando i cittadini a dimostrare di non essere evasori…) il governo ha fatto bingo.

Ah, dimenticavo. Per capire le logiche su cui si muove la lotta all’evasione è giusto ripetere fino alla noia l’esempio (mica isolato…) del salumiere napoletano che per avere regalato un panino a un uomo con problemi psichici s’è beccato una multa per evasione fiscale! Ecco, questa è l’Italia. Più tasse per i deboli e mano pesante sulla gente perbene. In mezzo a tante parole, se Renzi avesse voglia di spiegare non sarebbe male…

Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Tassa sui versamenti in contanti, ndo cojo cojo

Davide Giacalone – Libero

Provando e riprovando è una cosa, ndo cojo cojo un’altra. Il primo è il motto dell’Accademia del cimento, ispirato al metodo galileiano, il secondo è la cieca e disperata speranza di azzeccarne una. Dopo il dietrofront, indietro march, sul fronte libico, arriva la retromarcia su quello fiscale. Il Sole 24 Ore (mica un pettegolezzo) aveva anticipato uno dei provvedimenti che il prossimo Consiglio dei ministri avrebbe varato: imposta di bollo progressiva per chi versa in banca più di 200 euro al giorno. Silenzio nella foresta. La mattina, a chi chiamava allarmato, dal governo fanno sapere: è solo una cosa allo sttrdio. Poi, nel pomeriggo, una nota che smentisce l’ipotesi. Potremmo chiuderla qui, ma rimane la volontà di ridurre l’uso del denaro contante, che può anche andare bene, a determinate condizioni, ma fuori da quelle è la trappola nella quale erano caduti. Quindi meglio metterci un cartello.

Prendete lavoratori come i tabaccai, i giornalai, i tassisti e tanti altri: è normale che incassino più di 200 euro, in contante, ogni giorno, ed è normale che li versino in banca. Devono essere puniti, per questo? L’incasso, inoltre, non è mica il guadagno, ad esempio: la gran parte dei soldi che un tabaccaio incassa li deve poi girare allo Stato, visto che vende beni sottoposti al suo monopolio; per pagare lo Stato deve fare un’operazione bancaria; per farla deve avere i soldi sul conto. Lo Stato che incassa è lo stesso che pretende di avere un’imposta di bollo superiore perché quel delinquente versa i soldi in banca? E c’è anche l’orrida beffa: scorrendo le cronache si trovano rapine, subite dai tabaccai, in tutta Italia. Come anche peri benzinai. Tali rapine sono incentivate dal fatto che queste piccole imprese hanno un giro d’affari magari non elevato, ma quasi tutto in contante. Quando un tabaccaio viene rapinato, sperando che salvi la pelle, deve poi comunque pagare allo Stato i soldi che s’è fatto derubare, quale corrispettivo di beni già venduti. Quindi: il tabaccaio porta sulle spalle il rischio legato ai soldi che incassa e lo Stato potrebbe anche chiedergli di pagare di più quando li versa in banca.

Non basta che la cosa sia smentita, è necessario rendersi conto che è culturalmente e logicamente abominevole. Una cosa è colpire l’evasione fiscale, altra demonizzare e/o tassare l’uso di banconote che, fino a prova contraria, sono prodotte e tutelate dallo Stato, dalla banca centrale nazionale e da quella europea. L’imposta su cui lavoravano avrebbe colpito le persone oneste, proprio perché tali. Più assurdo di cosi è difficile immaginare. Pensare di colpire l’evasione fiscale colpendo il contante è come supporre di frenare la violenza carnale punendo il sesso: nel migliore dei casi ne viene fuori una società di pervertiti. Che è l’inferno fiscale italiano.

Il tutto senza contare che l’economia più forte d’Europa, nonché quella che ha reagito meglio alla crisi, ovvero la Germania, è anche la sola a non avere limite all’uso del contante. Che ci sia un nesso? Si vuole disincentivare il contante e incentivare la moneta elettronica? Non è questa la strada. Semmai si renda più conveniente la seconda, mentre oggi è vero l’opposto. Sia per il cliente. Sia per il negoziante, che deve pagare una percentuale per avere, in ritardo, i soldi relativi a una prestazione che ha reso o a una merce che ha venduto. Per forza che quando si vanno a pagare piccoli acquisti, specie se il guadagno è percentualmente molto basso, all’apparire della carta di credito vedi occhi imploranti: non è che siano tutti evasori, è che se paghi il pizzo su un margine microscopico non si capisce perché ti alzi al mattino e tiri su la saracinesca. Non dimenticando, infine, che se lo Stato vuole incentivare la moneta elettronica (giusta e bella cosa) dovrebbe cominciare a rendere obbligatorio accettarla, in tutte le sue forme consentite, ovunque abbia sportelli propri per pagamenti, riscossioni e transazioni. Invece non è così, sicché predica claudicando e ruzzola praticando.

Per ora il tentativo è fallito. Bene. Ma una roba simile non va messa nel congelatore, come l’altra inversione di marcia, relativa alla delega fiscale, per poterci pensare qualche mese. Meglio buttarla direttamente via. Fra rifiuti non riciclabili, così si rispetta anche la raccolta differenziata.

Lotta all’evasione: purché gli onesti non paghino il conto

Lotta all’evasione: purché gli onesti non paghino il conto

Massimo Fracaro e Nicola Saldutti – Corriere economia

II Fisco divide, inevitabilmente, in due gruppi la popolazione: chi versa le imposte regolarmente, e chi, invece, cerca di farne a meno. Due gruppi che reagiscono alle possibili modifiche delle regole sulle tasse in modo naturalmente molto diverso, a seconda della loro posizione (come dire) fiscale. E quello che sta accadendo alla norma sull’«abuso di diritto», meglio nota ormai come legge salva-Berlusconi. La disposizione che prevede una soglia di tolleranza del 3%, sotto la quale sarebbe possibile regolarizzare la propria posizione, evitando sanzioni penali.

Alcuni conteggi dicono che le imprese potenzialmente interessate sarebbero circa seimila. E qui sta il punto: la norma introdotta all’ultimo momento nel gennaio scorso al Consiglio dei ministri ha suscitato legittime polemiche. E ora il governo fa sapere che intende rinviarla. Ma sarebbe un errore. Oltre ai due gruppi di contribuenti corretti ed evasori, ce n’è, infatti, anche un terzo che in qualche modo li accomuna: le persone che vorrebbero regole più semplici, meno vessatorie, una minore stratificazione delle norme. Per non favorire un Fisco che talvolta diventa inesorabile con chi commette un errore di calcolo o una svista, perché più facili da scovare rispetto all’evasione vera e propria.

Non bisogna arrivare alla lista Falciani per ricordare come, negli anni scorsi, in molti abbiano preferito depositare illecitamente i propri capitali all’estero. Ecco quindi che quella norma sull’abuso di diritto diventa necessaria, da correggere, ma necessaria. Il limite del 3 per cento non va bene? Meglio una soglia quantitativa? O un insieme delle due? Serve una riflessione più approfondita sulla frode fiscale? C’è il tempo per farlo. Sarebbe opportuno utilizzare questa occasione per tentare di chiudere la stagione dei sotterfugi reciproci. Di uno Stato che detta regole confuse, per mettere sempre in mora i contribuenti vittime spesso di interpretazioni penalizzanti. E dei contribuenti che hanno l’abitudine di aggirare le norme con la scusa di considerarle troppo penalizzanti e poco chiare.

Se la riforma tributaria prende tempo

Se la riforma tributaria prende tempo

Enrico De Mita – Il Sole 24 Ore

Il governo avrà più tempo per completare l’attuazione della legge delega per un «sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita». La proroga di sei mesi per emanare i decreti legislativi mancanti – finora solo tre sono giunti in porto, oltre ad alcune disposizioni che hanno trovato attuazione con la legge di Stabilità – non può essere considerata un incidente di percorso. La legge delega 23/2014 è tutt’altro che un testo organico per ridisegnare dalle fondamenta il sistema tributario. Non si vede un disegno complessivo, ma al contrario, si tratta – come abbiamo più volte sottolineato – di un testo di legge fatto di una combinazione di principi e del tentativo di dare soluzione a più casi pratici. Non si tratta di una critica: molti aspetti sui quali la delega si propone di intervenire rappresentano problematiche molto sentite dagli operatori. Tuttavia, per quanto apprezzabile in molti elementi, la delega non porta con sé una strategia omogenea. Inoltre, l’esperienza insegna che mettere le mani al testo di una legge delega non è mai cosa agevole. Soprattutto non lo è quando gli interlocutori sono tanti.

Non a caso la Costituzione dà a Parlamento e governo ruoli precisi e non sovrapponibili: il procedimento per la delega vede la competenza del Parlamento nella previsione di principi e criteri direttivi, mentre è il governo a emettere i decreti delegati. Questo perché il governo, come organo ristretto, è guidato dall’iniziativa di un ministro competente (nel caso, l’Economia) in grado dal punto di vista tecnico di formulare testi che abbiano la dignità della legge. Per la delega fiscale le cose sono andate diversamente, con il Parlamento che – attraverso la “bicameralina” – ha quasi rivendicato il diritto a occuparsi dei decreti attuativi. Aumentando la confusione e allungando i tempi anziché accorciarli.

Da ciò deriva un’altra considerazione. E cioè che il governo non ha ancora esplicitato la propria linea di politica tributaria. A volte si ha la sensazione che a determinarne la direzione sia più l’amministrazione finanziaria che non l’esecutivo. Le cronache sui lavori tecnici per l’attuazione raccontano di un ruolo attivo dell’agenzia delle Entrate. Il che trova una spiegazione nel fatto che l’amministrazione sarà il soggetto che queste norme dovrà far rispettare. Però, ciò riporta l’attenzione sui rapporti tra ministero dell’Economia e agenzia delle Entrate. Gli indirizzi di politica tributaria, compresa la stesura delle norme, sono affidati al governo e al ministro dell’Economia e delle Finanze, anche per il tramite del Dipartimento per le politiche fiscali; l’amministrazione del fisco – in termini di riscossione dei tributi, contrasto all’evasione fiscale, gestione del contenzioso – tocca invece all’agenzia delle Entrate, che opera sulla base di una convenzione con il ministero dell’Economia e ne è sottoposto alla vigilanza. L’agenzia per sua natura ha il solo compito di applicare le leggi fatte su indirizzo del governo. Altrimenti, si creerebbe un evidente conflitto di interessi e si finirebbe per alimentare il sospetto di un’amministrazione che scrive norme “pro domo sua”, ad esempio per dare copertura (anche ex post, con norme interpretative) al proprio operato.

Insomma, la sensazione è che la legislazione, specie quella fiscale, sia caratterizzata dall’assenza di strategie e da una confusione dei ruoli. E tornando ai sei mesi in più per la delega: siamo sicuri che con il rinvio ci siano i tempi necessari per varare i decreti delegati? Io credo di no. Anche se c’è la scappatoia della proroga della proroga.

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Fisco e contribuenti in lite per 52 miliardi

Cristiano Dell’Oste e Giovanni Parente – Il Sole 24 Ore

Dall’Iva all’Irpef, dai tributi locali all’Irap,le liti con il fisco valgono più di 52 miliardi di euro.Sulle scrivanie dei 3.400 giudici tributari di primo e secondo grado – esclusa quindi la Cassazione – ci sono i fascicoli di 570mila controversie fiscali ancora in attesa di decisione. I dati sono aggiornati al 31 dicembre scorso e sono contenuti nella relazione sullo stato della giustizia tributaria, che sarà presentata giovedì prossimo a Roma e che Il Sole 24 Ore del Lunedì è in grado di anticipare.

Se la mole dell’arretrato resta notevole, va comunque rilevato un calo di 55mila liti pendenti rispetto al 31 dicembre 2013. Ma si tratta di un dato da maneggiare con cura. Di fatto. la diminuzione arriva tutta dalle commissioni tributarie provinciali e dipende più dal calo dei nuovi ricorsi arrivati nel 2014 (21mila in meno) che da un aumento di quelli decisi (mille in più). Si sentono, in particolare, gli effetti dell’introduzione del contributo unificato, cioè la tassa d’ingresso perla giustizia tributaria varata a luglio del 2011, e della mediazione obbligatoria, la procedura che impone di presentare prima del ricorso un’istanza di reclamo agli uffici delle Entrate per le liti fino a 20mila euro di valore. Due novità normative che hanno consolidato un trend già visibile nel 2013.

La situazione non migliora – anzi peggiora – se si guarda alle 21 commissioni tributarie regionali. Qui l’arretrato aumenta e si assiste a una doppia variazione negativa: più ricorsi in appello e meno sentenze depositate. La spiegazione non sembra dipendere dalle carenze in organico, visto che i giudici di secondo grado hanno un tasso di scopertura leggermente più basso rispetto a quelli di primo grado (24% di giudici in meno in Ctr, contro il 27% delle Ctp). Piuttosto, si può immaginare che il calo del contenzioso registrato in primo grado non sia ancora arrivato in appello. Anche perché la durata media di una lite in Ctp è poco superiore ai due anni e mezzo. Tra primo grado e appello un processo tributario dura in media quattro anni e tre mesi. Se però si aggiunge anche la Cassazione si arriva a otto anni. Insomma, anche i giudici della Suprema corte sono in affanno. Tant’è vero che il nuovo presidente della sezione tributaria, Mario Cicala, sta studiando le soluzioni migliori per rendere più efficiente la trattazione. Accelerare i processi tributari non aiuterebbe solo i cittadini, ma anche lo Stato, che potrebbe stabilire definitivamente se ha diritto o no a incassare certe somme contestate.

Secondo le stime del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, il contenzioso pendente – senza contare la Cassazione – vale più di 52 miliardi, tra imposte, sanzioni e interessi per i tributi amministrati da Entrate, Dogane, Equitalia, Regioni, Province e Comuni. Anche ipotizzando che il fisco abbia ragione solo in un caso su due, si tratta di un importo capace di far impallidire una manovra finanziaria di medie dimensioni. È interessante anche vedere “come” si arriva al totale. Dei 52 miliardi pendenti, 19 sono già in appello, mentre il resto è rappresentato dalle liti davanti alle 103 commissioni tributarie provinciali. Ma è soprattutto lo spaccato per fasce di valore a svelare che pochissime liti fanno il grosso degli importi. Per esempio, davanti ai giudici di primo grado le liti con un valore superiore ai 250mila euro sono solo 13mila, ma incidono per 28 miliardi su 33. Al contrario, le controversie di valore fino a 20mila euro sono più di 345mila, ma pesano solo per meno di un miliardo.

Non è un caso chela delega per la riforma fiscale, nel capitolo dedicato al processo tributario, preveda tra l’altro la possibilità di introdurre un giudice unico per le cause minori, di rivedere le soglie per l’«autodifesa» (ora a 2.582,28 euro) e di ampliare le categorie professionali abilitate all’assistenza in giudizio. Misure che dovrebbero affiancarsi al processo telematico e al potenziamento della conciliazione.

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Delega fiscale, il verso dell’avvoltoio

Davide Giacalone – Libero

Prima era agghiacciante, ora è devastante. Il decreto legislativo nato sotto al titolo “certezza del diritto” non riesce ad assicurare neanche la certezza della data, in compenso è già garantito che per inseguire quella certezza si dovrà venire meno a quanto prevede la legge, ovvero la scadenza della delega fiscale, fissata al prossimo 27 marzo. Un anno di tempo non è stato sufficiente al governo, altrimenti noto per voler fare tutto velocemente e a passo di carica. Prorogare è meglio che perdere del tutto l’occasione di riformare, certo. Ma guai a far finta di non capire cosa questo significa. Se neanche la delega fiscale prende corpo, essendo un atto governativo e non dipendendo dalle maggioranze parlamentari, vuol dire che attraverseremo l’anno iniziato fidando solo sulle spinte esterne, senza coinvolgimenti economici e legislativi interni, e ciò porterà a chiuderlo senza modificare le previsioni, che ci vedono in crescita meno della metà dell’eurozona. Non è robetta, è robaccia.

La semplificazione fiscale, essenziale per la crescita quanto la discesa della pressione, è direttamente connessa alla materia degli accertamenti, della certezza del diritto, della giustizia tributaria, del coinvolgimento penale e delle modalità di riscossione. Tutto questo è rinviato a maggio. Decretare a maggio significa avere rinunciato a vedere i risultati delle novità nel 2015. Nel frattempo continueranno a essere avviati procedimenti penali che poi cadranno nella zona delle depenalizzazioni, quindi a far svolgere lavoro inutile. Il tempo perso non è solo guadagno mancato, ma anche spesa sprecata.

La delega fiscale, e il conseguente riassetto della materia, è anche l’occasione per non rendere devastanti gli effetti del reverse charge Iva. È una materia che a molti non dice nulla, ma i cui effetti riguardano tutti. In settori che vanno dalle costruzioni alle forniture verso la pubblica amministrazione, puntando anche a quelle verso la grande distribuzione (i supermercati, si attende solo il via libera Ue), l’Iva non è più messa nella fattura che il cliente paga, ma scorporata da quella e versata dal cliente direttamente al fisco. Apparentemente non cambia nulla ma nella realtà cambia tutto, perché i fornitori si ritrovano con il 22% in meno di cassa, sebbene per cifre da gestire finanziariamente e dover poi sborsare. Ciò li porta, tutti, ad andare pesantemente a credito d’Iva. Poco male, se non fosse che lo Stato non paga i suoi debiti, che consistono in quei crediti. Quindi l’Iva diventa, per quelle società, un costo da sopportare per un tempo troppo lungo. In queste condizioni saltano.

Nei giorni scorsi abbiamo parlato di quella che, impropriamente, è chiamata “Bad Bank”, in pratica uno strumento per sgravare le banche di crediti incagliati e deteriorati, in modo che possano fornire più credito al sistema produttivo. Ma il rischio grosso è che il maggior credito andrà a finanziare proprio l’inefficienza dello Stato: che prende e non restituisce, non paga e ritarda le riforme. Quel credito, dunque, almeno per sua parte consistente, non genererà produzione sviluppo ma galleggiamento in attesa che l’elefante state decida di togliere le terga dal groppone di chi lavora. E mentre questa attesa consuma le settimane, i mesi e gli anni, i concorrenti che lavorano in altre parti dell’eurozona (non dico mica in Asia, no, qui in Ue) si muovono con meno zavorre e pesi morti. Ecco (anche) perché cresciamo la metà degli altri.

La notizia è: in campo discale possiamo ancora aspettare fino a settembre, sicché gli effetti si vedranno nel 2016, quando, secondo i dati della Commissione europea che abbiamo già pubblicato, il nostro svantaggio relativo si sarà ulteriormente accresciuto. Non s’è mai capito cosa significhi “cambiare verso”, ma temo che questo sia il verso dell’avvoltoio.

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Il “salva Italia” del fisco poliziotto

Francesco Forte – Il Giornale

In Italia il Fisco dispone già di 129 banche dati. Ma non gli basta. Ora chiede a tutte le banche e agli altri intermediari finanziari, comprese assicurazioni e fondi pensione, di trasmettere entro il 28 febbraio all’Agenzia delle entrate tutti i dati del 2013 di movimentazione di conti correnti, depositi, carte di credito, portafogli di titoli, accessi a cassette di sicurezza, premi assicurativi e contributi versati. Il fisco dovrà altresì riceverei dati sugli acquisti di oro e preziosi. Entro il 29 maggio dovranno esser inviate le stesse informazioni per il 2014. Una indigestione di dati, con molti effetti negativi.

Il principale è l’incentivo che essa dà a svicolare dalle operazioni bancarie il più possibile e a pagare in contante, aumentando le evasioni fiscali. La motivazione di ciò, genuina o di comodo, sarà che non si vogliono far conoscere al fisco i propri affari personali, che in uno Stato basato sulla libertà personale, dovrebbero essere protetti dalla privacy. Se si paga l’albergo con la carta di credito, il fisco può vedere dove uno va durante le trasferte fuori sede e dall’ammontare che spende può desumere se era solo o accompagnato. Il regalo di un gioiello, anche di modico valore, indica una possibile relazione con la persona a cui si è fatto il regalo. Gli studi sull’evasione mostrano che in genere le imposte vengono pagate in modo più fedele là dove il fisco è cortese e non vessatorio. È vero che le norme della legge «Salva Italia» del governo Monti, da cui questi obblighi derivano e i decreti di attuazione del governo attuale, che li applicano in modo estensivo anziché restrittivo, prescrivono che solo un particolare gruppo di funzionari fiscali può avere accesso a queste informazioni. Ma le fughe di notizie riservate è più la regola che l’eccezione. D’altro canto se il fisco ha troppi dati, l’eccesso di informazioni accresce la difficoltà della loro utilizzazione. Se si appesantisce il loro utilizzo informatico, aumenta la possibilità di errori.

Ci sono vari effetti negativi a carico del sistema bancario e previdenziale. Aumenteranno gli esodi di capitali verso l’estero. Comunque, c’è un nuovo disincentivo a dotarsi di un conto e di una carta di credito per gli italiani sopra i 16 anni che attualmente ne sono privi. Un altro effetto negativo riguarderà l’ ammontare dei conti bancari, dato il disincentivo a servirsene e la preferenza per il contante, mentre sarebbe desiderabile che accadesse l’opposto, per accrescere gli attivi degli istituti di credito. C’è anche un disincentivo ai fondi pensione, alle assicurazioni sulla vita, alle altre forme di risparmio, che possono essere interpretati come indice di ricchezza. Va notato che una parte dei personali redditi è tassato con cedolari secche e metodi catastali e quindi non risulta al fisco. Inoltre ci sono spese a carico del patrimonio e non del reddito. Ma il fisco, sulla base di questi indici di investimento finanziario, apparentemente eccessivi rispetto al reddito dichiarato, potrebbe fare partire degli accertamenti a campione torchiano contribuenti in regola, con controlli che destano sempre timore. E per le banche queste nuove incombenze per centinaia di milioni di conti comportano un costo, di cui esse si rivarranno sui clienti. Un lavorio enorme, per schedarci in ogni atto della nostra vita privata, che ci dobbiamo anche pagare. Il bello è che si chiama «Salva Italia».